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Autore: Arlie_S    06/02/2016    3 recensioni
[PREQUEL AMBIENTATO CIRCA 14 ANNI PRIMA DELL'INIZIO DI DIVERGENT]
Cosa è successo, prima degli eventi che tutti conosciamo, nella vita di Eric per farlo diventare quello che ritroviamo in Divergent? Cosa l'ha portato ad essere il ragazzo freddo e incapace di relazionarsi agli altri?
In questa breve fic, ho cercato di dare la mia personale visione dei fatti.
I personaggi sono i soliti, con qualche new entry, della mia long "Braveheart", solo che qualcuno si è un po'...ristretto!
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[Cap.1]
Calmati. Conta fino a dieci: uno, due, tre..
Meglio se arrivo a cento.
- Come prego? – chiese freddamente, fingendo di non aver capito.
- È talmente agitato e incostante, signora, che non so davvero come farà! Ed io difficilmente mi sbaglio sui bambini di cui mi occupo - le disse in tono confidenziale. Molto bene; quella era sicuramente, da un punto di vista di ricerca, la frase che comprovava la sua teoria: quella donna era un’idiota.
- Lo diceva anche della figlia del dottor Evenson, il primario. – le fece notare, cercando di contare fino a cento prima di dire o fare qualcosa di cui sicuramente non si sarebbe pentita, ma che avrebbe potuto crearle non pochi problemi.
Genere: Commedia, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Eric, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 3

 

 

Quella mattina, quando si era alzata, ricordandosi del malessere di Eric, aveva avuto la malsana idea di permettere a lui e al fratello, poiché nessuno dei sue faceva un passo senza l’altro, di rimanere a casa.

Il risultato di quella brillante idea era che le era toccato prendere mezza giornata per non lasciare sua suocera tutto il giorno in balia dei nipotini, che quel giorno in particolare sembravano più propensi del solito a fare baldoria. Persino William, in genere molto più posato del fratello, scorrazzava da una parte all’altra della casa seguendo Eric in ogni malefatta che quel cervellino da piccolo Erudito riusciva a concepire. Per evitare disastri, aveva preventivamente chiuso a chiave lo studio.

Aveva provato a rincorrerli, sgridarli e minacciare di metterli entrambi in punizione, ma si era anche resa conto che, forse, rinchiuderli in camera e permettendogli così di confabulare senza interruzioni non fosse una grande idea dopotutto. Inoltre quello che diceva ai due piccoli mostri, sembrava entrare dall’orecchio di uno e uscire dall’orecchio opposto dell’altro.

Si lasciò cadere sul divano, coprendosi il viso con le mani e tendendo le orecchie per captare eventuali rumori di vetri in frantumi, testate o borbottii sospetti. Thomas sarebbe tornato a momenti per il pranzo e poi si sarebbero diretti insieme verso l’ospedale, lasciando i figli con la nonna paterna… che non invidiava per nulla. Per quanto William fosse calmo e misurato, quando si metteva in combutta con Eric, la cosa più furba da fare era darsela a gambe o disporre di una paio di camice di forza formato bambino particolarmente resistenti, perché oltre ad essere indiscutibilmente attivi ed energetici, i due erano anche particolarmente ostinati in qualsiasi cosa si mettessero in testa di fare.

L’unica consolazione di quella mattinata allucinante era che Eric sembrava stare meglio ed essere un po’ più allegro, forse anche troppo, rispetto alla sera prima.

Avevano passato quasi l’intera nottata seduti sul divano in attesa che Eric si sentisse un po’ meglio, riuscendo a farli addormentare entrambi solo a notte inoltrata. Due ore dopo, Thomas era dovuto correre all’ospedale per un’emergenza, quindi sapeva già che quella sera sarebbe stato stanco e irritabile mentre le due piccole canaglie avrebbero sprizzato energia da ogni poro. Forse avrebbe voluto dirglielo.

Alla fine Thomas poteva cavarsela, si sarebbe ingegnato per gestire i piccoli in qualche modo e farli stare tranquilli, ma era comunque nervosa. Non era mai stata fuori tutta la notte da quando erano nati, un po’ perché sia lei che il marito stavano terminando la specializzazione in quei mesi, un po’ perché era stata sempre sostituita da marito e colleghi per via dei figli.

Si passò le mani sul viso, prossima all’esaurimento. Forse suo marito non aveva proprio tutti i torti del mondo quando le diceva di prendersi qualche giorno di riposo in cui preoccuparsi solo di quei due piccoli delinquenti che avevano messo al mondo. Non che da loro due potessero venire fuori due agnellini, s’intendeva, ma non credeva neanche che le sarebbero venuti due piccoli mostri geniali di quella portata.

Si tolse la felpa, rimanendo a maniche corte e cercò di rilassarsi il più possibile chiudendo gli occhi. Poi un pensiero, come un lampo, le attraversò la mente provocandole una strana sensazione d’inquietudine.

C’era un dettaglio di cui non si era resa pienamente conto fino a quel momento e che avrebbe dovuto farle immeditatamente suonare un campanello d’allarme gigantesco.

Il silenzio.

Intorno a lei regnava il più assoluto silenzio e non era mai un buon segno quando i piccoli mostri non si sentivano. Sapeva che erano capaci di essere silenziosi e scaltri nell’evitare di rendere evidente ciò che imbastivano, ma dopo il caos che avevano creato fino a mezz’ora prima, quel silenzio poteva essere sinonimo esclusivamente di due cose: o si erano addormenti, cosa di cui conoscendo i suoi figli dubitava fortemente, o avevano combinato un guaio e cercavano di rimediare nel modo più silenzioso possibile per non essere sgridati.

Cercò di captare un suono, una parola o anche il rumore di qualcosa che cascava o si rompeva, ma non percepì niente se non un leggerissimo ruscellare proveniente dal corridoio; rumore che fino a quel momento le era sfuggito, tanto era lieve.

- Eric? William? – provò a chiamarli a voce alta, senza tuttavia ricevere risposta.

Si alzò lentamente e si diresse, inquieta, verso il bagno che stava davanti alla camera dei figli. Da lì sentiva il rumore dell’acqua che scorreva nella stanza, ma niente sembrava indicare la presenza dei bambini al suo interno.  

- Ragazzi?! – ritentò, mettendo una mano sulla porta, pronta ad aprirla.

Non ottenendo risposta, provò a bussare e udì quasi istantaneamente dei movimenti all’interno della stanza.

Provò ad aprire, ma la porta era bloccata dall’interno.  – Aprite immediatamente! Eric, William! –.

Qualcuno si fermò dall’altra parte della porta. – Sì? Abbiamo da fare! – la informò quello che riconobbe come Eric. Non sembrava molto convinto.

- Apri. Adesso. – gli impose, cercando per quanto possibile di mantenere la calma. Era troppo stanca anche per arrabbiarsi e con due elementi del genere, anche mettersi a discutere diventava un’impresa.

 – No. –rispose candidamente.

Prima che potesse ribattere, sentì William dire qualcosa al fratello con voce quasi inudibile ma concitata e due secondi dopo udì la chiave che veniva sfilata dall’interno.

In quel momento fu felice che i suoi figli fossero ancora piccoli e non pensassero che, levando la chiave all’interno, lei avrebbe potuto aprire da fuori.

Si diresse con passo felpato verso la porta della stanza che condivideva con il marito, lotteggiò per qualche secondo con la serratura per sfilare la chiave e tornò davanti alla porta del bagno.

Inserì la chiave nella serratura e la fece scattare lentamente, ma qualcosa, alla base della porta, ne ostacolava l’apertura. Facendo maggior pressione riuscì a entrare e lo spettacolo che si ritrovò davanti la lasciò per un attimo senza parole, impalata sull’ingresso della stanza dalle pareti chiare.

Lo specchio alla sua destra era completamente appannato e la vasca alla sua sinistra traboccava d’acqua che si stava riversando sul pavimento, sommergendo il tappeto bianco e azzurro davanti al lavandino, dal quale scendeva una sorta di cascata di acqua a schiuma. Capì cosa aveva fatto da ostacolo alla sua entrata, quando si sentì infradiciare le ciabatte e i piedi: a quanto pare, per evitare che l’acqua allagasse tutta la casa, i suoi adorabili figlioletti, avevano piazzato alcuni asciugamani davanti allo spiraglio della porta, mentre gli altri, accappatoi compresi, erano ridotti a dei cumuli di tessuto fradicio per il bagno.

Sul pavimento erano sparsi disordinatamente il bagnoschiuma e diversi campioncini per il bagno e, notò con orrore, le pareti erano imbrattate di rossetto. C’era anche un forte odore che le ricordava il suo profumo nell’aria, ma non aveva idea da dove provenisse.

Al centro della stanza, bagnato dalla testa ai piedi, William la guardava dal basso verso l’alto con aria colpevole e con le mani dietro la schiena. Il fratello invece era seduto nell’acqua, in fondo alla stanza, poco più indietro rispetto al lavandino, completamente bagnato dalla testa ai piedi anche lui e con le maniche della maglietta tirate fino al gomito. Sembrava si fosse immobilizzato in quella posizione, con le mani leggermente protese in avanti di fronte al mobile in cui teneva i prodotti da bagno. Notò con incredulità che a tutti i rubinetti mancavano le manopole.

Non era possibile. Non potevano essere due bambini di quattro anni. Che cosa avrebbero fatto a dieci, a quindici? Dato fuoco a tutta la casa?

Si portò le mani sul viso, incapace di dire qualcosa di fronte a quel disastro e alternò un paio di volte lo sguardo tra i figli. – Perché? – esalò, senza neanche prendersi la briga di alzare la voce.

I bambini si scambiarono un’occhiata, come a cercare la risposta nel viso dell’altro e tornarono a fissarla.

Entrò del tutto nel bagno e si diresse verso la parete, fortunatamente fino a una certa altezza mattonellata, per recuperare i suoi trucchi distrutti. Trovò anche la fonte del profumo: in terra c’era una boccetta trasparente, con il tappo di un viola chiarissimo, in frantumi. Il suo profumo, appunto.

- Quello è caduto per sballio… - si giustificò William, andandole accanto per osservare il danno.

- Zitto. Appena tornerà vostro padre faremo due chiacchiere... – lo zittì, secca.

Si voltò verso Eric, ancora inginocchiato a terra davanti al mobile da bagno, e assottigliò lo sguardo. – E tu, - sibilò, - tira immediatamente fuori le manopole dei rubinetti o ti giuro, Eric Turner che resterai in punizione fino al Giorno della Scelta! – concluse furente di rabbia, all’indirizzo del figlio che parve pensare un attimo al da farsi.

In quel momento sentì la porta dell’ingresso aprirsi e il saluto del marito affievolirsi di botto nel costatare che in casa sembrava non esserci nessuno.

- Siamo in bagno, Thomas! Vieni a vedere cosa hanno combinato i tuoi figli. – urlò, per farsi sentire facendo due passi indietro per affacciarsi alla porta che dava sul corridoio.

S’incrociarono sull’ingresso. Nonostante fosse vestito di tutto punto, esattamente uguale a come l’aveva visto quando era uscito di casa in piena notte, aveva un’aria profondamente stanca.

Si sporse oltre la sua spalla e scandagliò senza particolare interesse il disastro, soffermandosi solo un paio di secondi in più sui figli, rimasti impalati nelle stesse posizioni.

William, intercettando lo sguardo del padre si morse la bocca e lo guardò dal basso verso l’alto la sua miglior espressione innocente. Thomas spostò lentamente e senza nessuna particolare espressione lo sguardo su Eric che, nel frattempo, aveva aperto il mobiletto e sembrava alla ricerca di qualcosa.

- Cosa stai cercando, tesoro? – sibilò Elizabeth, seguendo i movimenti del bambino che, intanto, si era piazzato davanti al mobiletto dei prodotti da bagno e si stava infilando con la testa dentro il mobile.

Sentirono il rumore di qualcosa di metallico che cozzava e si scambiarono uno sguardo stanco.

Suo marito scosse la testa e si appoggiò allo stipite della porta, massaggiandosi gli occhi con una mano da sotto gli occhiali. Sembrava esausto, prosciugato di ogni energie e ne era la riprova il fatto che ancora non avesse commentato l’operato dei figli.

Eric li guardò innocentemente dal bordo superiore dello sportellino aperto. – Niente, mamma. – affermò tranquillamente.

- Dopo acciugamo. – aggiunse William, riferendosi al pavimento, come se quello mettesse a posto le cose e loro fossero liberi di andarsene come niente fosse.

Si passò le mani sul viso. –Siete in punizione. – decretò, guardandoli severamente, la voce calma e misurata. – E non solo asciugherete tutto, ma rimetterete ogni cosa al suo posto prima che arrivi la nonna, che non deve durare fatica a rimediare a un guaio che avete combinato voi. –

Gli occhioni grigi di Eric riapparvero, vigili, dal bordo superiore dello sportellino. – In punizione? Niente ccuola? – chiese, evidentemente speranzoso.

Rise, con una nota d’isteria nella voce. - No, certo che no. Andrete a scuola e passerete anche il pomeriggio al doposcuola, senza polemiche per tutto il resto dell’anno, esclusa l’eventualità che uno di voi prenda la febbre. – assicurò, intransigentemente.

Eric assunse un’espressione contrita. – Papà? – chiese, girandosi insieme al fratello a fissare il padre che, fino a quel momento, non aveva detto una parola.

L’unica cosa che ottenne fu un’occhiata severa, di quelle che gli riservava esclusivamente quando non aveva più la pazienza per assecondarli.

Nonostante lei si arrabbiasse molto di più e avesse un livello di sopportazione decisamente inferiore a quello del compagno, i figli erano molto più ubbidienti con lui che con lei e quando il padre li guardava così, in genere, si limitavano a ubbidire senza storie, consapevoli di aver raggiunto il limite massimo.

- Non guardatemi così. Avete sentito la mamma. – decretò, fissandoli severamente.

Vide Eric deglutire e aggrapparsi con le dita di entrambe la mani al mobiletto. – Che c’è che non ti convince, Eric? – gli chiese Elizabeth, assottigliando lo sguardo e mettendosi le mani suoi fianchi.

- Non vollio andare a ccuola. E neanche Will deve. – asserì, con una convinzione, quasi fosse lui a decidere chi faceva cosa.

Inarcò le sopracciglia. – Questo non lo decidi te, signorino. –

- Ma… -

Alzò una mano per zittirlo, mentre Thomas andava, o almeno sperava stesse andando, a prendere degli asciugamani. – Era la mia ultima parola. –

Il bambino si morse il labbro, in silenzio, e la guardò con gli occhioni grigi spalancati e il labbro inferiore sporgente.

Scosse la testa. – Non ci provare nemmeno. Hai sentito tuo padre, no? -.

Eric abbassò gli occhi e corrugò le sopracciglia come se fosse sul punto di scoppiare in lacrime. Poi si alzò, sbatté con forza lo sportello del mobiletto e le passò accanto urtandola, prima di correre in camera sua.

Si girò per riprenderlo, ma lo trovò con il sedere per terra, davanti al marito che tornava con alcuni asciugamani in mano. – Eric. Dove vai così di fretta? – gli chiese lui porgendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi.

Eric, con grande perplessità sia da parte sua che del padre, allontanò la mano con uno schiaffo e corse nella camera che divideva con il fratello.

Lei e il compagno si scambiarono uno sguardo stranito, lui con la mano ancora protesa verso il basso e lei in piedi davanti alla porta del bagno.

- Eric? – lo chiamò, alterata dal comportamento del bambino, avviandosi dietro di lui.

- Aspetta. – mormorò Thomas, afferrandola per un braccio per impedirle di raggiungere il bambino.

Lo guardò incredula: sapeva che l’uomo che aveva sposato era estremamente tranquillo, equilibrato e acuto, eppure non era mai stato molto tollerante con certi comportamenti. Che sapesse qualcosa in più di lei?

Thomas sembrava pensoso, concentrato su chissà cosa, con la stesse espressione che avrebbe avuto se si fosse trovato a analizzare qualcosa di particolarmente complicato e a metterne insieme i pezzi.

Finalmente le lasciò il braccio. – Prendi questi, - le disse, porgendole degli asciugamani puliti. – Torno subito. –

Lo osservò, ancora confusa, sparire nella camera dei bambini, mentre lei restava in mezzo al breve corridoio come un’idiota con gli asciugamani tra le braccia.

Si sentì tirare per i pantaloni e abbassò lo sguardo. – Sì? –

William le fece un sorrisetto di scuse dal suo metro scarso di altezza e le strinse le gambe.

- Non fare il ruffiano come tuo fratello, non funziona. – lo avvertì, scoccandogli un’occhiata risentita e chinandosi davanti a lui per avvolgerlo nell’asciugamano.

- Ho fame! – comunicò il bambino, mentre gli strofinava i capelli per cercare di asciugarli il più in fretta possibile.

- Se tu e tuo fratello non aveste allagato tutto il bagno, fatto a pezzi i miei cosmetici, dipinto le piastrelle con i miei rossetti e non vi foste conciati in questo modo, saremo già a tavola da un bel po’. – lo riprese con stizza, sfilandogli la maglietta e asciugandolo anche addosso.

- Dimmi una cosa: perché questo disastro? – chiese severamente dopo alcuni secondi di silenzio durante i quali William si era fatto passivamente asciugare senza tante storie.

Il bambino sorrise, - Volevamo fare una piscina! – spiegò, guardandola come se avesse dovuto fargli un applauso seduta stante per la splendida e innovativa trovata.

- In bagno? – domandò, stringendo appena le labbra.

- Sì! In camera no c’è l’acqua. – mormorò, come se fosse una cosa riprovevole.

Eccellente, quindi il piano originale era quello di allagare la camera. Buona a sapersi, ne avrebbe tenuto conto, magari sigillando, da quel momento, tutte le stanze.

- E ti sembra una cosa logica da fare? – chiese incredula, sfilando anche i pantaloncini del bambino e asciugandogli le gambe.

William corrugò le sopracciglia, pensoso, proprio come faceva sempre suo marito quando non gli tornava qualcosa. – No. Ma è divettente!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- Eric? – lo chiamò, entrando silenziosamente nella camera e individuando raggomitolato sotto le coperte.

- No. – rispose da sotto il fagotto di coperte che si era creato.

Raggiunse l’impalcatura del letto a castello e lo osservò dalle sbarre orizzontali che delimitavano il letto superiore.

-‘No’, cosa? – chiese pacatamente, passando una mano su quella che, al tatto, gli sembrava la schiena.

Eric si ritirò un po’, prima di rigirarsi sotto le coperte. Dopo qualche secondo face capolino da sotto la coperta, disfando lateralmente il letto e affacciandosi appena, i lenzuoli tirati fin sopra il naso.

- Non vollio andare a scuola. – ripeté, senza muovere un muscolo e guardandolo fisso.

Annuì. - Mmh... posso salire? – chiese, mentre metteva giù la scaletta, portandosi avanti.

Una massa di capelli neri tutti scompigliati uscì dalle coperte e fece un cenno di diniego, prima di sparire nuovamente.

Era certo che ci fosse qualcosa che non andava. Non tanto in Eric, quanto nel suo comportamento: era sempre stato, per certi versi, più introverso del gemello. In genere quando c’era qualcosa che non gli tornava diventava taciturno piuttosto che chiedere chiarimenti, come invece faceva William, a lui o alla madre. Nonostante questo, aveva la sensazione che ci fosse altro: aveva pensato che le coliche che aveva avuto recentemente fossero a causa della sua scarsa propensione ad andare a scuola o che fossero causate dal fatto che andava poco d’accordo con gli altri bambini e che lo escludessero per questo. Poteva essere una teoria valida, ma nelle ultime due settimana la situazione aveva iniziato a degenerare: negli ultimi tre giorni era diventato quasi inappetente, oltre che bizzoso e arrabbiato con tutti. L’unico che sembrava essere sulla stessa lunghezza d’onda era William, che riusciva a interpretare gli atteggiamenti ambigui del fratello.

Aveva provato a parlarne con Elizabeth, ma non erano addivenuti a nulla se non a lunghe discussioni sul tempo che riuscivano a trascorrere con i bambini e sulle evidenti inclinazioni poco erudite di Eric che sua moglie si rifiutava di vedere. Era normale che ci soffrisse, che non volesse che uno dei due, un giorno, si allontanasse da lei, era naturale, ma era anche altrettanto giusto assecondare il bambino. Così gli avevano insegnato, e così stava facendo con i suoi figli: ognuno ha le proprie attitudini, anche tra gli Eruditi, e ogni attitudine si sviluppa in modo diverso. Ne consegue che ogni individuo ha esigenze differenti e metodi di ragionamento propri.

Era la stessa ragione per cui tutte le sere, indipendentemente dal fatto che ritenesse quello che avevano in mente i figli produttivo o meno, si metteva in salotto e li assecondava. Certo non si divertiva a trent’anni a fare i castelli con i cubetti o a leggere un libro fin troppo colorato e con cellule parlanti, ma lo faceva…

Un tonfo sordo e metallico lo distrasse dai suoi pensieri, seguito da un mugolio sofferente.

- Ahi… - mormorò una vocina sottile da sotto le coperte.

Arrivò davanti al punto in cui, teoricamente, avrebbe dovuto trovarsi testa e bernoccolo del bambino e scostò le coperte.

Eric riemerse e si mise impacciatamente a sedere con le gambe incrociate, tenendosi la testa con entrambe le mani, le dita infilate tra i capelli e gli occhi lucidi.

Scosse appena la testa e lo tirò giù dal lettino, infilandogli le mani sotto le braccia e mettendolo a terra senza sforzo. Scostò con delicatezza i capelli, osservando il punto in cui doveva aver battuto e premette appena.

- Ahi! – protestò Eric, guardandolo corrucciato.

- Scusa, - mormorò, - volevo vedere dove hai battuto. –

Eric non sembrò molto convinto ma annuì e fece per riarrampicarsi sul letto. La fuga durò meno di un paio di secondi, perché non appena Thomas si accorse del tentativo di ritirata del bambino lo riprese di peso e lo fece sedere sulle sue gambe.

Eric si divincolò. – Su! – protestò, incrociando le braccia e cercando, nel contempo, di liberarsi, inutilmente.

Per evitare ulteriori discussioni, lo afferrò per l’ennesima volta da sotto le braccia e lo mise a sedere sul bordo del letto superiore. Il bambino parve soddisfatto da quella piccola vittoria, anche se aveva ancora l’aria cupa e pensosa.

- Non muoverti, torno subito. – mormorò, prima di uscire e tornare nel corridoio a prendere alla moglie l’altro asciugamano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eric aspettò nervosamente che il padre tornasse, dondolando le gambe oltre il bordo del letto e cambiando posizione alle braccia in continuazione. Non sapeva come mettersi e non riusciva a stare comodo in nessun modo. E iniziava fargli male la pancia, di nuovo.

Si massaggiò il ventre, mentre iniziava evidentemente a diventare ansioso per il mancato ritorno del padre.

Stava quasi per scendere da dove gli era stato ordinato di rimanere, quando la porta si riaprì e richiuse rapidamente e fu avvolto in un asciugamano pulito. Aveva un buon profumo. Gli ricordava quello della mamma, anche se si arrabbiava sempre con lui.

Forse aveva ragione quel signore, quando gli diceva quelle cose.

Quei pensieri tristi e l’espressione preoccupata di suo padre gli fecero venire voglia di piangere di nuovo, anche se non gli piaceva.

Però, se si fosse messo a piangere, forse, il suo papà avrebbe convinto la mamma a non farli andare, a restare a casa. Avrebbe fatto anche il bravo.

Abbassò gli occhi, prima di sentire la mano calda dell’uomo posarsi al lato della sua testa e accarezzargli piano i capelli. – Eric, che c’è che non va? – gli chiese, guardandolo in quel modo.

Quando lo guardava così lo metteva un po’ in soggezione. Più della mamma, perché lui era meno severo di lei, quindi quando li guardava in quel modo dovevano comportarsi bene. Era meglio.

Sentì le labbra tremolargli e lo stomaco contorcersi di nuovo, chiuso.

- Non… - iniziò, debolmente, guardando con diffidenza il genitore.

- Non? – lo incalzò incoraggiandolo con un cenno del capo.

Eric fece un bel respirone profondo, come quando era nervoso ma sapeva di doversi calmare per fare qualcosa. Si tormentò le mani, stringendosi le dita.

Tirò su con il naso, mentre gli saliva un nodo alla gola. – Non mi piace. – boccheggiò, passandosi l’asciugamano che aveva sulle spalle sugli occhi brucianti di lacrime.

Non gli piaceva piangere. Ancora meno, davanti a suo padre. Lui era grande.

- Per quale ragione? –lo spronò, mentre gli spostava i capelli bagnati dal viso e gli passava con delicatezza l’asciugamano addosso per asciugarlo.

Eric non rispose, ma quando suo padre gli coprì la testa con l’asciugamano, come se fosse stato una mantellina e i capelli gli finirono sugli occhi, sentì il nodo che prima aveva allo stomaco risalirgli in gola.

Si portò immediatamente le mani stretta a pugno ad asciugarsi gli occhi, mentre un smorfia gli increspava le labbra.

- Ehi... – gli mormorò suo padre, passandogli i pollici delle mani calde sotto gli occhi. – Che c’è? -.

Eric sentiva il labbro inferiore tremare e la vista ormai era appannata di lacrime. Tese le braccia verso il padre, mentre un singhiozzo gli si gonfiava nel petto.

Quando si sentì abbracciare e fu aggrappato al petto del padre, il viso nascosto nel suo collo, scoppiò a piangere.

Non sapeva neanche lui perché piangeva. Forse perché gli veniva e basta e si sentiva triste. Non voleva tornare lì. Voleva restare a casa, dove c’era la sua mamma che però non era arrabbiata con lui.

La mano calda di suo padre sulla schiena era confortevole e il massaggio lo faceva stare un pochino meglio, ma non gli stava facendo passare la voglia di piangere.

- No... no vollio… - singhiozzò disperato, aggrappandosi con tutte le sue forze al padre, che gli accarezzò i capelli, mentre lo dondolava, e gli diede un bacio sulla testa.

- Eric? – lo chiamò, piano, staccandoselo dal collo e guardarlo severamente.

Eric deglutì, anche se non il suo papà non sembrava arrabbiato con lui.

Thomas strinse le labbra, cercando le parole giuste da dire. – Lo sai che puoi dire tutto a me e alla mamma, giusto? – chiese, passandogli un pollice sulla guancia e sedendosi sul lettino inferiore.

Eric annuì un po’, appoggiando la testa sulla spalla del genitore. Gli stava tornando mal di test e non voleva parlare.

 

 

 

 

 

 

 

 

- È successo qualcosa a scuola? Qualche compagno con cui hai litigato, un’insegnante con cui non ti trovi bene…? – azzardò, alzandosi per prendere dei vestiti puliti.

Eric abbassò gli occhi e fece spallucce.

- Allora? – lo spronò, con un velo d’impazienza.

Eric si guardò nervosamente intorno. – Le maettre… io non gli piaccio. – mormorò, ritirando le gambe contro il petto e circondandosele con le braccia.

- A no? E cosa te lo fa pensare? -.

- Ho sentito che dicevano, di me, che sono ttrano e che volevano che io, no Will, solo io, andassi via presto. Con te o con mamma. – spiegò incespicando nelle parole.

Avrebbe dovuto far passare un brutto quarto d’ora alle insegnati, in quel caso dato che aveva già avvertito del carattere insicuro del bambino.

- E.. – aggiunse, prima che potesse interromperlo. – anche gli attri bambini… -.

Assottigliò lo sguardo. – Sicuro? Nient’altro? – insistette, mentre lo metteva in piedi e iniziava a sfilargli i vestiti per cambiarlo.

Il bambino annuì, forse un po’ troppo vigorosamente.

- D’accordo. Vado a vedere se la mamma e William hanno… che c’è? -.

Eric sembrava nuovamente nervoso mentre si guardava intorno con aria preoccupata.

- Papà? -.

- Sì? -.

- Non dire a mamma che ho pianto… - mormorò Eric.

Thomas aggrottò le sopracciglia, per un momento spaesato. – Perché? Non c’è niente di male a… - disse. Eric scosse la testa con vigore, mantenendo lo sguardo sul padre e facendo oscillare i capelli davanti al viso.

- Si arrabbia sempre. –

Avrebbe dovuto fare due chiacchiere anche con sua moglie.

Eric gli trotterellò dietro con poco entusiasmo fino alla porta del bagno.

- Era l’ora! Dove eravate finiti voi due? – proruppe Elizabeth, alternando lo sguardo dall’uno all’altro un paio di volte.

Sua moglie era intenta a cercare, a quanto pare, di asciugare il pavimento e togliere i graffiti di rossetto dalle piastrelle. Era stata una fortuna che non se la fossero presa direttamente con il muro rimbiancato da poco. Sembrava ancora nervosa, anche se meno rispetto a qualche minuto fa: s’infiammava velocemente tanto quanto sbolliva.

- Abbiamo fatto due chiacchiere – disse in tono ricco di sottintesi.

Sua moglie si girò a guardarlo in faccia e scosse appena la testa non comprendendo il significato nascosto in quell’affermazione e incitandolo a spiegarsi.

Gli fece cenno che glielo avrebbe spiegato più tardi, quando non ci fossero state orecchie scomode nei paraggi. Lei annuì con poca convinzione prima di osservare Eric seminascosto dietro le gambe del padre.

- Che fai lì dietro? È inutile che mi guardi con quel visino tenero… no, non provare a farmi “labbrino”, domani facciamo come dico io e senza discussioni! – disse, mentre Eric, dietro le sue gambe, rifilava una serie di espressioni da cane bastonato alla madre.

Il bambino alzò la testa verso di lui e lo fissò, prima di scuotere la testa, come a dire che almeno ci aveva provato.

- Metti il Delinquente a tavola, io finisco qua, mi lavo le mani e arrivo! –.

- Hai già fatto tutto? – chiese, colpito.

Elizabeth scosse la testa. – Certamente, per chi mi hai presa? Non sono mica un uomo! – lo rimbeccò, mentre si alzava e, tamponandosi con un asciugamano li sorpassava e andava a infilarsi nella loro camera.

- Che vuol dire? – domandò Eric tirandogli i pantaloni con espressione interrogativa.

- Non preoccupartene ora, né avrai tutto il tempo più avanti! – lo liquido, prima di dirigersi verso la cucina seguito dal bambino, sempre più perplesso.

In quel momento, qualcuno suonò al portone.

Si diresse verso l’ingresso e aprì e, senza avere il tempo di dire nulla, si ritrovò la madre in casa. – Ciao mamma. Pranzi con noi? – chiese, richiudendo il portone, mentre la donna posava il cappotto all’attaccapanni.

- No tesoro, ti ringrazio ma ho già pranzato. Siete un po’ in ritardo? Posso fare qualcosa? -. Domandò dandogli un bacio su una guancia ruvida.

Scosse la testa. – No, vai a sederti… anzi, Elizabeth ed io siamo già in ritardo. Ti dispiace pensare ai bambini? Noi prendiamo qualcosa per la strada. – si corresse guardando l’orologio che portava al polso.

Sua madre annuì. – Ma certo caro, non preoccuparti. Elizabeth? È a cambiarsi? – indagò, sorridendo a Eric, ancora attaccato alla stoffa dei suoi pantaloni.

- Ciao Eric. Cos’è quella faccia? – gli chiese, avvicinandosi e prendendolo in braccio. – È successo qualcosa? – aggiunse, rivolgendosi a entrambi.

Eric guardava la nonna con gli occhioni spalancati, vagamente preoccupato, ma scosse la testa. – Stai male tesoro? Papà mi ha detto che hai un po’ di mal di pancia ultimamente… vuoi un po’ di risino? – chiese, dolcemente, massaggiandogli la schiena.

Il bambino scosse la testa e si aggrappò al collo della nonna.

Forse un po’ di svago gli avrebbe fatto bene e, se conosceva un po’ sua madre, nel pomeriggio gli avrebbe portati al Parco.

Sua madre gli rivolse un’occhiata attenta. – C’è qualcosa che devo sapere, per oggi? Devono fare qualcosa in particolare come dei compiti… -.

- No. – rispose fin troppo velocemente Eric, guardando seriamente la nonna.

Lei rimase per un attimo interdetta e fissò il nipotino, prima di voltarsi verso di lui e chiedere conferma.

- Solo i compiti. – confermò, consapevole che, una volta che sua moglie avesse scoperto che aveva deliberatamente omesso il castigo dei figli l’avrebbe fatto dormire sul pianerottolo per settimana.

Forse sarebbe riuscito a trattare una riduzione della pena, se avesse fatto presente alla donna che, recludere i bambini in casa, a quell’età, equivaleva alla distruzione della casa.

Sì, poteva essere un buon compromesso, tutto sommato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- Nonna! Nonna! –

Abbassò gli occhi azzurri sul nipotino e si scostò un ciuffo di capelli castani strati di grigio dietro l’orecchio, mentre il bambino la scrutava seriamente dal basso con l’aria di chi pretende qualcosa. – Sì, tesoro? – chiese, smettendo di asciugare il ripiano della cucina.

Il bambino incrociò le braccia. – Abbiamo finito! – dichiarò annuendo.

Tese le labbra in un sorriso e gli passo una mano sui capelli scuri. – Mi sembra il minimo, dopo il disastro che avete combinato tu e tuo fratello. Avete da fare qualcosa per la scuola? – chiese, tornando a passare l’asciughino.

Vide con la coda dell’occhio il nipote storcere la bocca in una smorfia scocciata. - Sì… ma non mi va! – disse, alla fine con risoluzione.

- Male! -.

Ritornò a fissare il bambino e la sua espressione amareggiata. – Non guardarmi in quel modo, fila a fare i compiti insieme a tuo fratello e non tornare in qua fino a quando non avrai finito. – insistette, sospingendolo con delicatezza verso l’ingresso.

Come se non l’avesse neanche sentita, il bambino si morse il labbro inferiore e inarcò le sopracciglia, portando le mani dietro la schiena in un atteggiamento che aveva il chiaro intento di suscitarle tenerezza.

Sospirò, rassegnata. – Sei tremendo… - borbottò tra sé, prima di voltarsi e guardarlo seriamente ma senza poter evitare di sorridere appena. – D’accordo Eric, facciamo così: tu ora vai a finire quello che hai da fare ed io dopo vi porto al Parco. Che dici? -.

- Ma la maestra ha detto che lì doveva fare solo chi vuole! Non siamo con i bambini dei livelli grandi! – protestò, corrugando le sopracciglia e abbandonando l’espressione tenera di poco prima.

- Immagino tesoro, ma tu sei un Erudito e più impari fin da subito, meglio ti troverai più avanti, capisci? E ora fila di là... – disse, sospingendolo verso la stanza che divideva con il fratello.

Eric annuì un pochino. – Va bene, ma poi voglio giocare al Parco! – decretò, guardandola sospettoso, come se temesse di non giungere a un accordo.

- Va bene. Ma prima… -.

Lo guardò mentre si dirigeva, imbronciato e contrariato per la sconfitta, verso la camera che condivideva con il fratello.

Posò il panno che aveva usato per asciugare il ripiano della cucina e si diresse verso il bagno.

Forse, considerando il temperamento del nipotino, era più saggio prendere una cassettina del pronto soccorso e portasela dietro: l’ultima volta che aveva azzardato a uscire con i nipoti, Eric si era quasi rotto una gamba arrampicandosi su un albero e non teneva particolarmente a ripetere l’esperienza.

Suo figlio e la moglie erano fin troppo impegnati e a lei faceva piacere occuparsi dei nipotini… per quanto fossero agiatati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Infilò le chiavi nella toppa della serratura ed entrò, affacciandosi all’ingresso per controllare se c’era ancora qualcuno in casa. Di suocera e figli, neanche l’ombra. Sgusciò in casa e richiuse, accompagnando con la mano la porta d’ingresso. Poi, il più silenziosamente possibile, si diresse verso il bagno che la mattina i figli si erano divertiti ad allagare senza la minima considerazione per lei e suo marito. Quando entrò, sentì un moto di gratitudine per la madre di suo marito, che per quando alle volte fosse invadente e logorroica la aiutava molto più di quanto avrebbe dovuto; la stanza era asciutta e in perfetto ordine, forse anche più di come l’aveva lasciata lei prima dell’allagamento ed erano stati cambiati tutti gli asciugamani.

Dopo un’ultima occhiata di perlustrazione si diresse verso la stanza che condivideva con il marito. Camminò fino alla cassettiera, dove appoggiò la borsa prima di sfilarsi il cappotto leggero.

Si tolse le scarpe con un moto di sollievo, le afferrò con due dita e le infilò nella scarpiera marrone chiaro situata dietro la porta della stanza, prima di lasciarsi cadere sul letto.

Finalmente.

Solo al pensiero di dove tornare indietro, si sentiva male.

Si rimise seduta, avvertendo un certo fastidio dietro la nuca. Con una smorfia intrisa di stanchezza portò le mani dietro la testa e sciolse i capelli, passandoci poi le dita per districare eventuali nodi e massaggiarsi la nuca dolorante per la costrizione del fermaglio.

Si passò le mani sui pantaloni scuri mentre si sgranchiva il collo indolenzito, prima di lasciarsi nuovamente cadere all’indietro, lasciando che i capelli formassero un ventaglio nero intorno al viso pallido.

Restò per un po’ così: stesa, con le gambe piegate oltre il bordo del letto e le mani sulla pancia a bearsi del silenzio e della tranquillità che regnavano in casa.

Ogni tanto sentiva la mancanza del periodo in cui erano solo lei e Thomas. Le mancava il silenzio, la tranquillità di poter fare le cose senza fretta, di potersi prendere tutto il tempo per alzarsi la mattina o decidere di rimanere a letto, abbracciata all’uomo che aveva sposato a sonnecchiare e fare l’amore. Le due pesti avevano stravolto completamente la quotidianità cui erano abituati, ma né lei né suo marito sarebbero mai voluti tornare indietro, per niente al mondo.

Mentre rimuginava, sentì le palpebre diventare improvvisamente pesanti e, lentamente, scivolò nel sonno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un gran trambusto, fuori della porta, annunciò il rientro dei bambini e della suocera.

Elizabeth era in piedi, davanti ai fornelli, intenta a mettere insieme la cena in modo che suo marito non avesse anche da compiere l’ardua impresa di sfamare i piccoli mostri. Non sarebbe sopravvissuto dopo quindici ore di turno.

Aggirò la tavola, pulendosi distrattamente le mani su un panno asciutto. Doveva ancora ricominciare a connettere, dopo aver passato un paio d’ore a letto nel pomeriggio.

Fece giusto in tempo ad allontanarsi dalla cucina quel tanto che bastava per ritrovarsi davanti al portone d’ingresso, prima di venire travolta da una piccola sagoma vestita di blu.

- Mamma! Ciao! La nonna ci ha portati al parco! – esclamò Eric, guardandola dal basso e stringendosi alle sue gambe. Quella era un’abitudine venuta da chissà dove che avevano entrambi sia con lei sia con Thomas.

Squadrò il bambino dalla testa ai piedi, notando che la maglia blu aveva abbandonato la tinta unita per convertirsi al maculato.

- Davvero, tesoro? Non mi dire… e pensare che siete pure in castigo! - mormorò ironicamente cercando di capire di cosa esattamente, fossero quelle macchie.

Eric doveva essersi letteralmente rotolato in una pozzanghera, perché non avrebbe saputo in quale altro modo spiegarsi i capelli irrigiditi dalla melma e sparati in ogni direzioni e le condizioni di abiti e viso.

Sotto lo strato marrone sembrava leggermente graffiato sul viso, ma non poteva esserne certa. Non finché vedeva, a conti fatti, solo gli occhi del bambino.

- Ciao Elizabeth! – la salutò la suocera, raggiungendola seguita da William.

La madre di Thomas aveva ancora l’aria giovanile di quindici anni prima, quando si erano conosciuti, e in gioventù doveva essere stata piuttosto carina.

 – Mi spiace per come si è ridotto Eric… - esordì, -e non ero a conoscenza che non avessero il permesso per uscire, essendo in punizione. Thomas mi ha detto che avevano da fare solo i compiti e così è stato. Gli ho anche preso un pensierino! – si giustificò.

- Non si preoccupi, ci saremo fraintesi. – la rassicurò, mentre si appuntava mentalmente di piazzare cuscino e coperte sul divano.

Avrebbe voluto vedere la sua faccia nel momento in cui si fosse reso conto, senza che lei lo avesse avvisato, di dove pensare ai bambini.

Elizabeth riabbassò gli occhi sul bambino notando con orrore crescente che in terra, tra i suoi piedi e quelli del figlio, c’era un bel pallone che un tempo doveva essere stato bianco. O almeno credeva.

Eccolo, in pensierino che avrebbe distrutto la casa.

Eric si chinò a raccattarlo e se lo tenne contro la pancia con aria soddisfatta, come fosse un trofeo.

Sua suocera aveva appena firmato la loro condanna.

Notò che su un lato del collo c’erano alcuni taglietti e riuscì a scorgere, dopo averlo osservato per diversi secondi, anche altre lesioni leggere sparse su viso e mani del bambino. Doveva essere caduto più volte o, ancora più probabilmente, la piccola mente diabolica aveva pensato bene di buttarsi in un cespuglio di rovi nel tentativo di far aumentare i capelli bianchi di sua nonna. E i suoi. Se avesse continuato così, si sarebbe ritrovata nel giro di cinque anni a sembrare un’ultraottantenne.

Quando incrociò il suo sguardo, Eric le rivolse un sorriso a ventotto denti* intriso di tanto entusiasmo e felicità da farle stirare le labbra di riflesso. Era strano vederlo tanto allegro, ma era esattamente così che sarebbe dovuto essere ogni giorno.

- Hai visto mamma? – le chiese saltellando un po’ sul posto, quasi non riuscisse a contenere la contentezza dirompente del momento. – la nonna mi ha preso il pallone! -.

- Sì… sì, tesoro lo vedo… - disse, passandogli il pollice sulla guancia chiazzata di terra. – ehm… bello! – aggiunse, per dargli soddisfazione e non smorzare tanto raro entusiasmo.

- Io ho un libro! – intervenne William, presentandosi con un libro di scienze, a giudicare dalla copertina colorata, semplificato per i figli piccoli degli Eruditi.

- Wow! Oggi avete fatto acquisti… come mai? – chiese in tono sorpreso, mentre William si avvicinava al fratello risparmiandosi, però, dal toccarlo. Era veramente in delle condizioni pietose.

- Sono stati bravi, ed ho pensato di premiarli! – intervenne Rose, tirando un pizzicotto sulla guancia di William.

- Davvero? – chiese, sorpresa.

Strano.

- Mamma! – la chiamò Eric tirandole, e imbrattandole, la camicia bianca con le mani sporche di terra.

– Sì? – chiese titubante, temendo già la prossima richiesta del bambino.

L’ultima volta che Eric aveva avuto tra le mani un pallone, aveva fatto più danni della grandine sia in casa che per strada e per quel che la riguardava non ci teneva particolarmente a ripetere l’esperienza, dato che tra i danni fatti dalla piccola peste, figurava anche la vetrata del soggiorno che portava sulla terrazza e il vetro della macchina di uno dei condomini che aveva avuto al sventurata idea di lasciarla proprio sotto il loro terrazzo. Era stata una fortuna che non ci fosse nessuno all’interno, o i danni sarebbero stati molto più seri di un vetro in frantumi e una banale discussione tra condomini.

- Dopo giochi con me? -.

Ecco, appunto.

- Tesoro, io dopo non ci sono. Stasera resto all’ospedale… - iniziò, appoggiandogli le mani su viso e passandogli i pollici sulle guance sporche di terra.

Eric corrugò le sopracciglia, perplesso. – E noi cosa facciamo? – chiese, storcendo un po’ la bocca e imbronciandosi mentre spostava il pallone dal suo stomaco a sotto un braccio.

- Voi resterete qui con papà – spiegò in tono pratico, - tornerò domani mattina, non preoccuparti. – aggiunse un po’ più dolcemente, facendogli due grattini alla base del collo.

- Quando vai via? – chiese William, nervosamente.

Girò il polso per controllare l’ora. – Tra un paio d’ore… quindi abbiamo tempo per un bel bagnetto, che dite? -.

Sentì Eric scostarsi un po’ da lei e fare due passetti indietro. – Non ci provare nemmeno. – sibilò, rivolta al figlio pestifero.

Il bambino si morse il labbro inferiore, nuovamente in “modalità tremendo”, prima di schizzarle accanto e fiondarsi verso le terrazza da cui di accedeva tramite la vetrata del soggiorno.

Si giro un attimo dopo per corrergli dietro, verso il terrazzo. Per essere ancora piccolo era già fin troppo scattante e in men che non si dica aveva tirato giù la maniglia della vetrata a due imposte, ed era fuori.

- Eric, vieni immediatamente qui. – gli intimò, mentre cercava di capire cosa avesse intenzione di fare: sembrava pensoso, come se stesso architettando la prossima malefatta ma fosse indeciso su cosa fare.

- No! – rise, stringendosi il pallone sulla pancia e piegandosi leggermente in avanti, mentre portava una gamba indietro preparandosi, secondo lei, a scattare di nuovo verso casa.

Si rimboccò le maniche e si avvicinò, costringendolo a indietreggiare quasi fino alla fine della terrazza.

Se aspettava un altro po’, probabilmente il bambino sarebbe finito in un vaso, e sarebbe stato anche divertente se non avesse avuto fretta.

- Eric… -

- No! –

Senza darle il minimo preavviso, Eric mise il pallone a terra e gli tirò un calcio, indirizzando il giocattolo verso di lei.

Fortunatamente aveva buoni riflessi e riuscì a prenderlo appena prima che finisse contro la vetrata che conduceva al soggiorno.

Il salvataggio le costò una bella caduta sul sedere.

Respirò seccamente e si rigirò il pallone tra le mani, tirandosi i capelli via dal viso con un gesto stizzito. Si alzo con circospezione, tendendo d’occhio il figlio che, senza scomporsi, aveva già nascosto le mani dietro al schiena e si dondolava sui talloni.

Aprì la bocca per dirgli di smettere di fare i capricci, ma la richiuse un attimo dopo: si rimboccò le maniche della camicia imbrattata di fango e si avvicinò a lui.

Eric si mise immeditatamente all’erta e provò a schivarla, ma lei fu più veloce: faceva le finte da molto prima di lui.

Riuscì ad agguantarlo per il busto e a caricarselo sotto un braccio come un sacco di patate particolarmente indisponente e si diresse di nuovo verso la vetrata del soggiorno.

Eric si dimenava e rideva, tanto che dopo pochi secondi lo sentì scivolare dalla sua presa; prima che potesse battere l’ennesima testata, quella volta sul pavimento mattonellato in pietra grigia della terrazza, lo afferrò con l’altro braccio, trasportandolo a testa in giù fin dentro casa, per poi dirigersi lotteggiando verso il bagno.

Fortunatamente sua suocera era una donna previdente, e aveva già riempito la vasca di acqua calda.

Avrebbe dovuto invitarla a cena, una di quelle sere.

Rimise dritto Eric e cercò, invano, di aggiustargli la maglia. Quando alzò lo sguardò su di lui, lo vide sporgere un po’ il labbro e rifilarle la classica aria da cucciolo indifeso.

- Non attacca – gli comunicò, sorridendo un po’ e iniziando a spogliarlo.

- Uffa. – sbuffò il bambino incrociando le braccia e mettendo su un’espressione corrucciata.

- Eric, non essere ridicolo. Ti voglio solo dare una pulita, non ti sto certo mandando in guerra. – gli disse pratica, mentre lo aiutava a sfilarsi pantaloncini e biancheria e lo prendeva in braccio per immergerlo nella vasca.

I suoi vestiti ormai erano da cambiare, ed era inutile tentare di salvare il salvabile, quindi non si fece troppi problemi ad abbassarsi verso la superficie dell’acqua leggermente ricoperta da schiuma chiara.

Eric non sembrava essere dello stesso avviso, perché appena toccò con un piede l’acqua calda e fumante, saltò su come se si fosse bruciato e si aggrappò al suo collo. – No. Brucia! – protestò, guardandola come se stesse cercando di infilarlo in forno.

Si scambiò un’occhiata diffidente con il bambino e infilò l’avambraccio pallido nella vasca chiara. Era perfetta, altro che calda!

Avrebbe ucciso per passare un’ora indisturbata nella vasca dal bagno.

Si rese conto troppo tardi del suo errore, quando il figlio approfittò del momento di distrazione per divincolarsi e correre fuori dal bagno completamente nudo.

Si passò una mano sul viso, ricordando quando, un anno prima, Eric si era fiondato nudo come giù dalle scale ed era andato, ingenuamente, a suonare ai due distinti signori che vivevano al piano inferiore.

Thomas si era lanciato all’inseguimento con solo un asciugamano in vita, e quando era tornato a casa, con il bambino in braccio che si succhiava il pollice, era più rosso di un semaforo per l’imbarazzante incontro.

Lei aveva riso per un buon quarto d’ora, ignorando i borbottii dell’uomo e prolungando quella storia per giorni, fino a quando suo marito non aveva sbottato. Era stato divertente.

Quando uscì dal bagno, senza neanche troppa fretta, le arrivò la voce della suocera. – Tesoro… ma dove vai tutto nudo? – la sentì chiedere in tono sorpreso e divertito. – Dai, torniamo di là… -.

Scosse la testa. Suo marito doveva essere stato un tipino tranquillo, forse un po’ petulante ma disciplinato e ubbidiente. Un perfetto bimbo erudito, curioso e amante dello studio. Il contrario della terrificante progenie che rispondeva al nome di Eric.

Fece un paio di passi nel breve corridoio che conduceva al soggiorno, sul quale si affacciò appoggiandosi alla parete.

La scena che le si presentò davanti agli occhi le provocò un misto di ilarità e di disperazione; non sapeva se ridere per la faccia imbronciata di Eric, piantato con i piedi per terra e per sua suocera che cercava di farlo camminare tirandolo per una mano, o mettersi a piangere in previsione degli anni futuri. Una cosa era certa: poteva solo peggiorare.

Si avvicinò ai due e fece per prenderlo di peso, ma il bambino divincolò il braccio dalla presa della nonna e si precipitò di nuovo nella terrazza e lei dietro di lui.

In quell’occasione era una vera fortuna vivere all’ultimo piano. – Proprio non ti vergogni, eh? – domandò raggiungendolo, mentre lui raccattava il pallone da terra e tornava verso si lei.

- Non ci pensare nemmeno. È sporco, non puoi portarlo nella vasca! – lo ammonì.

Eric si morse il labbro inferiore e assunse un’aria pensosa. – Ma se lo metto nella vasca poi è pulito! – protestò.

Apri e richiuse la bocca.

Giusta osservazione.

Scosse la testa, mentre il bambino cercava evidentemente di rigiocarsi la carta dell’espressione da cane bastonato.

- Okay, facciamo un compromesso. – iniziò, sedendosi sui talloni e mettendogli le mani sulle braccia.

Eric la guardò confuso. – Cos’è un co… contromesso? – chiese, guardandola come se gli fosse spuntato un terzo occhio in mezzo alla fronte.

Rise in un po’, sistemandosi meglio. – Compromesso, tesoro. Significa che io ti permetto di fare qualcosa che ti rende contento, a patto che tu faccia qualcosa che rende contenta me. Capito? - gli spiegò, cercando di rendere il concetto accessibile a un bambino di quattro anni.

Eric sembrò pensarci un po’ su, diffidente, prima di annuire lentamente.

- D’accordo. Allora, dimmi se ti va bene: stasera papà giocherà a palla con te, solo se ora vieni a farti  il bagno. -.

Il bambino annuì nuovamente, senza tuttavia mollare il pallone. – Prometti. – le disse, guardandola come sfidandola a rimangiarsi quello che aveva appena detto.

Elizabeth sospirò cercando di non perdere la pazienza, perché ne avrebbe avuto bisogno quella notte, quando sarebbe stato l’unico neurochirurgo del reparto.

- Promesso. – concesse, - stasera papà giocherà con te. –

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si versò un po’ di shampoo sulle mani e insaponò i capelli scuri del bambino, che nonostante fosse riuscita a infilare nella vasca, non ne voleva sapere di stare fermo.

- Eric, quando… - iniziò, afferrandolo e cercando di rimetterlo seduto. - ... quando mi hai detto che saresti venuto a fare il bagno senza lamentarti, era sottinteso che dovessi rimanere anche fermo. – brontolò, mentre riusciva finalmente a impedirgli di alzarsi in continuazione.

Non era sicuramente la prima ad avere un figlio iperattivo, agiato e testone… eppure sembrava quasi impossibile che lui e William fossero nati dalle stesse due cellule.

William era tranquillo, tranne quando decideva che fosse opportuno assecondare il fratello, e adorava leggere e imparare… bastava vedere come s’interessava a tutto ciò che lo circondava. Eric dal canto suo era agiato, incostante e borioso. Eppure quei due riuscivano a comunicare a capirsi in un modo che a lei a suo marito rimaneva quasi sconosciuto.

Proprio in quel momento fece il suo trionfale ingresso William, che vedendo il fratello nella vasca iniziò a spogliarsi con calma. Ripiegò come poteva i vestiti via via che se li toglieva e, una volta finita quell’operazione, li andò ad appoggiare sul panchetto infondo alla stanza.

Poi tornò trotterellando verso di lei e provò a scavalcare il bordo della vasca, scivolandoci dentro con poca grazia.

Altra differenza tra i suoi figli era l’evidente negazione per l’attività fisica di William. Spesso era impacciato, mentre il fratello correva e saltava ovunque, indipendentemente dal dove, dal come e dal perché.

Si riscosse da suoi pensieri quando le arrivò un’ondata d’acqua in pieno viso seguita dalle risate dei figli.

Okay.

- Vi state divertendo vero? Vedremo quanto riderete domani, quando dovrete svegliarmi presto per… – insinuò ammutolendo immediatamente entrambi i bambini.

- Non ci torno! – decretò Eric, interrompendola. – E neanche Will! – aggiunse, come se fosse lui a decidere e il fratello fosse quasi una sua esclusiva.

- E invece sì. Tu stai benissimo e a tuo fratello piace andare a scuola. Fine della discussione. – decretò, mentre passava il bagnoschiuma a William che, con calma, se né verso un noce sulle mani e iniziò a strofinarle tra loro creando un po’ di schiuma.

Mentre strofinava Eric con una spugna morbida notò che quelli che gli aveva fatto vedere prima erano solo un piccola parte dei graffi che si era procurato.

- Eric come te li sei procurati tutti questi tagli? – chiese, esaminandogli un braccio e facendo scorrere lo sguardo sulle gambe escoriate.

- Allora… questo… - iniziò girandosi verso di lei reggendosi alla vasca e indicandosi un ginocchio con una brutta sbucciatura. – me lo sono fatto perché correvo. – spiegò.

- Questo… perché sono caduto ancora… - proseguì, indicandosi un fianco su cui s’intravedeva già un livido. – come questi! – disse, piegando le braccia e mostrandole i gomiti alla madre.

- Ma qua ti sei fatto male! Fammi vedere! Come hai fatto? – esclamò, lasciando la spugna dell’acqua e afferrando il gomito del bambino per esaminarlo meglio. Non sembrava niente di troppo serio, ma aveva davvero una brutta sbucciatura anche poco rimarginata.

Come diavolo aveva fatto a non accorgersene?

- Appetta, appetta! No ho finito! – protestò, divincolandosi un po’ dalla sua presa. – Questi perché mi sono arrampicato su un gioco dove bisognava stare appesi con le mani e andare dall’altra parte, sempre appesi, e mi sono scivolate le mani e sono caduto! – spiegò, gesticolando come a ricostruire la scena, allargando le braccia come se fossi ancora stranito dal fatto di essere scivolato.

- Be’, dovresti stare più attento, prima di farti male sul serio. – lo ammonì. – E tutti questi graffi? -.

- Stavo giocando con la palla che ha preso la nonna, solo che ho tirato lontano ed è finita in un ceppuglio con le ppine! Tante! – raccontò, tutto contento e concentrato sul suo entusiastico racconto.

Beato lui che si divertiva!

Lasciò il braccino del bambino e gli ispezionò con cura il viso graffiato.

Possibile che non gli facesse male?

Prese un panchettino e si sedette accanto alla vasca, mentre i due bambini finivano di lavarsi da soli, prima di asciugarsi le mani sui pantaloni scuri, tirarli fuori dalla vasca e avvolgerli ognuno nel proprio accappatoio.

- Ecco fatto. – mormorò, strofinando i capelli a William con un asciugamano pulito. – Sei un po’ taciturno, tesoro. Va tutto bene? – gli domandò, vedendolo più pensoso del solito.

- Sì. Ho sonno. Dopo papà mi legge il libro nuovo? – chiese, lasciandosi asciugare e osservando il fratello che nel frattempo si stava strofinando energicamente i capelli con il cappuccio dell’accappatoio.

- Ehm... certo tesoro. Ma prima fate riposare un po’ papà, sarà stanco… - disse, cercando di salvare il marito dalla serata “impegnata” che lo aspettava e che lei stessa aveva contribuito a organizzargli.

Promettere qualcosa a uno dei suoi figli l’equivalente di firmare un patto col sangue.

In realtà lasciarli la rendeva nervosa: da quando erano nati, non li aveva mai lasciati soli tutta la notte, e non sapeva bene come organizzare tutto per evitare di ritrovare Thomas più esaurito del solito il mattino dopo. Non era certa che fosse una buona idea lasciarlo in balia dei figli tutta la notte; sapeva che quando non c’era diventavano più irrequieti, soprattutto Eric, e lui aveva bisogno di riposare.

D’altro canto non poteva nemmeno tirarsi indietro, data la disorganizzazione dell’ospedale in quel periodo. Contava sul fatto che suo marito era un uomo abbastanza intelligente da escogitare un modo per sopravvivere fino al suo ritorno.

Finì di asciugare e sistemare entrambi con cura, prima di portarli nella camera che condividevano per vestirli “da casa”, in modo che stessero comodi e, soprattutto, che il marito potesse distinguerli con un solo colpo d’occhio.

Durante tutta la vestizione furono stranamente tranquilli, lasciandosi strapazzare senza proteste mentre gli infilava i pantaloni della tuta e cercava di sistemargli i capelli, che non erano ricci e mossi come quelli di Thomas, ma neanche lisci come i suoi.

Quando ebbe finito, li mise entrambi a sedere sul letto di William. – Va bene, io tra poco devo uscire, voi state tranquilli con papà e non fatelo ammattire, d’accordo? – lì avvisò, sedendosi tra loro e guardandoli a turno.

- Kay... – acconsentì William, annuendo un po’ con la testa e buttandosi giù dal letto. Camminò fino alla porta prima di voltarsi verso il fratello e guardarlo in attesa.

Eric gli lanciò un’occhiata, annuì e lo raggiunse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sì, lo so. Sono pessima… mesi per scrivere un capitolo, questo è il mio nuovissimo record (che sinceramente spero non ritrovarmi a battere!).

Avrete notato, sicuramente, qualche parola scritta in modo “errato” nei dialoghi di Eric e William, e un linguaggio sicuramente infantile nei pensieri di Eric. Sappiate che non ho perso quelle poche proprietà lessicali di cui dispongo, non ho avuto momenti improvvisi di regressione all’infanzia… sono voluti!

Questo capitolo, complice lo scarsissimo tempo che mi è rimasto per scrivere, non mi ha messa in difficoltà. Di più!

Vi chiedo scusa mille volte per possibili errori… purtroppo a forza di leggere una cosa la si impara quasi a memoria e diventa difficile individuare le imprecisioni. Ovviamente, dato che ogni tanto rileggo i miei capitoli (per vedere se ho lasciato qualche strafalcione) semmai ne troverò provvederò immediatamente a correggerli.

Spero di riuscire ad aggiornare anche questa storia – riprendere ad aggiornare, più che altro – con una parvenza di regolarità anche se temo che il prossimo capitolo arriverà tra un mesetto. Purtroppo sono sopraffatta dalla sessione invernale e sono un po’ indietro con gli esami…

In compenso, dato che mi piace complicarmi la vita, al massimo domani pubblicherò un raccolta di “missing moment” delle due storie.

Il titolo dovrebbe essere, se non mi parte un altro treno stanotte, Drops of memory evviva la fantasia. Vi piace?

Vi ringrazio tutti per le recensioni, i preferiti, l’inserimento tra le seguite/ricordate e per ogni lettura!

Aspetto i vostri commenti!

A presto!

  
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