Premessa. Questa storia è ambientata circa otto anni dopo la Rivolta. Gale vive nel Distretto 2 assieme a suo figlio, Joel Jr., avuto da una relazione con una donna di nome Sapheen. Da quasi un anno assieme a loro vive anche Johanna Mason. Questa one-shot è stata scritta grazie al prompt Gale/Johanna – ‘Questo coso spara pappina come una macchinetta’ ‘Non è un coso, Johanna. È un bambino’ lasciatomi da Giraffetta.
[4]
Gale Hawthorne
Avrei voluto essere
in passato meno innamorato di chi non ha avuto
alcun riguardo per me
e avrei voluto dare a te
tutto quel che ho dentro e che io troppe volte ti ho
negato
senza sapere perché.
Tutto ciò che ho. 883.
Gale rientrò in casa sbattendo la
porta, la tensione incuneata in ogni suo movimento.
Stava vivendo una di quelle giornate in
cui il minimo fastidio sembra urtare eccessivamente i nervi, senza un motivo
apparente. Era inquieto perché non aveva dormito bene, nervoso per via di una
mezza discussione con uno dei suoi superiori, e preoccupato perché suo figlio
continuava ad ammalarsi di otite e il pediatra non era ancora riuscito a porvi
rimedio. Ma soprattutto non volava, non volava da giorni. Per lui, non
potersi intrufolare in qualche Hovercraft per farsi un giro equivaleva a non
poter gironzolare per i boschi. Il volo era diventato la sua nuova caccia:
restare a terra troppo a lungo lo frustrava quanto un tempo lo infastidiva
stare alla larga dalla foresta del Dodici.
Gale, tuttavia, sapeva che il suo
nervosismo era riconducibile a qualcosa in particolare: non ne era stato
pienamente conscio fino a quando non se l’era ritrovata di fronte sul tavolino
del soggiorno, spiegazzata e gettata a faccia in giù così come l’aveva
lasciata. Si trattava di una lettera di Rory che aveva letto quel mattino,
giusto pochi minuti prima di andare al lavoro.
“Non so se hai
voglia di saperlo…” incominciava suo fratello, nella stessa calligrafia
stretta e affilata di quando era ragazzino. “… Ma credo sia meglio che tu lo
sappia da me, piuttosto che da un conduttore televisivo a caso con i capelli in
technicolor tipo Flickerman. Katniss ha partorito
qualche mese fa: è una bambina. Mi pare che si chiami Haley…”
Rilesse più volte il frammento di
lettera legato a Katniss, scandagliandolo alla ricerca di informazioni
aggiuntive: non ce n’erano. Non che gli occorresse conoscere più di quello che
già sapeva. La sua migliore amica di un tempo, la ragazza che da giovane aveva
giurato che non avrebbe mai avuto figli, aveva cambiato idea. O forse aveva
solo trovato qualcuno con cui valesse la pena superare la sua paura più grande:
qualcuno che l’aveva spinta a fidarsi di se stessa a punto tale da convincerla
a compiere quel passo. Qualcuno più fortunato di lui, che aveva avuto successo
dove lui aveva fallito. Qualcuno che era rimasto al suo fianco, perché non
aveva colpe da espiare.
Qualcuno come il
pane, indispensabile alla sopravvivenza.
Il pilota accartocciò il foglio
lentamente, con gesti calcolati più che dettati dalla rabbia. La stanchezza del
lavoro gli si appoggiò addosso come una coperta pesante e la testa incominciò a
fargli male.
Non era incollerito, né triste: si
sentiva risentito, afflitto dal modo in cui aveva esposto il proprio cuore più
volte, ricevendo in cambio sempre e solo graffi. Con Katniss era andata così: i
sacrifici che aveva fatto per lei, il suo sentirsi vulnerabile erano sempre
stati a senso unico.
La seconda volta in cui aveva provato
un sentimento simile a quello che l’aveva legato a lei non era andata molto
meglio: sì, non era stato il solo a scottarsi, a mettere a rischio l’orgoglio,
ma anche Sapheen[1] alla fine aveva scelto se stessa e non
lui. Anche la madre di suo figlio se n’era andata, lasciando lui e Joel soli, a
leccarsi le ferite.
Gli sarebbe piaciuto poter eliminare
quei passi in avanti che aveva fatto per raggiungerle, ricucire i lembi
sdruciti del suo cuore senza farli sanguinare, senza lasciare cicatrici. Ma
ormai il danno era fatto. E nonostante il tempo continuasse a scorrere, il
dolore e il senso di inadeguatezza restavano.
“Non vorrei mai
avere figli.”
“Io li vorrei. Se
non vivessi qui.”
“Però ci vivi.”
“Lascia perdere.”[2]
“Katniss ha
partorito qualche mese fa.
È una
bambina. Mi pare che si chiami Haley…”
Forse non era fatto per quel genere di
sentimento, si disse, passandosi una mano fra i capelli. Forse era
semplicemente destinato a tenersi certe cose per sé, a inibirle col tempo fino
a farle scomparire.
Forse era un bene che restasse solo:
nel corso della sua vita ogni cosa a cui aveva esposto il suo cuore aveva fatto
una brutta fine o aveva concluso per complicarsi ulteriormente.
Non per altro, portava il nome della
tempesta. Aveva qualcosa di violento dentro, che scuoteva le persone fino a
spingerle lontane. Perfino gli alberi parevano agitarsi al suo tocco.
Chi era fatto di vento, come lui, non
poteva avere una dimora vera e propria. Entrava un po’ ovunque, ma nessuno si
era mai sentito sufficientemente matto o tenace da tentare di incatenarlo a sé.
Come si fa, in fondo, ad abbracciare una corrente d’aria? A convincerla ad
ammansirsi giusto il tempo necessario per farle capire che si è disposti ad
affrontare la tempesta, pur di viverci a fianco?
In quel momento la porta della cucina
si aprì, portandosi con sé i farfuglii di un bambino piccolo.
Gale sollevò distrattamente lo sguardo,
una mano ancora stretta attorno alla lettera appallottolata.
Johanna aveva una spalla appoggiata
allo stipite, lo sguardo seccato e palline di poltiglia di cibo appiccicati ai
capelli.
Reggeva schifata un vasetto di
omogenizzato di carne mezzo vuoto e, nell’altra mano, un cucchiaino sporco.
“Alla buon ora, Hawthorne” borbottò,
immergendo il cucchiaio nel barattolo. Indirizzò poi un’occhiata bieca alla
cucina, dove i gridolini del piccolo Joel avevano appena incominciato a farsi
più insistenti. “Questo coso sputa pappina come una macchinetta” aggiunse,
strofinandosi una guancia sulla spalla per pulirsela.
La tensione nel volto di Gale sfumò
leggermente.
“Non è un coso: è un bambino, Johanna”
replicò in tono di voce insolitamente inespressivo. Il suo sguardo era tornato
a rivolgersi alla lettera appallottolata fra le sue mani.
Johanna se ne accorse: la sua
espressione infastidita mutò, lasciando il posto a una maschera indecifrabile.
Seguì un silenzio insolito, diverso da
quelli che erano abituati ad avvertire fra di loro.
Johanna si avvicinò di qualche passo,
visibilmente indecisa se parlare o meno.
“Bah, probabilmente verrà su con qualche
piuma al posto dei capelli” commentò infine, appoggiando i gomiti allo
schienale del divano.
Gale gli rivolse un’occhiata
disorientata.
“Che cosa?”
“La mocciosa. Sua madre è la Ghiandaia
Imitatrice, no?”
Sorrise sarcastica, prima di grattare
il fondo del vasetto di omogenizzato con il cucchiaino, per poi infilarselo in
bocca.
“Che vuoi?” chiese poi a bocca piena,
ricambiando lo sguardo di Gale. “Se tuo figlio questo non lo mangia, cavoli
suoi. Me lo mangio io: devo ammettere che non è così male come sembra.”
Un abbozzo di sorriso eliminò
finalmente un po’ di ombra dallo sguardo stanco del pilota.
Tutto a un tratto, avvertì il bisogno
di alzarsi da quel divano e andare a prendere in braccio Joel.
“Come è andata oggi? Ha ancora mal di
orecchie?”
Johanna scosse la testa con fare
esasperato.
“E come diavolo faccio a saperlo? Non
fa altro che blaterare cose senza senso” replicò, guidandolo verso la cucina.
Trovarono Joel intento ad allungarsi sul seggiolone, gli occhi grigi spalancati
per lo smarrimento: il suo peluche preferito era caduto per terra e stava
cercando di liberarsi per recuperarlo.
Sia il bambino che il pupazzo – così
come il tavolo e il pavimento – erano puntellati di grumi di pappetta.
“Se proprio vuoi saperlo, credo che
abbia qualche rotella fuori posto…” aggiunse Johanna, mentre Gale tirava fuori
il bimbo dal seggiolone per evitare che cadesse. “Ha chiamato il suo amico
peloso come me”.
Afferrò la volpe di peluche e la porse
al piccolo. Joel, che era occupato a festeggiare il ritorno del padre
accoccolato al suo petto, sorrise e strinse l’animaletto a sé.
“Jo!” esclamò
allegro, appoggiando la fronte contro il suo muso peloso.
Johanna indirizzò un’occhiata eloquente
a Gale, che sorrise divertito.
“Johanna… Guarda” esordì, rubandole di
mano il cucchiaio. “Joel, che cos’è questo?” chiese poi, mostrandolo al
piccolo.
Joel gli rivolse un sorriso furbetto.
“Jo!” ripeté,
cercando di afferrarlo.
“E quello?” chiese ancora il padre,
indicandogli il frigorifero.
“Jo!”
Il sorriso di Gale si allargò; baciò il
bimbetto sui capelli e aggrottò le sopracciglia, nell’accorgersi che erano
appiccicaticci per via della pappetta.
“È l’unica parola che sente dire di continuo in
questa casa” spiegò poi a Johanna, facendosi passare un tovagliolo per
ripulirlo. “L’ha imparata bene.”
Johanna alzò gli occhi al cielo, per nulla impressionata
dal fatto che il suo nome fosse stato scelto dal piccolo come parola universale
per indicare tutto.
“E questo povero idiota chi è?” domandò poi, cercando
l’attenzione di Joel e indicandogli Gale.
Il visetto del bimbo si fece raggiante.
“Papà!” esclamò, tornando ad appoggiare la testa contro
il petto del padre.
Gale rinsaldò l’abbraccio, adagiando il mento sui suoi
capelli. Il calore emanato dal corpicino del piccolo era una delle poche cose
in grado di allentare il nervosismo che avvertiva in giornate come quella.
Joel era il motivo per cui non rinnegava il suo essere
nato vento e tempesta. Essere quello che era gli aveva inferto molte ferite,
ma aveva anche contribuito a portare al mondo suo figlio.
“I-dio-ta!” scandì ancora
Johanna, appoggiandosi a Gale con il gomito. Guardava Joel, che stava
ricambiando con gli occhi sgranati e la volpe ancora ben stretta al corpicino.
“Jo!” replicò dopo qualche
istante, suscitando l’irritazione della donna.
“Se non impara almeno a dire idiota continuerà ad essere
un moccioso inutile” osservò a quel punto, tirando giocosamente i capelli di
Gale. “Ho bisogno di qualcuno con cui poterti insultare.”
“E a me serve qualcuno che ti insegni a mangiare come si
deve” ribatté lui, grattando via un po’ della pappetta di Joel dal mento di
Johanna. “Magari fra un paio d’anni potrà farlo lui. Che ne dici, ometto?”
Il bimbo gli sorrise, prima di incominciare a
mordicchiare un’orecchia della sua volpe.
Johanna roteò gli occhi e gli diede una gomitata.
“Tuo padre è un vero stronzo, lo sai, Hawthorne?”
borbottò poi, rivolta a Joel.
Gale sorrise divertito: in quel momento
avrebbe volentieri attirato a sé il volto di Johanna per baciarla, noncurante
dei grumi di pappetta e della bava di Joel. Erano in momenti come quelli,
quando tornava a casa in un fascio di nervi e trovava ad attenderlo le premure
ruvide, ma sentite, di Johanna, che ricordava di aver trovato qualcuno in grado
di accettare di vivere nel mezzo della tempesta.
In giornate simili gli capitava anche
di sentirsi in difetto per il poco peso a cui dava, sebbene solo in apparenza,
alla presenza di Johanna: per la gratitudine che avvertiva pulsante in
ogni vecchia ferita, ma che non sempre riusciva ad esprimere. Per le parole e i
gesti di affetto che gli ronzavano dentro e che teneva da parte per loro – per
lei e per Joel – ma che non era ancora riuscito a far emergere.
Perché in situazioni come quella si rendeva
conto, più che mai, che loro due erano tutto ciò che aveva . Joel e Johanna
erano gli unici che avevano il diritto di appropriarsi delle cose che si
portava dentro. E presto, o almeno così sperava, avrebbe imparato a dirglielo.
“Questo stronzo è tutto vostro” esclamò stringendosi nelle spalle. Sollevò Joel
per fargli fare l’aeroplano e gli venne da sorridere, nell’ascoltare la sua
risata. “Dovrete tenervelo, mi sa.”
Johanna finse una smorfia di sufficienza, mentre lo
esaminava con le mani sui fianchi. La maschera indossata, tuttavia, lasciava
gli occhi scoperti e da essi emergeva una sfumatura insolitamente affettuosa,
che per Gale ebbe un che di rassicurante.
“Faremo lo sforzo” concluse Johanna, afferrandogli il
mento un po’ bruscamente. Lo baciò all’angolo della bocca, là dove le manine
appiccicose di Joel avevano sparso un miscuglio di pappina e saliva.
E, grazie a quel bacio, Gale decise che poteva anche
arrischiarsi a crederle.
Note Finali.
*Balle di fieno rotolano qua e là per
il Distretto 2*
Buonasera!
Ogni tanto mi sveglio con il pallino di riprendere qualche storia lasciata
indietro da anni e questa mattina è toccato a questa raccolta dedicata ai
maschietti di casa Hawthorne. Mi vergogno tanto quando realizzo che sono
passati non solo mesi, ma addirittura anni, tra i vari aggiornamenti delle mie
storie e sono consapevole del fatto che ormai questa raccolta sia morta e
sepolta e che nessuno la leggerà. Tuttavia, mi dà davvero fastidio lasciare le
vecchie storie incomplete. Per questo, ho deciso di cercare di ultimarla. Ed è
così che è spuntato fuori questo capitolo – il penultimo – dedicato al
maschietto più conosciuto (e amato/odiato c.c) della
famiglia Hawthorne. La strofa che ho scelto per aprire questa one-shot non poteva che essere associata al nostro friendzonato per eccellenza. Ci tenevo ad inserirla
in un momento in cui Gale è già più grande e ha una vita avviata e una propria
famiglia, un po’ per mostrare che le ferito del passato comunque restano e ogni
tanto tornano a far male, ma un po’ anche per incominciare a tirare le fila
della raccolta (e della canzone in sé). Anche Gale, come i suoi fratelli e
babbo Hawthorne prima di lui, sta incominciando ad apprezzare se stesso un po’
di più e ad aprirsi con chi ha a fianco. Il rapporto fra Gale e Johanna nel
periodo incluso in questa one-shot è abbastanza
particolare. Non sono ancora una vera e propria coppia, sono vicini sul lato
fisico ma non ancora del tutto per quanto riguarda quello emotivo, ma ci stanno
arrivando. E Joel, che inizialmente sembrava essere la cosa che li avrebbe
separati fin da subito (visto l’odio di Johanna per i bambini) sta finendo per
essere un po’ uno dei collanti principali che li lega assieme.
E niente! Ringrazio davvero tanto chiunque avrà il
coraggio di fare una visitina qui. Nonostante abbia brutalmente ignorato questa
raccolta per mesi, ci sono davvero affezionata, un po’ per il tema trattato e
un po’ perché la canzone che mi ha ispirato è una di quelle in cui mi
rispecchio di più. Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e ci sarà un gran bel
salto indietro nel tempo, perché si parlerà della nascita di Vick! A fare
comparsa sarà tutta la famiglia Hawthorne (meno Posy, patatroccola,
perché ovviamente non era ancora nata!)
Un abbraccio e a presto!
Laura
[1] Sapheen è la mamma di Joel. Ha avuto una
storia di diversi anni con Gale, ma per una lunga serie di ragioni, quando è
rimasta incinta ha deciso che avrebbe tenuto il bambino solo se ne sarebbe
preso carico lui; in un certo senso ha scelto la carriera alla famiglia (è un
soldato, nel periodo in cui è ambientata questa storia occupa un posto di
rilievo nella neonata Accademia di Aeronautica Militare del Distretto 5).
[2] Questo
scambio di battute fra Gale e Katniss è tratto dalle primissimo capitolo di Hunger Games.