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Autore: Medea00    20/02/2016    1 recensioni
La storia Malec vista attraverso una raccolta di missing moments, da prima che si conoscessero fino agli avvenimenti delle Cronache dell'Accademia Shadowhunters.
Copertina di cassandrajp
“Tu ti senti… voglio dire, sei felice?”
Magnus si voltò verso di lui, abbandonando momentaneamente il libro per prendergli il volto tra le mani. Amava che al guerriero valoroso, di gran lunga il piú maturo trai suoi coetanei shadowhunters, si contrapponesse un animo così tanto innocente ed umile.
“Mio caro Alexander, poche volte nella mia lunga vita sono stato tanto felice come ora.”
“Davvero?” Gli occhi dello shadowhunter si erano fatti più grandi e luminosi. “Non lo dici solo per farmi contento, vero?”
Magnus emise una piccola risata, dandogli un dolce bacio sulle labbra: “Non ti mentirei mai su questo. E devi credermi quando ti dico che, con te, la mia vita è cambiata per sempre. Te l’ho già detto una volta e lo ripeterò quanto serve: sei tutt’altro che insignificante.”
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo 3
Quella notte

 
-Quindi ti ha rimesso a posto Magnus?- disse Clary. –Ha detto Luke…
-Cavoli se lo ha rimesso a posto!- Intervenne Isabelle. –È stato fantastico. È arrivato, ha detto a tutti di uscire dalla stanze e ha chiuso la porta. In corridoio continuavano a esplodere scintille blu e rosse e il pavimento tremava.
-Io non ricordo niente- disse Alec.
-Poi è stato seduto al capezzale di Alec fino al mattino per assicurarsi che al suo risveglio stesse bene.- aggiunse Isabelle.
-Non ricordo neanche questo- Si affrettò a dire il ragazzo.
Le labbra rosse di Isabelle si curvarono in un sorriso. –Chissà come ha fatto a venirlo a sapere Magnus. Gliel’ho chiesto, ma non me l’ha detto.-
Città di ossa, Epilogo.
 


“Allora, stregone, che cosa desideri da me?”
Il demone che aveva appena evocato sembrava insolitamente gentile. Magnus pensò che fosse piuttosto strano, considerando che venisse da uno degli inferni più tenebrosi di tutti. Si chiamava Agares e, sebbene il suo aspetto non fosse ben definito, in mezzo alle fiamme bluastre, assomigliava un po’ a Donald Trump.
“Ti facevo più... non so, dispettoso? Sai, un po’ demoniaco, con membra cadenti, voce minacciosa e tutto il resto, che si rifiuta di assecondare la mia volontà a meno che non lo obblighi.” Disse semplicemente, e la risata del demone riecheggiò in tutto il loft. Presidente Miao si posizionò tra le gambe di Magnus, più per curiosità che per paura.
“Chiederò comunque un pagamento. Ma non tutti i demoni sono come tuo padre”, si limitò a dire Agares, e a quella risposta Magnus capì di cosa si trattasse: era uno dei tanti demoni che sottostavano a suo padre, e che non avevano nessuna voglia di mettersi né contro di lui, né contro suo figlio. Per sua fortuna, quel demone minore ignorava i veri rapporti tra lui e il demone che lo aveva “generato”, altrimenti non sarebbe stato così accondiscendente. Magnus non aveva nessuna intenzione di rivelarglielo.
“Capisco” disse, dopo un tempo veramente troppo lungo. Il demone minore si limitò a mormorare in modo indistinto e chiedere: “Allora, stregone?”
“Ho una richiesta da dei miei clienti, mondani. Hanno perso loro figlio e vogliono che torni a casa, costi quel che costi. So che puoi farlo”, aggiunse, troncando qualsiasi giustificazione sul nascere, “Sei il demone dei terremoti, delle fughe e dei ritorni da casa giusto?”
“So anche fare delle omelette deliziose”, cinguettò, come se lo avesse riempito di complimenti; a Magnus non interessavano le sue doti culinarie. Anche se, in effetti, a parlare di cibo gli era venuta fame.
Si guardò intorno, in cerca di un pezzo avanzato di pizza, o una busta di patatine.
“Se hai un po’ di farina e latte posso cucinarle io”, continuò a dire il demone, come se fosse del tutto normale che un ologramma fiammeggiante potesse mettersi ai fornelli e cucinare per lo stregone che lo avesse soggiogato nel suo salotto.
“Non cucino dal millenovecentotrentanove”, rispose Magnus, “Dubito che troverai ingredienti commestibili, qui.” In realtà non era vero, ma una bugia a fin di bene poteva concedersela. Insomma, non mentiva mai lui. “E poi. Non ti ho invocato per un brunch.”
“Ah giusto, giusto… il ragazzo perduto. Potrei farlo tornare, sì.”
“Vivo”, precisò Magnus. Il demone, a quella specificazione, sembrò un po’ contrito. “Costerà di più.”
“Che cosa potrebbe mai costare? Perfino i gatti e i cani sanno trovare la via di casa.”
“Perché non chiedi a loro allora?”
Magnus odiava i demoni che si credevano indispensabili, perché non lo erano. Gli era già passata la voglia di quell’incarico, stava per bandirlo e preparare un discorso da dire alla famiglia, della serie “mi dispiace, vostro figlio si sta facendo gli affari suoi”. Ma la paga era esageratamente buona. Fece un profondo respiro e tentò ancora.
“Andiamo. Che cosa vuoi in cambio?”
“Un terremoto. Piccolo piccolo. Qualche trentina di morti, non di più.”
Magnus si massaggiò le tempie, mentre rispondeva con calma: “Non te lo posso lasciar fare.”
“Una dozzina?”
“Puoi far accadere un terremoto qui.”
Il demone sembrò guardarlo torvo: “E quale sarebbe il divertimento?”
“Pensaci: daresti fastidio al sommo stregone di Brooklyn, figlio di Tu-Sai-Chi. Se sei fortunato potresti anche uccidermi. Non voglio orrende cicatrici sulla fronte, io.” Sperò che cogliesse il riferimento a Harry Potter, ma ovviamente non fu così. Il demone, tuttavia, sembrò ponderare l’idea. Magnus si chiese quanto ci volesse a prendere una decisione.
Non si era accorto che, nel frattempo, davanti ai suoi occhi era comparso un foglio bruciacchiato: si era materializzato come dal nulla, lasciandosi ondeggiare placidamente fino al pavimento. Presidente Miao, pensando che fosse un giocattolo per lui, cominciò a stropicciarlo.
“Il tuo gatto”, disse il demone, e Magnus fu tanto confuso che alzò un sopracciglio e, come gesto automatico, lo prese in braccio, come per proteggerlo. “No eh! Il mio gatto non è in vendita! Prenditela con quelli della tua stazza, vile vigliacco!”
“… Volevo dire”, precisò il demone, quasi offeso, “Che il tuo gatto stava mangiando il tuo messaggio di fuoco.”
Oh.
In effetti c’era un pezzo di carta a terra, o meglio, i resti di tale. Magnus si chinò a ricomporlo allontanando Presidente Miao da quella che non doveva essere la sua cena. Il demone osservava la scena un po’ divertito.
Il messaggio sembrava scritto di fretta, con una calligrafia molto disordinata. Riconobbe immediatamente la firma e, un attimo dopo, riuscì a interpretare meglio il suo contenuto:

 
Valentine è tornato. Shadowhunters feriti, Alec Lightwood.
Mi dispiace.
Hodge

 
Hodge. Quel “mi dispiace” fece intuire a Magnus qualcosa, e assottigliò lo sguardo. Non si immischiava negli affari Shadowhunters da un bel pezzo, e ora più che mai ponderò l’idea di continuare a non farlo. Perfino per un mortale la distanza di tempo trascorso dalla battaglia contro il Circolo era sin troppo breve: diciannove anni.
Magnus avrebbe potuto scappare; rifugiarsi da qualche parte, come durante le guerre mondiali dei mondani; sarebbe ricomparso mezzo secolo dopo, con acque più tranquille. Certo, poteva farlo, e nessuno lo avrebbe biasimato. Si trattava di Valentine, colui che già una volta ha decimato la sua specie, che non si faceva scrupoli, che adesso, se fosse stato in possesso della Coppa Mortale – come Magnus temeva -, avrebbe creato un esercito di Shadowhunters pronto ad uccidere lui e tutti i Nascosti. Cosa ancora più grave, non poteva far affidamento sul Conclave, né ora né mai.
Erano tutti motivi validi, lo sapeva benissimo quello; ma.
C’era sempre un “ma”. Un “ma” che molte volte lo aveva portato ad una situazione ancora più pericolosa, al pericolo, al fare cose di cui in altri momenti si sarebbe assolutamente pentito; c’era sempre stato quel “ma” per Magnus, e non importava quanto impossibile o assurda fosse la situazione, lui era quello che si era messo a imparare il Charango solo per compiacere un uomo di cui si era follemente invaghito.
Perché spesso quel “ma” riguardava proprio una persona. E quella persona, adesso, era Alexander Lightwood. L’ultima persona a cui avrebbe mai immaginato di tenere.
Si domandò se Hodge sapesse di questo piccolo segreto; se ci fosse stata una spia, la notte della festa per il Presidente Miao, che avesse notato come Magnus avesse guardato Alec, e come Alec avesse sorriso a lui. Un sorriso semplice, pulito, senza malizia o rimorsi. Un sorriso che Magnus pensò fosse così bello e puro da stonare con i tratti da Shadowhunters del ragazzo. E poi, c’era tutta la storia degli occhi. Quegli occhi.
Non sapeva cosa fosse peggio tra l’essere preoccupato per uno Shadowhunter, o l’esserlo per un Lightwood in particolare. Dio, proprio di un Lightwood. Sì, sicuramente era peggio la seconda.
“Mi sembri turbato, stregone”. La voce del demone lo destò dal turbinio dei suoi pensieri, scuotendolo come da un sogno. Magnus si ricompose subito, rimettendosi in piedi con la sua postura eretta e stringendo il foglietto tra le mani.
“Sono stato chiamato altrove. Parleremo dopo dei tuoi… servigi.”
“Cosa potrebbe distrarre uno stregone dal suo lavoro?”
“Un altro lavoro”, disse lui brusco, ma da come armeggiava con il foglietto si capiva che fosse nervoso. Al demone non sfuggì quella nota nella sua voce, che lo induceva a terminare le cose in fretta.
“Sembra interessante”, commentò quindi, “Allora io scatenerò un terremoto tra mezz’ora su di te, esattamente dovunque tu sarai.”
“Non è il momento per mettersi a giocare con me, stupido demone”.
“Non sto giocando. È il mio accordo. Prendere o lasciare. Quel povero ragazzino, disperso e spaventato chissà dove…”
“Va bene. Va bene, quello che ti pare, ma adesso sparisci!”
Il demone emise un piccolo sogghigno, prima di scomparire con una nuvola di zolfo. Magnus tossì solo un paio di volte, mentre correva in camera a prendere una scatola di utensili che potevano tornare utili. Sperò solo che quei secondi sprecati a discutere con il demone non fossero stati letali.
 


A Magnus non era permesso entrare all’Istituto, non senza una runa apposita. Per sua fortuna non ci fu bisogno di chiamare nessuno, perché non appena giunto all’ingresso principale Isabelle aprì il portone di scatto, sorpresa quanto lui di vederlo lì.
“Magnus Bane?”
“Dimmi solo dove si trova.”
La ragazza sembrava visibilmente provata da una lunga lotta. Non aveva i capelli fluenti come al solito, ma legati e increspati di sangue. Sembrava accaldata, con la giacca sbottonata e le gote rosse, e i suoi occhi erano spalancati da un velo di paura. Magnus capiva lo shock della ragazza, e in parte la compativa, ma non c’era tempo per quelle cose. Stava per chiederle di farlo entrare, quando avvertì una vibrazione diversa, come se quella zona fosse priva di energia.
“Le difese dell’Istituto sono cadute?”
Lei annuì, come ammettendo una gravissima colpa.
“Molto bene.” Magnus entrò senza altri convenevoli; di nuovo, aveva solo perso tempo. Non era nella sua indole correre per raggiungere un posto, ma in quel momento desiderava tanto farlo.
Non faceva altro che pensare al messaggio di Hodge, ad Alec, alle condizioni in cui si trovasse, se fosse troppo tardi.
“È stato avvelenato da un demone”, spiegò in fretta Isabelle, raggiungendolo con ampie falcate. “Abbiamo combattuto contro un demone Abbadon e-“
“Non mi serve sapere altro.” Entrò nell’infermeria: c’erano alcuni Shadowhunters lì, membri del Conclave, tutti intorno ad una brandina. Coprivano la sua visuale, e fu improvvisamente colto da un moto di nervosismo in corpo.
“Andate via, ci penserò io a lui. Ho bisogno di stare da solo.”
“Ma-Chi sarebbe questo stregone?” Disse uno ad una donna, che riconobbe essere Maryse Lightwood. Un altro aggiunse: “Non vorrete lasciare vostro figlio nelle mani di un Nascosto!”
Mamma ti prego”, stavolta fu Isabelle a intervenire, ma non aggiunse altro, vedendo tutti gli sguardi dei suoi superiori puntati su di lei. Magnus fu meno indulgente, anche perché, dei giudizi degli Shadowhunters su di lui, gli importava davvero molto poco. Si era già avvicinato al letto, e finalmente vide Alec.
Dovette trattenere il respiro, per non lasciar trapelare emozioni.
Alec era sdraiato di schiena, con un enorme taglio dal collo fino alla vita da cui sgorgava del sangue nero. Le sue rune, che Magnus in altre occasioni avrebbe definito affascinanti, adesso sembravano spaventosamente scure, come infette, e l’intero corpo del ragazzo sembrava bruciare dall’interno. Alec ansimava, gli occhi sbarrati, non sembrava davvero cosciente, ma nemmeno troppo poco da permettergli di svenire. Il ché rendeva le cose ancora più difficili, per lui.
“Ho detto fuori. Tutti.”
Stavolta il suo tono non lasciò spazio a discussioni. Gli Shadowhunters lasciarono la stanza, sebbene con molte riserve. Ma a lui non importava, anzi: come per accompagnarli fuori, si diresse anche lui verso la porta, e la richiuse alle sue spalle una volta che finalmente si trovò solo.
In meno di un secondo era di nuovo su Alec. Sembrava peggiorare a ogni battito di ciglia.
“Alexander”, sussurrò lui. Non pretendeva che lo sentisse, ma non poteva nemmeno pretendere a se stesso di non sentirsi preoccupato a morte. Il ché era ridicolo, di per sé: non lo conosceva nemmeno. Si erano parlati due volte.
Ma c’era qualcosa, in quel ragazzo, per cui Magnus si trovò a desiderare ardentemente non morisse. Forse, proprio perché era ancora troppo presto, troppo poco il tempo passato con lui.
“Farà molto male”, lo avvertì, e con uno schiocco di dita comparve una pozione; la versò sulla ferita, da cima a fondo, e con l’altra mano accarezzò dolcemente ogni singolo centimetro. Alec cominciò a urlare, a balbettare cose incomprensibili, e Magnus sperò davvero che quel supplizio finisse, perché la voce disperata di quel ragazzo gli spezzava il cuore. La ferita sembrava non rimarginarsi, e Alec sembrava stare sempre peggio.
Magnus dovette impegnarsi di più: ricorse a tutto il suo potere. Non gli importava di finirlo, non gli importava che dopo sarebbe stato costretto ad accasciarsi al suolo anche solo per respirare, per via della stanchezza, lo avrebbe fatto.
Fu in quel momento che accadde la prima scossa di terremoto. Magnus imprecò trai denti.
“Quel diavolo di vecchio barbuto.”
I demoni sapevano davvero come trarre il peggio da una situazione davvero di merda. Avrebbe voluto invocarlo di nuovo solo per ucciderlo. Quella scossa, però, fece svenire Alexander, e Magnus ne fu molto sollevato, perché le sue urla erano una distrazione per il suo cuore.
Per molto tempo, gli unici rumori nella stanza furono i mobili spostati dalle scosse e la magia di Magnus, che illuminò le pareti di rosso e di blu.
L’antidoto sembrò funzionare, alla fine. La ferita di Alec cominciava a rimarginarsi.
“Era l’ora”, commentò Magnus, con delle gocce di sudore che gli imperlavano la fronte, e le mani tremanti per la fatica compiuta: adesso, finalmente, poteva tirare un sospiro di sollievo.
La ferita era ancora profonda, ma la magia stava facendo il suo corso, cicatrizzandola lentamente. Magnus si sedette su una sedia accanto al letto, quasi accasciandosi su di essa. Aveva voglia di dormire per venti ore, ma non ce l’avrebbe mai fatta a distogliere lo sguardo da Alec, finché non sarebbe stato del tutto fuori pericolo.
E Magnus lo fissò per ore. Fissò le sue ciglia nere, così lunghe ed eleganti. Fissò la ciocca di capelli che cadeva sul viso; la spostò, come senza pensarci, e si ritrovò ad accarezzare una guancia molto pallida, ma morbida.  Il respiro di Alec era flebile, ma palpabile. Magnus si soffermò soprattutto sulle sue labbra carnose che, sebbene contratte in una smorfia, ebbe voglia di baciare.
E fu allora che pensò che Alec fosse, semplicemente, bello. E quell’aggettivo non era scelto a caso: c’era qualcosa, in lui. Non era come gli altri Shadowhunters, la quale bellezza e grazia erano ostentate fino a diventare quasi costruite. Alec era bello perché non si sforzava ad esserlo; forse non lo sapeva nemmeno.
Si promise di dirglielo, un giorno, quando si sarebbe svegliato e lo avrebbe rivisto in una qualche occasione insolita. Perché doveva essere sincero con se stesso, e Magnus era troppo vecchio per abbandonarsi ai sogni ad occhi aperti: Alec era uno Shadowhunters e, da quanto aveva capito, era anche molto fiero di esserlo. E nessun Shadowhunter avrebbe mai guardato uno stregone nello stesso modo con cui Magnus stava guardando lui: non era mai successo, in più di trecento anni. Magnus doveva farsene una ragione; era contento di aver salvato la vita a quel ragazzo, ma era anche consapevole che lo avesse fatto più per se stesso. Così, un giorno, avrebbe avuto occasione di fissare di nuovo quei bellissimi occhi azzurri.
“Aiuto-“
Alec si svegliò di colpo. Aprì gli occhi di scatto, guardandosi intorno, e strinse le lenzuola madide di sudore mentre cominciava ad agitarsi, a muoversi. Sembrò che il dolore fosse comparso tutto d’un colpo, trafiggendolo come una lama.
“Demon…Clary…Isabelle…Jac-“
“Stanno tutti bene”, cercò di dire Magnus, decifrando quelle poche parole che riuscì a captare. E si sorprese di sentire quei nomi: anche in punto di morte, Alec continuava a pensare più agli altri che a se stesso; a Magnus si riempì il cuore di commozione, tanto da farlo alzare e accarezzargli di nuovo una guancia, con il tentativo di calmarlo.
“Mi hai sentito? Stanno bene, Alexander, e anche tu. Va tutto bene.”
Fu allora che Alec lo guardò dritto negli occhi. Sembrava aver riacquistato un frammento di lucidità: passarono diversi secondi, ma alla fine pronunciò il nome di Magnus. E fu dolce, nel dirlo, come se non si aspettasse di vederlo lì; come se non si aspettasse che Magnus avrebbe letteralmente fatto un patto col diavolo, pur di salvargli la vita.
“La ferita era molto grave, ma ti ho rimesso in sesto io.” Commentò lo stregone, con una punta di orgoglio. “Ora, però, devi riposare.”
“Dove…dove sono…”
Shhh. Dormi ora. Ci penserai dopo.” Magnus gli posò l’indice sulle labbra. Alec sembrò sorridere, a quel gesto; socchiuse gli occhi, come per godersi quel piccolo momento. Quando li riaprì, il suo sguardo sembrò un po’ più timido: “Resterai qui con me?”
Lo chiese con un tono così dolce, così rassegnato. Come per dire:  so che non sono nessuno, so che hai altre cose più importanti da fare, ma ci terrei tanto che tu rimanessi qui con me.
A Magnus venne voglia di inchiodarsi alla sedia e non smuoversi da lì per un altro mezzo millennio.
“Non vado da nessuna parte”, gli disse. Alec inspirò a fondo, un po’ più sollevato. Non fece in tempo a ringraziarlo: si addormentò prima, con la mano di Magnus appoggiata delicatamente sul suo collo, la sua voce calda che ancora riecheggiava nelle sue orecchie.
Magnus decise di rimanere lì, tutta la notte. Se ne sarebbe andato all’alba, senza dare nessuna spiegazione a Isabelle, né tantomeno al resto della sua compagnia. Senza sapere se Alexander si sarebbe ricordato di lui: di quella notte, di quello che gli aveva chiesto.
Probabilmente no.
Meglio così, pensò Magnus: Alexander Lightwood doveva percorrere la sua vita, e sapeva benissimo che in quella vita uno stregone era leggermente di troppo.
Magnus si poteva accontentare di quella notte, decidendo che ne avrebbe conservato gelosamente il ricordo; non sarebbe tornato dallo Shadowhunter, né lo avrebbe ricercato i giorni successivi. Non lo avrebbe più rivisto.
Meglio così. Alexander Lightwood non era minimamente interessato a lui, dopotutto.



***


Angolo di Fra
Eccomi! Scusate il ritardo ma sono tornata in Slovenia e il viaggio mi ha un po' rallentata nella scrittura. Spero vi piaccia il primo "vero" incontro Malec secondo me! :D Grazie a tutti per seguire e leggere la mia storia :)

 
   
 
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