Capitolo
3
Quella
mattina, quando si
era alzata, ricordandosi del malessere di Eric, aveva avuto la malsana idea di permettere a lui e al
fratello, poiché nessuno dei sue faceva un passo senza
l’altro, di rimanere a
casa.
Il
risultato di quella brillante idea
era che le era toccato
prendere mezza giornata per non lasciare sua suocera tutto il giorno in
balia
dei nipotini, che quel giorno in particolare sembravano più
propensi del solito
a fare baldoria. Persino William, in genere molto più posato
del fratello,
scorrazzava da una parte all’altra della casa seguendo Eric
in ogni malefatta
che quel cervellino da piccolo Erudito riusciva a concepire. Per
evitare
disastri, aveva preventivamente chiuso a chiave lo studio.
Aveva
provato a rincorrerli,
sgridarli e minacciare di metterli entrambi in punizione, ma si era
anche resa
conto che, forse, rinchiuderli in camera e permettendogli
così di confabulare
senza interruzioni non fosse una grande idea dopotutto. Inoltre quello
che
diceva ai due piccoli mostri,
sembrava
entrare dall’orecchio di uno e uscire dall’orecchio
opposto dell’altro.
Si
lasciò cadere sul divano,
coprendosi il viso con le mani e tendendo le orecchie per captare
eventuali
rumori di vetri in frantumi, testate o
borbottii sospetti. Thomas sarebbe tornato a momenti per il
pranzo e poi si
sarebbero diretti insieme verso l’ospedale, lasciando i figli
con la nonna
paterna… che non invidiava per nulla. Per quanto William
fosse calmo e
misurato, quando si metteva in combutta con Eric, la cosa
più furba da fare era
darsela a gambe o disporre di una paio di camice di forza formato
bambino
particolarmente resistenti, perché oltre ad essere
indiscutibilmente attivi ed
energetici, i due erano anche particolarmente ostinati in qualsiasi
cosa si mettessero
in testa di fare.
L’unica
consolazione di
quella mattinata allucinante era che Eric sembrava stare meglio ed
essere un
po’ più allegro, forse
anche troppo, rispetto
alla sera prima.
Avevano
passato quasi
l’intera nottata seduti sul divano in attesa che Eric si
sentisse un po’ meglio,
riuscendo a farli addormentare entrambi solo a notte inoltrata. Due ore
dopo,
Thomas era dovuto correre all’ospedale per
un’emergenza, quindi sapeva già che
quella sera sarebbe stato stanco e irritabile mentre le due piccole
canaglie
avrebbero sprizzato energia da ogni poro. Forse avrebbe voluto
dirglielo.
Alla
fine Thomas poteva
cavarsela, si sarebbe ingegnato per gestire i piccoli in qualche modo e
farli
stare tranquilli, ma era comunque nervosa. Non era mai stata fuori
tutta la
notte da quando erano nati, un po’ perché sia lei
che il marito stavano
terminando la specializzazione in quei mesi, un po’
perché era stata sempre
sostituita da marito e colleghi per via dei figli.
Si
passò le mani sul viso,
prossima all’esaurimento. Forse suo marito non aveva proprio
tutti i torti del
mondo quando le diceva di prendersi qualche giorno di riposo in cui
preoccuparsi solo di quei due piccoli delinquenti che avevano messo al
mondo.
Non che da loro due potessero venire fuori due agnellini,
s’intendeva, ma non
credeva neanche che le sarebbero venuti due piccoli mostri geniali di
quella
portata.
Si
tolse la felpa, rimanendo
a maniche corte e cercò di rilassarsi il più
possibile chiudendo gli occhi. Poi
un pensiero, come un lampo, le attraversò la mente
provocandole una strana
sensazione d’inquietudine.
C’era
un dettaglio di cui non si era resa
pienamente
conto fino a quel momento e che avrebbe dovuto farle immeditatamente
suonare un
campanello d’allarme gigantesco.
Il
silenzio.
Intorno
a lei regnava il più
assoluto silenzio e non era mai un buon segno quando i piccoli mostri
non si
sentivano. Sapeva che erano capaci di essere silenziosi e scaltri
nell’evitare
di rendere evidente ciò che imbastivano, ma dopo il caos che
avevano creato
fino a mezz’ora prima, quel silenzio poteva essere sinonimo
esclusivamente di
due cose: o si erano addormenti, cosa di cui conoscendo i suoi figli
dubitava
fortemente, o avevano combinato un guaio e cercavano di rimediare nel
modo più silenzioso
possibile per non essere sgridati.
Cercò
di captare un suono,
una parola o anche il rumore di qualcosa che cascava o si rompeva, ma
non
percepì niente se non un leggerissimo ruscellare proveniente
dal corridoio;
rumore che fino a quel momento le era sfuggito, tanto era lieve.
-
Eric? William? – provò a
chiamarli a voce alta, senza tuttavia ricevere risposta.
Si
alzò lentamente e si
diresse, inquieta, verso il bagno che stava davanti alla camera dei
figli. Da
lì sentiva il rumore dell’acqua che scorreva nella
stanza, ma niente sembrava
indicare la presenza dei bambini al suo interno.
-
Ragazzi?! – ritentò,
mettendo una mano sulla porta, pronta ad aprirla.
Non
ottenendo risposta, provò
a bussare e udì quasi istantaneamente dei movimenti
all’interno della stanza.
Provò
ad aprire, ma la porta
era bloccata dall’interno. –
Aprite immediatamente!
Eric, William! –.
Qualcuno
si fermò dall’altra
parte della porta. – Sì? Abbiamo da fare!
– la informò quello che riconobbe
come Eric. Non sembrava molto convinto.
-
Apri. Adesso. – gli impose,
cercando per quanto possibile di mantenere la calma. Era troppo stanca
anche
per arrabbiarsi e con due elementi del genere, anche mettersi a
discutere
diventava un’impresa.
– No.
–rispose candidamente.
Prima
che potesse ribattere,
sentì William dire qualcosa al fratello con voce quasi
inudibile ma concitata e
due secondi dopo udì la chiave che veniva sfilata
dall’interno.
In
quel momento fu felice
che i suoi figli fossero ancora piccoli e non pensassero che, levando
la chiave
all’interno, lei avrebbe potuto aprire da fuori.
Si
diresse con passo felpato
verso la porta della stanza che condivideva con il marito,
lotteggiò per
qualche secondo con la serratura per sfilare la chiave e
tornò davanti alla
porta del bagno.
Inserì
la chiave nella
serratura e la fece scattare lentamente, ma qualcosa, alla base della
porta, ne
ostacolava l’apertura. Facendo maggior pressione
riuscì a entrare e lo
spettacolo che si ritrovò davanti la lasciò per
un attimo senza parole,
impalata sull’ingresso della stanza dalle pareti chiare.
Lo
specchio alla sua destra
era completamente appannato e la vasca alla sua sinistra traboccava
d’acqua che
si stava riversando sul pavimento, sommergendo il tappeto bianco e
azzurro
davanti al lavandino, dal quale scendeva una sorta di cascata
di acqua a schiuma. Capì cosa aveva fatto da
ostacolo alla
sua entrata, quando si sentì infradiciare le ciabatte e i
piedi: a quanto pare,
per evitare che l’acqua allagasse tutta la casa, i suoi adorabili figlioletti, avevano piazzato
alcuni asciugamani davanti
allo spiraglio della porta, mentre gli altri, accappatoi compresi,
erano
ridotti a dei cumuli di tessuto fradicio per il bagno.
Sul
pavimento erano sparsi
disordinatamente il bagnoschiuma e diversi campioncini per il bagno e,
notò con
orrore, le pareti erano imbrattate di rossetto. C’era anche
un forte odore che
le ricordava il suo profumo nell’aria, ma non aveva idea da
dove provenisse.
Al
centro della stanza, bagnato
dalla testa ai piedi, William la guardava dal basso verso
l’alto con aria
colpevole e con le mani dietro la schiena. Il fratello invece era
seduto
nell’acqua, in fondo alla stanza, poco più
indietro rispetto al lavandino,
completamente bagnato dalla testa ai piedi anche lui e con le maniche
della
maglietta tirate fino al gomito. Sembrava si fosse immobilizzato in
quella
posizione, con le mani leggermente protese in avanti di fronte al
mobile in cui
teneva i prodotti da bagno. Notò con incredulità
che a tutti i rubinetti
mancavano le manopole.
Non
era possibile. Non potevano essere due bambini di
quattro anni. Che cosa avrebbero fatto a dieci, a quindici? Dato fuoco
a tutta
la casa?
Si
portò le mani sul viso,
incapace di dire qualcosa di fronte a quel disastro e
alternò un paio di volte
lo sguardo tra i figli. – Perché? –
esalò, senza neanche prendersi la briga di
alzare la voce.
I
bambini si scambiarono
un’occhiata, come a cercare la risposta nel viso
dell’altro e tornarono a fissarla.
Entrò
del tutto nel bagno e
si diresse verso la parete, fortunatamente fino a una certa altezza
mattonellata,
per recuperare i suoi trucchi distrutti. Trovò anche la
fonte del profumo: in
terra c’era una boccetta trasparente, con il tappo di un
viola chiarissimo, in
frantumi. Il suo profumo, appunto.
-
Quello è caduto per sballio…
- si giustificò William, andandole
accanto per osservare il danno.
-
Zitto. Appena tornerà
vostro padre faremo due chiacchiere... – lo zittì,
secca.
Si
voltò verso Eric, ancora
inginocchiato a terra davanti al mobile da bagno, e
assottigliò lo sguardo. – E
tu, - sibilò, - tira
immediatamente
fuori le manopole dei rubinetti o ti giuro,
Eric Turner che resterai in punizione fino al Giorno della
Scelta! –
concluse furente di rabbia, all’indirizzo del figlio che
parve pensare un
attimo al da farsi.
In
quel momento sentì la
porta dell’ingresso aprirsi e il saluto del marito
affievolirsi di botto nel
costatare che in casa sembrava non esserci nessuno.
-
Siamo in bagno, Thomas!
Vieni a vedere cosa hanno combinato i tuoi
figli. – urlò, per farsi sentire facendo
due passi indietro per affacciarsi
alla porta che dava sul corridoio.
S’incrociarono
sull’ingresso. Nonostante fosse vestito di tutto punto,
esattamente uguale a
come l’aveva visto quando era uscito di casa in piena notte,
aveva un’aria
profondamente stanca.
Si
sporse oltre la sua
spalla e scandagliò senza particolare interesse il disastro,
soffermandosi solo
un paio di secondi in più sui figli, rimasti impalati nelle
stesse posizioni.
William,
intercettando lo
sguardo del padre si morse la bocca e lo guardò dal basso
verso l’alto la sua miglior
espressione innocente. Thomas spostò lentamente e senza
nessuna particolare
espressione lo sguardo su Eric che, nel frattempo, aveva aperto il
mobiletto e
sembrava alla ricerca di qualcosa.
-
Cosa stai cercando, tesoro?
– sibilò Elizabeth, seguendo i
movimenti del bambino che, intanto, si era piazzato davanti al
mobiletto dei
prodotti da bagno e si stava infilando con la testa dentro il mobile.
Sentirono
il rumore di
qualcosa di metallico che cozzava e si scambiarono uno sguardo stanco.
Suo
marito scosse la testa e
si appoggiò allo stipite della porta, massaggiandosi gli
occhi con una mano da
sotto gli occhiali. Sembrava esausto, prosciugato di ogni energie e ne
era la
riprova il fatto che ancora non avesse commentato l’operato
dei figli.
Eric
li guardò
innocentemente dal bordo superiore dello sportellino aperto.
– Niente, mamma. –
affermò tranquillamente.
-
Dopo acciugamo. –
aggiunse William, riferendosi al pavimento, come se
quello mettesse a posto le cose e loro fossero liberi di andarsene come
niente
fosse.
Si
passò le mani sul viso.
–Siete in punizione. – decretò,
guardandoli severamente, la voce calma e
misurata. – E non solo asciugherete tutto, ma rimetterete
ogni cosa al suo
posto prima che arrivi la nonna, che non deve durare fatica a rimediare
a un
guaio che avete combinato voi. –
Gli
occhioni grigi di Eric
riapparvero, vigili, dal bordo superiore dello sportellino. –
In punizione?
Niente ccuola? – chiese,
evidentemente speranzoso.
Rise,
con una nota d’isteria
nella voce. - No, certo che no. Andrete a scuola e passerete anche il
pomeriggio al doposcuola, senza polemiche per tutto il resto
dell’anno, esclusa
l’eventualità che uno di voi prenda la febbre.
– assicurò, intransigentemente.
Eric
assunse un’espressione
contrita. – Papà? – chiese, girandosi
insieme al fratello a fissare il padre
che, fino a quel momento, non aveva detto una parola.
L’unica
cosa che ottenne fu
un’occhiata severa, di quelle che gli riservava
esclusivamente quando non aveva
più la pazienza per assecondarli.
Nonostante
lei si
arrabbiasse molto di più e avesse un livello di
sopportazione decisamente
inferiore a quello del compagno, i figli erano molto più
ubbidienti con lui che
con lei e quando il padre li guardava così, in genere, si
limitavano a ubbidire
senza storie, consapevoli di aver raggiunto il limite massimo.
-
Non guardatemi così. Avete
sentito la mamma. – decretò, fissandoli
severamente.
Vide
Eric deglutire e
aggrapparsi con le dita di entrambe la mani al mobiletto. –
Che c’è che non ti
convince, Eric? – gli chiese Elizabeth, assottigliando lo
sguardo e mettendosi
le mani suoi fianchi.
-
Non vollio andare a ccuola.
E
neanche Will deve. – asserì, con una convinzione,
quasi fosse lui a decidere
chi faceva cosa.
Inarcò
le sopracciglia. –
Questo non lo decidi te, signorino. –
-
Ma… -
Alzò
una mano per zittirlo,
mentre Thomas andava, o almeno sperava stesse andando, a prendere degli
asciugamani. – Era la mia ultima parola. –
Il
bambino si morse il
labbro, in silenzio, e la guardò con gli occhioni grigi
spalancati e il labbro
inferiore sporgente.
Scosse
la testa. – Non ci
provare nemmeno. Hai sentito tuo padre, no? -.
Eric
abbassò gli occhi e
corrugò le sopracciglia come se fosse sul punto di scoppiare
in lacrime. Poi si
alzò, sbatté con forza lo sportello del mobiletto
e le passò accanto urtandola,
prima di correre in camera sua.
Si
girò per riprenderlo, ma
lo trovò con il sedere per terra, davanti al marito che
tornava con alcuni
asciugamani in mano. – Eric. Dove vai così di
fretta? – gli chiese lui
porgendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi.
Eric,
con grande perplessità
sia da parte sua che del padre, allontanò la mano con uno
schiaffo e corse
nella camera che divideva con il fratello.
Lei
e il compagno si
scambiarono uno sguardo stranito, lui con la mano ancora protesa verso
il basso
e lei in piedi davanti alla porta del bagno.
-
Eric? – lo chiamò,
alterata dal comportamento del bambino, avviandosi dietro di lui.
-
Aspetta. – mormorò Thomas,
afferrandola per un braccio per impedirle di raggiungere il bambino.
Lo
guardò incredula: sapeva
che l’uomo che aveva sposato era estremamente tranquillo,
equilibrato e acuto,
eppure non era mai stato molto tollerante con certi comportamenti. Che
sapesse
qualcosa in più di lei?
Thomas
sembrava pensoso,
concentrato su chissà cosa, con la stesse espressione che
avrebbe avuto se si
fosse trovato a analizzare qualcosa di particolarmente complicato e a
metterne
insieme i pezzi.
Finalmente
le lasciò il braccio.
– Prendi questi, - le disse, porgendole degli asciugamani
puliti. – Torno
subito. –
Lo
osservò, ancora confusa,
sparire nella camera dei bambini, mentre lei restava in mezzo al breve
corridoio come un’idiota con gli asciugamani tra le braccia.
Si
sentì tirare per i
pantaloni e abbassò lo sguardo. – Sì?
–
William
le fece un
sorrisetto di scuse dal suo metro scarso di altezza e le strinse le
gambe.
-
Non fare il ruffiano come
tuo fratello, non funziona. – lo avvertì,
scoccandogli un’occhiata risentita e
chinandosi davanti a lui per avvolgerlo nell’asciugamano.
-
Ho fame! – comunicò il
bambino, mentre gli strofinava i capelli per cercare di asciugarli il
più in
fretta possibile.
-
Se tu e tuo fratello non
aveste allagato tutto il bagno, fatto a pezzi i miei cosmetici, dipinto
le
piastrelle con i miei rossetti e non vi foste conciati in questo modo,
saremo
già a tavola da un bel po’. – lo riprese
con stizza, sfilandogli la maglietta e
asciugandolo anche addosso.
-
Dimmi una cosa: perché questo
disastro? – chiese severamente dopo alcuni secondi di
silenzio durante i quali
William si era fatto passivamente asciugare senza tante storie.
Il
bambino sorrise, -
Volevamo fare una piscina! – spiegò, guardandola
come se avesse dovuto fargli
un applauso seduta stante per la splendida e innovativa trovata.
-
In bagno? – domandò,
stringendo appena le labbra.
-
Sì! In camera no
c’è l’acqua. –
mormorò, come se fosse
una cosa riprovevole.
Eccellente,
quindi il piano
originale era quello di allagare la camera. Buona a sapersi, ne avrebbe
tenuto
conto, magari sigillando, da quel momento, tutte le stanze.
-
E ti sembra una cosa logica da
fare? – chiese incredula,
sfilando anche i pantaloncini del bambino e asciugandogli le gambe.
William
corrugò le
sopracciglia, pensoso, proprio come faceva sempre suo marito quando non
gli
tornava qualcosa. – No. Ma è divettente!
–
-
Eric? – lo chiamò,
entrando silenziosamente nella camera e individuando raggomitolato
sotto le
coperte.
-
No. – rispose da sotto il
fagotto di coperte che si era creato.
Raggiunse
l’impalcatura del
letto a castello e lo osservò dalle sbarre orizzontali che
delimitavano il
letto superiore.
-‘No’,
cosa? – chiese
pacatamente, passando una mano su quella che, al tatto, gli sembrava la
schiena.
Eric
si ritirò un po’, prima
di rigirarsi sotto le coperte. Dopo qualche secondo face capolino da
sotto la
coperta, disfando lateralmente il letto e affacciandosi appena, i
lenzuoli
tirati fin sopra il naso.
-
Non vollio andare a scuola.
– ripeté, senza muovere un muscolo e
guardandolo fisso.
Annuì.
- Mmh... posso
salire? – chiese, mentre metteva giù la scaletta,
portandosi avanti.
Una
massa di capelli neri
tutti scompigliati uscì dalle coperte e fece un cenno di
diniego, prima di
sparire nuovamente.
Era
certo che ci fosse
qualcosa che non andava. Non tanto in Eric, quanto nel suo
comportamento: era
sempre stato, per certi versi, più introverso del gemello.
In genere quando
c’era qualcosa che non gli tornava diventava taciturno
piuttosto che chiedere
chiarimenti, come invece faceva William, a lui o alla madre. Nonostante
questo,
aveva la sensazione che ci fosse altro: aveva pensato che le coliche
che aveva
avuto recentemente fossero a causa della sua scarsa propensione ad
andare a
scuola o che fossero causate dal fatto che andava poco
d’accordo con gli altri
bambini e che lo escludessero per questo. Poteva essere una teoria
valida, ma
nelle ultime due settimana la situazione aveva iniziato a degenerare:
negli
ultimi tre giorni era diventato quasi inappetente, oltre che bizzoso e
arrabbiato con tutti. L’unico che sembrava essere sulla
stessa lunghezza d’onda
era William, che riusciva a interpretare gli atteggiamenti ambigui del
fratello.
Aveva
provato a parlarne con
Elizabeth, ma non erano addivenuti a nulla se non a lunghe discussioni
sul
tempo che riuscivano a trascorrere con i bambini e sulle evidenti
inclinazioni
poco erudite di Eric che sua moglie si rifiutava di vedere. Era normale
che ci
soffrisse, che non volesse che uno dei due, un giorno, si allontanasse
da lei,
era naturale, ma era anche altrettanto giusto assecondare il bambino.
Così gli
avevano insegnato, e così stava facendo con i suoi figli:
ognuno ha le proprie
attitudini, anche tra gli Eruditi, e ogni attitudine si sviluppa in
modo
diverso. Ne consegue che ogni individuo ha esigenze differenti e metodi
di
ragionamento propri.
Era
la stessa ragione per
cui tutte le sere, indipendentemente dal fatto che ritenesse quello che
avevano
in mente i figli produttivo o meno, si metteva in salotto e li
assecondava.
Certo non si divertiva a trent’anni a fare i castelli con i
cubetti o a leggere
un libro fin troppo colorato e con cellule parlanti, ma lo
faceva…
Un
tonfo sordo e metallico
lo distrasse dai suoi pensieri, seguito da un mugolio sofferente.
-
Ahi… - mormorò una vocina
sottile da sotto le coperte.
Arrivò
davanti al punto in
cui, teoricamente, avrebbe dovuto
trovarsi testa e bernoccolo del bambino e scostò le coperte.
Eric
riemerse e si mise
impacciatamente a sedere con le gambe incrociate, tenendosi la testa
con
entrambe le mani, le dita infilate tra i capelli e gli occhi lucidi.
Scosse
appena la testa e lo
tirò giù dal lettino, infilandogli le mani sotto
le braccia e mettendolo a
terra senza sforzo. Scostò con delicatezza i capelli,
osservando il punto in
cui doveva aver battuto e premette appena.
-
Ahi! – protestò Eric,
guardandolo corrucciato.
-
Scusa, - mormorò, - volevo
vedere dove hai battuto. –
Eric
non sembrò molto
convinto ma annuì e fece per riarrampicarsi sul letto. La
fuga durò meno di un
paio di secondi, perché non appena Thomas si accorse del
tentativo di ritirata
del bambino lo riprese di peso e lo fece sedere sulle sue gambe.
Eric
si divincolò. – Su! –
protestò, incrociando le braccia e cercando, nel contempo,
di liberarsi,
inutilmente.
Per
evitare ulteriori
discussioni, lo afferrò per l’ennesima volta da
sotto le braccia e lo mise a
sedere sul bordo del letto superiore. Il bambino parve soddisfatto da
quella
piccola vittoria, anche se aveva ancora l’aria cupa e pensosa.
-
Non muoverti, torno
subito. – mormorò, prima di uscire e tornare nel
corridoio a prendere alla
moglie l’altro asciugamano.
Eric
aspettò nervosamente
che il padre tornasse, dondolando le gambe oltre il bordo del letto e
cambiando
posizione alle braccia in continuazione. Non sapeva come mettersi e non
riusciva a stare comodo in nessun modo. E iniziava fargli male la
pancia, di nuovo.
Si
massaggiò il ventre,
mentre iniziava evidentemente a diventare ansioso per il mancato
ritorno del
padre.
Stava
quasi per scendere da
dove gli era stato ordinato di rimanere, quando la porta si
riaprì e richiuse
rapidamente e fu avvolto in un asciugamano pulito. Aveva un buon
profumo. Gli
ricordava quello della mamma, anche se si arrabbiava sempre con lui.
Forse
aveva ragione quel
signore, quando gli diceva quelle cose.
Quei
pensieri tristi e
l’espressione preoccupata di suo padre gli fecero venire
voglia di piangere di
nuovo, anche se non gli piaceva.
Però,
se si fosse messo a
piangere, forse, il suo papà avrebbe convinto la mamma a non
farli andare, a
restare a casa. Avrebbe fatto anche il bravo.
Abbassò
gli occhi, prima di
sentire la mano calda dell’uomo posarsi al lato della sua
testa e accarezzargli
piano i capelli. – Eric, che c’è che non
va? – gli chiese, guardandolo in quel
modo.
Quando
lo guardava così lo
metteva un po’ in soggezione. Più della mamma,
perché lui era meno severo di
lei, quindi quando li guardava in quel modo dovevano comportarsi bene.
Era
meglio.
Sentì
le labbra tremolargli
e lo stomaco contorcersi di nuovo, chiuso.
-
Non… - iniziò, debolmente,
guardando con diffidenza il genitore.
-
Non? – lo incalzò incoraggiandolo
con un cenno del capo.
Eric
fece un bel respirone
profondo, come quando era nervoso ma sapeva di doversi calmare per fare
qualcosa. Si tormentò le mani, stringendosi le dita.
Tirò
su con il naso, mentre
gli saliva un nodo alla gola. – Non mi piace. –
boccheggiò, passandosi
l’asciugamano che aveva sulle spalle sugli occhi brucianti di
lacrime.
Non
gli piaceva piangere.
Ancora meno, davanti a suo padre. Lui era grande.
-
Per quale ragione? –lo
spronò, mentre gli spostava i capelli bagnati dal viso e gli
passava con
delicatezza l’asciugamano addosso per asciugarlo.
Eric
non rispose, ma quando
suo padre gli coprì la testa con l’asciugamano,
come se fosse stato una
mantellina e i capelli gli finirono sugli occhi, sentì il
nodo che prima aveva
allo stomaco risalirgli in gola.
Si
portò immediatamente le
mani stretta a pugno ad asciugarsi gli occhi, mentre un smorfia gli
increspava
le labbra.
-
Ehi... – gli mormorò suo
padre, passandogli i pollici delle mani calde sotto gli occhi.
– Che c’è? -.
Eric
sentiva il labbro
inferiore tremare e la vista ormai era appannata di lacrime. Tese le
braccia
verso il padre, mentre un singhiozzo gli si gonfiava nel petto.
Quando
si sentì abbracciare
e fu aggrappato al petto del padre, il viso nascosto nel suo collo,
scoppiò a
piangere.
Non
sapeva neanche lui
perché piangeva. Forse perché gli veniva e basta
e si sentiva triste. Non
voleva tornare lì.
Voleva restare a
casa, dove c’era la sua mamma che però non era
arrabbiata con lui.
La
mano calda di suo padre
sulla schiena era confortevole e il massaggio lo faceva stare un
pochino
meglio, ma non gli stava facendo passare la voglia di piangere.
-
No... no vollio… -
singhiozzò disperato,
aggrappandosi con tutte le sue forze al padre, che gli
accarezzò i capelli,
mentre lo dondolava, e gli diede un bacio sulla testa.
-
Eric? – lo chiamò, piano,
staccandoselo dal collo e guardarlo severamente.
Eric
deglutì, anche se non
il suo papà non sembrava arrabbiato con lui.
Thomas
strinse le labbra,
cercando le parole giuste da dire. – Lo sai che puoi dire
tutto a me e alla
mamma, giusto? – chiese, passandogli un pollice sulla guancia
e sedendosi sul
lettino inferiore.
Eric
annuì un po’,
appoggiando la testa sulla spalla del genitore. Gli stava tornando mal
di test
e non voleva parlare.
-
È successo qualcosa a
scuola? Qualche compagno con cui hai litigato, un’insegnante
con cui non ti
trovi bene…? – azzardò, alzandosi per
prendere dei vestiti puliti.
Eric
abbassò gli occhi e
fece spallucce.
-
Allora? – lo spronò, con
un velo d’impazienza.
Eric
si guardò nervosamente
intorno. – Le maettre…
io non gli
piaccio. – mormorò, ritirando le gambe contro il
petto e circondandosele con le
braccia.
-
A no? E cosa te lo fa
pensare? -.
-
Ho sentito che dicevano,
di me, che sono ttrano e che
volevano
che io, no Will, solo io, andassi via presto. Con te o con mamma.
– spiegò
incespicando nelle parole.
Avrebbe
dovuto far passare
un brutto quarto d’ora alle insegnati, in quel caso dato che
aveva già
avvertito del carattere insicuro del bambino.
-
E.. – aggiunse, prima che
potesse interromperlo. – anche gli attri
bambini… -.
Assottigliò
lo sguardo. –
Sicuro? Nient’altro? – insistette, mentre lo
metteva in piedi e iniziava a
sfilargli i vestiti per cambiarlo.
Il
bambino annuì, forse un
po’ troppo vigorosamente.
-
D’accordo. Vado a vedere
se la mamma e William hanno… che c’è? -.
Eric
sembrava nuovamente
nervoso mentre si guardava intorno con aria preoccupata.
-
Papà? -.
-
Sì? -.
-
Non dire a mamma che ho
pianto… - mormorò Eric.
Thomas
aggrottò le
sopracciglia, per un momento spaesato. – Perché?
Non c’è niente di male a… -
disse. Eric scosse la testa con vigore, mantenendo lo sguardo sul padre
e
facendo oscillare i capelli davanti al viso.
-
Si arrabbia sempre. –
Avrebbe
dovuto fare due chiacchiere anche con sua moglie.
Eric
gli trotterellò dietro
con poco entusiasmo fino alla porta del bagno.
-
Era l’ora! Dove eravate
finiti voi due? – proruppe Elizabeth, alternando lo sguardo
dall’uno all’altro
un paio di volte.
Sua
moglie era intenta a
cercare, a quanto pare, di asciugare il pavimento e togliere i graffiti
di
rossetto dalle piastrelle. Era stata una fortuna che non se la fossero
presa
direttamente con il muro rimbiancato da poco. Sembrava ancora nervosa,
anche se
meno rispetto a qualche minuto fa: s’infiammava
velocemente tanto quanto sbolliva.
-
Abbiamo fatto due
chiacchiere – disse in tono ricco di sottintesi.
Sua
moglie si girò a
guardarlo in faccia e scosse appena la testa non comprendendo il
significato
nascosto in quell’affermazione e incitandolo a spiegarsi.
Gli
fece cenno che glielo
avrebbe spiegato più tardi, quando non ci fossero state
orecchie scomode nei
paraggi. Lei annuì con poca convinzione prima di osservare
Eric seminascosto
dietro le gambe del padre.
-
Che fai lì dietro? È
inutile che mi guardi con quel visino tenero… no, non
provare a farmi
“labbrino”, domani facciamo come dico io e senza
discussioni! – disse, mentre
Eric, dietro le sue gambe, rifilava una serie di espressioni da cane
bastonato
alla madre.
Il
bambino alzò la testa
verso di lui e lo fissò, prima di scuotere la testa, come a
dire che almeno ci
aveva provato.
-
Metti il Delinquente a tavola,
io finisco qua, mi lavo le mani e arrivo! –.
-
Hai già fatto tutto? –
chiese, colpito.
Elizabeth
scosse la testa. –
Certamente, per chi mi hai presa? Non sono mica un uomo! – lo
rimbeccò, mentre
si alzava e, tamponandosi con un asciugamano li sorpassava e andava a
infilarsi
nella loro camera.
-
Che vuol dire? – domandò
Eric tirandogli i pantaloni con espressione interrogativa.
-
Non preoccupartene ora, né
avrai tutto il tempo più avanti! – lo liquido,
prima di dirigersi verso la
cucina seguito dal bambino, sempre più perplesso.
In
quel momento, qualcuno
suonò al portone.
Si
diresse verso l’ingresso e
aprì e, senza avere il tempo di dire nulla, si
ritrovò la madre in casa. – Ciao
mamma. Pranzi con noi? – chiese, richiudendo il portone,
mentre la donna posava
il cappotto all’attaccapanni.
-
No tesoro, ti ringrazio ma
ho già pranzato. Siete un po’ in ritardo? Posso
fare qualcosa? -. Domandò
dandogli un bacio su una guancia ruvida.
Scosse
la testa. – No, vai a
sederti… anzi, Elizabeth ed io siamo già in
ritardo. Ti dispiace pensare ai
bambini? Noi prendiamo qualcosa per la strada. – si corresse
guardando
l’orologio che portava al polso.
Sua
madre annuì. – Ma certo
caro, non preoccuparti. Elizabeth? È a cambiarsi?
– indagò, sorridendo a Eric,
ancora attaccato alla stoffa dei suoi pantaloni.
-
Ciao Eric. Cos’è quella faccia?
– gli chiese, avvicinandosi e prendendolo in braccio.
– È successo qualcosa? –
aggiunse, rivolgendosi a entrambi.
Eric
guardava la nonna con
gli occhioni spalancati, vagamente preoccupato, ma scosse la testa.
– Stai male
tesoro? Papà mi ha detto che hai un po’ di mal di
pancia ultimamente… vuoi un
po’ di risino? – chiese, dolcemente,
massaggiandogli la schiena.
Il
bambino scosse la testa e
si aggrappò al collo della nonna.
Forse
un po’ di svago gli
avrebbe fatto bene e, se conosceva un po’ sua madre, nel
pomeriggio gli avrebbe
portati al Parco.
Sua
madre gli rivolse
un’occhiata attenta. – C’è
qualcosa che devo sapere, per oggi? Devono fare
qualcosa in particolare come dei compiti… -.
-
No. – rispose fin troppo
velocemente Eric, guardando seriamente la nonna.
Lei
rimase per un attimo
interdetta e fissò il nipotino, prima di voltarsi verso di
lui e chiedere
conferma.
-
Solo i compiti. –
confermò, consapevole che, una volta che sua moglie avesse
scoperto che aveva
deliberatamente omesso il castigo dei figli l’avrebbe fatto
dormire sul
pianerottolo per settimana.
Forse
sarebbe riuscito a
trattare una riduzione della pena, se avesse fatto presente alla donna
che,
recludere i bambini in casa, a quell’età,
equivaleva alla distruzione della
casa.
Sì,
poteva essere un buon
compromesso, tutto sommato.
-
Nonna! Nonna! –
Abbassò
gli occhi azzurri
sul nipotino e si scostò un ciuffo di capelli castani strati
di grigio dietro
l’orecchio, mentre il bambino la scrutava seriamente dal
basso con l’aria di
chi pretende qualcosa. – Sì, tesoro? –
chiese, smettendo di asciugare il
ripiano della cucina.
Il
bambino incrociò le
braccia. – Abbiamo finito! – dichiarò
annuendo.
Tese
le labbra in un sorriso
e gli passo una mano sui capelli scuri. – Mi sembra il
minimo, dopo il disastro
che avete combinato tu e tuo fratello. Avete da fare qualcosa per la
scuola? –
chiese, tornando a passare l’asciughino.
Vide
con la coda dell’occhio
il nipote storcere la bocca in una smorfia scocciata. -
Sì… ma non mi va! –
disse, alla fine con risoluzione.
-
Male! -.
Ritornò
a fissare il bambino
e la sua espressione amareggiata. – Non guardarmi in quel
modo, fila a fare i
compiti insieme a tuo fratello e non tornare in qua fino a quando non
avrai
finito. – insistette, sospingendolo con delicatezza verso
l’ingresso.
Come
se non l’avesse neanche
sentita, il bambino si morse il labbro inferiore e inarcò le
sopracciglia,
portando le mani dietro la schiena in un atteggiamento che aveva il
chiaro
intento di suscitarle tenerezza.
Sospirò,
rassegnata. – Sei
tremendo… - borbottò tra sé, prima di
voltarsi e guardarlo seriamente ma senza
poter evitare di sorridere appena. – D’accordo
Eric, facciamo così: tu ora vai
a finire quello che hai da fare ed io dopo vi porto al Parco. Che dici?
-.
-
Ma la maestra ha detto che
lì doveva fare solo chi vuole! Non siamo con i bambini dei
livelli grandi! –
protestò, corrugando le sopracciglia e abbandonando
l’espressione tenera di
poco prima.
-
Immagino tesoro, ma tu sei
un Erudito e più impari fin da subito, meglio ti troverai
più avanti, capisci? E
ora fila di là... – disse, sospingendolo verso la
stanza che divideva con il
fratello.
Eric
annuì un pochino. – Va
bene, ma poi voglio giocare al Parco! – decretò,
guardandola sospettoso, come
se temesse di non giungere a un accordo.
-
Va bene. Ma prima… -.
Lo
guardò mentre si dirigeva,
imbronciato e contrariato per la sconfitta, verso la camera che
condivideva con
il fratello.
Posò
il panno che aveva
usato per asciugare il ripiano della cucina e si diresse verso il bagno.
Forse,
considerando il
temperamento del nipotino, era più saggio prendere una
cassettina del pronto
soccorso e portasela dietro: l’ultima volta che aveva
azzardato a uscire con i
nipoti, Eric si era quasi rotto una gamba arrampicandosi su un albero e
non
teneva particolarmente a ripetere l’esperienza.
Suo
figlio e la moglie erano
fin troppo impegnati e a lei faceva piacere occuparsi dei
nipotini… per quanto
fossero agiatati.
Infilò
le chiavi nella toppa
della serratura ed entrò, affacciandosi
all’ingresso per controllare se c’era
ancora qualcuno in casa. Di suocera e figli, neanche l’ombra.
Sgusciò in casa e
richiuse, accompagnando con la mano la porta d’ingresso. Poi,
il più
silenziosamente possibile, si diresse verso il bagno che la mattina i
figli si
erano divertiti ad allagare senza la minima considerazione per lei e
suo
marito. Quando entrò, sentì un moto di
gratitudine per la madre di suo marito,
che per quando alle volte fosse invadente e logorroica la aiutava molto
più di
quanto avrebbe dovuto; la stanza era asciutta e in perfetto ordine,
forse anche
più di come l’aveva lasciata lei prima
dell’allagamento ed erano stati cambiati
tutti gli asciugamani.
Dopo
un’ultima occhiata di
perlustrazione si diresse verso la stanza che condivideva con il
marito.
Camminò fino alla cassettiera, dove appoggiò la
borsa prima di sfilarsi il
cappotto leggero.
Si
tolse le scarpe con un
moto di sollievo, le afferrò con due dita e le
infilò nella scarpiera marrone
chiaro situata dietro la porta della stanza, prima di lasciarsi cadere
sul
letto.
Finalmente.
Solo
al pensiero di dove
tornare indietro, si sentiva male.
Si
rimise seduta, avvertendo
un certo fastidio dietro la nuca. Con una smorfia intrisa di stanchezza
portò
le mani dietro la testa e sciolse i capelli, passandoci poi le dita per
districare eventuali nodi e massaggiarsi la nuca dolorante per la
costrizione
del fermaglio.
Si
passò le mani sui
pantaloni scuri mentre si sgranchiva il collo indolenzito, prima di
lasciarsi
nuovamente cadere all’indietro, lasciando che i capelli
formassero un ventaglio
nero intorno al viso pallido.
Restò
per un po’ così:
stesa, con le gambe piegate oltre il bordo del letto e le mani sulla
pancia a
bearsi del silenzio e della tranquillità che regnavano in
casa.
Ogni
tanto sentiva la
mancanza del periodo in cui erano solo lei e Thomas. Le mancava il
silenzio, la
tranquillità di poter fare le cose senza fretta, di potersi
prendere tutto il
tempo per alzarsi la mattina o decidere di rimanere a letto,
abbracciata
all’uomo che aveva sposato a sonnecchiare e fare
l’amore. Le due pesti avevano
stravolto completamente la quotidianità cui erano abituati,
ma né lei né suo
marito sarebbero mai voluti tornare indietro, per niente al mondo.
Mentre
rimuginava, sentì le
palpebre diventare improvvisamente pesanti e, lentamente,
scivolò nel sonno.
Un
gran trambusto, fuori
della porta, annunciò il rientro dei bambini e della suocera.
Elizabeth
era in piedi,
davanti ai fornelli, intenta a mettere insieme la cena in modo che suo
marito
non avesse anche da compiere l’ardua impresa di sfamare i
piccoli mostri. Non
sarebbe sopravvissuto dopo quindici ore di turno.
Aggirò
la tavola, pulendosi
distrattamente le mani su un panno asciutto. Doveva ancora ricominciare
a
connettere, dopo aver passato un paio d’ore a letto nel
pomeriggio.
Fece
giusto in tempo ad
allontanarsi dalla cucina quel tanto che bastava per ritrovarsi davanti
al
portone d’ingresso, prima di venire travolta da una piccola
sagoma vestita di
blu.
-
Mamma! Ciao! La nonna ci
ha portati al parco! – esclamò Eric, guardandola
dal basso e stringendosi alle
sue gambe. Quella era un’abitudine venuta da
chissà dove che avevano entrambi
sia con lei sia con Thomas.
Squadrò
il bambino dalla
testa ai piedi, notando che la maglia blu aveva abbandonato la tinta
unita per
convertirsi al maculato.
-
Davvero, tesoro? Non mi
dire… e pensare che siete pure in castigo! -
mormorò ironicamente cercando di
capire di cosa esattamente, fossero
quelle macchie.
Eric
doveva essersi
letteralmente rotolato in una pozzanghera, perché non
avrebbe saputo in quale
altro modo spiegarsi i capelli irrigiditi dalla melma e sparati in ogni
direzioni e le condizioni di abiti e viso.
Sotto
lo strato marrone
sembrava leggermente graffiato sul viso, ma non poteva esserne certa.
Non
finché vedeva, a conti fatti, solo gli occhi del bambino.
-
Ciao Elizabeth! – la
salutò la suocera, raggiungendola seguita da William.
La
madre di Thomas aveva
ancora l’aria giovanile di quindici anni prima, quando si
erano conosciuti, e
in gioventù doveva essere stata piuttosto carina.
– Mi spiace per
come si è ridotto Eric… -
esordì, -e non ero a conoscenza che non avessero il permesso
per uscire,
essendo in punizione. Thomas mi ha detto che avevano da fare solo i
compiti e
così è stato. Gli ho anche preso un pensierino!
– si giustificò.
-
Non si preoccupi, ci
saremo fraintesi. – la rassicurò, mentre si
appuntava mentalmente di piazzare
cuscino e coperte sul divano.
Avrebbe
voluto vedere la sua
faccia nel momento in cui si fosse reso conto, senza che lei lo avesse
avvisato, di dove pensare ai bambini.
Elizabeth
riabbassò gli
occhi sul bambino notando con orrore crescente che in terra, tra i suoi
piedi e
quelli del figlio, c’era un bel pallone che un tempo doveva
essere stato
bianco. O almeno credeva.
Eccolo,
in pensierino che avrebbe
distrutto la
casa.
Eric
si chinò a raccattarlo
e se lo tenne contro la pancia con aria soddisfatta, come fosse un
trofeo.
Sua
suocera aveva appena firmato la loro condanna.
Notò
che su un lato del
collo c’erano alcuni taglietti e riuscì a
scorgere, dopo averlo osservato per
diversi secondi, anche altre lesioni leggere sparse su viso e mani del
bambino.
Doveva essere caduto più volte o, ancora più
probabilmente, la piccola mente
diabolica aveva pensato bene di buttarsi in un cespuglio di rovi nel
tentativo
di far aumentare i capelli bianchi di sua nonna. E i suoi. Se avesse
continuato
così, si sarebbe ritrovata nel giro di cinque anni a
sembrare
un’ultraottantenne.
Quando
incrociò il suo
sguardo, Eric le rivolse un sorriso a ventotto denti* intriso di tanto
entusiasmo e felicità da farle stirare le labbra di
riflesso. Era strano
vederlo tanto allegro, ma era esattamente così che sarebbe
dovuto essere ogni
giorno.
-
Hai visto mamma? – le
chiese saltellando un po’ sul posto, quasi non riuscisse a
contenere la
contentezza dirompente del momento. – la nonna mi ha preso il
pallone! -.
-
Sì… sì, tesoro lo vedo… -
disse, passandogli il pollice sulla guancia chiazzata di terra.
– ehm… bello! –
aggiunse, per dargli soddisfazione e non smorzare tanto raro entusiasmo.
-
Io ho un libro! –
intervenne William, presentandosi con un libro di scienze, a giudicare
dalla
copertina colorata, semplificato per i figli piccoli degli Eruditi.
-
Wow! Oggi avete fatto
acquisti… come mai? – chiese in tono sorpreso,
mentre William si avvicinava al
fratello risparmiandosi, però, dal toccarlo. Era veramente
in delle condizioni
pietose.
-
Sono stati bravi, ed ho
pensato di premiarli! – intervenne Rose, tirando un
pizzicotto sulla guancia di
William.
-
Davvero? – chiese,
sorpresa.
Strano.
-
Mamma! – la chiamò Eric tirandole,
e imbrattandole, la camicia bianca con le mani sporche di terra.
–
Sì? – chiese titubante,
temendo già la prossima richiesta del bambino.
L’ultima
volta che Eric
aveva avuto tra le mani un pallone, aveva fatto più danni
della grandine sia in
casa che per strada e per quel che la riguardava non ci teneva
particolarmente
a ripetere l’esperienza, dato che tra i danni fatti dalla
piccola peste,
figurava anche la vetrata del soggiorno che portava sulla terrazza e il
vetro
della macchina di uno dei condomini che aveva avuto al sventurata idea
di
lasciarla proprio sotto il loro terrazzo. Era stata una fortuna che non
ci
fosse nessuno all’interno, o i danni sarebbero stati molto
più seri di un vetro
in frantumi e una banale discussione tra condomini.
-
Dopo giochi con me? -.
Ecco,
appunto.
-
Tesoro, io dopo non ci
sono. Stasera resto all’ospedale… -
iniziò, appoggiandogli le mani su viso e
passandogli i pollici sulle guance sporche di terra.
Eric
corrugò le
sopracciglia, perplesso. – E noi cosa facciamo? –
chiese, storcendo un po’ la
bocca e imbronciandosi mentre spostava il pallone dal suo stomaco a
sotto un
braccio.
-
Voi resterete qui con papà
– spiegò in tono pratico, - tornerò
domani mattina, non preoccuparti. –
aggiunse un po’ più dolcemente, facendogli due
grattini alla base del collo.
-
Quando vai via? – chiese
William, nervosamente.
Girò
il polso per
controllare l’ora. – Tra un paio
d’ore… quindi abbiamo tempo per un bel
bagnetto, che dite? -.
Sentì
Eric scostarsi un po’
da lei e fare due passetti indietro. – Non ci provare
nemmeno. – sibilò,
rivolta al figlio pestifero.
Il
bambino si morse il
labbro inferiore, nuovamente in “modalità
tremendo”, prima di schizzarle accanto e fiondarsi
verso le terrazza da cui
di accedeva tramite la vetrata del soggiorno.
Si
giro un attimo dopo per
corrergli dietro, verso il terrazzo. Per essere ancora piccolo era
già fin
troppo scattante e in men che non si dica aveva tirato giù
la maniglia della
vetrata a due imposte, ed era fuori.
-
Eric, vieni immediatamente
qui. – gli intimò, mentre cercava di capire cosa
avesse intenzione di fare:
sembrava pensoso, come se stesso architettando la prossima malefatta ma
fosse
indeciso su cosa fare.
-
No! – rise, stringendosi
il pallone sulla pancia e piegandosi leggermente in avanti, mentre
portava una
gamba indietro preparandosi, secondo lei, a scattare di nuovo verso
casa.
Si
rimboccò le maniche e si
avvicinò, costringendolo a indietreggiare quasi fino alla
fine della terrazza.
Se
aspettava un altro po’,
probabilmente il bambino sarebbe finito in un vaso, e sarebbe stato
anche
divertente se non avesse avuto fretta.
-
Eric… -
-
No! –
Senza
darle il minimo
preavviso, Eric mise il pallone a terra e gli tirò un
calcio, indirizzando il
giocattolo verso di lei.
Fortunatamente
aveva buoni
riflessi e riuscì a prenderlo appena prima che finisse
contro la vetrata che
conduceva al soggiorno.
Il
salvataggio le costò una
bella caduta sul sedere.
Respirò
seccamente e si
rigirò il pallone tra le mani, tirandosi i capelli via dal
viso con un gesto
stizzito. Si alzo con circospezione, tendendo d’occhio il
figlio che, senza
scomporsi, aveva già nascosto le mani dietro al schiena e si
dondolava sui
talloni.
Aprì
la bocca per dirgli di
smettere di fare i capricci, ma la richiuse un attimo dopo: si
rimboccò le maniche
della camicia imbrattata di fango e si avvicinò a lui.
Eric
si mise immeditatamente
all’erta e provò a schivarla, ma lei fu
più veloce: faceva le finte da molto
prima di lui.
Riuscì
ad agguantarlo per il
busto e a caricarselo sotto un braccio come un sacco di patate
particolarmente
indisponente e si diresse di nuovo verso la vetrata del soggiorno.
Eric
si dimenava e rideva,
tanto che dopo pochi secondi lo sentì scivolare dalla sua
presa; prima che
potesse battere l’ennesima testata, quella volta sul
pavimento mattonellato in
pietra grigia della terrazza, lo afferrò con
l’altro braccio, trasportandolo a
testa in giù fin dentro casa, per poi dirigersi lotteggiando
verso il bagno.
Fortunatamente
sua suocera
era una donna previdente, e aveva già riempito la vasca di
acqua calda.
Avrebbe
dovuto invitarla a
cena, una di quelle sere.
Rimise
dritto Eric e cercò,
invano, di aggiustargli la maglia. Quando alzò lo
sguardò su di lui, lo vide
sporgere un po’ il labbro e rifilarle la classica aria da
cucciolo indifeso.
-
Non attacca – gli
comunicò, sorridendo un po’ e iniziando a
spogliarlo.
-
Uffa. – sbuffò il bambino
incrociando le braccia e mettendo su un’espressione
corrucciata.
-
Eric, non essere ridicolo.
Ti voglio solo dare una pulita, non ti sto certo mandando in guerra.
– gli
disse pratica, mentre lo aiutava a sfilarsi pantaloncini e biancheria e
lo
prendeva in braccio per immergerlo nella vasca.
I
suoi vestiti ormai erano
da cambiare, ed era inutile tentare di salvare il salvabile, quindi non
si fece
troppi problemi ad abbassarsi verso la superficie dell’acqua
leggermente ricoperta
da schiuma chiara.
Eric
non sembrava essere
dello stesso avviso, perché appena toccò con un
piede l’acqua calda e fumante,
saltò su come se si fosse bruciato e si aggrappò
al suo collo. – No. Brucia! –
protestò, guardandola come se stesse cercando di infilarlo
in forno.
Si
scambiò un’occhiata
diffidente con il bambino e infilò l’avambraccio
pallido nella vasca chiara.
Era perfetta, altro che calda!
Avrebbe
ucciso per passare un’ora indisturbata nella
vasca dal bagno.
Si
rese conto troppo tardi
del suo errore, quando il figlio approfittò del momento di
distrazione per
divincolarsi e correre fuori dal bagno completamente nudo.
Si
passò una mano sul viso,
ricordando quando, un anno prima, Eric si era fiondato nudo come
giù dalle
scale ed era andato, ingenuamente, a suonare ai due distinti signori
che
vivevano al piano inferiore.
Thomas
si era lanciato
all’inseguimento con solo un asciugamano in vita, e quando
era tornato a casa,
con il bambino in braccio che si succhiava il pollice, era
più rosso di un
semaforo per l’imbarazzante incontro.
Lei
aveva riso per un buon
quarto d’ora, ignorando i borbottii dell’uomo e
prolungando quella storia per
giorni, fino a quando suo marito non aveva sbottato. Era stato
divertente.
Quando
uscì dal bagno, senza
neanche troppa fretta, le arrivò la voce della suocera.
– Tesoro… ma dove vai
tutto nudo? – la sentì chiedere in tono sorpreso e
divertito. – Dai, torniamo
di là… -.
Scosse
la testa. Suo marito
doveva essere stato un tipino tranquillo, forse un po’
petulante ma
disciplinato e ubbidiente. Un perfetto bimbo erudito, curioso e amante
dello
studio. Il contrario della terrificante progenie che rispondeva al nome
di
Eric.
Fece
un paio di passi nel
breve corridoio che conduceva al soggiorno, sul quale si
affacciò appoggiandosi
alla parete.
La
scena che le si presentò
davanti agli occhi le provocò un misto di ilarità
e di disperazione; non sapeva
se ridere per la faccia imbronciata di Eric, piantato con i piedi per
terra e
per sua suocera che cercava di farlo camminare tirandolo per una mano,
o
mettersi a piangere in previsione degli anni futuri. Una cosa era
certa: poteva
solo peggiorare.
Si
avvicinò ai due e fece
per prenderlo di peso, ma il bambino divincolò il braccio
dalla presa della
nonna e si precipitò di nuovo nella terrazza e lei dietro di
lui.
In
quell’occasione era una
vera fortuna vivere all’ultimo piano. – Proprio non
ti vergogni, eh? – domandò
raggiungendolo, mentre lui raccattava il pallone da terra e tornava
verso si
lei.
-
Non ci pensare nemmeno. È
sporco, non puoi portarlo nella vasca! – lo ammonì.
Eric
si morse il labbro
inferiore e assunse un’aria pensosa. – Ma se lo
metto nella vasca poi è pulito!
– protestò.
Apri
e richiuse la bocca.
Giusta
osservazione.
Scosse
la testa, mentre il
bambino cercava evidentemente di rigiocarsi la carta
dell’espressione da cane
bastonato.
-
Okay, facciamo un
compromesso. – iniziò, sedendosi sui talloni e
mettendogli le mani sulle
braccia.
Eric
la guardò confuso. –
Cos’è un co… contromesso?
– chiese,
guardandola come se gli fosse spuntato un terzo occhio in mezzo alla
fronte.
Rise
in un po’, sistemandosi
meglio. – Compromesso, tesoro. Significa che io ti permetto
di fare qualcosa
che ti rende contento, a patto che tu faccia qualcosa che rende
contenta me.
Capito? - gli spiegò, cercando di rendere il concetto
accessibile a un bambino
di quattro anni.
Eric
sembrò pensarci un po’
su, diffidente, prima di annuire lentamente.
-
D’accordo. Allora, dimmi
se ti va bene: stasera papà
giocherà
a palla con te, solo se ora vieni a farti
il bagno. -.
Il
bambino annuì nuovamente,
senza tuttavia mollare il pallone. – Prometti. – le
disse, guardandola come
sfidandola a rimangiarsi quello che aveva appena detto.
Elizabeth
sospirò cercando
di non perdere la pazienza, perché ne avrebbe avuto bisogno
quella notte,
quando sarebbe stato l’unico neurochirurgo del reparto.
-
Promesso. – concesse, - stasera
papà giocherà con te. –
Si
versò un po’ di shampoo
sulle mani e insaponò i capelli scuri del bambino, che
nonostante fosse
riuscita a infilare nella vasca, non ne voleva sapere di stare fermo.
-
Eric, quando… - iniziò,
afferrandolo e cercando di rimetterlo seduto. - ... quando mi hai detto
che
saresti venuto a fare il bagno senza lamentarti, era sottinteso che
dovessi
rimanere anche fermo. – brontolò, mentre riusciva
finalmente a impedirgli di
alzarsi in continuazione.
Non
era sicuramente la prima
ad avere un figlio iperattivo, agiato e testone… eppure
sembrava quasi
impossibile che lui e William fossero nati dalle stesse due cellule.
William
era tranquillo,
tranne quando decideva che fosse opportuno assecondare il fratello, e
adorava
leggere e imparare… bastava vedere come
s’interessava a tutto ciò che lo
circondava. Eric dal canto suo era agiato, incostante e borioso. Eppure
quei
due riuscivano a comunicare a capirsi in un modo che a lei a suo marito
rimaneva quasi sconosciuto.
Proprio
in quel momento fece
il suo trionfale ingresso William, che vedendo il fratello nella vasca
iniziò a
spogliarsi con calma. Ripiegò come poteva i vestiti via via
che se li toglieva
e, una volta finita quell’operazione, li andò ad
appoggiare sul panchetto
infondo alla stanza.
Poi
tornò trotterellando
verso di lei e provò a scavalcare il bordo della vasca,
scivolandoci dentro con
poca grazia.
Altra
differenza tra i suoi
figli era l’evidente negazione per
l’attività fisica di William. Spesso era
impacciato, mentre il fratello correva e saltava ovunque,
indipendentemente dal
dove, dal come e dal perché.
Si
riscosse da suoi pensieri
quando le arrivò un’ondata d’acqua in
pieno viso seguita dalle risate dei
figli.
Okay.
-
Vi state divertendo vero?
Vedremo quanto riderete domani, quando dovrete svegliarmi presto
per… – insinuò
ammutolendo immediatamente entrambi i bambini.
-
Non ci torno! – decretò
Eric, interrompendola. – E neanche Will! –
aggiunse, come se fosse lui a
decidere e il fratello fosse quasi una sua esclusiva.
-
E invece sì. Tu stai
benissimo e a tuo fratello piace andare a scuola. Fine della
discussione. –
decretò, mentre passava il bagnoschiuma a William che, con
calma, se né verso
un noce sulle mani e iniziò a strofinarle tra loro creando
un po’ di schiuma.
Mentre
strofinava Eric con
una spugna morbida notò che quelli che gli aveva fatto
vedere prima erano solo
un piccola parte dei graffi che si era procurato.
-
Eric come te li sei
procurati tutti questi tagli? – chiese, esaminandogli un
braccio e facendo scorrere
lo sguardo sulle gambe escoriate.
-
Allora… questo… - iniziò
girandosi verso di lei reggendosi alla vasca e indicandosi un ginocchio
con una
brutta sbucciatura. – me lo sono fatto perché
correvo. – spiegò.
-
Questo… perché sono caduto
ancora… - proseguì, indicandosi un fianco su cui
s’intravedeva già un livido. –
come questi! – disse, piegando le braccia e mostrandole i
gomiti alla madre.
-
Ma qua ti sei fatto male!
Fammi vedere! Come hai fatto? – esclamò, lasciando
la spugna dell’acqua e
afferrando il gomito del bambino per esaminarlo meglio. Non sembrava
niente di
troppo serio, ma aveva davvero una brutta sbucciatura anche poco
rimarginata.
Come
diavolo aveva fatto a
non accorgersene?
-
Appetta, appetta! No ho finito!
– protestò, divincolandosi
un po’ dalla sua presa. – Questi perché
mi sono arrampicato su un gioco dove
bisognava stare appesi con le mani e andare dall’altra parte,
sempre appesi, e
mi sono scivolate le mani e sono caduto! – spiegò,
gesticolando come a
ricostruire la scena, allargando le braccia come se fossi ancora
stranito dal
fatto di essere scivolato.
-
Be’, dovresti stare più
attento, prima di farti male sul serio. – lo
ammonì. – E tutti questi graffi?
-.
-
Stavo giocando con la palla
che ha preso la nonna, solo che ho tirato lontano ed è
finita in un ceppuglio con le ppine! Tante! –
raccontò,
tutto contento e concentrato sul suo entusiastico racconto.
Beato
lui che si divertiva!
Lasciò
il braccino del
bambino e gli ispezionò con cura il viso graffiato.
Possibile
che non gli
facesse male?
Prese
un panchettino e si
sedette accanto alla vasca, mentre i due bambini finivano di lavarsi da
soli,
prima di asciugarsi le mani sui pantaloni scuri, tirarli fuori dalla
vasca e
avvolgerli ognuno nel proprio accappatoio.
-
Ecco fatto. – mormorò,
strofinando i capelli a William con un asciugamano pulito. –
Sei un po’
taciturno, tesoro. Va tutto bene? – gli domandò,
vedendolo più pensoso del
solito.
-
Sì. Ho sonno. Dopo papà mi
legge il libro nuovo? – chiese, lasciandosi asciugare e
osservando il fratello
che nel frattempo si stava strofinando energicamente i capelli con il
cappuccio
dell’accappatoio.
-
Ehm... certo tesoro. Ma
prima fate riposare un po’ papà, sarà
stanco… - disse, cercando di salvare il
marito dalla serata “impegnata” che lo aspettava e
che lei stessa aveva
contribuito a organizzargli.
Promettere
qualcosa a uno
dei suoi figli l’equivalente di firmare un patto col sangue.
In
realtà lasciarli la
rendeva nervosa: da quando erano nati, non li aveva mai lasciati soli
tutta la
notte, e non sapeva bene come organizzare tutto per evitare di
ritrovare Thomas
più esaurito del solito il mattino dopo. Non era certa che
fosse una buona idea
lasciarlo in balia dei figli tutta la notte; sapeva che quando non
c’era
diventavano più irrequieti, soprattutto Eric, e lui aveva
bisogno di riposare.
D’altro
canto non poteva
nemmeno tirarsi indietro, data la disorganizzazione
dell’ospedale in quel
periodo. Contava sul fatto che suo marito era un uomo abbastanza
intelligente
da escogitare un modo per sopravvivere fino al suo ritorno.
Finì
di asciugare e
sistemare entrambi con cura, prima di portarli nella camera che
condividevano
per vestirli “da casa”, in modo che stessero comodi
e, soprattutto, che il marito
potesse distinguerli con un solo colpo d’occhio.
Durante
tutta la vestizione
furono stranamente tranquilli, lasciandosi strapazzare senza proteste
mentre
gli infilava i pantaloni della tuta e cercava di sistemargli i capelli,
che non
erano ricci e mossi come quelli di Thomas, ma neanche lisci come i
suoi.
Quando
ebbe finito, li mise
entrambi a sedere sul letto di William. – Va bene, io tra
poco devo uscire, voi
state tranquilli con papà e non fatelo ammattire,
d’accordo? – lì avvisò,
sedendosi tra loro e guardandoli a turno.
-
Kay... – acconsentì
William, annuendo un po’ con la testa e buttandosi
giù dal letto. Camminò fino
alla porta prima di voltarsi verso il fratello e guardarlo in attesa.
Eric
gli lanciò un’occhiata,
annuì e lo raggiunse.
Sì, lo
so.
Sono pessima… mesi per scrivere un capitolo, questo
è il mio nuovissimo record
(che sinceramente spero non ritrovarmi a battere!).
Avrete notato,
sicuramente, qualche parola scritta in modo
“errato” nei dialoghi di Eric e
William, e un linguaggio sicuramente infantile nei pensieri di Eric.
Sappiate
che non ho perso quelle poche proprietà lessicali di cui
dispongo, non ho avuto
momenti improvvisi di regressione all’infanzia…
sono voluti!
Questo
capitolo, complice lo scarsissimo tempo che mi è rimasto per
scrivere, non mi
ha messa in difficoltà. Di più!
Vi chiedo
scusa mille volte per possibili errori… purtroppo a forza di
leggere una cosa
la si impara quasi a memoria e diventa difficile individuare le
imprecisioni.
Ovviamente, dato che ogni tanto rileggo i miei capitoli (per vedere se
ho
lasciato qualche strafalcione) semmai ne troverò
provvederò immediatamente a
correggerli.
Spero di
riuscire ad aggiornare anche questa storia – riprendere ad
aggiornare, più che
altro – con una parvenza di regolarità anche se
temo che il prossimo capitolo
arriverà tra un mesetto. Purtroppo sono sopraffatta dalla
sessione invernale e
sono un po’ indietro con gli esami…
In compenso,
dato che mi piace complicarmi la vita, al massimo domani
pubblicherò un
raccolta di “missing moment” delle due storie.
Il titolo
dovrebbe essere, se non mi parte un altro treno stanotte, Drops of memory evviva
la fantasia. Vi piace?
Vi ringrazio
tutti per le recensioni, i preferiti, l’inserimento tra le
seguite/ricordate e
per ogni lettura!
Aspetto i
vostri commenti!
A
presto!