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Autore: Alexiel Mihawk    01/02/2016    4 recensioni
«E tu sei felice?» domandò il bambino «Perché Havamama dice sempre che la villa sulla collina è una grossa gabbia e tu sei come un uccellino».
«Ma quella è casa mia» gli fece notare Hina con ovvietà.

Hina è l’unica figlia di una famiglia nobile, cresce in una grande villa su una collina, e viene educata come un’aristocratica, quindi è molto colta ed estremamente intelligente e diligente; il suo problema è che cresce sola e non ha amici. Quando ancora è una bambina conosce Smoker, un ragazzino con qualche anno più di lei, cresciuto in mezzo a una strada e praticamente adottato da metà delle persone della città. Inizia a frequentarlo e a seguirlo nelle sue scorribande, fino a diventare inseparabili; in seguito ad alcuni avvenimenti decidono di arruolarsi ed entrano in marina, dove inizia il lento percorso che li porterà ad essere i personaggi che conosciamo.
[Smoker/Hina]
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hina, Smoker
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: Questa storia è stata scritta per il BigBang Italia #7.
Il word building di Oda è variegato e include un miscuglio di culture e tradizioni diverse, ho cercato quindi di mantenere questo tratto secondo me fondamentale inserendo personaggi dai background culturali diversi. Ho provato inoltre ad evidenziare alcune cose che mi hanno sempre lasciata perplessa di questo mondo come la più totale assenza di un sistema scolastico o i problemi stessi che ci sono nell'ordine della marina. Siccome uno dei personaggi usa termini Yiddish nelle note qui sotto trovate le traduzioni, mi piaceva l'idea di creare un contrasto tra la famiglia fortemente cattolica di Hina e l'ambiente in cui invece cresce Smoker.
Ogni capitolo prende il nome da una parola Giapponese che racchiude un concetto.
1) Mono no Aware, lit. "il pathos delle cose", la leggera malinconia che si prova per la caducità delle cose e la consapevolezza della tristezza dell'esistenza.
Altri nomi degni di nota presenti in questo capitolo:
Okabe, il cognome della famiglia di Hina, significa "sezione della collina", in riferimento alla posizione della casa.
Natsukashii, adj. riferito ad alcune piccole cose che ti riportano alla mente, con gioia sottile, momenti piacevoli, non con un senso di malinconia per ciò che è passato, ma con un senso di apprezzamento per i bei momenti trascorsi
Tatemae, ciò che una persona pretedente di credere: i comportamenti e le opinioni che bisogna mostrare per soddisfare le domande della società
Havamama, da Eva + Mama, in riferimento alla donna che fu la prima madre e di conseguenza la madre dell'uomo, in questo caso una madre per chiunque ne abbia bisogno.
Traduzione dei termini Yddish:
Bubbeh, nonna
Bubala, piccolina/cara
Luzzem, lasciala stare!
Hockstetter, rompiscatole
Dybbuk, fantasma/spirito maligno
Narrishkeit, sciocchezze
Shayner, attraente
Shiksa, ragazza/donna gentile
Klutz, goffo
Schmeckle, pene piccolo
Pisher, piscia a letto/persona giovane e inesperta
Putz, volgare per pene (spesso riferito agli stupidi)
Ashknaz, un modo per indicare il linguaggio Yddish
Ess, mangia!
Hak mir kayn chaynik, smettila di borbottare come una teiera
A messa mashee afdeer, una morte orribile a te!
Antloyfn, correte/scappate
Ikh hob dir in drerd, vai all’inferno
geh gesund, addio – letteralmente “Vai in salute”

La storia è già completa, è composta da 5 capitoli ed è stata originariamente postata a Novembre scorso su AO3 - verrà aggiornata una volta a settimana, con conclusione il 29 Febbraio.


Double Exposure


There are friendships imprinted in our hearts that will never be diminished by time and distance. – Dodinsky, In the garden of thoughts


1. Mono no aware.

La casa sorgeva sulla collina da almeno duecento anni. Mura bianche e persiane verdi, un tetto di mattoni rossi, edera rampicante sulla parete sud e un vasto giardino, era questa la proprietà degli Okabe: una villa d’epoca trasmessa di generazione in generazione. I proprietari possedevano terreni su tutta l’isola; erano una famiglia di commercianti e l’attuale capofamiglia, Hideaki Okabe, era dedito principalmente alla compravendita di oggetti d’arte. Sua moglie, una donna tranquilla dai capelli rosa e l’aria annoiata, trascorreva le sue giornate con quelle che potevano considerarsi le mogli nullafacenti dei politici di Natsukashii Town, la cittadina più grande dell’isola di Tatemae; si erano conosciuti a Karate Island, nel South Blue, dove Hideaki aveva dichiarato di essersi follemente innamorato dello sguardo scettico e della personalità decisa di Natsuki. Non che le donne dell’isola fossero rimaste soddisfatte della sua scelta, molte di loro avevano messo gli occhi sul figlio degli Okabe fin dall’adolescenza, e se l’erano viste soffiare sotto il naso da una straniera, una straniera che sulla loro isola non faceva che guardare tutti dall’alto in basso e annuire anche di fronti ai discorsi più noiosi.
Poi, però, era nata la bambina.
Sua madre aveva scelto di unire le iniziali dei loro nomi e l’avevano chiamata Hina; occhi tanto scuri da sembrare neri, proprio come suo padre, e capelli rosati a contornare un viso delicato, in breve la principessina della collina aveva conquistato l’intero villaggio, e poco importava che i suoi genitori, timorosi dei rischi che avrebbe potuto incontrare all’esterno, la tenessero quasi segregata in casa: tutti in paese adoravano la bambina, ma solo pochi l’avevano vista.
La verità era che la gran parte della colpa era imputabile a Natsuki che, dopo essersi trasferita sull’isola, aveva lentamente iniziato a spegnersi; dapprima sinceramente innamorata del marito, si era dimostrata disposta a modificare in toto il suo stile di vita, abbandonando ogni cosa pur di seguirlo. Solo il seguito si era resa conto di cosa volesse veramente dire essere la signora Okabe, circondata da lussi e dall’alta società di Natsukashii, ma priva quasi completamente della compagnia dell’uomo che aveva sposato, spesso troppo preso dalle sue attività di lavoro e costantemente in viaggio. Quando Hina era nata, Natsuki era già sposata da tre anni e si era lasciata trascinare nel vortice ozioso di feste e visite di cortesia che scandivano la vita delle signore della città alta; le attenzioni che aveva dedicato alla figlia erano piano, piano scemate, fino a trasformarsi in semplici contatti e incontri organizzati ogni mattina a colazione e durante le cene di famiglia (le volte in cui gli impegni sociali non la chiamavano a uscire). Non è che la signora Okabe non amasse sua figlia, semplicemente, senza che nemmeno lei se ne rendesse conto, aveva lasciato che l’aria spessa di Tatemae l’avvolgesse nelle spire di una quotidianità che fino a qualche anno prima avrebbe disprezzato.

Hina era seccata.
Strinse le piccole mani sottili sul bordo della gabbia, abbassando leggermente lo sguardo sulle punte dei piedi; in realtà non era proprio sicura che quello che provava fosse fastidio, quanto più una spiacevole sensazione di disagio e inadeguatezza, causata da quegli occhi indagatori e dallo sguardo sprezzante di quel ragazzino sporco.
Tuttavia sua madre lo diceva sempre quando aveva bisogno di darsi un tono “Che seccatura”, e Hina era così abituata a sentirglielo dire (Che seccatura il nuovo progetto di costruzione, che seccatura la festa a casa del sindaco, che seccatura la moglie del comandante) che si era convinta fosse lo stato d’animo migliore da adottare quando ci si trovava in situazioni spiacevoli, quelle brutte volte in cui non sai che pesci pigliare.
Così cercò di farsi coraggio, senza avvicinarsi troppo, perché quel ragazzino puzzava e c’era del fango sui suoi capelli, e quel cane che si portava appresso avrebbe potuto morderla, e cosa avrebbe detto suo padre se si fosse sporcata il vestito? Dicevamo, così si fece coraggio e gli rivolse la parola.
«Hina è seccata» mormorò piano, senza osare guardarlo negli occhi, pur rendendosi conto che questo non rispondeva assolutamente alla domanda che il giovane le aveva posto poco prima.
Le si era avvicinato comparendo dal nulla, osservando dall’alto in basso il suo fisico minuto, il suo vestito costoso e la gabbia con gli uccellini che stringeva tra le mani; doveva avere all’incirca la sua età, al massimo un paio di anni di più. Si trascinava sulla spalla una vecchia mazza di legno, grossi chiodi arrugginiti spuntavano da un’estremità e la bambina si domandò se le incrostazione che vedeva fossero macchie di sangue. Aveva un grosso cerotto sulla tempia sinistra e il viso pieno di graffi, come quello di qualcuno che è appena stato coinvolto in una rissa.
Hina si era persa; nonostante le fosse stato proibito di uscire dalla villa di famiglia da sola, quella mattina aveva deciso che voleva vedere se al mercato vendevano qualcosa per medicare le ali di Bianca, una delle colombe che sua madre le aveva regalato qualche mese prima, che si era ferita contro una delle sbarre della voliera. Così era scivolata fuori dalla porta delle cucine ed era riuscita a uscire dal cancello secondario del giardino senza che nessuno la notasse; poco pratica della vita cittadina, si era persa in breve tempo, ritrovandosi a girare senza meta, con una vaga sensazione di ansia alla bocca dello stomaco.
Era stato al limitare della città che aveva incontrato quel ragazzino, che l’aveva fissata per qualche momento prima di avvicinarsi e domandarle se si fosse persa.
«Ti chiami Hina? Capisci quello che dico o sei torda? Ti sei persa?»
Fece un passo verso di lei e quindi contorse il viso in una smorfia strana nel vederla indietreggiare leggermente e annuire con foga.
«Non ti faccio mica niente, cosa credi! Mi chiamo Smoker» disse appoggiando per terra l’arma di fortuna e sedendosi di fronte a lei «Lui è Chaser, il mio migliore amico».
Il cane, un piccolo bastardino bianco sporco, abbaiò, cominciando a scodinzolare nel sentire il suo nome, sedendosi a fianco del suo padrone.
«Non ho mica paura che tu mi faccia qualcosa, guarda che sono grande!» esclamò vagamente piccata, sedendosi compostamente di fronte a lui e stringendosi al petto la gabbia con la colomba.
«Se eri davvero grande mica ti perdevi, io sono grande» le fece notare l’altro, senza smettere di fissarla, calcando con particolare rilievo su quell’ “io”.
«Ma se hai sbagliato tutti i verbi…»
«Cosa vuol dire! Mica se so i verbi allora non sono grande! Io non mi perdo, ho otto anni!»
«Io ne ho solo sei, ma i verbi non li sbaglio» continuò la bambina convinta, sentendosi un po’ meno intimorita dall’ignoranza del suo compare.
«E io che volevo aiutarti! Arrangiati, tu e il tuo stupido uccello».
«Bianca non è stupida, sa fare un sacco di cose!»
«Sa dare la zampa?»
«No, beh –»
«Sa stare seduta?»
«No, ma –»
«Sa fare il morto?»
«No».
«Cos’è che sa fare?»
«Sa volare» mormorò piano la bambina sentendosi quasi stupida nel dirlo.
«Ma è in una gabbia!» protestò Smoker.
«La voliera a casa è più grande di così, tanto più grande, grandissima».
«Sarà grande quanto ti pare, ma rimane sempre una gabbia».
«Hina non è d’accordo» borbottò la bambina con una smorfia.
«Perché lo fai?» le chiese improvvisamente il ragazzino aggrottando le sopracciglia.
«Cosa?»
«Perché inizi le frasi col tuo nome?»
«Si dice terza persona, e mio padre lo odia» asserì Hina «Ho iniziato l’anno scorso per fargli un dispetto, ma ho deciso che mi piace».
Il bambino sembrò pensarci un attimo, quando finalmente gli sembrò che la motivazione fosse sensata tornò a guardare la compagna.
«E cos’è che ci fai qui se ce l’hai un papà?»
«Volevo andare al mercato» ammise lei «Ma non sapevo dove fosse».
«Tutti sanno dov’è! Come fai a non saperlo? È tipo nel mezzo della piazza grande».
«Hina non esce molto spesso» si giustificò «Mia madre dice che è pericoloso».
«Beh, tua mamma non sa proprio niente! La vedi questa? È la mia super mazza, ci tengo lontana la gente, con me non ti succederà niente».
«Ma se non ci dovrei nemmeno parlare con te! Non ti conosco, e stai sanguinando» disse senza alcuna inflessione nella voce, indicandogli un taglio sopra la tempia.
«Ho fatto a botte con dei ragazzini al molo».
«Come mai?»
«Occupati delle cose tue!»
«Hai fatto qualcosa di cattivo?»
«No!» protesto con forza il bambino, saltando in piedi irritato che lei avesse anche solo potuto pensarlo.
«E allora cosa?»
«Mi hanno chiamato bastardo».
«Che cos’è un bastardo? È una di quelle parole che non si devono dire?»
«È una cosa brutta, tipo che mia madre non mi voleva e non sapeva chi fosse mio padre e per questo i miei genitori mi hanno abbandonato. Ma cosa vuoi capirne tu, si vede che tu una famiglia ce l’hai».
Hina fissò intensamente l’uccello in gabbia, osservandone i movimenti e ammirandone il piumaggio candido.
«Ed è vero?» chiese senza sollevare lo sguardo.
«Cosa?»
«Che sei un bastardo».
Negli occhi di Smoker passò un lampo di rabbia, ma si rese presto conto che non c’era disprezzo nella voce della bambina, né alcuna traccia di cattiveria.
«Non so chi fosse mio padre» ammise infine tornando a sedersi «E non so nemmeno se mia mamma lo sapeva, è morta tempo fa».
«Se è morta non ti ha abbandonato, anche se loro te lo dicono. E poi potresti benissimo esserlo –»
«Ehi!»
«Così come potresti non esserlo, giusto?»
«Io, beh immagino di sì».
«Quindi perché te la prendi?»
«Perché mi stanno insultando, mi pare chiaro».
«Ma è stupido, se è vero è vero, se non è vero che ti importa?!»
Smoker rimase leggermente interdetto a fissarla.
«Te lo dicono apposta per farti adirare e poterti picchiare».
«Cosa vuol dire adirare?» domandò il bambino, aggrottando le sopracciglia.
«Quando te la prendi per le cose».
«Come arrabbiarsi?»
«Sì, ma il mio precettore dice sempre che solo i cani si prendono la rabbia e non è un termine adatto a una signorina di buona famiglia».
«Cos’è un precettore?»
«È il mio insegnante, quello che mi insegna a leggere e a scrivere. Trascorro quattro ore assieme a lui ogni giorno, non è molto interessante, ma mi piace tanto quando mi racconta del grande blu».
«Sai leggere?»
«Certo che sì, tu no?» Smoker abbassò lo sguardo, imbronciato, il suo volto trasformato in una smorfia che alla bambina non sfuggì «Non sai nemmeno scrivere, vero?»
«Tanto mica mi serve».
«Certo che ti serve, la mia mamma dice che sono cose che tutti dovrebbero saper fare e che è colpa del governo che non ci pensa».
«Senti a me mica importano quelle cose lì, però…»
«Cosa?»
«Pensi che se ti riporto a casa posso ascoltarle anche io le storie del grande blu?»
Hina storse il naso e squadrò il bambino dall’alto in basso.
«Prima però ti devi pulire» decise «E ti devo insegnare a parlare».
«Io so parlare» protestò Smoker.
«Ma non sai coniugare i verbi».
«Al diavolo!»
«E dici le parolacce» si interruppe per qualche momento «E laveremo anche il tuo cane».
Si sollevò in piedi, avvicinandoglisi finalmente, oramai priva di qualsiasi paura e gli allungò una mano, mentre con l’altra teneva stretta la gabbietta di Bianca; Smoker sorrise appena e accetto l’offerta, rialzandosi e iniziando a tirarsela dietro in direzione di qualcosa che solo lui conosceva.
«Ma non ti ho detto dove abito».
«Oh beh, Havamama lo saprà di sicuro. Lei sa sempre tutto» esclamò il bambino incamminandosi con decisione.

Havamama era un donnone alto come un armadio e largo come una porta, la sua pelle era scura più dell’ebano e quando sorrideva una fila di denti bianchi illuminavano il viso segnato dal tempo. Aveva vissuto a Natsukashii tutta la sua vita e si ritrovava con una casa troppo grande, un marito morto dieci anni prima e nessun figlio; gestiva un piccolo negozio di alimentari in cui non entrava quasi nessuno, eppure Havamama andava avanti, sembrava invecchiare con la città, seguendo il ritmo delle stagioni e osservando con aria impassibile il ricambio delle persone. Nessuno avrebbe saputo dire quanti anni avesse, né da quanti anni – o forse secoli – fosse sull’isola, certo era che quel donnone corpulento dal sorriso gentile, aveva trasformato la sua casa in un centro per i giovani orfani della città e innumerevoli erano stati coloro che erano passati sotto le sue mani materne e il suo abbraccio gentile.
Smoker era uno di questi bambini, senza casa, senza famiglia, solo con sé stesso, diffidente nei confronti del mondo; erano in pochi, nella sua generazione, i bambini che non erano riusciti a trovarsi qualcuno che li adottasse, ma nessuno voleva prendersi in casa un ragazzino dall’aria ribelle e violenta. Si diceva di lui che attaccasse briga con i bambini più grandi al porto per rubar loro i soldi del pranzo, che non si lavasse mai e che avesse le pulci, dicevano anche che sua madre era una prostituta, una poco di buono che aveva vissuto nella zona industriale della città prima di morire di malattia; solo Havamama lo aveva accolto, lo faceva dormire a casa sua nelle notti troppo fredde e gli dava da mangiare quando nessuno degli altri abitanti della città trovava tempo da dedicargli (ma c’era da ammettere che spesso le donne della città gli lasciavano degli avanzi o lo accoglievano per la merenda).
«Vieni da Bubbeh» gli diceva ogni volta che lo vedeva avvicinarsi, allargando le grosse braccia grassocce come a volerlo abbracciare; Smoker si lasciava catturare per qualche secondo salvo poi sottrarsi a quella stretta materna, lamentandosi di essere troppo grande per certe cose.
Quel giorno, però, quando la donna lo vide arrivare non spalancò le braccia e non aprì bocca, osservando incuriosita la bambina minuta che camminava al suo fianco; occhi scuri e capelli rosati, una gabbia stretta al petto e una mano chiusa in quella di Smoker. Hina sembrava essere uscita da un quadro ed era chiaro che provenisse da tutt’altro ambiente: con i suoi capelli puliti e i vestiti dalla finitura elegante si distingueva nettamente dagli abitanti della periferia nord della città.
«Havamama lei è Hina, Hina lei è Havamama».
«Molto piacere di fare la sua conoscenza signora» mormorò Hina a mezza voce chinando appena il capo e stringendo solo leggermente più forte la sua gabbietta.
La donna scoppiò a ridere, una risata calda e corposa che riempì la strada.
«Una piccola Bubala ti sei trovato Smoker, proprio carina, sì. Sei una bella signorina, Bubala, lascia che Havamama te lo dica, proprio bellina, sì».
«Grazie signora» balbetto la bambina, intimorita da quello strano modo di parlare.
«Ma dovresti stare a casa tua, Bubala, dove stanno i ricchi. Con quei capelli lì, Havamama sa dove dovresti stare, sì che lo sa. Nella casa sulla collina. Smoker, dove l’hai trovata?»
«Si era persa, Havamama».
«Ti eri persa, piccina? Vieni da Havamama, hai sete? Hai fame? Venite, venite in casa, piccini».
Smoker mollò la mano di Hina e seguì la donna oltre l’uscio, per poi riaffacciarsi con aria interrogativa nell’accorgersi di non essere seguito.
«Ti spicci? Vuoi mica che quelli del porto vengano a portati via?»
«Luzzem, Smoker! Piccolo hockstetter che non sei altro!» lo redarguì Havamama, urlando dal fondo di una stanza.
«Sei noiosa, Bubbeh» borbottò il bambino per risposta, trascinando Hina all’interno e facendola sedere senza tante cerimonie su una vecchia sedia di paglia.
«Noiosa io? Come ti permetti?! Piccolo ingrato! Vai a prendere dell’acqua piuttosto, non vorrai mica che la nostra ospite muoia di sete, vero?»
«La ringrazio» mormorò Hina torcendo i piccoli piedini uno sull’altro «Ma non è necessario, io vorrei solo tornare a casa».
«Mi chiedo, però, piccola Bubala, se tu abbia idea di dove sia casa».
Hina abbassò lo sguardo e arrossì leggermente, sua madre le aveva sempre insegnato che dire le bugie era sbagliato, però ammettere di non avere idea di dove si trovasse le costava più di quanto pensasse possibile; non che a soli sei anni avesse idea di cosa fosse l’orgoglio, ma già andava imparando, al contrario di Smoker, che non sarebbe riuscito a capirlo per molti anni, che non l’avrebbe portata da nessuna parte.
«No, Havamama, non lo so dove sia casa».
«Ah! Lo sapevo, e ora i dybbuk verranno a prenderti!»
«Che cos’è un dybbuk?»
«Sono fantasmi cattivissimi di gente morta e ti rubano il corpo e te lo mangiano da dentro» continuò imperterrito Smoker, appoggiandosi con aria saccente alla sua mazza chiodata.
«Narrischkeit!» esclamò Havamama, mollandogli un leggero scappellotto sul capo «Non preoccuparti, Bubala, ora questo piccolo stupido ti riporterà a casa. Nella casa sopra la collina, Havamama sa bene chi sei. Tutti in paese sanno chi sei, Bubala».
Le appoggiò dolcemente una mano sui capelli, in una carezza leggera e le sorrise.
«Torna a trovare Havamama, la prossima volta vi farò i biscotti».
La grande villa era insolitamente silenziosa e a prima vista sembrava quasi che non ci fosse nessuno; Hina mancava da quasi tre ore e dubitava che in quel lasso di tempo nessuno si fosse accorto della sua assenza.
«Hina pensa che dovresti restare qui» borbottò osservando con aria perplessa il giardino deserto.
«Hai detto che potevo sentire le storie» si lamentò Smoker con una smorfia di disappunto sul viso.
«Sì, domani. Vedi quel punto lì della porta?» domandò indicando due assi del portone che sembravano fissi «Se li sposti di lato si aprono, ma devi stare attento perché tipo ci passano quelli che lavorano e se ti vedono ti mandano via e tu» concluse indicando Chaser «Non puoi proprio entrare, devi aspettare qui fuori, capito?»
«Perché no?»
«A mio padre non piacciono gli animali, a Hina sì, però lo caccerebbero via e si accorgerebbero di te».
«Tuo padre è un idiota» berciò Smoker appoggiandosi al muro di cinta della proprietà.
«Non si dicono quelle cose» lo ammonì la bambina «Però se vieni qui domani mattina, ti faccio entrare di nascosto così puoi sentire le cose che mi dice il mio precettore».
«E mi farai entrare davvero?»
«Certo che sì, le signorine di buona famiglia non le dicono le bugie, non lo sai?»
Hina spostò le assi ed entrò silenziosamente all’interno del cortile, si girò solo una volta a guardare Smoker, le mani strette sulla gabbia di bianca, un sorriso lieve stampato sul viso.
«Hina ti aspetta, allora».
Le assi si chiusero dietro di lei e Smoker udì solo i passi veloci che si allontanavano lungo il sentiero di ciottoli oltre la porta, sollevò le spalle e si allontanò insieme a Chaser, se non avesse avuto il capo chino, a osservare dove metteva i piedi, i passanti avrebbero potuto vedere il sorriso sincero che gli percorreva il volto.

Nel momento stesso in cui Hina rimise piede in casa, aveva già deciso che avrebbe accettato di buon grado qualsiasi punizione i suoi genitori avrebbero ritenuto più appropriata, visto il suo comportamento del tutto irresponsabile; tuttavia, le sue attese rimasero quasi deluse.
Ad accoglierla, con sguardo sollevato, c’era solo il suo precettore, un anziano signore nato e cresciuto a Tatemae che aveva fatto da insegnante anche a suo padre quando era giovane; l’uomo le venne incontro con aria preoccupata e l’abbracciò di slancio.
«Sia ringraziato il cielo!»
La bambina barcollò leggermente sotto il peso di quell’abbraccio inaspettato.
«Ho quasi perso dieci anni della mia vita, signorina! Hai idea di che spavento tu ci abbia fatto prendere?» esclamò il vecchio «Anna! Vai ad avvisare le cameriere che l’ho trovata».
«Hina è dispiaciuta» mormorò piano, abbassando lo sguardo per la vergogna.
«Meno male che i tuoi genitori non erano in casa! O sai adesso che punizione ti aspetterebbe?! Si può sapere cosa ti è saltato in testa, bambina?»
La vide rimanere interdetta per qualche secondo, piegare il viso di lato e trattenere il respiro.
«Bianca. Volevo solo andare a prendere qualcosa per la sua ala».
«Domani faremo venire il veterinario, ora fila in camera, prima che qualcuno si accorga che eri sparita!»
Annuì e, senza lasciare la gabbietta, corse precipitosamente su per le scale, fino alla stanza della voliera, dove entrò di filata, lasciando che la porta sbattesse leggermente al suo passaggio. Non sapeva bene cosa fosse quella sensazione opprimente che provava nel centro della pancia, non che volesse davvero che i suoi genitori si preoccupassero e stessero male come era accaduto al vecchio Jisho, però la consapevolezza che non si fossero nemmeno accorti della sua scomparsa le risultava inaspettatamente dolorosa.
Quando sua madre venne a rimboccarle le coperte, quella sera, gli occhi di Hina non si staccarono mai per un secondo dalla sua figura, finché la donna roteando gli occhi non borbottò: «Non è educato fissare le persone, tesoro, qual è il problema?»
«Se sparissi saresti triste?» domandò la bambina senza mostrare nessuna emozione, il suo viso era una miniatura di quello di Natsuki, altrettanto impassibile.
«Che seccatura» la donna si passò una mano tra i capelli rosa, ravvivandoli e spingendoli all’indietro, quindi si sedette sul bordo del letto della figlia e la osservò per qualche istante prima di rispondere «È una domanda stupida e ti meriteresti una risposta stupida, ma so che non mi lascerai uscire da qui finché non ti darò una risposta soddisfacente».
La vide annuire e quindi proseguì.
«Se Bianca volasse via saresti triste?»
Sua figlia annuì di nuovo.
«Hina per me tu sei come Bianca, e se volassi via o ti allontanassi da me, sarei davvero molto, molto triste. Per questo preferisco che tu rimanga in casa o in giardino, non sai mai chi potresti incontrare fuori, e sei ancora piccola, spariresti in fretta».
«Hina non è sicura di capire».
«Hina capirà, vedrai. E non frati sentire da tuo padre con questa terza persona, sai che non lo sopporta».
Natsuki le appoggiò una mano sul capo, scompigliandole leggermente i capelli, non si chinò a baciarla per evitare di lasciarle il segno di un rossetto troppo rosso sulla fronte.
«Buona notte, cara».
Per Hina quella non fu una buona notte.
Il giorno successivo attese con crescente trepidazione di vedere le assi di legno del portone di servizio spostarsi leggermente, fu la prima volta che si accorse di aspettare con ansia un avvenimento; normalmente la sua vita veniva scandita dal trascorrere di ore sempre uguali, tra lezioni noiose e prove di etichetta, persino la stanza dei giochi le era venuta a noia. Hina iniziava a desiderare di vedere il mondo, scoprirlo. Il pomeriggio precedente i suoi occhi si erano posati su una moltitudine di nuovi luoghi, nuove persone, nuovi eventi. Non aveva mai visto nessuno come Havamama prima, né era mai stata in una zona di periferia, a dire la verità non aveva mai nemmeno visitato Natsukashii.
Quando Smoker infilò il naso nello spiraglio e si guardò intorno, Hina trattenne un leggero gridolino di entusiasmo e gli fece cenno, da una delle finestre, di entrare; lo andò a prendere passando per la porta delle cucine, utilizzando il portavivande al posto dello scalone principale e allo stesso modo lo fece salire al piano superiore.
Smoker non aveva nessuna mazza con sé quel giorno, non aveva portato Chaser e a giudicare dal colore del suo viso doveva anche essersi lavato.
«Certo che devi proprio essere ricca».
«Jisho sensei dice che ai tempi di mio nonno noi Okabe eravamo più ricchi, ma che poi c’è stata una spropriaqualcosa e abbiamo perso dei terreni».
«Una spropriache?»
«Non lo so, cose da adulti» lo liquidò la ragazzina a cui il concetto di espropriazione dei beni non era per nulla chiaro «Senti, lo vedi quell’armadio lì?»
Smoker annuì fissando un grosso mobile bianco a due ante; lo aprì delicatamente, osservando la pila di coperte dall’aspetto morbido impilate su un lato.
«Ti ci puoi sedere sopra, se vuoi. Hina pensa tu sia pulito abbastanza da non sporcare niente» disse la bambina «E di là ci sono gli scaffali e non ti ci puoi mettere».
«E se qualcuno ci guarda dentro?»
«Ma nessuno ci guarda mai dentro! Solo quando rifanno i letti il lunedì!»
Smoker non fece in tempo a protestare che Hina lo spinse dentro quasi a forza, udendo in fondo al corridoio il fischiettare del suo precettore che si avvicinava.
«Non fare rumore, ti faccio uscire dopo» sussurrò piano accostando l’anta in modo tale che rimanesse un leggero spiraglio aperto.
«Hina-chan, stavi parlando da sola?» domandò il vecchio entrando nella stanza «Sai che tuo padre disapprova».
La bambina non rispose e si sedette su una sedia, un po’ troppo grossa per la sua taglia, posta di fronte a una grossa scrivania ordinata, su un lato una pila di quaderni, sull’altro un calamaio e tre penne stavano ordinatamente disposti in attesa di venire utilizzati.
«Vediamo un po’, di cosa posso parlarti oggi?»
«Hina vorr- Vorrei sentire qualche storia sulla rotta maggiore» disse la bambina, correggendosi appena in tempo «Per favore».
«Dovremmo fare qualche esercizio di calligrafia e non ho ancora finito di parlarti delle isole del mare orientale».
«Per favore Jisho sensei, per favore» insistette Hina, e l’uomo in parte si lasciò convincere perché era davvero raro che quella bambina facesse richieste così precise e con così tanta insistenza, così si sistemò sulla larga poltrona di fronte a lei e iniziò a raccontarle.
«La rotta maggiore, non credere che aldilà della Reverse Mountain il mondo sia tanto diverso, bambina, ci sono isole e ci sono paesi, ma la gente è sempre la stessa. Ti ricordi cos’è la Reverse Mountain, vero Hina?»
«È una grossa montagna che si trova dove i quattro mari si incontrano e da lì si può entrare nella rotta maggiore».
«Esatto, quando sarai più grande ti spiegherò il concetto di corrente e come funzionano quelle del nostro mondo, per ora basti sapere che la Rotta Maggiore è una grande parte di mare che attraversa il mondo in orizzontale».
L’uomo prese una mappa e tracciò quattro lunghe linee parallele.
«Queste ai lati sono le fasce di Bonaccia, prova a scriverlo, forza».
Hina obbedì, mentre il suo precettore riprendeva a parlare.
«La Rotta Maggiore si estende lungo tutta la superficie del globo ed è disseminata di isole di dimensioni diverse. Si dice che su alcune di queste isole esistano regni antichi come il mondo».
«Che esistevano ancora prima della grande guerra?»
«Certo che sì, bambina. Tuo padre stesso ne ha visitati alcuni, il regno di Alabasta è antico almeno quattromila anni, ma se tutte queste cose ti interessano potresti farti portare, quando sarai più grande, sull’isola di Ohara».
«Cos’è?» domandò perplessa Hina.
«Solamente un’isola nel mare occidentale, abitata da studiosi e scienziati. Lì sì che ti racconterebbero delle belle storie!»
«Posso sentire quella di Noland il bugiardo?»
«Pensavo la sapessi a memoria» rise il vecchio, iniziando però a raccontare.
Quel giorno fu il primo di una lunga serie in cui Hina iniziò a fare richieste strane quanto precise riguardo alle storie che voleva le venissero raccontate. Ben presto lei e Smoker trovarono un equilibrio, il ragazzino si intrufolava in casa verso le dieci, nascondendosi nell’armadio, Hina cominciava la sua giornata di studio con le lezioni pratiche: la scrittura, la calligrafia, i vocaboli, la matematica. Poi passava a farsi raccontare la storia del mondo, delle singole isole, si faceva leggere libri e raccontare leggende e Smoker, seduto comodamente sulle coperte, ascoltava perdendosi con l’immaginazione in posti che era sicuro non avrebbe mai visitato.
La loro strana routine andava avanti da quasi un mese quando, finalmente, riuscirono a trovare un modo per far sgattaiolare Hina fuori di casa nel pomeriggio. Ogni giorno, tra le quattro e le sei, la casa sembrava svuotarsi; i genitori di Hina erano sempre fuori, il professore si ritirava nelle sue stanze a riposarsi in attesa della cena, le cameriere iniziavano a lavorare indaffarate ai preparativi per il rientro dei padroni di casa. Così la bambina veniva lasciata da sola a giocare nelle stanze vuote o a correre per il cortile; qualcuno aveva fatto notare quanto fosse triste che una piccina di soli sei anni fosse costretta a trascorrere in solitudine quasi tutta la sua giornata, ma a lei non sembrava importare, inoltre con il suo sguardo freddo – proprio come quello di sua madre – e l’aria indifferente non invitava certo gli adulti ad avvicinarsi.
Il trucco per sparire era, avevano scoperto, avvisare sempre di dove si trovava e a cosa avrebbe giocato; così la bambina diceva che sarebbe scesa in cortile a giocare nel boschetto, si portava le bambole, si portava una coperta e lasciava tutto all’ombra di un grosso faggio. Se qualcuno veniva a cercarla un po’ prima del solito e non riusciva a trovarla, Hina fingeva di essersi addormentata dietro a un cespuglio o nel tempietto delle ninfe che suo nonno aveva fatto costruire anni prima.
In questo modo la mattina Smoker imparava cose che non avrebbe mai avuto la possibilità di conoscere continuando a vivere nella periferia, e nel pomeriggio Hina esplorava la città.
Havamama era sempre felice di vederla e l’accoglieva ogni volta a braccia aperte, se Smoker ne era geloso non lo dava a vedere e forse non lo era per niente, anzi, fin troppo spesso Hina lo sorprendeva a osservarla divertito mentre la bambina affondava nell’abbraccio grassoccio della donna, mentre una voce calda le diceva: «Proprio una piccola shayner shiksa questa bubala diventerà, parola di Havamama, e Havamama non sbaglia mai».
Le fece i biscotti, le fece una torta, una volta preparò persino una grossa terrina di quello che chiamò mousse al cioccolato, nessuno dei bambini l’aveva mai assaggiata e finirono con il farne indigestione.
Smoker iniziò a portarla con sé nelle sue scorribande in giro per la città, anche se spesso la bambina rimaneva seduta a guardare mentre lui faceva a botte; non avrebbe mai saputo da dove cominciare a tirare un pugno, inoltre sembrava doloroso e sarebbe stata una vera seccatura se avesse dovuto spiegare a suo padre come mai sul suo vestito c’era del sangue.
Fu un giorno di luglio, caldo come pochi altri, che, finalmente, quella che era stata soprannominata dagli altri bambini “La principessina del porto” si gettò nella mischia e ne uscì trionfante.
Smoker era stato attirato in una rissa con l’ennesimo pretesto stupido e lui, orgoglioso come sempre, ci era cascato con tutte le scarpe. Aveva lasciato da parte la mazza chiodata e si era gettato a pugni chiusi su due bambini più grandi di lui di due anni, iniziando a riempirli di pugni; forse avrebbe anche potuto avere la meglio se, proprio a metà della loro lotta, non fossero sopraggiunti altri mocciosi a dar loro manforte. Hina non apprezzava particolarmente quelle scene, trovava stupido picchiarsi per una cosa simile – e quel giorno era bastato stuzzicare di nuovo Smoker su sua madre – e finiva sempre con il rimanere in disparte consapevole che gli altri ragazzini non l’avrebbero mai toccata perché, anche se nessuno osava dirlo ad alta voce, avevano tutti ben chiaro chi fosse suo padre.
Quel giorno, però, proprio mentre Smoker veniva violentemente buttato a terra e un pugno si infrangeva sul suo naso già rotto, qualcuno disse qualcosa di troppo, qualcosa che suonava come: «Tua madre è morta per colpa tua e ora morirà anche Havamama! Ucciderai Havamama! Ucciderai Havamama!»
La cantilena assunse un tono canzonatorio, quasi profetico e Hina non ci pensò nemmeno due volte a saltare in piedi, lisciarsi il vestito, afferrare la mazza di Smoker e dirigersi silenziosamente verso il gruppetto. La mazza pesava, un po’ troppo per una bambina con un fisico minuto come il suo e la piccina si trovò a trascinarsela dietro per un tratto, finché non fu abbastanza vicina da sollevarla e rotearla sopra la sua testa, colpendo la schiena di uno dei ragazzini e il braccio di un altro.
«Se non la finite ve la lancio sulla faccia» disse senza cambiare espressione, mentre i due bambini colpiti scoppiavano a piangere cercando di toccarsi là dove i chiodi arrugginiti della mazza erano penetrati della pelle e l’avevano strappata.
Il più grande del gruppo sgranò gli occhi e indietreggiò leggermente, più per la sorpresa di quell’intervento inconsueto che per un reale spavento; tanto bastò a Smoker per rimettersi in piedi, prendere gentilmente la mazza dalle mani di Hina e brandirla minacciosamente.
«La mia mamma dice che non si augura mai la morte a nessuno» continuò la bambina tranquillamente «O i demoni verranno a mangiarvi i piedi».
«I demoni?» domandò un bambino perplesso.
«I dybbuk» precisò Smoker avvicinandosi con la mazza «Ma tanto vi ammazzo prima».
«Ferma, ferma, ferma!» esclamò il più grande dei ragazzini, tirando su il fratello da terra «Ce ne andiamo! Ma voi due siete pazzi, pazzi!».
Smoker sollevò le spalle in un moto di indifferenza e si girò verso la compagna di scorribande.
«Grazie, anche se ce la facevo pure da solo».
«Lo so bene» borbottò lei pulendosi le mani nel vestito e avvicinandosi «Ti sanguina il naso».
«Credo sia di nuovo rotto».
«Klutz».

«Si può sapere dove hai imparato certe parole?» domandò suo padre con aria imbronciata.
«Hina le ha sentite in giro».
«Smettila subito, sai cosa ne penso della terza persona, sarà anche popolare tra i bambini, ma non in questa casa, sono stato chiaro?»
«Sì, padre» borbottò la bambina, con un lampo di irritazione che sfuggì all’uomo, ma non a sua moglie che sollevò un sopracciglio con aria sorpresa.
«Ora vuoi dirmi in giro dove?» continuò Hideaki imperterrito.
«Le persone lo dicono».
«No, Hina, le persone non dicono Klutz, sai almeno cosa vuol dire?»
«Credo qualcuno che fa le cose e tipo cade, come Anna quando inciampa nei suoi piedi».
«Beh, ci sei andata vicina, cara» sorrise sua madre sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Non è quello il punto Natsuki! In chiesa non l’hai di certo sentito, nessuno parla quel dialetto e l’ultima persona che ho sentito parlare così era nel distretto Nord quindici anni fa!»
«Il mio amico lo dice spesso» si lamentò la bambina.
«Tu non hai amici!» tuonò suo padre e per qualche istante ogni rumore nella stanza cessò; Hina strinse i pugni e i suoi occhi si piegarono in due fessure, la cameriera rimase con il piatto di portata a mezz’aria e il maggiordomo spalancò la bocca.
«Hideaki!» Natsuki sibilò in direzione del marito lanciandogli un’occhiata di fuoco.
«Non è vero!» balbettò la bambina con gli occhi lucidi.
«Natsuki, per l’amor del cielo! Non può continuare a credere che gli amici immaginari esistano davvero! Come pensi che crescerà?»
«Meglio di te sicuramente!» esclamò sua moglie alzandosi di scatto a inseguire Hina che aveva lasciato la tavola ed era fuggita dalla stanza.
«Che seccatura» borbottò la donna uscendo dalla porta principale, si accese una sigaretta e cercò di capire dove fosse andata a cacciarsi sua figlia. La trovò nel boschetto dietro al tempietto delle ninfe, intenta a lanciare giocattoli contro il muro.
Come la vide arrivare la bambina si asciugò le lacrime con foga, voltandosi a darle le spalle, i piccoli pugni chiusi tremavano leggermente.
«Smoker è reale» mormorò piano.
Sua madre le si avvicinò e si lasciò cadere a sedere ai suoi piedi, facendole con la mano gesto di sedersi accanto a lei.
«Ti credo, sai» disse espirando il fumo della sigaretta «Me ne vuoi parlare?»
«Mi credi davvero?» domandò Hina tirando su col naso «Non sei seccata?»
«Tesoro io sono sempre seccata, un giorno capirai meglio, ma per ora non farci troppo caso. E certo che ti credo, sei mia figlia».
«Grazie madre».

«Grazie Madre».
«Perché continui a chiamarla così? Sai che lo detesta?»
«Stai zitta, Natsuki. Il rispetto va mostrato in ogni occasione».
«Ma lei lo detesta, è freddo, è distante, come se mettessi una barriera tra te e i sentimenti che potresti provare per lei».
«Quali sentimenti dovrei provare? Le dimostro il mio rispetto ogni giorno, non è abbastanza?»
«Sei così pieno di te che nemmeno ti accorgi di ferire la mamma, Sakazuki».
«Non è un problema mio, Natsuki».

«Preferirei che non usassi “madre”» borbottò la donna gettando il mozzicone di sigaretta nel laghetto di fronte a lei.
«Mama?»
«Molto meglio, e non dire a tuo padre che sono io che getto i mozziconi in giro o chi lo sente».
«Lui non vuole che lo chiami papà, però».
«Lui non vuole un sacco di cose, zucchero» disse la donna passandole un braccio attorno alle spalle «Allora, mi parli di questo Smoker?»
Quando Hina si addormentò, si ritrovò a pensare all’abbraccio caldo di sua madre, così raro e così diverso da quello quasi fagocitante di Havamama. Le braccia di Natsuki erano più gentili e le sue mani non avevano calli, né erano segnate dal tempo, era una sensazione strana, come se sua madre le avesse lasciato intravedere una piccola parte di sé, qualcosa che non aveva mai visto prima. Non che all’epoca fosse abbastanza grande per capire davvero.
«Se ti pesco a dire un’altra volta una cosa del genere a nostra figlia giuro su Dio che ti mollo» sibilò quella sera Natsuki entrando nel letto.
«Non capisci, è tempo che cresca» le rispose suo marito, ancora seduto alla scrivania.
«No, Hideaki, sei tu che non capisci. L’uomo che ho sposato non assomigliava a mio fratello».
Nessuno riuscì a dormire quella notte.
Quando, il mattino dopo, Smoker fece il suo ingresso nella villa, Hina aveva gli occhi rossi e gonfi, ma si rifiutò di dirgli cosa avesse fino a pomeriggio inoltrato.
«Scappiamo, se vuoi» le propose mentre assieme osservavano le imbarcazioni che si allontanavano dal porto, le gambe penzolanti oltre il molo.
«No, credo che la mamma ne soffrirebbe. Una volta gliel’ho chiesto e ha detto che starebbe male, come starei io se scappasse Bianca».
«Ma Bianca vive in una gabbia» protestò debolmente Smoker.
«Che cosa vuol dire, lei è felice con me».
«E tu sei felice?» domandò il bambino «Perché Havamama dice sempre che la villa sulla collina è una grossa gabbia e tu sei come un uccellino».
«Ma quella è casa mia» gli fece notare Hina con ovvietà.
«Però non puoi uscire e i tuoi genitori non ti guardano nemmeno».
Hina scattò in piedi, oltraggiata.
«Non è vero, Mama sarebbe triste se andassi via, mi vuole bene».
«Lo dici, ma sai che non è vero» borbottò Smoker, accorgendosi solo vagamente di stare oltrepassando il limite «Non si accorgono nemmeno che esci di pomeriggio, e tuo padre ti tratta sempre malissimo!»
«Stupido schmeckle!»
La vide allontanarsi correndo e si domandò se non avesse esagerato.
Fu Chaser, con un uggiolio di protesta, a incoraggiarlo a seguirla; Smoker si ritrovò a correrle dietro per le strade del porto e poi lungo i vicoli sporchi della città, fino a vederla entrare nella villa attraverso il buco nel muro che avevano scoperto mesi prima. La seguì senza farsi problemi e attraversò silenziosamente il giardino, senza notare gli occhi indagatori che lo scrutavano dalla finestra del primo piano.
Si intrufolò in casa e, dopo essersi guardato attorno con aria circospetta, salì fino in camera di Hina, dove trovò la porta chiusa.
«Aprimi» mormorò bussando appena «Dai! Scusami!»
La bambina non se lo fece ripetere due volte, tanto poteva essere impulsiva a volte, quanto riusciva perfettamente a ragionare razionalmente delle altre.
«Cosa ci fai qui?» sibilò facendolo entrare di fretta.
«Mi dispiace» borbottò Smoker «Non lo pensavo davvero».
«Sei uno schmeckle!» ribadì Hina sorridendo appena, segretamente contenta che l’avesse seguita fino a lì solo per scusarsi «Se ti trovano passerai dei guai».
Non aveva nemmeno finito di dirlo che la voce di sua madre invase il corridoio.
«Hina stai parlando da sola?»
«Di là, di là!» sibilò la bambina indicando la porta comunicante che dava sulla stanza della voliera «No, mamma, lo so che certe cose le bambine di buona famiglia non le fanno».
I capelli rosa di Natsuki fecero capolino dalla porta e la donna osservò con aria indagatrice sua figlia, squadrandola dall’alto in basso, quindi oltrepassò l’uscio e fissò la stanza vuota.
«Mi era sembrato di sentire qualcosa».
Hina abbassò lo sguardo e scosse debolmente la testa, di parlare non aveva forza, era stata abituata a dire sempre la verità e mentire ora le sembrava un affronto troppo grande.
Natsuki sospirò, borbottando tra sé un ennesimo «Che seccatura» e si avvicinò alla figlia, appoggiandole una mano sul capo.
«Sei proprio sicura che non ci sia niente che mi vuoi dire?» domandò ancora.
«Hina ha paura» mormorò piano la bambina.
«Di cosa?» la donna aggrottò le sopracciglia e si piegò fino a raggiungere l’altezza della figlia.
«Di non potere mai più uscire di casa».
Natsuki si morse il labbro inferiore e le prese la mano, trascinandola con delicatezza verso la stanza della voliera; Hina trattenne un moto di panico, ma la seguì, rassegnata al peggio.
E il peggio arrivò davvero, ma non da sua madre.
Erano appena entrate nella stanza dall’ingresso comunicante e sua madre stava sorridendo sorniona, osservando il bambino seduto di fianco alla voliera che la fissava con aria belligerante, quando la porta che dava sul corridoio si spalancò con uno scatto e Hideaki Okabe entrò come una furia nella stanza puntando il dito contro Smoker e iniziando a urlare.
«Tu!» esordì rabbioso «Cosa ci fai in casa mia!?»
Il bambino non rispose, leggermente interdetto e stupito da tutta quell’aggressività.
«Tesoro» ironizzò sua moglie fissandolo di sbieco, senza lasciare la mano della figlia «Così spaventi il nostro ospite».
«Ospite? Sai cosa mi hanno detto giù al porto? Che questo piccolo delinquente ha trovato un modo di girare con nostra figlia! E non so come tu abbia fatto a uscire di qui, signorina, ma ti posso assicurare che non capiterà mai più! Quanto a te… farò in modo che tu venga spedito il più lontano possibile».
«No!» Hina cacciò un urletto e corse ad afferrare la mano del suo migliore, nonché unico amico, lanciando uno sguardo disperato a sua madre e uno carico di lacrime a suo padre «Sarò buona, ma non mandarlo via».
«Tu sei in grossi guai, signorina, ora lascialo andare! O uscirai di qui solamente compiuti i vent’anni!»
Natsuki roteò gli occhi verso l’alto avvicinandosi al muro e accendendosi una sigaretta.
«Hina, che cosa vuoi fare?» domandò con aria severa.
«Lui è mio amico» mormorò la bambina.
«Oh, sei Smoker?» chiese la donna rivolgendosi al bambino «Il ragazzino a cui mia figlia sta insegnando a leggere? Puzzi».
«Hina sta facendo cosa? Adesso basta, finitela tutti, Hina lascialo andare!»
«Non ha sentito che ha detto di no?» intervenne finalmente Smoker «Havamama ha proprio ragione, lei è un pisher putz!»
Hina di fianco a lui gli mollò uno scappellotto fissandolo con aria di disapprovazione, mentre suo padre perdeva definitivamente le staffe dando in escandescenze.
«Hai sentito come mi ha chiamato?» sibilò rivolto alla moglie che però si limitò ad alzare le spalle.
«Mi dispiace, tesoro, sai che non parlo l’ashknaz».
«Sei pazza?» aveva intanto domandato il bambino all’amica «Non sai nemmeno cosa gli ho detto».
«Sono abbastanza sicura che fosse una cosa brutta» aveva risposto Hina strappando un sorriso a sua madre.
«Ora basta. Sono stufo. Hina, vieni qui!»
«No» ebbe la forza di protestare la bambina.
«Vieni. Qui» sillabò suo padre, rosso in faccia come non lo aveva mai visto.
Lo sguardo di Smoker era duro e implacabile; aveva solo otto anni, ma la rabbia e il disprezzo riuscirono a trasparire lo stesso, investendo l’uomo in una corrente d’odio e risentimento, quel risentimento che Hina non aveva mai avuto il coraggio di esprimere, o che forse era stata educata a tenersi dentro.
«Ha detto di no» disse con voce ferma, tenendo stretta la mano dell’amica che a quel contatto sembrò farsi coraggio e sollevò lo sguardo su sua madre.
«Per favore» mormorò con voce pacata.
La donna sospirò, sollevò gli occhi al cielo e si passò una mano tra i capelli.
«Che seccatura» borbottò quindi «Ma se questo è quello che vuoi, immagino che non ci sia alternativa».
Quindi, sotto lo sguardo allibito del marito e quello quasi entusiasta di sua figlia, percorse la stanza a grandi falcate e spalancò le finestre, quindi si girò vero la voliera e sollevò, senza tante cerimonie, il tettuccio di ferro, lasciando uscire tutti gli uccelli.
Mano a mano che i colombi, le cocorite, i canarini scomparivano oltre la finestra aperta, Hina sentiva il cuore farsi più leggero; solo Bianca rimase ferma sul davanzale, a fissare nella sua direzione, per poi sollevarsi e andare a posarsi sulla sua spalla.
«Ora» disse sua madre «Rendimi orgogliosa».
«Natsuki sei impazzita?!» Hideaki alzò la voce, osservando con aria sconvolta e irritata la moglie.
«Stai zitto» gli intimò la donna, quindi rivolgendosi a Smoker: «Per quanto riguarda te, signorino, imparerai a leggere, a scrivere, e soprattutto imparerai che il sapone non è tuo nemico. Sono stata chiara?»
Il bambino fece una smorfia di disgusto, più disgustato all’idea di doversi lavare che a quella di imparare, ma al suo fianco Hina sembrava davvero felice, così sospirò mestamente e annuì piano.
«Sissignora».




   
 
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