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Autore: Prinzesschen    17/01/2016    0 recensioni
[HaymitchxOC]
-Il tributo femminile del Distretto 12 per i sessantaseiesimi Hunger Games è.. Ginger Mines.-
A distanza di otto anni da quel giorno, Ginger è costretta rivivere l’orrore degli Hunger Games prima attraverso Peeta e Katniss e poi sulla propria pelle, ancora una volta.
Haymitch l’ha lasciata andare o forse l’ha semplicemente abbandonata e Ginger non l’ha mai perdonato, si è lasciata il passato alle spalle sperando di non dover mai più trovarsi a fare i conti con i suoi demoni ma Capitol City è sempre pronta a rimescolare le carte, a rimettere in gioco le sue pedine lasciando che si distruggano a vicenda. O che si salvino.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Nuovo personaggio, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CARELESS WHISPER Ciao a tutti! E’ la prima storia che pubblico in questo fandom e ho deciso che, per il momento, resterà una one-shot. L’idea che intendevo sviluppare è molto più ampia ma credo che per adesso questa fanfiction possa considerarsi completa anche così, domani chissà, potrei cambiare idea, come al solito.
Le parti in corsivo sono ovviamente flashbacks e le frasi in corsivo riaffiorano dai ricordi di Gin. Ho avuto parecchi dubbi riguardo la consecutio temporum in quanto non sono affatto pratica della narrazione al presente e, nello specifico, questa storia è un continuo saltellare tra presente e passato, più o meno lontano, con riferimento agli HG di Gin e a quelli più recenti di Peeta e Katniss. La storia si svolge, con una lunga e infinita carrellata di imprecisioni, nella fase precedente l’Edizione della Memoria e l’ambientazione, nella mia mente, è quella invernale. Perché rispecchia gli stati d’animo, le emozioni dei miei personaggi. E poi perché, diciamocelo, in questi giorni cadono le dita dal freddo.
Di solito metto cento volte l’attenzione che ho riservato a questa storia ma l’ho scritta di getto, l’ho scritta mentre sono ancora a metà de “La ragazza di fuoco” e ancora reduce, emotivamente parlando, della seconda parte de “Il canto della rivolta”.
Ovviamente non c’è nessun altro vincitore vivente al distretto 12, oltre ad Haymitch e gli sventurati amanti, ma nel MIO distretto dodici c’è, si chiama Gin e le ho affibbiato il mio caratteraccio. E la mia malsana mania di prendermi cotte immense per uomini fuori dalla mia portata. Vabbè.. detto ciò vi lascio alla lettura, ammesso e non concesso che abbiate finito di leggere queste note introduttive prolisse e noiose. A presto!


Careless whisper

I'm never gonna dance again
Guilty feet have got no rhythm
Thought it's easy to pretend
I know you're not a fool.
[...] So I'm never gonna dance again
The way I danced with you.

-Il tributo femminile del Distretto 12 per i sessantaseiesimi Hunger Games è.. Ginger Mines.-

Quella frase mi era rimbombata nella testa, rimbalzando da un angolo all’altro della mia mente come un proiettile impazzito quando, l’anno scorso, i due giovani tributi del distretto dodici per i settantaquattresimi Hunger Games si erano presentati alla mia sessione di addestramento.
Pochi sapevano che, nella settimana precedente gli Hunger Games, i tributi non si allenavano da soli ma venivano brevemente addestrati dai migliori combattenti che Panem potesse vantare, ognuno relativamente ad una disciplina diversa. Nel mio caso si trattava dell’utilizzo delle armi da fuoco.
Non sempre nell’Arena venivano fornite pistole o fucili ma quando accadeva i tributi dovevano essere in grado di maneggiarle quanto bastava per trarne anche solo un minimo vantaggio.
Katniss Everdeen e Peeta Mellark erano entrati attraverso la porta automatica sfilando davanti a me che, le braccia incrociate al petto, li attendevo presso l’ala adibita a poligono di tiro.
Qualcosa negli occhi di quella ragazza mi aveva ricordato me stessa, mi aveva ricordato la ragazzina dal nome strambo –succede quando sei un’orfana ritrovata all’imbocco di uno dei tunnel che portano alle miniere- che ormai quasi dieci anni prima di allora si era trovata costretta ad affrontare orrori ben più grandi di quanto potesse anche solo immaginare.
-Chi di voi due ha mai preso in mano una pistola o un fucile?-
Mellark era il figlio del fornaio e, con ogni probabilità, l’arma più pericolosa mai impugnata doveva essere stato un mattarello.
-Io so tirare con l’arco.-
La ragazza aveva parlato con tono sicuro, il mento alto e la schiena dritta.
-La mira ti tornerà utile.- avevo spiegato, fredda e atona come avevo imparato ad essere anno dopo anno, tributi dopo tributi. –Ma con le pistole è un’altra storia.-
Con un gesto fulmineo avevo caricato l’arma  e l’avevo puntata contro la mia interlocutrice che aveva istantaneamente fatto un passo indietro rivolgendomi uno sguardo prima preoccupato, poi torvo.
-Imparare a conoscere un’arma equivale a non temerla. Devi padroneggiarla, non averne paura.-
Avevo puntato con estrema velocità una sagoma che continuava a volteggiarci intorno, inquietante come ogni singola trovata di Capitol City, e l’avevo colpita proprio dove avrebbe dovuto trovarsi il cuore.
Quei ragazzi non sembravano diversi dai precedenti. Non particolarmente dotati, fisicamente parlando, né particolarmente svegli. Fin troppo istintivi, poco logici. Katniss era una miccia pronta a prendere fuoco, era una mina vagante.
-Cercate di restare vivi.-
Gliel’avevo sussurrato all’orecchio durante l’ultima sessione di addestramento, fingendo di correggere la postura di tiro.
-E’ proprio ciò che ci ha detto Haymitch.- aveva risposto la ragazza in fiamme, voltandosi verso di me. –Se sostituiste le ovvietà con consigli veri?-
Non ero riuscita a rispondere alla sua domanda, a domare il suo sarcasmo, un po’ perché una risposta, in realtà, non c’era. Un po’ perché sentir pronunciare quel nome, anche a distanza di tutti quegli anni, non riusciva a lasciarmi indifferente.
Haymitch Abernathy era stato il mio mentore, ai sessantaseiesimi Hunger Games. Era stato la mia salvezza, la mia ancora, il mio primo amore. Ed era stato, infine, l’ennesima persona pronta ad abbandonare una ragazzina che, di abbandono, ne sapeva più di chiunque altro.
Quell’anno avevo seguito gli Hunger Games con maggiori speranze. Speranze per il mio distretto, che da tempo avevo abbandonato, speranze per Everdeen e Mellark.
-Come riesci a guardarli soffrire in questo modo?-
Me lo aveva chiesto Cinna, un giorno che ci trovavamo insieme al resto dello staff –fatta eccezione per Abernathy- davanti ad uno schermo gigantesco che trasmetteva i giochi della fame. Cinna era un bravo ragazzo, aveva all’incirca la mia età e lo stesso conflittuale rapporto con Capitol City e la sua spettacolarizzazione della sofferenza.
-Ci riesco perché credo in loro, Cinna. Credo che possano davvero fare la differenza.-
Gli sventurati amanti dei distretto dodici potevano farcela. Quella farsa portava la firma di Haymitch, ne ero certa già dal primo istante, dall’intervista di Peeta.
Aveva consigliato anche a me, anni ed anni prima, di fingermi perdutamente innamorata del tributo maschile del mio distretto. Ma lui era morto pochi secondi dopo essere saltato giù dalla pedana ed il mio cuore, in ogni caso, apparteneva già, irrimediabilmente, a qualcun altro.

Mi riscuoto dai miei pensieri quando il treno si ferma, giunto ormai a destinazione. Il distretto 12 è stato la mia casa fino al compimento della maggiore età, è stato teatro di sacrifici e stenti, per me, prima degli Hunger Games, durante i miei anni all’Orfanotrofio del Giacimento.
Respiro a fondo l’odore di casa, inconfondibile. Odore di polvere. Odore di terra  e zuppa calda. Chissà cosa starà facendo la vecchia Sae La Zozza.
Vorrei sorridere, vorrei sentirmi fiera dentro tanto quanto mi dimostro all’esterno mentre procedo a passo sicuro verso il Villaggio dei Vincitori. Ma c’è una strana sensazione dentro di me che non riesco a mandare via. Paura per i demoni che dall’annuncio dell’Edizione della Memoria sono tornati a tormentarmi, paura per i ricordi che, so già, mi assaliranno. E poi rabbia per l’ennesima vittoria di Snow su di noi, su tutti noi.
Quest’anno sarò io oppure Katniss, ad essere estratta. Peeta oppure Haymitch.
Nonostante cerchi di controllarmi il ricordo delle settimane passate nell’Arena, ricordi che pensavo di aver ormai archiviato per sempre, tornano a fluttuare indisturbati tra i miei pensieri. Sangue. Urla. Terrore.
-Gin?-
Katniss sta ferma sulla soglia di casa, gli stivali affondati nella neve fresca del mattino.
-Ciao, Ragazza Ossidrica.-
L’ho soprannominata così, durante il poco tempo trascorso insieme nei giorni dell’addestramento. Tra noi esiste un rapporto di forte rispetto, di stima reciproca solida e incrollabile. E, penso mentre la vedo muoversi velocemente nella mia direzione e gettarmi le braccia al collo, di affetto profondo.
Quando hai poco tempo per conoscere qualcuno, come è capitato a noi, ti aggrappi alla minima affinità per trovare un alleato e nonostante nessuna delle due sia avvezza a certe esternazioni, quell’abbraccio rassicura entrambe e mi riscalda il cuore.
-E’ assurdo.- mormora scuotendo la testa e stringendo i pugni, quando ci separiamo. –Vogliono chiuderci di nuovo in quell’incubo, vogliono costringerci a rivivere quell’inferno.-
-Stiamo parlando di Capitol City, Katniss. Cosa ti aspettavi?-
Ho vissuto per tanto tempo a Capitol per sfuggire a tutto ciò che continuava a ferirmi, qui al distretto 12, ma non sono mai riuscita a considerarla casa mia, ad approvarne le usanze.
Mi sono adeguata alla vita mondana che quella società impone solo nella misura in cui è servito a permettermi di mimetizzarmi in mezzo a loro e a scordare, almeno un po’, la mia solitudine e il mio cuore infranto.
Giunta a Capitol poco meno che ventenne come amante di uno degli Strateghi, avevo fatto il loro gioco fino ad ottenere un posto che mi permettesse di restare lì, in quella gabbia dorata, senza perdere del tutto me stessa. Addestrare i giovani Tributi ha sempre rappresentato per me una forma di riscatto, come se questo potesse concedergli una possibilità in più di sopravvivere. Ma alla fine posso davvero salvarne solo uno, sempre. Tranne nel caso di Katniss e Peeta, ovviamente.
-Entriamo dentro, si gela qui fuori.-
Seguo Katniss dentro casa e lei mi fa segno di porgerle il cappotto, zuppo di neve.
-Qui va decisamente meglio.- statuisco, sforzandomi di sorridere e sfregando le mani una con l’altra.
-Ciao, Ginger.-
Peeta sta ritto tra la cucina e il soggiorno, indeciso su come comportarsi ed io mi avvicino, porgendogli la mano e stringendogliela come fanno gli uomini, con presa forte e decisa.
-E così vivete davvero insieme, voi due Sventurati Amanti?-
-No.- Peeta si incupisce all’istante. Non che prima fosse esattamente felice, ma il suo volto diventa una rigida maschera di rancore.
-Mia madre e mia sorella sono al Forno e noi stavamo aspettando Haym..- Katniss interviene parlando svelta ma viene interrotta da un insistente bussare.
-Datevi una mossa.-
Impaziente. Indisponente. Haymitch.
Katniss si affretta a farlo entrare e il mentore del distretto 12 si richiude la porta alle spalle per poi scrollarsi la neve dai pantaloni con una mano mentre nell’altra stringe una fiaschetta con tutta l’aria di essere piena fino all’orlo.
-Haymitch lei è…-
-Ci conosciamo già.- la interrompo, brusca, indossando l’espressione più fredda che riesco a racimolare e con voce priva di emozione. –E’ stato anche mio mentore, a suo tempo.-
Solleva il capo e fissa i suoi occhi grigi su di me, incredulo. I capelli biondi gli ricadono in lunghe ciocche attorno al viso, sulla fronte, e lo vedo indugiare sui miei, di occhi, come a chiedersi se sono davvero io, la donna davanti a lui. Non incontro Haymitch, neanche per caso, da ormai sette anni; ma l’effetto che mi fa è sempre lo stesso. Non riesco a non amarlo anche nell’istante esatto in cui lo odio, profondamente e senza speranze.
-Gin.-

-Bando alle ciance, asciuga gli occhietti lacrimosi e riprenditi da questa barbarie dei saluti.- esordisce un uomo che riconosco immediatamente essere Haymitch Abernathy entrando nella stanza che mi è stata assegnata presso il Palazzo di Giustizia dopo la Mietitura. –Dobbiamo proprio scambiare due chiacchiere.-
Si siede scompostamente su di uno sgabello proprio davanti a me e mi rivolge uno sguardo interdetto, probabilmente accorgendosi dell’assenza di lacrime nei miei occhi e della mia apparente calma.
-Nessun saluto e neanche una lacrima, per quello che vale.-
Sono, a detta di tutti, una stupida ragazzina scontrosa e ribelle. Sono sempre stata troppo poco docile anche solo per essere adottata. Stringo le gambe evitando posizioni poco femminili che poco si addicono alla presenza di un uomo e cerco di darmi un tono, sollevando il mento e raddrizzando le spalle. Indosso un vestito nero a fiori blu, probabilmente eredità delle poche ragazze non esattamente povere del distretto che, di tanto in tanto, regalano i loro abiti ormai dismessi all’orfanotrofio.
-La tua famiglia non è venuta a salutarti?-
-Io non ho nessuno.-
Fisso i miei occhi blu nei suoi, quasi grigi, in segno di sfida. Non amo essere compatita, anzi lo odio. E meno ancora mi andrebbe a genio se a farlo fosse un ultratrentenne con il vizio dell’alcol.
-Tanto meglio.- borbotta, passandosi una mano sugli occhi e massaggiandosi l’attaccatura del naso.
-Nel senso che nessuno mi piangerà quando morirò nell’Arena?- lo metto alla prova, di nuovo.
So bene che, in fondo, tutti pensano sia meglio che ad essere mandata a morire sia una spina nel fianco come me, una sorta di peso per la nostra società. Una bocca in meno da sfamare per un anno ancora.
Mi fissa per qualche secondo senza dire nulla e poi accenna un sorriso. –Ti aiuterò affinché questo non accada, ragazzina.-
Non so perché ma istintivamente l’angolo destro della mia bocca si piega leggermente all’insù, senza che possa impedirlo. Mi passo una ciocca di capelli biondi e disordinati dietro l’orecchio e distolgo lo sguardo.
Per un istante, insignificante, breve come un battito di ciglia, ho la sensazione che a qualcuno importi davvero di me.

-La Mietitura avverrà domani mattina, Effie Trinket è arrivata col mio stesso treno ma ha preferito stabilirsi al Palazzo di Giustizia.- spiego come se nulla fosse, ignorandolo. –io penso che mi ritirerò nella mia vecchia casa, ammesso che la polvere non l’abbia inghiottita.-
-Puoi fermarti qui.- propone Katniss, speranzosa e un po’ a disagio.
-Ti ringrazio ma preferisco di no, Katniss. Sono solo passata a salutarvi, volevo vedere te e Peeta prima della Mietitura.-
Afferro il cappotto e supero Haymitch, ancora semi immobilizzato dalla sorpresa, uscendo di nuovo nel freddo del mattino che, comunque, non supera il freddo che sento dentro. Nel cuore e nelle ossa.
-Gin, aspetta.-
Sapeva fin dall’annuncio delle modalità di questa Edizione della Memoria che sarei tornata, non capisco il perché di tanto clamore. Avrebbe dovuto prepararsi psicologicamente come me. E fallire, esattamente come me.
Non mi fermo, metto un piede dopo l’altro sapendo già che qualsiasi cosa Haymitch voglia dirmi va ben oltre la mia possibilità di ascoltare o di restare indifferente.
-Ragazzina, dannazione!- sbotta, ostinato, affiancandomi con una velocità che non gli avrei mai attribuito considerata la svolta alcolica che la sua vita ha preso, negli ultimi anni.
-Cosa c’è?-
-Non ci vediamo da sette anni e la tua reazione è questa?- chiede, infastidito. –Davvero?-
Sostengo il suo sguardo cercando di non far trapelare nessuna delle emozioni che quella vicinanza mi provoca e sorrido, serafica. –Quale altra reazione ti aspettavi, Abernathy?-
Riprendo a camminare e stavolta non si muove, inchiodato nella neve.
-Se qualcuno avesse predetto una scena come questa, allora, non gli avrei creduto.-
Non può davvero voler infierire ancora su di me. Non può davvero voler ricordare tutto quello che abbiamo passato, tutto il dolore che mi ha causato. Ero solo una ragazzina e la sua indifferenza mi ha cambiata per sempre. Dopo quei maledetti Hunger Games che ho vinto ma ad un prezzo altissimo, come tutti, avrei avuto bisogno di sostegno, di conforto, di amore. Lui è stato solo un’altra porta chiusa in faccia, senza pietà.
-La ragazzina innamorata che conoscevi è morta troppo tempo fa.- trattengo a stento la rabbia e respiro forte, per controllarmi. –E non è morta nell’Arena, Haymitch. E’ morta lentamente affondando nell’indifferenza dell’unica persona che, scioccamente, pensava potesse davvero curarsi di lei.-
Mi allontano da lui ricacciando indietro le lacrime e cercando di ritrovare un ritmo regolare cui il mio respiro possa adeguarsi mentre il freddo secco della neve che cade mi entra nelle narici dandomi l’impressione di bruciare come fuoco ogni millimetro delle mie vie respiratorie fino ai polmoni. Finché il freddo non si ferma all’altezza del petto, a destinazione.

-Haymitch?-
I piedi nudi indugiano sulla soglia della porta scorrevole della cabina del mio mentore e la moquette sembra calda, bollente.
-Che c’è, Gin?- vedo la sua sagoma stagliarsi nel buio. Sta seduto sul bordo del letto le mani posate sulla sua stessa nuca come a volersi proteggere. Ma da che cosa?
Lo conosco da pochi giorni ma non mi ero mai sentita tanto vicina a nessun’altro, prima d’ora.
A lui piace il mio nome, probabilmente per via dell’omonimo superalcolico col quale riempie sempre la sua fiaschetta. Mi fossi chiama Rum, l’effetto sarebbe stato lo stesso.
-Non riesco a dormire, se sto sola ancora un minuto mi metto ad urlare.-
Posso vederlo sorridere, nonostante le tenebre che avvolgono la stanza, ma quasi subito torna serio e sembra ponderare l’idea di lasciarmi entrare. Lui è un ribelle. Non ha niente da perdere, se ne frega delle regole. E’ questo che amo di lui.
-Vieni qui ma chiudi la porta a chiave.- si arrende, sospirando. –E non farti strane idee, ragazzina.-
-Ma figurati!- rispondo, immediatamente, con tono indignato ringraziando il buio che nasconde il rossore delle mie guance.
Corro ad infilarmi sotto le coperte sulle quasi, invece, si stende lui.
-Non senti freddo?- chiedo, aggrottando la fronte e pentendomene subito dopo. Sono domande da bambina e non voglio che lui mi ritenga tale.
-Non hai dieci anni e non si dorme tra le lenzuola di un uomo in questa maniera.-
Soppeso quell’affermazione e poggio la testa sulla mano, il gomito ben saldo sul cuscino morbido.
-Infatti.- decido di sfidarlo. –Ho diciassette anni e non capisco perché ti scandalizzi tanto.-
Non so da dove venga tutta quella sfacciataggine e non so esattamente neanche cosa provo per lui, in quel momento o forse sempre.
Ride e tutto intorno l’aria vibra, per la sua risata.
-Devi sempre avere l’ultima parola, tu, non è così?-
-Solo quando ho ragione.-
Mi accorgo di averlo rifatto, di aver voluto ancora una volta avere l’ultima parola e sorrido abbandonando poi la testa sul cuscino e sperando che l’odore del costosissimo shampoo che ho trovato nella mia cabina si diffonda dappertutto, soprattutto sul suo cuscino e tra quelle lenzuola.
-Ti hanno tirata a lucido, eh?- chiede, sornione, indicando con un cenno del capo i miei capelli, solitamente aggrovigliati come rovi color grano, adesso lisci e ordinati.
-Si, hanno usato uno strano prodotto che li lascia sempre così.- spiego imbronciandomi al ricordo. Ho odiato tutto quel tran tran di estetisti, parrucchieri e stramberie. –Per non parlare della ceretta. Non ho più un pelo, neanch..-
-Si, Ginger, credo di aver afferrato.-
Non so relazionarmi in modo affascinante con l’altro sesso, nessuno me l’ha mai insegnato e ho sempre dovuto mostrarmi forte, quasi mascolina, per sopravvivere al distretto 12.
Mi mordo l’interno della guancia e prendo un bel respiro prima di stendermi meglio al suo fianco.
Non gli chiedo il permesso di farlo ma mi stringo al suo corpo, nonostante le coperte ci dividano, e affondo il viso nel suo collo, caldo, lasciando che le ciocche di capelli biondi mi accarezzino le guance.
-Che stai facendo?- chiede, allarmato, senza però ritrarsi.
-Mi metto comoda. Domani arriveremo a Capitol. Mi aspetta una giornataccia, nel caso te ne fossi dimenticato.-
La vita mi ha insegnato che, se desidero qualcosa, devo andare a prendermela. Nessuno me la proporrà, nessuno mi aiuterà. Spetta a me e solo a me. Per non contare che tra una settimana, due se la sorte sarà dalla mia, potrei esse morta. Cosa ho da perdere?
Non voglio altro che dormire stretta a lui, stanotte. Non voglio carezze, non voglio baci. Voglio solo sentire un corpo caldo accanto al mio, un corpo forte e saldo che mi faccia da scudo contro gli incubi, le paure e l’inferno che mi aspetta, una volta iniziati i Giochi.
-Buonanotte, allora, ragazzina.-
Sento che con un braccio steso sotto le mie spalle mi tira più vicina a sé e mi culla, quasi, tenendomi stretta mentre una parte di me vorrebbe non addormentarsi mai per godere a pieno di quel contatto che, inaspettatamente, Haymitch Abernathy mi concede. Mi chiedo solo cosa stia pensando, adesso.

Fisso il soffitto pieno di macchie di umidità, le gambe penzoloni oltre il bordo del letto e le braccia spalancate.
Il materasso è stato cambiato, lo noto dal profumo delle lenzuola che altrimenti sarebbe sovrastato dal puzzo della muffa, della lana umida.
Il sindaco deve aver mandato qualcuno ad aprire la casa e darle una parvenza di ordine, prima del mio arrivo.
Mi aspettavo di trovarla abbandonata, sporca, triste. Ma è solo anonima proprio come quando l’ho lasciata.
Katniss è venuta a trovarmi, questo pomeriggio, e mi ha pregata di cenare con lei, sua madre e sua sorella. Ci teneva tanto che conoscessi la piccola Prim, la sua adorata Prim.
Non ha nominato Haymitch neanche una volta e ringrazio il cielo per la sua discrezione e la sua intuitività.
Prim mi ha riempito di domande per tutta la sera, nonostante i rimproveri della madre, ed io, sorprendentemente, ho trovato quella conversazione quasi catartica. Conosci i tuoi demoni per esorcizzarli, è la prima regola se sopravvivi ad un orrore come quello degli Hunger Games.
-Non sparirà mai, vero?-
Katniss ed io ci eravamo appena ritirate in salotto, accanto al fuoco, una volta terminato di sparecchiare e a giudicare dai suoi occhi tristi non c’era alcun dubbio sul peso dei suoi pensieri.
-La paura? Il senso di colpa? La paranoia?- ho indagato, sapendo esattamente a cosa si riferisse. –No, Katniss. Mai.-
-E rivivremo tutto questo di nuovo? Spero solo di riuscire ad essere più lucida, più cinica. Sono già sopravvissuta una volta, dopotutto.-
L’ho vista con lo sguardo fisso sulle fiamme del camino, abbattuta e rassegnata, e ho capito. Sapevo cosa fare.
-Potrebbe toccare a me. La sorte potrebbe davvero essere a tuo favore, stavolta.-
Era bastato uno sguardo per capire che, anche nella sua mente, aveva preso forma lo stesso pensieri e, ancora una volta, ho avuto paura.
Adesso, stesa sul letto, spero solo che domani sul biglietto estratto ci sia il suo nome. E che Katniss Everdeen possa avere il futuro che merita.


-CHE DIAMINE TI E’ SALTATO IN MENTE?-
Haymitch fa irruzione come una furia nella stanza che mi spetta, ancora una volta, al Palazzo di Giustizia ed ho come un dejavu.
-Ho mal di testa, potresti abbassare la voce?-
-C’è poco da scherzare, ragazzina!- sbraita avvicinandosi a me più di quanto dovrebbe e causandomi brividi di non identificabile natura.
-Non scherzo affatto, Abernathy. Cosa avrei dovuto fare?- mi inalbero a mia volta sporgendomi verso di lui e scegliendo l’offensiva invece che la difesa. –Avrei davvero potuto lasciare che quella bambina vivesse ancora una volta l’inferno dell’Arena?-
Perché nonostante tutto, nonostante il coraggio, l’astuzia, la forza.. Katniss Everdeen è comunque ancora una bambina. Come lo ero io, nonostante i miei diciassette anni, quando mi sono ritrovata a dover affrontare i miei primi Hunger Games.
-Cosa ti rende più sacrificabile di lei, Ginger?!-
-Lei ha una famiglia! Ha Peeta!- grido allargando le braccia, esasperata. –Lei ha sedici anni e una intera  vita davanti!-
-Anche tu hai solo venticinque anni!-
-Ma io sono SOLA, Haymitch!- la voce trema, il mio petto si alza e si abbassa con un ritmo innaturale e lo odio. Perché quella conversazione mi fa più male del pensiero di dover affrontare ancora una volta l’Arena. Perché quella conversazione racchiude tutto il dolore di una vita.
Tace e lo sento sospirare, sempre più vicino.
Mi fisso i piedi finché i suoi capelli lunghi non mi solleticano la fronte e sento le sue braccia stringermi.
Mi ero ripromessa di non mostrarmi mai più fragile come mi ero concessa di essere con lui, mi ero ripromessa di non cedere mai ad alcuna emozione, di non crollare.

-Gin.-
Mi volto verso Haymitch smettendo di lavare i piatti e lasciando che l’acqua scorra nel lavello. Non riesco a guardarla, non riesco a non immaginarla mentre diventa rossa come la cascata di sangue, nell’Arena. Non riesco ancora a liberarmi dell’orrore che mi tormenta.
Probabilmente Haymitch ha visto le mie spalle tremare. Probabilmente ha percepito ancora una volta il mio panico diffondersi tutto intorno.
-Mh?-
-Lascia stare quei piatti.-
Mi asciugo le mani e faccio come mi dice per poi avvicinarmi a lui, seduto sulla poltrona del salotto con lo sguardo fisso nel vuoto.
-Vai a casa, Gin.-
La mia casa è esattamente accanto alla sua ma non voglio andarci, non voglio restare sola. Sono passati tre mesi dalla fine degli Hunger Games, dalla mia vittoria, quella stessa  vittoria che pago ogni notte in cui gli incubi non mi lasciano dormire, in cui mi sveglio urlando e, tremante, raggiungo la stanza di Haymitch e lo trovo sveglio. Spezzato e distrutto come me dal terrore di giorni che nessuno dei due scorderà mai. I suoi Hunger Games e i miei, pesanti come sassi ingoiati e bloccati proprio all’imbocco dello stomaco. Nel petto.
-Io voglio restare con te.-
Mi avvicino di più, sedendomi sulle sue gambe e poggio le mani fredde sul suo viso, accarezzandogli le guance coi polpastrelli.
-Non puoi, Ginger. Devi andartene.-
Allontana il volto ed io, ostinata lo obbligo a guardarmi di nuovo, irruenta, e affondo gli occhi nei suoi prima di baciarlo prepotentemente.
E’ così che ho trovato sollievo negli ultimi mesi. E’ così che sono sopravvissuta. Respirando l’aria attraverso di lui, trovando sempre lui sulle mie dita, sulle mie labbra, sul mio petto.
Ho diciotto anni e non sono più una bambina. Non dopo i Giochi.
-Smettila!- mi ordina staccandosi da me, stancamente, e spostando il mio peso dalle sue ginocchia per alzarsi in piedi e allontanarsi quanto più possibile da me.
So che è sbagliato, so che non ha senso. Ma lo amo e non mi importa l’età, non mi importa se gli altri ci guarderanno sempre in modo diverso. Lui è come me ed io ho bisogno di lui per respirare.
Mi ci sono voluti mesi per far si che mi accettasse. La prima volta che l’ho baciato, poche settimane dopo gli Hunger Games, mi ha guardata come fossi completamente pazza. “Non farlo mai più.”
Ma io l’ho rifatto il giorno dopo. E quello dopo ancora. Ed infine lui ha risposto al bacio stringendomi i polsi nello stesso modo in cui era solito allontanarmi.
“E’ sbagliato, ragazzina”.
“E’ la cosa più giusta della mia vita, Haymitch. Ho te e solo te. Avrò sempre e solo te.”
Ci amiamo, non c’è niente di più giusto.
-Voglio che tu te ne vada, Ginger.-
-Non è vero.-
Sono cresciuta in un maledetto orfanotrofio da cui nessuno mi ha mai tirata fuori fino agli Hunger Games, sono stata abbandonata non appena messa al mondo e a nessuno è mai importato di me. Prima di Haymitch.
-Tu usi il tuo corpo per legarmi a te ma non è abbastanza.- si massaggia una tempia stringendo gli occhi. Probabilmente ha bevuto, come sempre. –Sei solo una ragazzina.-
Ogni sua parola si conficca nel mio cuore come una scheggia.
Io non uso il mio corpo per incastrarlo. Io faccio l’amore con lui perché lo amo.
Non sono una ragazzina. Sono una donna che ama un uomo.
Il mio sguardo corre ad uno specchio impolverato che non mi curo mai di pulire e vedo quello che vede lui, per la prima volta.
Vedo una giovane donna dal fisico acerbo, vedo una giovane donna spezzata che mi restituisce uno sguardo triste attraverso occhi che sembrano ghiacciati. Le spalle incurvate, i pugni stretti. Neanche Haymitch è disposto a tenere con sé un giocattolo rotto.

Calde lacrime cominciano a rigarmi le guance e mi aggrappo, forte, alle sue braccia saldamente ancorate attorno alla mia vita mentre anni di solitudine, di mancanza e di nostalgia riaffiorano dal profondo del mio cuore rovesciandosi addosso ad entrambi.
-Mi distruggi ogni volta, Haymitch. Fingi che ti importi di me quando invece ci sei sempre e solo tu.-
La sua mano affonda tra i miei capelli dal colore indefinito, tinti troppe volte dei colori più diversi. –Mi è sempre importato di te. Ed è per questo che ho dovuto lasciarti andare.-
Scuoto la testa ma lui mi impedisce di allontanarmi stringendomi più forte.
-Ma io non volevo andare da nessuna parte.-
-Eri una ragazzina e avevi una vita intera davanti a te.- spiega, la voce ferma, consapevole che in realtà, ormai, qualsiasi vita mi aspetti non sarebbe comunque quella che avrei desiderato da bambina. –Non era compito tuo badare ad un ubriacone che non sarebbe mai stato capace di guarire il tuo dolore.-
Fa una pausa ed io mi separo abbastanza da guardarlo negli occhi.
-E guardando indietro, un giorno, avresti provato disgusto per un uomo che aveva legato a sé una ragazza troppo giovane e ingenua costringendola ad una vita che non sarebbe mai stata quella che meritava.-
Ma gli Hunger Games hanno comunque privato entrambi di un futuro migliore, di un futuro che potesse definirsi tale. E adesso che tutto ritorna, che il cerchio si chiude, cosa ci resta?
Il tributo maschile dell’Edizione della Memoria è ancora una volta Haymitch Abernathy e, stavolta, in quell’arena saremo insieme.

  
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