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Autore: MissMadHatter    17/01/2016    12 recensioni
Tratto dalla storia:
"Il primo istinto che mi assale è quello di correre, separare la poca distanza che ci divide e affondare in un suo abbraccio. Ricordo di aver fatto qualcosa di simile il giorno in cui mio padre non fece più ritorno dai frutteti. Mi chiedo se, in questo momento, anche lei ci stia pensando"
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Rue
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il mare in tumulto di voci sconvolte è finalmente cessato. Il pronto intervento dei Pacificatori deve aver sparpagliato le poche persone abbastanza coraggiose – o folli, decidete voi – da pubblicizzare il proprio sdegno. Va bene così, davvero. Siamo un popolo solidale, non mi perdonerei mai se qualcuno morisse a causa mia. Non qui, non al Distretto 11.
Nel silenzio che avvolge queste quattro mura mi sembra ancora di sentire l’eco di quella voce stridula che reclama il mio nome.

Rue Stenberg. Si faccia avanti, prego.

Come se obbedire, in una situazione simile, fosse facile. Dalla prontezza con cui si è fatto avanti il tributo maschio, immagino che per qualcuno lo sia. Sono bastate poche, semplici parole per ritrovarmi al centro dell’attenzione di centinaia di occhi marroni. I lamenti di mia madre, sola contro un muro di silenzio. Mi chiedo quale abaco di sentimenti siano stati in grado di leggere sul mio volto mentre, un passo dopo l’altro, venivo scortata sulla terrazza della Piazza.
Avrei tanto voluto evitare di assomigliare ad uno scricciolo di ragazzina che si avviava al patibolo ma, col senno di poi, credo che non vi fosse chissà quale alternativa. Nel preciso istante in cui quelle mani paffute – esageratamente paffute per un essere umano – hanno agguantato la strisciolina bianca con il mio nome, sono passata da una vita di schiavitù a morte certa.
Un rumore di passi al di là della porta mi avverte che qualcuno è in avvicinamento, presto avrò visite. Le mie ultime, per quel che ne so. Non mi sorprende vedere la figura di mia madre fare capolino dall’altra parte, condotta – quasi fosse una criminale – da un Pacificatore armato. Mamma ha il volto tirato, stanco e non appena gli occhi gonfi di pianto si posano su di me capisco che non ha ancora dato sfogo a tutto il suo dolore. Il primo istinto che mi assale è quello di correre, separare la poca distanza che ci divide e affondare in un suo abbraccio. Ricordo di aver fatto qualcosa di simile il giorno in cui mio padre non fece più ritorno dai frutteti. Mi chiedo se, in questo momento, anche lei ci stia pensando.
“Avete un’ora, non di più!” il tono brusco del Pacificatore interrompe il contatto dei nostri sguardi, facendoci rabbrividire.
La porta malconcia si chiude con uno scatto secco e in un battito di ciglia la mia mente si perde in una spirale di terrore e ansia. Un brivido scorre serpentino lungo la schiena e d’istinto penso che la temperatura dell’aria deve essersi abbassata. Ci metto un po’ a capire che, in realtà, sono io a perdere tutto il calore corporeo. Il battito del mio cuore è talmente forte da scuotermi da capo a piedi, inondando le orecchie con un frastornante tum-tum. Sembra quasi che la paura stia bussando incessantemente alla porta.
Provo senza successo a pronunciare qualche parola ma non ottengo nemmeno il fantasma di un rantolo, almeno non prima di un paio di tentativi. Devo lottare contro le corde vocali prima di riuscire ad emettere un supplichevole “mamma”, in direzione della donna che mi sta guardando con espressione affranta.
Fa qualche passo e si posiziona dietro di me. Sento un leggero fruscio alle mie spalle ma la domanda muore prima di arrivare alle labbra: mani delicate accarezzano i ricci indomabili che ci accomunano, li pettinano dolcemente e li sistemano in due folti codini. Canticchia a bocca chiusa, come quando a casa ci concediamo questa routine madre-figlia prima di una giornata di duro lavoro. Vorrei riuscire a dirle che mi dispiace, che siamo libere di tornare alla nostra vita. A che pro, neanche io lo so.
Con la coda dell’occhio la vedo prendere una delle sedie accantonate alla mia destra, sistemarla di fronte alla mia e sedersi. Il mio sguardo viene attirato verso il basso, appesantito dal senso di colpa e dall’afflizione. Con che coraggio potrei guardarla in viso dopo tutta la pena che le sto causando? Il gelo che si è impadronito dei miei arti viene in parte mitigato quando le nostre mani si intrecciano in un gesto d’affetto. Basta un solo sguardo, un veloce e muto scambio di parole mai dette per trasmetterle tutto ciò che non ho il coraggio di dire.
“Bambina mia” mi sussurra corrucciando le sopracciglia. Scuote la testa come per scacciare fantasmi che solo lei riesce a vedere. E forse è davvero così. L’unica cosa sensata che riesco a ribattere è un amareggiato “mi dispiace”, verità ineluttabile.
Quando la sua mano si solleva per accarezzare la mia guancia, automaticamente inclino di lato il viso e le vado incontro. Non ho bisogno di guardarla per avere la conferma delle lacrime che stanno lentamente bagnando il suo volto. Lo so, proprio come lei riesce a sentirlo dalla rigidità della mia mascella e dalla bocca contorta in una smorfia di dolore.
“La mia bambina” mi sussurra con voce rotta “la mia dolce, cara bambina”
La verità è sulle labbra di entrambe ma solo io trovo il coraggio di darle vita: non voglio morire. Non così. Sappiamo fin troppo bene che non ho la minima chance di uscire viva dai giochi. Per quel che ne so, nessuno nel nostro Distretto ha mai fatto ritorno da quella carneficina. Sarò l’ennesima vittima di un gioco crudele mascherato da monito a non dimenticare il passato.
La donna che mi sta davanti cerca ancora di negare l’inevitabile.

No mamma: nessuno sbaglio, nessun trucco. Niente di tutto questo è stato programmato, almeno non la mia estrazione. Né tanto meno quella di Thresh. Lo so, è un’ingiustizia dover subire una punizione per qualcosa che non abbiamo fatto. Non sai quanto vorrei risparmiarti queste lacrime amare, poter tornare a casa per riabbracciare Norah e i miei fratellini. Non ho bisogno di chiederti dove sono in questo momento: preferisco saperli al sicuro nei frutteti piuttosto che in questa piccola stanzetta, al mio posto.

Una rapida occhiata all’orologio posizionato sulla parete est mi basta per ricordare che di tempo non me ne resta. La corsa verso il mio destino inizierà tra soli venti minuti. È buffo pensare che stamattina al mio risveglio ero poco più di una bambina e che ora – dopo la Mietitura, dopo che la frivola rappresentante del nostro Distretto ha segnato la mia condanna a morte con un po’ di carta e inchiostro – non posso permettermi di perdermi in stupidi giochetti.
Mi rimane solo una possibilità: affrontare i Giochi con tutto l’impegno di cui sono capace, senza perdere me stessa. Si sono presi la mia vita ma non per questo intendo regalargli la mia umanità.
Altro punto su cui non si discute è il fatto di non poter fare troppo affidamento su Thresh, anche se le nostre famiglie si conoscono da tempo. Nell’improbabile caso in cui arrivassi viva fino alla finale dovrebbe comunque mettere da parte la sua pietà nei miei confronti, dal momento che solo uno di noi uscirà dall’Arena. Ne sono consapevole, ma annuisco lo stesso quando mia madre si aggrappa a questa speranza.
Chissà se si rende conto che una mia ipotetica vittoria – e ci crede, lo sento dal tono esaltato della sua voce – comporterebbe la morte del nostro tributo maschio. Anche se dentro di sé rabbrividisce al solo pensiero, immagino che tutto quello che le rimanga sia questa disperata speranza.
Per quel che mi riguarda sento che la paura provata nella Piazza, quando il mio nome ha riecheggiato sulla testa di tutti quelli presenti, si sta gradualmente tramutando in accettazione. Cosa altro potrei fare? Urlare? Piangere? Rifiutarmi di partecipare? Immagino che le intenzioni del Presidente Snow non verrebbero scalfite dalla mia giovane età: per lui siamo “martiri” indispensabili per mantenere il regime di Panem.
Altri dieci minuti e dirò addio alla vita così come l’ho sempre conosciuta. Mi restano solo poche cose da dire e la cosa più difficile per me sarà mettere in fila le idee. Faccio un respiro profondo, riempio d’aria i polmoni. Espiro, dopodiché comincio.

Mamma, mi dispiace. Se potessi cancellare questa lunghissima ora lo farei, credimi. Vi sto lasciando, come ha fatto papà. Sì, ce la metterò tutta per vincere, te lo prometto. Però anche tu devi farmi una promessa: vivi, mamma. Sono una bambina ma ho imparato da te cosa voglia dire essere forte e non arrendersi mai. Non fare quella faccia, è la verità. Quando papà è morto non capivo perché il mondo continuasse ad esistere come se nulla fosse. Volevo vederlo di nuovo sulla soglia di casa, in attesa di un “bentornato” e di un abbraccio. Col tempo ho avuto modo di capire che anche tu, anzi no, tu più di tutti noi soffrivi per la sua scomparsa. Quei pianti sommessi ogni notte, sì li sentivo… li sentivamo tutti. Eppure non hai mai mancato un giorno di essere nostra madre. Non ti sei rifugiata nel dolore, non ci hai mai abbandonato. Ecco, questo è ciò che voglio per voi adesso. Che non perdiate la fiducia e l’amore che ci lega. Che io faccia ritorno o meno, cerca di lottare. Sarà dura, lo è già. Ti prometto che anche nell’Arena sarò come mi avete cresciuta, non tradirò me stessa. Non piangere, non ne hai motivo. Grazie per tutto quello che hai fatto per me, per Norah e per i miei fratelli.

Le lancette spaccano l’ora, annunciando la fine del nostro incontro. Contemporaneamente al rintocco dell’orologio la porta della stanza si apre ed un gruppo di Pacificatori fa irruzione, senza tante cerimonie. 
È ora di andare. Un ultimo abbraccio, un bacio sulla guancia e poi veniamo separate, probabilmente per sempre. Mamma viene quasi trascinata a forza fuori dalla stanza, mentre io vengo scortata dalla parte apposta alla sua.
Mi ero ripromessa di non voltarmi indietro perché sarebbe stato più doloroso vederla allontanarsi da me. La mia decisione vacilla e cambio bruscamente idea quando sto per varcare la soglia del Municipio. Mi volto indietro e d'istinto i due Pacificatori ai due lati mi afferrano, per paura che tenti la fuga. Non ho nessuna intenzione di scappare, tranquilli.
Grido, sperando che le mie parole arrivino fino a lei. Lo ripeto, per esserne sicura.
Ci vedremo ancora, ho appena promesso.
Entrambe sappiamo che non sarà così.  

 


 

                                                       

Come sempre, grazie per aver letto e/o recensito questa one-shot. Non avevo ancora scritto niente sul fandom di Hunger Games, anche se da tempo avevo pensato proprio di iniziare con qualcosa su Rue. Ci tengo a precisare che la Collins non ha mai rilasciato alcun indizio sul cognome di Rue, così ho deciso di utilizzare quello vero dell'attrice - ossia, Stenberg. Mi sembrava appropriato e, a parer mio, suona anche abbastanza bene. Ho trovato qualche difficoltà, devo dire la verità: Rue è una bambina, non ci sono dubbi, ma l'ho sempre vista molto matura per i suoi 12 anni. Essere la sorella maggiore deve averla caricata di parecchie responsabilità, forse è per questo che mi sono ritrovata a descriverla come una "quasi adulta" nell'esprimere i suoi sentimenti e timori.
Ultima, ma non meno importante, cosa: titolo e citazione sono state prese dall'ononima canzone dei "Civil Wars" - che io adoro, personalmente.  









 
   
 
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