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Autore: Mel_mel98    14/01/2016    2 recensioni
|Finnick&Johanna| |friendship| |One shot tremendamente lunga|
[“Questo non è niente”- sbuffasti, mentre prendendoti alla sprovvista ti mise una mano sui fianchi e iniziò a farti girare su te stessa.
E lui rise forte, accompagnandoti nella danza con gesti dolci e misurati.
“Che cosa significa tutto questo?”- domandasti frastornata- “Perché mi hai portato qua? Non sei migliore di quei capitolini, credi che non lo sappia? Non pensare di conquistarmi con un balletto.”
Lui ti guardò negli occhi, per poi avvicinarsi a te.
Lì per lì credesti ti volesse baciare, e solo l'idea ti portò un moto di disgusto. Ma con tuo immenso sollievo sentisti le sue labbra sfiorarti l'orecchio destro e sussurrarti: “È troppo presto per poter credere di sapere come funziona il mondo dello spettacolo, Mason. Qua, niente è come sembra.”]
-Storia partecipante al contest ‘This is a real friendship?’ indetto da LeoValdez00 sul forum di EFP-
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Finnick Odair, Johanna Mason, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Avrei voluto dirti grazie

~Di quando l'idolo delle folle incontrò la stronza del sette~

 

Avrei potuto dirti grazie, quando mi hai salvata la prima volta.
Avrei potuto dirti grazie, quando mi insegnasti i trucchi del mestiere, la seconda.
Avrei voluto dirti grazie quando quell'ultima volta, mi ha lasciata con una promessa a cui aggrapparmi nelle notti insonni.
Ma non sono mai stata brava quanto te, con le parole.
Così ho sperato di rivederti di nuovo.
Perché dovevo dirti grazie, almeno una volta.

 

Finnick si muove freneticamente sulla sedia su cui è seduto da più di tre ore.
È irrequieto, e nonostante faccia di tutto per tenere i suoi muscoli a freno, i pensieri torbidi che gli vorticano nel cervello gli impediscono di stare fermo.
Accavalla le gambe, facendo attenzione a non colpire il letto davanti a sé. Incrocia le braccia in un senso, poi nell'altro. E dopo cinque minuti di pace, ritorna quella spiacevole sensazione che lo mette in agitazione.
Allora si alza, gira per la stanza guardandosi intorno, come a cercare la risposta ai suoi turbamenti in quelle pareti immacolate dell'ospedale del tredici.
Ma non c'è niente in quel bianco totale steso sui muri. Non c'è niente a cui può aggrapparsi.
Non ha davvero più motivo adesso di fare il pazzo. Tutte le sue preoccupazioni sono svanite nel momento esatto in cui ha visto Annie corrergli incontro nel pronto soccorso, quando l'ha stretta a sé ed ha ottenuto la certezza che fosse davvero lì, viva, e non soltanto un sogno.

Finnick si muove nella stanza senza rendersene conto, trasportato dalla scia della sua stessa agitazione. Lo sguardo perso nel niente, la mente annegata nel mare dei pensieri che non portano a nulla.
Così, senza riuscire a spiegarsi come, ad un certo punto si ritrova con la faccia a terra e il naso dolorante.


“Finn...”
La voce di Annie gli fa voltare la testa, e in pochi secondi si tira su per avvicinarsi alla sua amata.
“Scusa... sono inciampato”- dice, mentre le guance si colorano di rosso.
“Non sei mai stato un tipo imbranato... qualcosa non va?”- chiede lei, con la voce dolce di chi è disposto ad ascoltare i tuoi problemi perché davvero è interessato a te.
“Io... non lo so, Annie. Sono così felice di riaverti qui con me, sono stati giorni bruttissimi quelli che entrambi abbiamo passato e vorrei stare ogni secondo qui con te. Ho davvero paura di non ritrovarti più qui anche se solo dovessi uscire da quella porta e rientrare dopo due minuti.”
Annie lo guarda negli occhi, sorridendo timidamente.
“Anche io ho sognato scene simili tante volte durante queste notti”- mormora, e con la mano cerca quella del suo uomo- “Ma io non vado a nessuna parte Finn, te lo giuro. E per qualche motivo credo che se anche tu dovessi uscire, prima o poi torneresti qua.”

Finnick rimane a bocca aperta. Sono distanti da quanto? Non può dirlo con certezza, perché sotto terra le giornate sono tutte uguali e il tempo sembra dilatarsi all'infinito. Sarà passato un mese, o forse più. Nonostante questo, Annie sembra ancora capace di leggergli nel pensiero.
“Io...”
Non gli capita mai di rimanere senza parole. Ma forse, in questo caso, non c'è niente da dire.
“Va' Finnick, io sto bene. Ci vediamo dopo”- dice lei.
Così, dopo averle baciato la fronte, Finnick esce da quella stanza, e se in un primo momento si sente come sperduto di fronte ai corridoi del piccolo ospedale, piano piano un'immagine chiara appare nella sua testa. E senza ulteriori indugi si dirige verso la porta socchiusa alla sua destra, poco distante dalla camera di Annie.

 

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Con il colorito pallido e i segni dell'elettroshock che si ritrova, avere visite è l'ultima cosa che vorrebbe. Nonostante sia lontana dal luogo di tortura che vede non appena chiude gli occhi, non sente per adesso nessun sollievo, e il suo umore non è dei più favorevoli alla conversazione.
Eppure quando qualcuno le dice che Finnick Odair vorrebbe parlare con lei, Johanna sul momento non trova un reale motivo per rifiutare quella richiesta.
Solo quando lo vede entrare capisce che forse non è stata una buona idea. Quando il suo cuore comincia a battere furioso e a pompare rabbia nelle sue vene, Johanna non sa davvero come fare a fermarlo.

“Ciao Johanna”- saluta lui, chiudendo la porta alle sue spalle ma rimanendo a distanza.
“Finnick”- risponde Johanna, senza guardarlo.
Non vuole vedere come sta, non vuole vedere il suo viso splendente di gioia, non vuole sapere com'è vivere al tredici invece che nelle segrete di un palazzo di Capitol City.
Stringe forte il lenzuolo mentre pensa a cosa sarebbe successo se gli ufficiali di Snow inviati nell'Arena degli ultimi giochi avessero preso lui, invece che lei.
E improvvisamente si ricorda, le tornano alla mente le parole che Finnick le ha sussurrato la sera prima della messa in atto del piano di Beetee.

 

“Sono contento di essere tuo amico, Johanna Mason”- ti disse mentre il cielo diventava sempre più scuro.
“Ah, sei talmente contento che due giorni fa sei scappato con i piccioncini innamorati e mi hai lasciata da sola con Wiress e Beetee. Lo so io perché sei contento, perché sono la tua bambinaia, ecco perché”- rispondesti tu, nascondendo sotto l'ironia un risentimento che provavi davvero.
“Mi dispiace, sul serio. Ma mi ero scordato come si affronta il panico da Bagno di Sangue”- fece lui, sedendosi a terra e appoggiando la testa sulle ginocchia.
“Comunque davvero, sono felice di averti come amica.”
“Certo, meglio come amica che come nemica dicono, no?”- dicesti allora, imitandolo.
“Certamente, una che maneggia un'ascia con la tua abilità preferisci avere la certezza che non te la tiri in testa”- rise allora. Una risata sincera, come da tanto non sentivi.
“Chi te l'ha detto che non lo farei, eh Odair?”
“Lo faresti Johanna? Mi uccideresti come un qualsiasi altro tributo?”- ti chiese allora.
E tu rimanesti in silenzio, incerta su cosa dire. Ma alla fine, il tuo cuore parlò per te.
“No. Non lo farei, hai ragione. Ti devo troppo per poterti piantare un'ascia tra le scapole e lasciarti morire agonizzante.”
Sorridesti e lui fece altrettanto, e per un attimo non c'era più l'acqua, né la sabbia, non c'era più un campo di forza a limitare il cielo, orribili tormenti a scandire le ore della giornata.
C'eravate solo voi due. Senza amore, perché tu non lo volevi, e lui l'aveva già. Ma con l'amicizia, di cui tu avevi un disperato bisogno e di cui lui sembrava riserva infinita.
“Visto che anche tu sei contenta?”- disse poi Finnick, e in quel momento la sua voce ti riportò alla dura realtà.
“Non è di grande aiuto, questa contentezza qui... Una persona in più che ti fa ridere, una persona in più da perdere, no?”
“Tranquilla, dovessi perderti ti verrò a cercare. Un amico è un tesoro, non lo sapevi?”

 

Bei discorsi, pensa Johanna, mentre realizza che Finnck nella squadra inviata per salvare i vincitori intrappolati a Capitol non c'era nemmeno.
Le piaceva l'idea di poter vantare a sé stessa il fatto di avere un amico. Ma adesso si rende conto di non avere niente, se non una persona che spunta fuori occasionalmente, quando gli fa più comodo.
Ed è per questo, che è arrabbiata. Perché lui prima l'ha illusa, poi l'ha abbandonata a sé stessa. Se non avesse fatto finta di interessarsi, se non avesse sparato tutti quei paroloni, adesso forse entrambi si sentirebbero meglio. Perché anche se non ha mai alzato la testa, Johanna sente la tensione che c'è tra di loro.

 

“Mi... mi dispiace, Johanna. Come stai?”
Finnick si avvicina al letto dell'amica, conosce bene il suo carattere impetuoso e non vuole rischiare di farla innervosire.
Poggia una mano sul bordo del letto, sfiorando appena le lenzuola.
“Mi dispiace sul serio per quello che ti è successo”- dice, cercando disperatamente i suoi occhi.
Ma Johanna tiene lo sguardo fisso sulle sue dita che incrocia tra di loro, e sembra del tutto presa dai suoi pensieri.
Il silenzio invade la stanza, riempie le orecchie del ragazzo che darebbe di tutto per poter sentire la voce di Johanna pronunciare qualsiasi cosa, anche la più oscena delle offese.

 

“Era meglio quando non avevo nessuno.”
Finnick sgrana gli occhi, colpito da quando fioca sia la voce della ragazza.
Johanna lo guarda, con qualcosa che potrebbe essere scambiato col disprezzo ma no, è solo dolore. E Finnick sa di averla ferita come mai nessun altro aveva fatto prima.
“Era meglio stare da sola, senza nessuno a cui voler bene, senza la pretesa di essere amata a mia volta. Senza nessuno per cui soffrire, senza nessuno da coprire”- continua lei, mentre i muscoli si contraggono, mentre un'altra ondata di ricordi la assale ferocemente.

 

Era il giorno della festa del Tour della Vittoria, vero? Il tuo Tour della Vittoria. Eri nel palazzo di Snow, con miliardi di occhi puntati addosso e solo diciassette anni sulle spalle.
Ti muovevi goffa nel tuo abito lungo, inciampavi ovunque ma nessuno sembrava curarsi delle tue gaffe. Tutti ti guardavano in modo strano, ti studiavano, bisbigliavano tra di loro quando passavi. E tu eri ancora troppo inesperta per capire che sarebbe stato utile origliare quelle segrete conversazioni.

Hai seguito le istruzioni che ti avevano precedentemente dato, hai salutato tutti coloro che dovevano essere salutati, hai ricambiato gli abbracci di tutti quelli che dovevano essere abbracciati anche se tu sei sempre stata allergica al profumo eccessivo usato dai capitolini. Quel giorno, hai fatto la brava bambina perché bambina lo eri a tutti gli effetti.
Stanca morta, ti sedesti in un angolo, sperando che il mondo si dimenticasse della tua esistenza, si godesse la festa e ti lasciasse tornare in pace a casa. Allora credevi sul serio che dopo quell'ultimo sforzo, avresti ritrovato la tua tranquillità. Ma ti sbagliavi come non mai, purtroppo.

Dopo una ventina di minuti ti ritrovasti accerchiata da una serie di individui che avresti preferito non conoscere: cominciarono ad affogarti di alcool e parole, allungavano le mani su di te, e nonostante cercassi di mantenere la calma, era evidente come il panico si stesse facendo strada dentro di te. Tanto che persino lui se ne accorse.

“Perdonatemi signori, ma il primo Stratega mi ha incaricato di trovare e riferire un invito per un ballo alla festeggiata... Spero non ve ne abbiate troppo a male”- un ragazzo ti afferrò per il polso e senza nemmeno rivolgerti uno sguardo ti trascinò via tra la folla.
Eri dannatamente felice di essere lontana da quei viscidi individui, ma non altrettanto di essere attesa dal primo stratega o di essere mano nella mano ad un emerito sconosciuto.
“Che vuole da me Connors?”- mormorasti avvicinandoti a quel ragazzo, senza ottenere risposta.
“Niente”- disse lui dopo un po' con uno strano sorriso sulla faccia.
“Allora tu che cosa vuoi da me?”- replicasti, guardandolo sospettosa.
“Oh, io? Niente.”

 

“Johanna, ti prego, guardami. Sei arrabbiata e posso capire ma... Perché dici queste cose? So che laggiù è stata duriss...”
“No, non lo sai. Non lo sai Finnick, e non puoi saperlo. Perché tu non c'eri, laggiù. Mi avevi promesso che non l'avresti permessa una cosa del genere e invece... invece guardami!”
Johanna getta le gambe fuori dal letto con fare rabbioso. La sue pelle è grigiastra e avvizzita, tempestata da chiazze rosso fuoco. Non ci sono più i muscoli tonici di qualche tempo prima, solo un paio di gambe scarne e dall'aspetto malaticcio. Finnick, che ha visto corpi dilaniati in maniera peggiore solo nei suoi incubi, resta in silenzio, con lo sguardo basso.

Per un attimo rimangono così, con il solo rumore del respiro ad assicurargli la presenza l'uno dell'altro. Perché non si guardano, ma si vogliono. E non sanno negarlo a loro stessi.
“Mi dispiace... non so cos'altro dire”- mormora lui, con voce atona.
E Johanna sembra rendersi conto di ciò che ha fatto solo in quel momento. Come schifata, con rapidità nasconde le gambe nella tunica dell'ospedale.
“Non sono stato io a ridurti in quel modo, che ti piaccia o no è così. È vero, forse ti avevo promesso cose che non ho mantenuto, ma eravamo nell'Arena, nel momento più importante dei giochi. Tutti in casi del genere facciamo promesse che non possiamo mantenere.”
“Certo. Sei sempre stato bravo a rigirare le frittate a tuo piacimento. Adesso sono io la stronza che non distingue la realtà dalla finzione. Cosa fa parte dello show e cosa no. Vattene Finnick, che forse è meglio.”
“Non ho detto questo, Johanna”- ribatte lui con forza- “Non credo che tu sia stronza, né incapace di distinguere la verità dalla finzione. Ma vedi le cose con il tuo solo punto di vista e... non è tutto come sembra.”

 

“Questo non è niente”- sbuffasti, mentre prendendoti alla sprovvista ti mise una mano sui fianchi e iniziò a farti girare su te stessa.
E lui rise forte, accompagnandoti nella danza con gesti dolci e misurati.
“Che cosa significa tutto questo?”- domandasti frastornata- “Perché mi hai portato qua? Non sei migliore di quei capitolini, credi che non lo sappia? Non pensare di conquistarmi con un balletto.”
Lui ti guardò negli occhi, per poi avvicinarsi a te.
Lì per lì credesti ti volesse baciare, e solo l'idea ti portò un moto di disgusto. Ma con tuo immenso sollievo sentisti le sue labbra sfiorarti l'orecchio destro e sussurrarti: “È troppo presto per poter credere di sapere come funziona il mondo dello spettacolo, Mason. Qua, niente è come sembra.”

 

“Vattene Finnick, vattene adesso. Prima che sia troppo tardi.”
Ma Finnick stringe i pungi con forza, e con quel solo gesto si oppone alle parole fredde e taglienti che la ragazza gli scaglia contro.
“No, no che non me ne vado! Forse l'ho fatto in passato, l'ho fatto in quella dannatissima Arena ma... non ho intenzione di farlo adesso”- e nonostante si sforzi di mantenere la calma, piano piano si ritrova ad avere un tono di voce troppo alto.
“Non ho bisogno di te ora. Ne avevo bisogno prima, forse. Ma adesso che me ne faccio della tua pena, eh?”- Johanna sente gli occhi bruciare e sa di avere a disposizione pochi secondi prima che le lacrime comincino a scivolarle lungo le guance.
“Non ho bisogno di te, Finnick.”
Ma lo dice a sé stessa, non a lui. Lo mormora con la bocca impastata di pianto, e sa che è una bugia.

 

“Mi dispiace, ok? Mi dispiace tanto, Johanna, credimi. Ho sbagliato, sì, ma ammetti che forse tu ti eri fatta un'idea errata di me. Io non sono un eroe, io non sono potente, o migliore di qualcun altro. Io sono umano, come te, come ogni vincitore”- Finnick sospira mentre schiacciato da quella verità si lascia cadere a terra appoggiando la schiena al muro- “Dovevo venire a cercarti, ma non l'ho fatto. Non credere che non me ne penta, non credere che non volessi farlo. Ma sai quando hai così tanta paura che non riesci più a muovere nemmeno un muscolo? Ecco, quando ho visto arrivare Brutus ed Enobaria mi sono sentito così. Quando poi Katniss ha fatto esplodere il campo di forza, mi sono ritrovato a terra senza sapere come fare a rialzarmi. Ho sperato fino all'ultimo che tutto andasse per il verso giusto. Ma sperare non è abbastanza, in questi casi. Lo so bene anche io.”

Johanna si asciuga le lacrime con un gesto rabbioso della mano.
Non è più forte come un tempo, capace di gestire i suoi sentimenti. Non è più quella che era prima, e quelle piccole gocce d'acqua ne sono un segno evidente.
Ma non può fare a meno di pensare che neanche Finnick è come se lo ricordava. Guardandolo meglio si vedono sul suo volto i segni delle notti in bianco, il suo tono di voce alto mostra il suo nervosismo, a cui non avrebbe mai dato spazio in passato.
Il passato è passato, a questo pensa la ragazza mentre il discorso del suo amico le rimbomba nel cervello. Sai quando hai così tanta paura che non riesci più a muovere nemmeno un muscolo?
Sì, lei lo sa. È strano il modo in cui la paura sceglie la sua preda e attacca, quando meno quella se lo aspetta. Quando quella crede di aver vinto qualsiasi cosa.
Ma la paura non si vince, Johanna ne è cosciente. Non da soli, almeno.

 

Cominciaste a ballare in mezzo alla pista, e in pochi attimi eravate perfettamente mimetizzati nella calca di gente che si dimenava senza senso al ritmo di quella musica così sgradevole al tuo orecchio.
Gli unici che si muovevano aggraziati eravate tu e Finnick, e quella strana sensazione che quei passi di danza ti lasciarono nel petto te la ricordi ancora adesso.
Non ti piaceva ballare con gli sconosciuti, ma come ballerina eri fantastica, devi ammetterlo.
Con i nervi che piano piano cominciavano ad allentarsi, chiudesti gli occhi e ti abbandonasti completamente a quell'energia che ti faceva muovere senza chiederti nemmeno il permesso.
“Vedi che ti stai divertendo, alla fine?”- ti disse Finnick, stringendoti i fianchi.
Con uno scatto rapido gli spostati la mano. “Te l'ho detto, avrai conquistato decine di donne in questo modo qua, ma nel sette le ragazze non si lasciano abbindolare come le capitoline”- lo ammonisti decisa.
“Suvvia, non fare la scorbutica!”- rise, per poi fermarsi e guardarti in modo decisamente strano- “Ancora non ci siamo presentati e abbiamo già fatto il primo ballo. Non ti sembra un po' strano?”- e senza lasciarti la possibilità di pensare a qualcosa da dire, ti trascinò di nuovo via, verso remoti punti del grande giardino del palazzo presidenziale.

Continuò a camminare imperterrito per due minuti, finché, con tuo grande piacere visto che le scarpe con il tacco iniziavano a farti male ai piedi, non si fermò per sedersi su un divanetto di vimini addossato ad una siepe, tagliata in modo da replicare la forma dello stemma di Capitol City.
Tu rimanesti in piedi, scettica.
“Qui mi sembra un posto migliore per fare amicizia, no?”- fece, con il suo solito sorriso, che ancora non eri riuscita a decifrare.
“Ehm...”
“Forza, siediti!”- ti incitò, e tu, tutt'oggi non ti spieghi come mai, ti lasciasti convincere.
“Che cosa abbiamo da dirci? Hai guardato i giochi dalla stanza dei mentori, non sai già abbastanza di me? E io so benissimo che sei Finnick Odair, l'idolo delle folle.”
Lui scoppiò in una fragorosa risata.

“Che c'è?”- chiedesti- “Che ho detto?”
“Niente, è che nessuno mi aveva mai chiamato idolo delle folle... Suona orribile, non trovi? Di chi dovrei essere l'idolo, io? Di questa gente? Non vogliono me, vogliono solo il mio corpo. E vogliono anche il tuo, come hai potuto vedere.”
Tu facesti una smorfia, disgustata al solo pensiero di diventare la dama da compagnia di uno di quei precedenti uomini.
Ma piano piano il ribrezzo mutò, diventando qualcosa di sempre più simile alla paura.
“Non fare quella faccia: anche non ti facesse impazzire l'idea, non è che hai così tante scelte, sai?”
“Non voglio andare a letto con gente del genere. Io ho...”
“Il ragazzo che ti aspetta al distretto? Beh anch'io ho qualcuno che mi aspetta a casa. Cosa vuoi che gliene importi a Snow?”- ti interruppe, con tono duro, da una parte rassegnato. “Ci sono un paio di cose che la gente non sa sui Vincitori. Primo tra tutti, il fatto che non hanno vinto un bel niente.”

Tu rimanesti spiazzata da quelle parole, dal modo in cui le disse.
L'avevi vista, la sua edizione degli Hunger Games, avevi undici anni quando il presidente mise la corona sulla testa di Finnick Odair. Ti era sembrato felice, fiero di sé. Contento di essere il primo ad aver vinto a quattordici anni, contento di potersi definire vincitore.
Ma in quel momento ti rendesti conto di quanto la situazione in realtà fosse diversa. Quella che avevi visto sullo schermo era una finzione, e lui era semplicemente un bravo attore. Non gli piaceva la vita che faceva, dovevano sicuramente averlo ricattato per convincerlo a diventare il donnaiolo che sembrava.
E non potesti fare a meno di pensare a quando avrebbero minacciato anche te, a quando ti avrebbero costretta a fare cose che non volevi e che, sinceramente, non sapevi fare.
“Il tuo ragazzo capirà, non ti preoccupare. Non ha molte alternative, anche lui.”
“No, io...”- dicesti, mentre nella tua mente realizzavi cose che avresti preferito ignorare, o avresti preferito sapere prima- “Io non ce l'ho il ragazzo. Prima volevo dire che ho... paura, ecco.” Ti pentisti subito di averlo detto.

Avresti voluto solo correre lontano, nasconderti dietro un qualsiasi riparo e sederti a fare ordine. Talmente tante erano le cose che stavano andando storte, troppe erano quelle che non sopportavi della vita che si stava aprendo davanti a te. Ma non potevi correre, bloccata di nuovo dal terrore, dal terrore di rimanere sola, di non poter essere più quella di prima, di non poter avere più una casa, una famiglia, una vita al distretto sette.
Poi, qualcosa ti portò via dai tuoi pensieri confusi, ti fece apparire tutto dannatamente più chiaro, ma anche meno difficile.
“Tranquilla, Johanna, non è una malattia grave, la paura. Basta nasconderla bene e nessuno se ne accorgerà. Io me la porto dietro da sei anni. Ma si impara a conviverci sai, si impara ad ignorarla. Basta non stare da soli.”
Lo guardasti, ancora spaventata, e subito provasti un'incredibile voglia di abbracciare quel ragazzo che, dopo averti visto un paio di giorni in televisione era venuto a salvarti.
“Ce l'avevo il ragazzo, prima. Tagliavamo la legna nelle stesse ore, e una volta mi baciò. Ma da quando ho vinto gli Hunger Games non ha più voluto vedermi. Sono andata a cercarlo e mi ha detto di stare lontana da lui. Adesso capisco perché, probabilmente ne sapeva più di me in merito a ciò che la vittoria dei giochi comporta. Credo... credo che sarebbe stato carino se avesse detto anche a me quello che sapeva”- mormorasti, per poi aggiungere in fretta: “Non so perché ti sto dicendo questo, davvero.”- quasi a volerti scusare.
Ma lui sorrise tranquillo, poggiandoti una mano sul ginocchio. “Perché siamo amici, ecco perché. Diffida da quelle persone che non ammettono di avere paure, ma non rivelare mai le tue per prima. Questa è la regola. E così si conclude la prima lezione di sopravvivenza.”- finì, alzandosi.

“Tu non hai rispettato la tua regola, mi pare...”- gli dicesti, prima che se andasse.
“Mi sembrava che per te valesse la pena rischiare. Spero di non pentirmene mai, Johanna. Buona serata”- e si allontanò infilando le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Buona serata... Finnick”- sussurrasti.

 

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Finnick siede nella mensa ad uno dei tavolini assieme ad Annie, e in silenzio gira la minestra con il cucchiaio.
“Non ti piace, eh?”- gli chiede Annie, poggiando dolcemente una mano sulla sua.
“No, non è quello... è che...”
“...Stai pensando.”
Finnick alza la testa, e incontrando gli occhi della sua amata non può fare a meno di sorridere.
“Già. Hai proprio ragione”- dice, per poi avvicinarsi per baciarla. Un bacio puro e casto sulla guancia, come solo ad Annie ha sempre riservato.
In quello non è cambiato, per fortuna.
È più fragile adesso, con i nervi più deboli, la mente più confusa. È un Finnick indeciso, stanco. Diverso da quello che ha sempre interpretato davanti alle telecamere.
Sente un vuoto dentro, come se fosse nel torto, come se stesse sbagliando qualcosa.
È un Finnick sciupato, quello che ha visto quella mattina nello specchio. Ma, pensandoci, ha realizzato che nel tredici tutti sembrano la brutta copia di sé stessi.

Primo tra tutti Peeta, a cui è toccato il cambiamento più evidente. Ma anche Annie è diversa in qualche modo. I suoi capelli sono spenti, i suoi occhi meno vivaci.
Poi c'è Haymich, che ha incontrato poche ore prima in un corridoio, che per adesso nonostante la terapia non sembra aver ancora accettato l'idea di dover vivere da sobrio. Katniss sembra quella che meglio fa fronte a tutte le difficoltà che il vivere nel distretto sotterraneo comporta, ma solo in apparenza. Finnick sa bene che la Ghiandaia Imitatrice è rotta all'interno più di chiunque altro.
Pensa a tutto questo, finché il suo monologo interiore non arriva a toccare un argomento delicato: Johanna.
Finnick pensa alla loro “discussione”, se così si può chiamare, pensa al volto della ragazza distrutto dal dolore come mai lo aveva visto prima. Si chiede che cosa sia effettivamente successo tra loro due e come fare ad aggiustare la situazione.
Perché lui all'amicizia di Johanna ci tiene davvero, nonostante tutto quello che lei possa pensare adesso.

L'aveva sempre trovata incredibilmente diversa, incredibilmente speciale per poterla considerare una vincitrice come tante. Lei aveva quella particolare sensibilità che piano piano lui le aveva insegnato a nascondere sotto una corazza. Sì, lui le aveva insegnato come si fa a mentire, come si fa ad essere forti fuori anche se fragili dentro. Le aveva insegnato tutto quello che sapeva su come si fa a proteggere la parte più interiore e vera del proprio essere.
Johanna era sempre stata scorbutica, poco disposta al contatto fisico, irriverente. Lo era da sempre, ma non era quella la sua principale caratteristica.
Johanna sapeva riflettere. Non era impulsiva, Johanna pensava un sacco, e Finnick se ne era reso conto persino attraverso lo schermo. Per questo era sempre stata in pericolo: perché quelli che usano il cervello non erano mai andati molto a genio al presidente Snow.

 

“Posso?”
Quella voce lo riporta immediatamente con i piedi per terra.
Davanti a lui, dall'altra parte del tavolo, Johanna si è già seduta senza aspettare una risposta ed ha appoggiato qualcosa davanti a sé.
Finnick fa un cenno di assenso con la testa: “Ciao Johanna.”
Si guarda un attimo attorno, perplesso dall'assenza di Annie.
“È andata nella vostra unità. Ha detto che era giusto che parlassimo da soli, testuali parole. Che le hai raccontato di me eh, Odair?”
Lui ride, allontanando definitivamente la scodella con il pranzo. “Niente, che vuoi che le abbia detto? Che abbiamo parlato, cosa che effettivamente abbiamo fatto, no?”
“Già, spero tu abbia tralasciato la parte in cui ti ho urlato di andartene...”- commenta lei, abbassando lo sguardo.
“Ah, penso che quella parte l'abbia sentita con le sue orecchie, sai? La stanza di Annie non era poi così lontana dalla tua.”

Finnick sorride, quel suo sorriso strano, sghembo, ma sincero. Perché si sente come se niente fosse mai cambiato, e per la prima volta dopo chissà quanto tempo, si sente di nuovo sé stesso.
“Mi dispiace, per averti cacciato in quel modo.”
Johanna lo guarda dritto negli occhi, e sembra seriamente combattuta.
“Voglio dire, ero e sono arrabbiata. Ma non solo con te, ecco. Forse... Forse ho esagerato l'altro giorno. Alla fine non sei stato tu ad aumentare il voltaggio ora dopo ora, non sei stato tu a picchiarmi o a riferirti a me chiamandomi la stronza del sette”- si ferma, per tirare un sospiro, già stanca di quella conversazione.
Ed è in quel momento che Finnick nota che l'oggetto che la ragazza si sta rigirando tra le mani è un piccolo libro.
“Guarda”- dice lei porgendoglielo, dopo aver sfogliato qualche pagina.
“Che cos'è?”- chiede Finnick, abbastanza perplesso.

“Sono stata dallo strizzacervelli questa mattina. Una seduta infinita. Mi ha dato questo per tenere la mente attiva e occupata su cose costruttive. Sono per lo più aforismi di diversi autori famosi. Ne ho trovato uno che mi ha fatto pensare”- spiega Johanna indicandogli qualcosa con il dito.
Finnick mette a fuoco i piccoli caratteri. “È più facile perdonare un nemico che perdonare un amico. William Blake.”

 

“Con questo vorresti dirmi che perdoneresti più volentieri Snow che me?!”- esclama il ragazzo dopo qualche secondo, incredulo.
“No, scemo”- risponde secca lei- “Mi conosci abbastanza da sapere che il perdono non rientra bene nelle mie abilità. Non perdonerò mai chi mi ha ridotta in questo modo.”
Finnick abbassa la testa sul libro, sentendo il peso di quelle parole piovergli sul cuore. Da come era iniziata la conversazione avrebbe decisamente sperato di poterla veder finire con un altro risultato.
Capisce la rabbia e il dolore della sua amica ma... ma non è disposto a pagare il conto di altri.
“Io...”- comincia, senza sapere esattamente cosa dire.
“Direi che sei fortunato a non avere niente da farti perdonare, no?”
E questa volta quella con il sorriso furbo e sincero è Johanna, che sotto sotto se la ride della faccia perplessa del suo interlocutore.

“Non sei più arrabbiata con me?”- chiede allora Finnick.
“Non ho detto questo. Ho detto che non sono arrabbiata solo con te. Ce l'ho anche con i medici che mi hanno tolto la morfamina, con quei porci dei pacificatori a Capitol City, con tutti quelli che si ostinano a dirmi che dovrei farmi un bagno. Sei in buona compagnia, Odair.”
Lui si passa una mano tra i capelli, felice. Dopo questi anni, ha imparato bene ad interpretare le sue frecciatine. È tutto passato, possono finalmente archiviare quei rancori e chiudere per sempre quei ricordi nei meandri più remoti della mente.

 

È una sensazione strana, quella che prova al momento, che non saprebbe descrivere, ma che metterebbe sicuramente nella lista delle emozioni positive. Adesso dovrebbe forse alzarsi e abbracciarla, per sancire il rapporto risanato, ma rimane lì seduto, ridendo al solo pensiero di quella scena. D'altronde, loro due non si sono mai abbandonati a simili dimostrazioni d'affetto.
Eppure Finnick sente in quell'amicizia bizzarra che l'Arena ha creato, quella più vera che abbia mai sperimentato. Sente che nonostante fosse molto popolare da ragazzino al suo distretto, nessuno ha mai avuto una considerazione di lui come quella che ha Johanna. Nessuno si è mai davvero arrabbiato per un suo comportamento.
Non l'ha mai ringraziata per questo. Per avergli dato l'opportunità di fare un po' da fratello maggiore, un po' da Cicerone, un po' da Don Giovanni anche con lei. Non l'hai mai ringraziata per essere stata una delle poche persone capaci di strappargli un sorriso sincero nei momenti in cui si sarebbe volentieri buttato in mare.
Non l'ha mai fatto, perché neppure Johanna lo ha mai ringraziato, orgogliosa com'è.

 

“Dimenticati di chi eri, ok? Dimenticalo e basta”- le dicesti, quando in una fredda mattina d'inverno vi incontraste alla Capitale.
“Oh, tu l'hai dimenticato molto bene Odair, sì”- commentò lei, squadrandoti da cima a fondo- “E menomale che avevi qualcuno ad aspettarti al tuo distretto.”
Eri appena uscito dalla villa di una donna d'alto rango, coi capelli spettinati e i segni della notte passata ancora impressi sul collo. Lei stava andando verso lo studio di registrazione per delle interviste, e dal suo colorito si vedeva lontano un miglio che era già in ansia.
Con poche parole convincesti i Pacificatori che la stavano scortando a lasciarla nelle tue mani. Quelli non opposero neppure troppa resistenza, evidentemente alle sei di mattina non vedevano l'ora di andare a letto.
Così, una volta soli, cercasti nella tua mente i consigli più utili da darle.
“Ah, sta zitta Mason”- bofonchiasti, leggermente offeso, passandoti una mano tra i capelli. Eri molto suscettibile, all'epoca, sul tema di Annie. Non ti sentivi mai a posto con la coscienza in quei giorni.
“Sei tu che spari cavolate, Odair.”
“Voglio solo aiutarti, mi sembri poco a tuo agio all'idea di tornare davanti alle telecamere”- rispondesti.
Lei si fermò a fissarti, quasi volesse perforarti con lo sguardo.
“No, non lo sono, ma sai, non credo di avere molta scelta”- disse, accelerando il passo- “Come non credo ne abbia molta tu, Finnick. Me lo hai insegnato tu o sbaglio?”- fece poi a bassa voce.

Ti fece sorridere quel repentino cambio di registro, quella sua sorta di doppia personalità che aveva dimostrato anche durante i giochi.
“Beh, sei una brava ascoltatrice, non c'è che dire... Quindi spero terrai a mente anche quest'altro consiglio: dimenticati di chi eri e sii soltanto quello che loro vogliono vedere. Così si sopravvive in questo posto”- dicesti con maggiore convinzione, afferrandole un braccio. Lei ti fulminò a quel gesto.
“E che cosa vuole vedere questa gente, eh? Io non ho mercanzia da mettere in vendita come te, se non l'avessi notato”- rispose alzando gli occhi al cielo.
“Pensa Johanna, pensa ai tuoi giochi! Pensa a quando ti hanno applaudita di più e perché! Gli piaceva la Johanna timida e inoffensiva della prima intervista, o l'assassina colma di rabbia dell'incoronazione?”
“... L'assassina”- mormorò dopo un po'- “Ma solo perché non sapevano che la mia rabbia era indirizzata a loro.”

“Esatto, il pubblico non lo sa e non lo deve sapere. Sii la stronza che vogliono vedere, fa finta che la paura e la timidezza fossero solo coperture. Fagli vedere la spavalderia che mostri a me. Questo vogliono, questo gli devi dare se vuoi sopravvivere”- aggiungesti con enfasi.
Lei distolse lo sguardo, fermandosi a pensare. Dentro di te scattò un campanello d'allarme. Sapevi che si stava facendo domande a cui non si poteva rispondere, sapevi che stava rimuginando su cose che a Capitol City non si potevano mettere in discussione.
“Non pensare a cosa è giusto o sbagliato, Johanna! Non qui, non adesso! Al presidente non piacciono le persone troppo sincere, non piacciono quelli che pensano troppo. Vai d'istinto e non pensarci. Non è colpa tua tutto questo.”

Ti sentivi a disagio, in un certo senso, ti sentivi come il piccolo diavoletto che incoraggia a mentire. Ma l'avevi sperimentato sulla tua pelle e l'avevi visto marchiato a fuoco su quella di Annie. La sincerità non ripaga, a Capitol City.
“Smettila di parlare come fossimo santi, Odair. I morti sulla coscienza ce li abbiamo tutti e due. Credo che assassina sia perfetto per me, è quello che sono in realtà”- respirò sonoramente, prendendosi una pausa- “... Pensavo solo che... non c'è davvero più modo di vivere? Si può soltanto sopravvivere d'ora in poi? Bello. La prossima volta che ci incontriamo portami una delle tipiche corde del quattro, di quelle con cui attraccate le barche al porto: potrebbe essermi venuta la voglia di impiccarmi”- disse poi con sarcasmo.
Tu rimanesti zitto senza parole. Forse avevi esagerato.
Ma dopo qualche attimo la vedesti sorridere, con tua grande sorpresa. “Torna a casa, Finnick. C'è qualcuno che ti aspetta, credo. E io devo fare un'intervista...”- disse, avviandosi da sola verso lo studio di registrazione, salutandoti con un gesto della mano, ma senza guardarti.

 

“Devo dirti una cosa”- annuncia Finnick dopo un po' che lui e Johanna parlano del più e del meno- “Domani mi sposo.”
L'ha detto d'istinto, appena quell'evento imminente gli è tornato alla mente. Ma suona strano a dirlo a lei in quel modo, seduti ad uno squallido tavolino della mensa con un solo giorno d'anticipo.
“Lo so”- risponde l'altra, contro ogni sua aspettativa- “Per questo sono qua: avevo paura tu non avessi il coraggio di invitarmi al tuo matrimonio per colpa della discussione dell'altro giorno. Così sono venuta a dirti che... è tutto a posto.”
“Grazie, Johanna.”- risponde l'altro, seriamente sollevato.
“Umf”-sbuffa lei- “Figurati. Sono qui anche per un'altra cosa.”
“Dimmi”- risponde Finnick, accomodandosi sulla sedia.
“Non ti senti soffocare, qua dentro?”

 

“Che vuoi dire?”- domanda, colto di sorpresa.
“Sai che intendo... non ti senti alquanto inutile chiuso in questo distretto e vincolato al programma che hai stampato sul braccio?”
Gli occhi della ragazza sprizzano una luce strana, ma non nuova.
“Beh... in effetti sì”- risponde Finnick, mentre constata che il senso di impotenza lo ha sempre accompagnato durante la sua permanenza al tredici.
“E allora perché non... usciamo?”
Finnick ascolta in silenzio la proposta dell'amica, che sembra semplice: offrirsi volontari come reclute per l'esercito che verrà inviato a combattere a Capitol City, diventare soldati e combattere, per una volta, non per far divertire qualcuno, ma per liberare qualcun altro. Non per la loro stessa vita, ma per quella di chissà quanta altra gente.
Johanna parla velocemente e quasi sottovoce, ma Finnick non si perde nemmeno una parola. È tutto così perfettamente chiaro e giusto, che non può fare a meno di trovarla un'idea grandiosa.
“Allora, che mi dici?”- conclude quindi la ragazza.
“Ti dico che ci sto, certo che ci sto.”
“Bene, perché ho già segnato il tuo nome ed il mio tra le reclute”- dice Johanna sorridendo sorniona- “Beh, non fare quella faccia. Non sono battaglie che si possono vincere da soli queste, no? E altrimenti a cosa servirebbero gli amici?”
Amici, ha detto. È la prima volta che Johanna ammette a Finnick di considerarlo tale.
La prima e l'ultima in sua presenza.

 

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“Ehi... posso entrare?”
Finnick si affaccia alla porta di una delle stanze dell'ospedale del tredici, da lui assiduamente frequentate negli ultimi mesi, per disparate ragioni.
Come replica riceve solo una sorta di grugnito, che decide liberamente di interpretare come una risposta affermativa.
Si avvicina cautamente alla figura che se ne sta raggomitolata sull'unico lettino presente, e che non sembra troppo in vena di chiacchiere, a colpo d'occhio.
Si siede lentamente sulla sedia vicino al comodino, dalla quale può, almeno al momento, vedere soltanto la schiena della donna coperta dalle lenzuola bianche.
“Johanna...”- mormora, senza osare toccarla.

“Attacco di panico, Finnick. Mi sono lasciata sconfiggere da un attacco di panico. Che schifo...”
“Ah che schifo eh? Solo perché sei umana, Johanna? Solo perché non sei invincibile?”- fa lui, in maniera retorica.
“Per loro ero invincibile, una furia, una che avrebbe tagliato la testa a qualsiasi bimbetto di dodici anni senza pietà. Ho recitato quella parte per quanto, quattro anni? Mi sono convinta di essere davvero in quel modo.”
Johanna si zittisce, mentre cerca di calmare il suo respiro che si è fatto affannoso.
“Ehi Jo...”
“No Finnick, ehi niente. Sono stata di pietra per anni, mi sono fatta portare via qualunque cosa pur di mostrarmi forte e impiegabile. Ma era solo un'illusione. Io non sono così. Sono fottutamente fragile e inutile.”

Finnick cerca un modo per risollevarla, per darle una speranza. Ma è difficile, ridare speranza a chi non vive più da tempo.
“Mi dispiace tanto, sul serio. Dopotutto questa era una tua idea, era il tuo sogno, in un certo senso. Mi dispiace, farò in modo di farcela anche per te”- dice, ma uno strano groppo alla gola gli impedisce di essere del tutto convincente.
“Già, era tutta una mia idea... non avrei dovuto coinvolgerti. Non ha senso, se vai solo tu”- mormora lei, per poi voltarsi verso il suo interlocutore.
“A me dispiace, Finnick. Dispiace di non poter fare qualcosa di più dello stare rinchiusa sotto terra. Dispiace non poter essere lì a coprirti le spalle, a gridarti di muovere il culo quando la situazione si fa difficile, mi dispiace di non poter vedere Snow crepare per sempre. Ma alla fine...”- fa spallucce, spostando lo sguardo sul soffitto- “... Tu puoi farcela. Sei Finnick Odair con un tridente in mano, cavolo. Ce la farai anche senza di me.”

I due rimangono in silenzio, come tante altre volte è successo. Finnick guarda Johanna come se dovesse sciogliersi da un momento all'altro. E nonostante sappia che lei odia essere guardata in quel modo, lui non può fare a meno di essere in pensiero per lei.
“Devo... devo andare adesso”- dice quando il bracciale che ha al polso inizia ad emettere un flebile suono- “Stiamo per partire.”
Si sente inutile perché non ha saputo dire niente che potesse esserle d'aiuto in qualche modo.
“Va' là fuori e vivi anche per me. È da un sacco di tempo che aspettiamo un momento come questo, non buttarlo al vento”- dice lei sorridendo amaramente.
“Sarà fatto”- conferma lui, dandole una pacca affettuosa sul braccio- “Io... te lo prometto.”
Quando è sulla porta, la voce della sua amica lo richiama: “Ehi Odair! Sorridi per le telecamere, mi raccomando. Alla fine questa guerra non pare essere troppo diversa dagli Hunger Games.”
Finnick sorride, pensando che probabilmente ha ragione lei. Uscire allo scoperto sarà come entrare un'altra volta nell'Arena. Ormai può quasi dire di averci fatto l'abitudine.
“Ciao Johanna, ci si vede a giochi finiti allora”- le dice prima di andarsene.
“Ciao Finnick”- risponde lei, con gli occhi chiusi dal peso del sedativo che le hanno somministrato.
“Grazie di tutto”- mormora a mezza voce, ma lui è già troppo lontano.

 

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“Sono tornati”
È Haymich a parlare, affacciato alla porta della sua unità.
“Lui non c'è, dico bene?”- mormora Johanna, guardando l'ex mentore negli occhi.
“No, non c'è”- risponde quello, visibilmente a disagio- “Vieni, Johanna, ti prego. Abbiamo bisogno di aiuto con... Annie.”
Lei sbuffa. “Ma lasciatela disperare in pace, povera disgraziata”- dice, girandosi per dargli le spalle.
“Vieni, Johanna”- sente Haymich ripetere, ma lei non gliela darà vinta così esplicitamente, e lui lo sa.
L'uomo si allontana con passo pesante da solo nel corridoio, e soltanto quando la ragazza suppone che sia abbastanza lontano si volta per uscire.
Snow aveva annunciato la morte di Finnick parecchi giorni prima, ma lei non c'aveva creduto. Aveva continuato a sperare e a credere che il suo amico fosse ancora là, ancora a combattere per la libertà.

Johanna entra nell'ospedale sotterraneo, dove tutti sembrano colti da una sorta di euforia improvvisa. Non c'è nessuno che se ne sta fermo con le mani in mano, a parte Haymich che, rintanato in un angolo, sembra la stia aspettando.
L'aria è irrespirabile, l'odore di disinfettante le pizzica le narici e le fa venire voglia di strapparsi gli occhi da sola, per quanto li sente bruciare. Eppure, in quel preciso istante, Johanna non saprebbe dove altro andare.
“Dov'è Katniss?”- chiede quando si affianca al mentore del dodici.
“È in sala operatoria, è rimasta coinvolta nell'esplosione davanti al palazzo di Snow”
Johanna schiocca la lingua, come in segno di assenso.
“Il suo finto cugino?”- domanda poi.
“Lo hanno recuperato adesso, era stato preso dai Pacificatori mentre cercava di avvicinarsi al palazzo con Katniss. Sarà qui in un paio d'ore, a quanto ne so.”

 

“Peeta?”
“È di là con gli operatori televisivi, Cressida e Pollux, credo si chiamino. C'è anche Annie, a meno che non abbiano deciso di sedarla dalla disperazione.”
“Ma quanta gioia...”- commenta Johanna con una strana smorfia sul viso. “Menomale che l'abbiamo vinta, la guerra”- aggiunge poi mentre cammina verso la stanza indicatale poco prima dall'uomo.
Il suo stesso cinismo la spaventa, ma no può farci niente. Stringe forte il pugno destro, prima di aprire la porta con l'altra mano.
Si pente immediatamente di averlo fatto, tanto che piuttosto che entrare vorrebbe correre fino a Capitol City, dovesse metterci tutta la vita. Almeno sarebbe lontana da quelle fredde mura che puzzano di umido, almeno sarebbe all'esterno, dove potrebbe riflettere sulla sua perdita da sola, come aveva sempre fatto.
E invece si ritrova in quella stanza con altre quattro persone, tre delle quali la guerra che si è portata via Finnick l'hanno vista davvero, e una che sembra intenzionata a non voler vedere più niente in vita sua.
Annie Cresta, moglie da poco più di una settimana del suo migliore amico, siede con lo sguardo perso nel niente, le mani in grembo, il volto sconvolto da un'espressione di puro e intenso dolore.
E tutto quello che Johanna vorrebbe fare, dopo averla vista in quello stato, è piangere. Non perché le sia davvero amica, o perché sia particolarmente empatica. Ma perché quel viso dice tutto, quello sguardo vuoto è l'ammissione di quello che adesso manca e che non tornerà.

“Ciao Johanna”- qualcuno la saluta, e lei ci mette un po' a capire chi le ha parlato, impegnata com'è a ricacciare indietro le lacrime.
“Ciao Peeta”- riesce a dire poi, sedendoglisi vicino. Il ragazzo del pane sembra incredibilmente a disagio ed in difficoltà. Come lo è lei stessa, del resto.
Il silenzio cala, e nessuno dei presenti si preoccupa di riempirlo, ognuno impegnato a metabolizzare gli ultimi eventi.
Alla fine, incredibilmente è Annie a parlare.
“È morto”- dice con una voce che non è mai stata la sua- “Lo sapevi?”

 

Johanna sa che la sta guardando, sente il suo sguardo vuoto pesare sulle sue spalle. La odia, la odia da morire per essere così instabile e allo stesso tempo assolutamente priva di tatto.
Ma nel profondo sa che non è colpa sua, il dolore mentale mischiato ai sedativi fa un brutto effetto su chiunque.
“Sì. Lo sapevo”- si decide a rispondere, piantando le unghie nei palmi tanto da farsi male.
“Smettila di morderti il labbro, Annie”- qualcuno esclama, e Johnna si costringe ad alzare la testa.
È stata la donna con mezza testa rasata a parlare. Ma Annie non sembra particolarmente preoccupata dal sangue che sta iniziando a colarle da un lato della bocca. E Johanna, pensando ai graffi che da sola si è procurata poco prima, si sente così simile a lei, in quell'istante.
“Mi ha chiesto se lo avrei perdonato, se non fosse tornato. Credeva che dormissi, invece l'ho sentito, me lo ha chiesto l'ultima notte”- mormora Annie, piantando i suoi occhi in quelli di Johanna.
“Lo perdoneresti, tu?”

 

E a quel punto, a niente serve tentare di resistere, la ragazza del sette sa che ha perso l'unica persona che le fosse davvero rimasta vicina dopo gli Hunger Games. Johanna sa che qualcosa si è rotto, qualcosa è finito.
Sente il vuoto che aveva provato a respingere espandersi dentro di lei. E sa che se adesso sente di nuovo quel tipo di dolore, quello da cui difficilmente ci si riesce a liberare, è tutta colpa sua. Tutta colpa di Finnick.
“No, credo di no. Dopotutto...”- un singhiozzo le ruba l'aria per continuare- “... se c'è una cosa che ho imparato dallo strizzacervelli è che è più facile persone un nemico che un amico. E Finnick purtroppo per lui apparteneva decisamente alla seconda categoria di persone.”
E ora più che mai, mentre i battiti accelerano incontrollabili e il dolore prende pieno possesso della sua mente Johanna vorrebbe tornare indietro e alla frase “Sono contento di essere tuo amico” rispondere un semplice “Anch'io”. Ma ormai ha imparato. Il passato è passato, il presente fa schifo, e il futuro è l'unica cosa che può sperare di cambiare.

Chiude gli occhi nel tentativo di impedire al dolore di uscire sotto forma di lacrime. Ed è in quel momento che se ne rende conto.
“Non hai mantenuto la tua promessa neppure questa volta, Odair.”
Ma nonostante tutto, quel pensiero quasi la diverte. Con quella promessa, le ha dato qualcosa a cui ancorarsi nelle notti in cui la tempesta infuriava nella sua testa. L'ha salvata molte più volte di quante potesse credere, molte di più di quanto le piaccia ammettere.
“Grazie...”- quella parola si forma da sola sulle labbra di Johanna, mentre tutti gli altri la guardano attoniti, credendola probabilmente impazzita.
Non lo può perdonare, perché in fondo non ne è capace. Ma quel ringraziamento le nasce spontaneo. “Meglio tardi che mai, vero Finnick?” pensa, per poi sorridere amaramente.

 

Avrei potuto dirti grazie, quando hai dato senso alla mia presenza in quella noiosa festa per persone che non ci assomigliano.
Avrei potuto dirti grazie quando hai deciso di fidarti, e per la prima volta di combattere accanto a me.
Avrei voluto dirti grazie quando la seconda volta, mi hai fatto credere che la tua presenza al mio fianco non fosse importante.
Ma avevo la gola intasata dalle parole mai dette.
E tutto quello che ho saputo fare, è stato illuderti di avere l'occasione di rivedermi.

 

 

 

 

Specchietto specchietto delle mie brame...

Nickname su EFP: Mel_mel98
Nickname sul Forum: Mel_mel98
Titolo: Avrei voluto dirti grazie
Protagonisti: Finnick Odair & Johanna Mason
Citazione: “È più facile perdonare un nemico che perdonare un amico”- William Blake
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste
Rating: Giallo
Note/avvertimenti: Missing Moments
NdA: Ok, chiariamo subito una cosa: ho questa fanfiction in ponte da mesi ormai. A forza di rileggerla inizio ad odiarla. Quindi, ho pensato fosse il caso di pubblicarla, e lasciare a voi il giudizio. Io ho fatto il meglio di cui sono capace, davvero.
Adoro Finnick, stimo Johanna e mi sento profondamente Annie. Quindi sì, è stato difficile e tremendamente emozionante scrivere questa storia, che parla di loro ma in qualche modo anche di me. Sono partita con l'idea di fare qualcosa di classico, trama principale spezzata da qualche flashback, poi tutto è degenerato. Mi sono lasciata prendere dall'introspezione e mi sono ritrovata tra le mani tredici pagine di Writer. Quindi, a chiunque sia arrivato fino a qua, non posso fare altro che i miei più sinceri complimenti. Mi avete sopportata per ben 8000 parole.

Questa storia partecipa ad un contest fantastico, a cui fate ancora in tempo ad iscrivervi!
Correte a dare un'occhiata!
-> http://freeforumzone.leonardo.it/d/11205553/This-is-a-real-friendship-Multifandom-/discussione.aspx


Spero che la storia vi sia piaciuta, sopratutto che non vi abbia annoiato a morte... in ogni caso fatemelo sapere, che vi spedisco biscotti blu come risarcimento! ;)
Io intanto vi mando un bacino... Alla prossima storia!

Mel

   
 
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