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Autore: aturiel    18/01/2016    2 recensioni
[Racconti di Mezzanotte]
dal testo "Ed eccolo lì, Gil: il capo chino sulla sua spalla, le braccia deboli, gli occhi aperti contro il suo maglione, le gambe che cedevano e nessuna memoria del motivo per cui si fosse sentito così arrabbiato. Un attimo prima era tranquillo, quello dopo gli era parso di scoppiare. Aveva quindi dovuto esternare ciò che era di troppo nel suo animo e ridurlo a brandelli, strappandolo e gettandolo via come fosse un foglio di carta. L'unica cosa che lo manteneva in piedi erano le braccia accoglienti di Alan che, premuroso, di nascosto allontanava con la punta delle scarpe le schegge da vicino i suoi piedi."
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Terza Classificata al contest "The Path of Your Pack" indetto da BlackIceCrystal sul forum di EFP.
Partecipa al contest "A mille ce n'è... di slash da narrar!" indetto da Sango_79 sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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01. Lonliness in your smile

 
I'm bleeding out
Said if the last thing that I do
Is to bring you down
I'll bleed out for you
So I peel my skin
And I count my sins
And I close my eyes
And I take it in
And I'm bleeding out
I'm bleeding out for you (for you)”


La rabbia di un secondo e Alan vide Gilbert prendere la bottiglia che aveva in mano e sfracellarla contro il muro al suo fianco. Schegge di vetro volarono ovunque, tintinnando sul pavimento e graffiando i suoi piedi nudi. Poi ci fu un urlo quasi animalesco e tutto tacque.
Alan scattò in avanti, sfilando dalle dita tremanti dell'altro ciò che rimaneva della bottiglia di vetro e accogliendo il suo corpo fra le braccia. Dov'era finita tutta la sua forza? Dov'era la violenza? La rabbia era scoppiata in un attimo e, nello stesso arco di tempo, se n'era andata. Ora tutto ciò che rimaneva di Gilbert era fra le calde dita di Alan, e sarebbe toccato a lui metterne a posto i pezzi.
Ed eccolo lì, Gil: il capo chino sulla sua spalla, le braccia deboli, gli occhi aperti contro il suo maglione, le gambe che cedevano e nessuna memoria del motivo per cui si fosse sentito così arrabbiato. Un attimo prima era tranquillo, quello dopo gli era parso di scoppiare. Aveva quindi dovuto esternare ciò che era di troppo nel suo animo e ridurlo a brandelli, strappandolo e gettandolo via come fosse un foglio di carta. L'unica cosa che lo manteneva in piedi erano le braccia accoglienti di Alan che, premuroso, di nascosto allontanava con la punta delle scarpe le schegge da vicino i suoi piedi.
«Vado a dormire» sussurrò improvvisamente Gilbert, la cui voce uscì leggermente soffocata dalla stoffa su cui aveva appoggiato il viso.
«Su, vai» gli rispose Alan.
Gilbert si staccò dal suo abbraccio e, silenzioso, se ne andò a dormire.

Alan era a dir poco imbestialito: il suo compagno di stanza non si svegliava, nonostante lo stesse chiamando da oltre venti minuti, e lui stava per arrivare in ritardo a lezione per colpa sua. Ma era possibile che proprio quando avevano un test decidesse che il letto era diventato il suo migliore amico?
«Dai, Gil! Sono le otto meno un quarto!» gli urlò in un orecchio.
Solo in quel momento Gilbert diede segni di vita ma, invece di scattare in piedi come Alan avrebbe voluto vedergli fare, si raggomitolò ancora più su se stesso. Alan quindi sospirò rassegnato e gli strappò il cuscino da sopra la testa.
«Gilbert, abbiamo matematica fra un quarto d'ora! Datti una mossa o ti lascio qui» gli urlò nuovamente nell'orecchio.
«Lasciami qui» mugolò l'altro, coprendosi gli occhi con le mani.
Alan sbuffò: sì, avrebbe potuto lasciarlo lì, avrebbe dovuto lasciarlo lì, ma sapeva che non l'avrebbe mai fatto. Afferrò i lembi della coperta e lo scoprì completamente. L'altro per tutta risposta lo mandò a quel paese, ma dopo poco si alzò.
Bastarono dieci minuti perché Gilbert fosse pronto e uscisse dal bagno, vestito con uno dei suoi cinque – o erano dieci? – maglioncini larghi neri, i jeans stretti ma non troppo – perché altrimenti gli facevano “soffocare le gambe”, come diceva lui – e le scarpe che avrebbero potuto visitare l'immondizia il giorno seguente. I capelli biondo cenere erano in uno stato pietoso, tutti scompigliati e un po' sporchi, mentre gli occhi azzurro slavato erano contornati dalle solite occhiaie scure che nemmeno dopo tre giorni di sonno consecutivi sarebbero andate via.
Ed ecco a voi, signore e signori, Gil in tutta la sua bellezza, pensò sarcastico Alan.
«Era ora. Su, scendiamo» disse all'amico che intanto aveva iniziato a sbadigliare.

«È ufficiale: quest'anno non lo passo» esclamò Gilbert appena consegnato il test di matematica fra le mani di quell'arpia della Thomson, sedendosi rumorosamente al suo fianco.
Alan alzò le spalle. Tanto diceva sempre così, ma poi i suoi voti erano altissimi: Gilbert era il classico genio che non studia nulla e riesce ugualmente in tutto ciò che fa, e Alan per questo lo invidiava da morire. Lui doveva sempre studiare come un matto per rimediare una dignitosa B.
«Sta' zitto, Gil, che tanto prenderai il massimo come al solito».
Gilbert sorrise a quelle parole, e Alan non poté far a meno di sorridere a sua volta. Era bello Gil, quando sorrideva; pareva quasi che illuminasse tutto ciò che lo circondava, che le sue occhiaie scomparissero, che gli occhi azzurri che sembravano sempre vacui e vuoti diventassero dolci e caldi. I suoi capelli in pessimo stato passavano addirittura in secondo piano e anche il tuo corpo eccessivamente magro non era più importante, quando piegava le sue labbra piene e carnose all'insù. Era un vero peccato che lo facesse raramente.
«Oggi pomeriggio che fai, Al?» gli chiese improvvisamente Gilbert, guardando un punto imprecisato di fronte a sé.
«Cosa vuoi che faccia, Gilbert? Me ne starò chiuso in camera» rispose sconsolato Alan.
Il fatto era che sia lui che Gilbert erano restati invischiati fino all'anno precedente con un gruppo di ragazzi – fra l'altro ben poco raccomandabili – di un anno più grandi di loro e, ora che quelli si erano diplomati, si erano trovati improvvisamente senza alcun rapporto sociale che non fosse quello fra loro, cosa che si stava facendo sempre più difficile da sopportare.
«Potremmo chiedere a qualcuno di andare a fare un giro» disse l'altro, mantenendo sempre lo sguardo distante.
«Potremmo, sì» rispose Alan, anche se sapeva che, alla fine, non si sarebbero mossi da quel buco che era il loro appartamento in affitto.
Se solo Gilbert fosse più semplice da gestire... pensò Alan con un sospiro.

Erano le cinque del pomeriggio e Alan era, come previsto, sdraiato sul letto che leggeva un libro mentre al suo fianco Gilbert strimpellava la sua chitarra. Non si rivolgevano la parola da quasi due ore e mezza, ma a nessuno dei due pesava questa situazione e, anzi, Alan era quasi felice del silenzio fra loro. Allo stesso tempo, però, avrebbe desiderato sentire la voce di Gilbert uscire – roca ma sottile – da quelle labbra carnose che si ritrovava e, invece di ascoltarlo passare le ore a mettere di fila accordi senza un vero senso, cantare qualcosa di bello. Infatti era più di un anno e mezzo che Gilbert non intonava una singola nota accompagnato dalla sua chitarra, senza un motivo valido.
Ad Alan mancava terribilmente sentirlo cantare, seduto sull'angolo del letto a gambe incrociate e con il suo fido strumento poggiato sulle ginocchia, e gli mancava sentirlo bisbigliare durante le lezioni, canticchiare al mattino, urlare sotto la doccia. Non c'era mai stata una vera ragione per cui avesse smesso di farlo, ed era proprio di questo che Alan non si capacitava: era convinto che Gilbert fosse tenuto in vita dalla sua stessa voce e da quella chitarra con le corde usurate, che fosse solo questo a donargli un precario equilibrio. Perché, quindi, non cantava più? Non c'era stato nessun trauma, nessun impegno che lo tenesse occupato così a lungo, nessuna noia, nessun problema di salute... e allora perché?
«Sono stanco».
Il flusso di pensieri di Alan venne bruscamente interrotto dalla voce di Gilbert, ma allo stesso tempo fu proprio la sua voce – come sempre nella sua vita, d'altronde – a dare una risposta a tutto: la stanchezza. Gilbert era stanco, non faceva che essere stanco, non riusciva a far altro che stramazzare sul letto alla fine di ogni giornata come se avesse vissuto una vita intera e non solo poco più di diciotto anni.
«Vai a dormire, allora» gli consigliò Alan, spostando lo sguardo su di lui. Era davvero stanco, non stava mentendo: gli occhi erano annebbiati, le occhiaie terribilmente scure e le membra deboli.
«Vado».

 
****

Alan sentì un rumore provenire dalla camera da letto adiacente alla propria, e sembrava il suono di qualcosa che andava in pezzi.
No, non di nuovo, pensò, non riuscendo a frenare, nemmeno nei suoi pensieri, il suo disappunto.
Si alzò e andò nella stanza accanto. Non c'erano bottiglie a terra rotte in mille pezzi, e nemmeno Gil era ridotto a un ammasso di cocci; in compenso la porta-finestra era aperta. Alan, preso da un momento di panico, si catapultò fuori pensando al peggio, ma tirò un sospiro di sollievo quando di fronte a lui si stagliò la figura spigolosa e accartocciata di Gilbert, con un'espressione simile a quella di un bambino che ha appena commesso una marachella e una sigaretta incastrata fra l'indice e il medio.
«Mi è caduto il posacenere» esclamò vedendolo sveglio, evitando il suo sguardo.
«Non importa», rispose.
E non importava davvero.

Ventidue gennaio, data da ricordare: Gilbert aveva indossato per la prima volta in dieci anni, da quando Alan lo conosceva, una maglia di colore diverso dal nero. O meglio, non era esattamente una maglia, ma una camicia, bianca per l'esattezza. E in realtà il nero c'era pure nel suo outfit – come si era ostinato a chiamarlo lui –, e si trovava nella giacca e nei pantaloni; ma, secondo Alan, quella camicia elegante era già un traguardo.
«Non ho voglia di andare alla premiazione» esclamò ad un certo punto Gilbert, spazientito.
«Dai, tanto durerà solo un'oretta. Non sarà nulla di tragico» rispose Alan. Quindi si avvicinò all'auto del professore che li avrebbe accompagnarti, preceduto di poco da Gilbert.
E non sbuffare, stronzo.
Possibile che Gilbert non avesse voglia di andare ad una premiazione? Manco si trattasse di un approfondimento di chissà quale materia noiosa. Insomma, era arrivato primo al concorso di matematica a livello nazionale, e lui riusciva a sbuffare per la premiazione?
Alan, perso in quei pensieri, posò distrattamente gli occhi sulla figura dell'amico di fronte a lui. Quello si era fermato improvvisamente e aveva allungato la mano verso il cespuglio vicino a cui stava passando.
Quel gesto sorprese Alan che, incuriosito, chiese: «Che guardi, Gil?»
«Che fiore è?» chiese l'altro sottovoce.
Alan gli si affiancò, sorprendendosi per gli occhi spalancati come quelli di un bambino di Gilbert. Perché Gil era così: un attimo prima sembrava indolente verso il mondo intero, quello dopo si stupiva di fronte alla bellezza di un fiore.
«Una camelia, una camelia bianca» rispose, e lo fece sorridendo.
«Tu sai che significa, la camelia?» chiese quindi Gilbert, vedendo il leggero ricciolo che le labbra dell'amico avevano formato, vedendola.
«Sacrificio» rispose solo, omettendo ciò che invece avrebbe voluto rispondere realmente, preso da un attimo di pudore e imbarazzo, ma anche da un molto meno nobile desiderio di vendetta.
Fedeltà, e profondo affetto, e devozione.
Gilbert, a quella risposta, spostò lo sguardo dal fiore al suo viso. I suoi occhi azzurro slavato incrociarono i suoi, perforandoli con la loro profondità e intensità. Sembrava volesse accusarlo, sembrava fosse arrabbiato per quel suo dire secco, per la violenza di quella singola parola che aveva provocato in lui, di certo, un senso di colpa. Ma poi sorrise, e lo fece pieno di calore e dolcezza, come fosse un bambino a cui avevano appena offerto una caramella.
Lui vuole il mio sangue e io, come uno stupido, gli offrirò la gola, si ritrovò a pensare, rassegnato. D'altronde era sempre stato così, e a lui andava bene.
Sorrise anche Alan e, insieme a lui, entrò nell'auto del professore.

«Boh».
Alan quasi si strozzò con la propria saliva.
«Come, scusi?»
La voce basita e irritata del professore risuonò. Stranamente era meno rumorosa quella del silenzio che invece si era improvvisamente creato nell'aula.
«Ho detto “boh”» ripeté di nuovo Gilbert, con lo sguardo rivolto verso un punto imprecisato del paesaggio che si intravedeva fra le foglie degli alberi del giardino, fuori dalla finestra accanto a cui il ragazzo era seduto.
Alan era immobile, gelato al suo posto e impossibilitato a parlare. Cosa gli stava prendendo?
«Quindi, alla domanda “a cosa sta pensando che lo distrae?”, lei risponde con “boh”?» domandò ancora una volta il professore, che sembrava quasi non riuscisse a capacitarsi di ciò che stava succedendo. Non era mai accaduto che qualcuno si mostrasse così indolente nei confronti di una insegnante: la loro scuola era la migliore del Paese e, proprio per la serietà che richiedeva, Alan non aveva mai assistito a un evento del genere, come anche i tre quarti dei presenti. Era come quando qualcuno faceva una battuta di pessimo gusto nel momento sbagliato: tutti iniziano a ridacchiare poco convinti e imbarazzati, finché uno – il più pronto di spirito – non riusciva a cambiare argomento. Ma la cosa che più lo stupiva non era tanto la situazione in sé, quanto più che a rispondere in modo così sgarbato fosse stato Gil, il suo coinquilino, il suo migliore amico.
Gilbert staccò lo sguardo dall'orizzonte. I suoi occhi vacui e apparentemente distanti si inchiodarono con improvvisa durezza sul viso dell'insegnante. Le occhiaie parevano diventate delle conche nere sotto le sue palpebre inferiori, le lunghe ciglia talmente bionde da parere bianche proiettavano un'inquietante ombra sulle sue gote scavate. Poi mosse le labbra – quelle labbra carnose e sempre piegate in una smorfia infantile – e parlò: «Vuole sapere a che cosa stavo pensando realmente? Stavo pensando che voglio fuggire dalla mia pelle stretta e trasparente, diventare un'ombra nera, un coltello che di notte martoria la carne delle persone che amo e odio. Stavo pensando alla morte, al sangue...» si interruppe un attimo, spostando il suo sguardo su Alan, poi proseguì: «Stavo pensando alle camelie, quelle bianche».
Quindi si alzò e uscì dalla classe, sotto gli occhi di tutti, spalancati dalla paura e dal ribrezzo.
Ad Alan ci vollero circa cinque secondi per imitarlo ed inseguirlo, preoccupato, ignorando gli occhi di tutti i loro compagni di classe puntati sulla schiena e le urla del professore.

Dove sei?
Era solo questo ciò che la mente di Alan riusciva a concepire, in quel momento. Quello e una lacerante preoccupazione, la paura che Gilbert, nell'istante in cui sarebbe esploso – perché, Alan n'era certo, quella frase in classe era solo il preludio di uno scoppio molto più violento –, non l'avesse avuto accanto.
Corse per i corridoi deserti, sbirciando in tutte le aule vuote, nelle camere, nelle finestre, nei balconi. Solo all'ultimo gli venne in mente di guardare nei bagni, e fu proprio in uno di questi che lo trovò, ben dieci minuti dopo.
Appena lo vide disse solamente due lettere, con un tono più vicino alla constatazione che alla sorpresa: «Al».
«Tutto bene?» chiese. Ma la preoccupazione stava iniziando pian piano a scemare: non c'era sangue sulle pareti, le sue nocche erano intatte, l'ambiente ancora integro. Forse per quella volta non li avrebbero espulsi.
Gilbert non disse nulla, si limitò a sorridere in modo strano, quasi amaro.
Vedendo che l'altro non dava segni di volergli rispondere, Alan propose: «Dai, torniamo in classe, Gil».
«No».
Risposta secca, perentoria.
Che ti succede, Gil? A che pensi?
Non fece però in tempo ad avanzare le sue ipotesi che l'altro gli si avvicinò e posò un braccio sulla sua spalla, come se volesse appoggiarvisi. Alan era stupito, ma allo stesso tempo avrebbe voluto abbracciarlo per dargli un qualche conforto, senza però osare aumentare il contatto, temendo che l'altro si allontanasse bruscamente. Fu Gilbert ad avvicinarsi ulteriormente, portando da una parte anche l'altro braccio sulla sua spalla e dall'altra le labbra morbide a poco più di mezzo centimetro di distanza dal suo orecchio.
E sussurrò: «Sacrificio».
Alan sentì un brivido lungo la schiena. Non sapeva cosa aspettarsi, ora: cosa voleva Gilbert da lui? Un sacrificio? Oppure voleva lui stesso sacrificarsi per lui? Non lo comprendeva, non lo aveva mai fatto e non aveva nemmeno la presunzione di dire che, un giorno, ci sarebbe riuscito. Era in balia dei suoi crolli, dei suoi sorrisi insensati, dei suoi capricci da bambino. E anche della sua rabbia, soprattutto di quella.
Men che meno sapeva di cosa fosse in balia in quel momento, quando Gilbert spostò le labbra e le appoggiò sulle sue.
Sacrificio. Suo? Mio?
Alan, dopo un attimo di tentennamento, aprì timidamente la bocca, lasciando che la lingua dell'altro vi si inoltrasse senza incontrare resistenza. Le labbra di Gil erano calde, quasi febbricitanti. E morbide, terribilmente morbide. Non si era accorto di desiderarle fino a quel momento, fino a quel piccolo istante in cui, seguendo chissà quale istinto, l'amico aveva deciso per lui, com'era sempre successo.
E faceva troppo caldo, in quel bagno sporco di una scuola fredda e asettica, e faceva troppo caldo in mezzo al muro piastrellato su cui appoggiava la schiena e il corpo spigoloso di Gilbert.
Sacrificio?
Alan prese improvvisamente il controllo della situazione: scivolò da sotto il corpo di Gilbert, sopraffacendo facilmente la sua forza che, senza la rabbia, era quasi nulla. Invertì le posizioni.
Lo guardò negli occhi per un secondo cercando una scintilla, un qualcosa che gli facesse capire che doveva smettere, che avrebbe dovuto poi nuovamente raccogliere ciò che lui stesso si era fatto, ma non la trovò: le palpebre erano socchiuse, le ciglia più lunghe che mai, l'azzurro slavato del suo sguardo incredibilmente lucido e vivo.
Avvicinò senza alcuna delicatezza le labbra a quelle di Gilbert, socchiuse e protese verso di lui. Socchiuse per il desiderio, protese per la fame.



 
Note autrice:
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