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Autore: Ghost Writer TNCS    14/01/2016    3 recensioni
Chi sbaglia deve porre rimedio ai suoi errori. Chi infrange la legge deve scontare una pena proporzionale al proprio reato. Tutti hanno diritto ad una seconda opportunità.
Il mondo intorno a noi ci influenza e, in varia misura, può determinare il nostro destino. Ci può offrire mille opportunità, o ci può condannare alla rovina. Ma questo non vuol dire che non abbiamo scelta. Abbiamo sempre una scelta. Anche quando tutto sembra perduto, puoi comunque decidere cosa fare: ti fa più paura la fame o l’inferno?
Domande? Dai un'occhiata a http://tncs.altervista.org/faq/
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Peccato e Redenzione

Data: 4120 d.s., settima deca[1]
Luogo: stazione spaziale Keskel-4
 

L’uomo sollevò per la cinquantesima volta la coppia di tubi metallici con le quattro mani e poi allentò la presa sulle impugnature. Subito il peso degli oggetti si ridusse, a quel punto ebbe modo di mettersi agevolmente a sedere e rimise al loro posto i due attrezzi. Essendo un insettoide, non aveva il problema di impregnarsi di sudore mentre faceva attività fisica, di contro però gli unici modi che aveva per rinfrescarsi erano farsi aria o bagnare il suo esoscheletro.

Erano ormai alcune deche che si allenava quotidianamente in palestra, e i suoi sforzi stavano pian piano dando i loro frutti: entrambe le coppie di arti superiori erano tornate toniche e scattanti, le spalle e i pettorali avevano riacquisito vigore, e anche gli addominali stavano lentamente tornando alla forma passata sotto le placche chitinose. Dopo quasi quattro anni di inattività, il suo corpo si era infiacchito parecchio, però era sicuro che per quel giorno sarebbe riuscito a tornare in forma.

Lanciò uno sguardo all’orologio. Era un po’ presto, ma almeno così avrebbe potuto farsi la doccia senza fretta.

Sentire l’acqua che svicolava sul suo corpo era sempre piacevole. Lavava via la fatica, rinvigorendo i muscoli e rilassando la mente. Era proprio quello che ci voleva.

Purtroppo quella sera la portata principale erano i crobboli, verdura che lui aveva sempre odiato, così dovette accontentarsi di spiluccare tutto il cibo restante dal suo vassoio.

Finito di mangiare, consegnò tutto quanto all’apposito bancone e poi andò a sdraiarsi sulla sua branda. Meno di cinque minuti dopo, le luci si spensero e la barriera energetica che chiudeva la sua cella si attivò in contemporanea a tutte le altre.

Incrociò le dita delle braccia dominanti dietro la testa e quelle braccia secondarie sulla pancia, contemplando il soffitto. Erano quasi quattro anni che tutte le sere lo osservava, in realtà senza un motivo particolare, e ormai ne conosceva tutti i dettagli: il leggero graffietto nella parte a destra, il punto annerito poco distante, una cicca lanciata probabilmente da uno dei suoi predecessori, una zona che era stata riverniciata…

Si voltò di lato. Doveva smetterla di osservare quello stupidissimo soffitto!

Abbassò le palpebre sugli occhi composti, ma il sonno non arrivò. Non se ne stupì: ci metteva sempre una vita ad addormentarsi, e come di consueto la sua mente cominciò a vagare. Almeno lei era ancora libera. Ma del resto era colpa sua se era finito dietro le sbarre. Aveva fatto degli errori, e per questo doveva pagare.

Ricordava ancora piuttosto bene il suo primo furto…

Seduto sulla panchina del giardinetto, il giovane insettoide continuava ad osservare quella borsa appesa a meno di quattro metri da lui. La sua proprietaria stava parlando con un’amica e di certo non si sarebbe accorta di lui, se avesse agito con discrezione.

Un brontolio gli giunse dallo stomaco. Era dal giorno prima che non mangiava, e il suo corpo stava protestando.

Si sforzò di guardare altrove. Non voleva finire nei guai.

Però lui era veloce, se anche si fossero accorti di lui, sarebbe riuscito a fuggire…

Di nuovo i suoi occhi si posarono sulla borsa.

D’un tratto il figlio della proprietaria si mise a piangere. Era inciampato su una radice ed era caduto, così subito la madre e la sua amica corsero da lui. Era la sua occasione.

No! Non doveva!

Ma aveva fame!

Ora o mai più!

Si alzò e con passo deciso raggiunse la borsa, con noncuranza la prese e poi si allontanò. Avrebbe voluto correre, ma così lo avrebbero scoperto subito.

Camminare, camminare, camminare…

Girò dietro una siepe e finalmente si mise a correre, più veloce che poteva. Si sentiva elettrizzato, tutti i suoi muscoli tremavano per l’eccitazione e le sue dita sembravano diventate di pietra intorno alla tracolla della borsa. L’aveva rubata. L’aveva rubata…

Si guardò intorno per accertarsi che nessuno lo stesse seguendo, quindi la aprì e subito prese il portafoglio. Non c’erano molti soldi, però se faceva attenzione sarebbe riuscito a tirare avanti per qualche giorno. Se li mise in tasca e rovistò ancora, ma non c’era nient’altro di utile. Gettò la borsa ai piedi della siepe e si allontanò, il capo chino e le mani in tasca.

Ora il suo unico pensiero era di trovare in fretta un fast-food per riempirsi lo stomaco…

Quel giorno aveva fatto una scelta. Una scelta di cui non andava fiero, ma che, anche potendo tornare indietro, avrebbe ripetuto.

“A me fa più paura la fame che l’inferno.”

Quante volte si era detto quella frase? Ormai aveva perso il conto. Del resto sono tutti bravi a sostenere che non bisogna infrangere la legge, quando si ha la pancia piena.

Sospirò.

Non voleva dare a lei la colpa di quanto era successo, però la verità era che il suo destino era stato in buona parte segnato nel momento in cui sua madre aveva avuto quel collasso nervoso. Era stata ricoverata e suo padre aveva fatto di tutto per riuscire a pagare le spese mediche, ma purtroppo i suoi sforzi si erano rivelati vani. Quello che fino ad allora era stato tutto sommato un buon genitore, non riuscì a sopportare la morte della moglie, così cominciò a bere, sempre di più, al punto da venire ricoverato a sua volta. E lui si era ritrovato solo, senza un soldo, senza un posto in cui vivere, senza nessuno su cui poter fare affidamento. Quello era stato l’inizio della sua fine.

Si guardò il palmo della mano superiore destra, temprato da innumerevoli esperienze.

Se voleva vivere, doveva mangiare tutti i giorni, e così alla fine rubare si era trasformato in un’abitudine. Col tempo aveva capito che l’unico modo per tirare avanti era di non fidarsi di nessuno, e la menzogna e l’adattabilità erano diventate, insieme alle Arti di Combattimento, le sue uniche amiche, compagne inseparabili che gli avevano permesso di sopravvivere nei bassifondi per qualche anno.

Non gli importava di chi fossero i suoi compagni, tanto che alla fine si era trovato a lavorare per un infame senza scrupoli che non desiderava altro che nuovi tirapiedi a cui affibbiare il lavoro sporco…

L’insettoide lanciò un rapido sguardo dietro l’angolo e poi tornò subito a nascondersi. Come previsto, c’era una sentinella.

Prese un respiro profondo e poi scattò. Rapido come una saetta, raggiunse il membro della banda rivale, scansò il colpo di pistola e poi gli tirò un pugno sul mento. Il suo nemico emise un gemito strozzato, arretrando di un passo, quindi ricevette un pugno nello stomaco che lo fece crollare a terra.

L’insettoide lo trascinò in un angolo e poi fece cenno ai suoi compagni.

Subito i membri della banda apparvero intorno a lui. Alcuni erano armati, altri invece dovevano disporre di altri tipi di risorse.

«Presto, di qua!» ordinò a bassa voce il capo della banda, un elfo con gli orecchini.

Gli altri lo seguirono svelti, infilandosi nell’ingresso secondario che la sentinella doveva proteggere. Una volta dentro, si guardarono intorno e l’elfo diede ordine di dividersi.

L’insettoide imboccò il corridoio a sinistra, pronto ad affrontare eventuali nemici. Non sembrava esserci nessuno, ma poi una porta si aprì all’improvviso davanti a lui. Il tizio grassoccio che ne uscì lo vide subito, sbarrò gli occhi e fece per scagliare un incantesimo, ma lui fu più rapido: un pugno sul mento e un calcio in pancia abbastanza forti da mandarlo al tappeto.

Fece qualche altro passo e poi il suo overwatch si mise a vibrare. Era il segnale!

Premette sul quadrante per interrompere il tremore e subito dopo comparve una freccia che indicava la posizione da raggiungere. Senza perdere tempo si affrettò in quella direzione e un fragore di battaglia lo aiutò a trovare il punto esatto. I membri della banda rivale si erano barricati in una stanza e loro non riuscivano a stanarli. Ma dovevano riuscirci. Non potevano permettere a quei bastardi di fare quello che volevano nel loro territorio!

«Ci penso io!» esclamò un rettile umanoide prendendo una granata dalla sua cintura.

«Fermo, coglione!» imprecò il capobanda «Lì dentro c’è un mucchio di droga! Hai idea di quanto può valere?!»

Quello chinò il capo.

«Entra e fanne fuori più che puoi!»

Il rettile sgranò gli occhi. «Mi ammazzeranno!»

L’elfo lo fulminò con un’occhiataccia. «Solo se farai il coglione. E ora vai! Non mi servono i figli di puttana che non eseguono gli ordini!»

Quello digrignò i denti. Strinse la presa sul suo mitra e poi si fiondò dentro.

Era un suicidio, lo sapevano tutti, ma per lo meno riuscì ad ammazzare quattro nemici. Però ne restavano ancora altrettanti.

Il capobanda osservò i suoi subordinati per capire quale fosse meglio mandare. Ne aveva ancora una quindicina, quindi anche sacrificandone qualcuno non ci sarebbero stati grossi problemi. E poi quello schifo di città era piana di balordi da poter abbindolare col miraggio di un po’ di soldi facili.

«Tu! Vai dentro, e vedi di non fare la fine di quel figlio di puttana!»

L’insettoide tirò un mezzo sospiro di sollievo. Non era lui quel “tu”.

Un grido.

Subito sollevò il capo e vide il capobanda con un taglio sul viso. Era stato uno dei suoi subordinati a farglielo, un omone che si era unito alla banda da un paio di settimane.

«Vai tu dentro!» esclamò quest’ultimo, quindi prese l’elfo per i capelli e lo lanciò nella stanza.

Il fragore dello scontro a fuoco, poi il silenzio.

L’omone lanciò uno sguardo all’interno.

«Ce ne sono ancora tre o quattro. Datemi un fumogeno.»

Per alcuni istanti nessuno si mosse, poi un giovane orco fece come richiesto.

Lui gettò il diversivo nella stanza e poi si fiondò dentro. Si udirono delle grida. Una, due, tre, quattro.

Silenzio.

Il loro compagno uscì dalla stanza con la scimitarra ancora sporca di sangue.

«Andate a prendere la droga e poi andiamocene. Non voglio trovarmi qui quando arriverà la polizia.»

E da quel momento l’omone era diventato il loro nuovo capobanda. Non c’era stato nessun riconoscimento formale, però quella dimostrazione di forza, coraggio e determinazione era bastata per garantirgli l’indiscussa leadership.

L’aveva ammirato per questo. Con lui a guidare la banda, le cose erano migliorate: avevano raccolto nuovi membri e il loro prestigio nei bassifondi era salito parecchio. Nel giro di qualche deca erano riusciti a prendere il totale controllo della loro zona, sgominando con decisione le due bande rivali. E lo spadaccino continuava ad essere apprezzato da quasi tutti i suoi sottoposti. Viceversa quelli che non lo apprezzavano, lo temevano abbastanza da non osare sfidarlo.

Si girò dall’altra parte del letto.

A quel tempo era stato abbastanza felice. Si sentiva parte di un gruppo, un gruppo forte e rispettato, e tutto sommato se la passava bene. Ma era solo questione di tempo prima che le forze dell’ordine li individuassero, lo sapevano, e alla fine la Polizia Galattica aveva ricevuto la soffiata giusta…

L’insettoide saltò dietro il tavolo e poi aprì il fuoco con la sua pistola a impulsi. I poliziotti si ripararono dietro gli stipiti della porta e risposero al fuoco, costringendolo a ripararsi.

Maledizione! Erano troppi!

L’insettoide si guardò rapidamente intorno alla disperata ricerca di una via di fuga. Una finestra! Era al terzo piano, doveva decidere: saltare o farsi arrestare.

Sparò qualche altro colpo, quindi balzò in piedi e aprì i vetri. Lanciò un rapido sguardo in basso, ma ormai il tempo per pensare era finito. Si lanciò nel vuoto, cercando di mirare sull’hovercar parcheggiata a meno di un metro di distanza dalla verticale della finestra. L’impatto fu violento, ma il tettuccio attutì l’urto. Un secondo dopo era già in piedi.

Controllò la situazione. Degli altri membri della banda erano occupati in un conflitto a fuoco con un gruppo di poliziotti, e questi ultimi non sembravano essersi accorti della sua presenza. Approfittando della cosa, li prese alle spalle e aprì il fuoco contro di loro. Gli agenti vennero sorpresi da quell’attacco improvviso e non poterono fare niente per difendersi dagli impulsi della sua pistola. Non si trattava di ferite letali, ma per il momento erano sistemati.

Gli altri membri della banda lo raggiunsero, pronti a coprirsi a vicenda, ma questa volta furono loro ad essere attaccati a tradimento. Una pioggia di proiettili stordenti li investì, travolgendoli con forza irresistibile. Uno dopo l’altro caddero a terra, privi di forze, incapaci di muoversi.

Pochi istanti dopo un manipolo di poliziotti li circondò, le armi puntate per precauzione.

L’insettoide si sforzò di sollevare il capo per guardare negli occhi gli agenti che lo stavano arrestando. A giudicare dalle divise, dovevano essere tutti membri dei Reparti Speciali, tranne una: una giovane poliziotta bionda, quasi una ragazza, che impugnava due grosse pistole argentate.

In quel momento si udì un fragore di vetri infranti e poi un tonfo, come di un corpo che urtava con violenza sul terreno.

L’insettoide fece il possibile per voltarsi in quella direzione. I muscoli faticavano a reagire, ma voleva assolutamente capire cosa stava succedendo.

Era il loro capo! Con un fendente scaraventò via un poliziotto e poi mosse la sua scimitarra con tale velocità da riuscire ad intercettare tutti i proiettili diretti contro di lui.

In quel momento sentì riaccendersi una debole speranza. Lui era fortissimo, lui poteva salvarli!

La poliziotta bionda gli puntò contro i suoi revolver. «Arrenditi!»

Gli istanti che seguirono a quell’ordine parvero durare un’eternità. Cos’avrebbe fatto il loro capo?

Era sicuro che sarebbe rimasto, che avrebbe combattuto per salvarli. Ma si sbagliava.

L’omone scattò di lato, deviò con la sua scimitarra i proiettili della poliziotta e poi superò con un balzo l’agente dei Reparti Speciali che gli sbarrava la strada.

L’insettoide non poté fare altro che osservarlo mentre correva via. Non riusciva a crederci. Li stava abbandonando…

Tornò ad osservare il soffitto. Quella fu l’ultima cosa che vide, perché poi i poliziotti lo sigillarono in una capsula e, quando lo tirarono fuori, era già in cella.

Quel giorno la Polizia Galattica era riuscita ad arrestare tutti i membri della banda, ma non il capo. Quello vigliacco era fuggito, e per quel che ne sapeva, era ancora a piede libero. Maledetto bastardo!

Per i primi tempi erano stati proprio la rabbia e il desiderio di vendetta a dargli la forza di tirare avanti in prigione, poi però quei sentimenti si erano via via placati. Ora l’unica cosa che desiderava era di vedere quel traditore dietro le sbarre, proprio come loro, e per più tempo possibile.

Tornò a girarsi su un fianco e poi chiuse gli occhi. Quel bastardo di Emrad Al’Asah[2] non sarebbe rimasto impunito.

***

L’insettoide tirò su la zip della felpa e poi osservò la sua immagine riflessa nello specchio elettronico. Era bello tornare a indossare degli abiti normali.

Prese un respiro profondo. Era finalmente arrivato il grande giorno. Gli restavano ancora da scontare due anni, ma non li avrebbe trascorsi in carcere. Il codice penale riconosciuto dalla Polizia Galattica offriva ai detenuti la possibilità di scontare l’ultimo terzo della loro pena come agenti di supporto sotto la sorveglianza di un ispettore, e lui era stato riconosciuto idoneo per questa opportunità. Tale circostanza era espressa nell’articolo 103 e per questo i detenuti che ne usufruivano venivano definiti “Codice 103”, ma in realtà quasi tutti preferivano usare il soprannome di “Cani da Caccia”.

In ogni caso non era stato facile ottenere l’abilitazione: aveva dovuto studiare e sostenere gli stessi esami che venivano richiesti agli agenti normali, inoltre aveva dovuto sottoporsi allo Psycho-Test – abbreviazione di Psychological-Test – ossia un esame piuttosto invasivo dove uno specialista si connetteva con la mente del soggetto e ne indagava completamente la psiche, nel caso specifico per verificare la sua effettiva volontà di rimediare ai propri errori. Durante lo Psycho-Test era impossibile nascondere i propri pensieri, i propri ricordi e le proprie emozioni, e proprio per questo ne era stato vietato l’utilizzo salvo esplicita accettazione da parte del soggetto.

Sentì bussare alla porta. «Tetsubara, sei pronto?»

«Eccomi.»

L’insettoide aprì la porta e i due secondini lo condussero verso l’uscita.

«Mi raccomando Taiga, non voglio più rivedere la tua brutta faccia.» si raccomandò il più basso con un sorriso.

«Non ti preoccupare, nemmeno io voglio rivedere i tuoi baffetti.» gli assicurò l’insettoide in tono disteso.

L’agente più alto aprì la robusta porta blindata che chiudeva la zona dei detenuti e Taiga sentì il suo cuore accelerare i battiti. La sua nuova vita stava per cominciare.

Prese un bel respiro e varcò la soglia, trovandosi così nella hall della prigione. Se l’era immaginato tutto più spettacolare, ma anche quella semplicità riuscì a scaldargli il cuore.

Si guardò intorno e non ci mise molto per vederla. In quei quattro anni la ragazza bionda che lo aveva arrestato si era trasformata in una giovane donna, una giovane donna col grado di ispettore. Sarebbe stata lei a tenerlo d’occhio per i successivi due anni.

Anche lei lo vide e subito si alzò per andargli incontro. «Ciao Taiga, sei pronto? Abbiamo già un incarico.»

«La seguo, agente Domino.»

La poliziotta fece un gesto di stizza. «Naah, chiamami Samantha. E usa il tu. Mi fai sentire vecchia!»

Lui non riuscì a nascondere un mezzo sorriso. «D’accordo… Samantha.»

I due lasciarono la prigione e salirono sull’hovercar di servizio, diretti verso il loro primo incarico.

Taiga osservò il cielo attraverso il parabrezza. Era un po’ nuvolo, ma in quel momento gli appariva comunque bellissimo.

Lanciò uno sguardo al suo ispettore. Era stata proprio lei a volerlo come suo Cane da Caccia, e per questo non l’avrebbe mai ringraziata abbastanza. Grazie a lei sarebbe diventato un uomo migliore. Già si sentiva un uomo migliore.

“A me fa più paura la fame che l’inferno.”

Ma ora non doveva più avere paura.


Note dell’autore

Questa ministoria anticipa un altro racconto, Protezione e Giustizia, dove i protagonisti sono Taiga e Samantha.

Emrad Al’Asah, il capo della banda sfuggito all’arresto, è presente anche in ArMa - 1 - La piccola incantatrice e nella raccolta di ministorie Bandiera Nera.

Scopri di più su questi e tutti gli altri personaggi, visita tncs.altervista.org!


[1] La sigla d.s. indica la datazione spaziale (detta anche datazione standard). L’anno spaziale ha una durata di circa 1,12 anni terrestri e si divide in 10 mesi chiamati “deche”.
Le età vengono comunque indicate secondo la durata dell’anno terrestre.

[2] Emrad Al’Asah è presente anche in ArMa - 1 - La piccola incantatrice e nella raccolta di ministorie Bandiera Nera.

   
 
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