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Autore: Jerry93    15/03/2016    1 recensioni
Mi bastava saltare da una lanterna all’altra, per sopravvivere. Ed era abbastanza, quell’esistenza di falena, come null’altro invece mi sembrava essere. Non il mio corpo, non il mio talento, non io.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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A Moth in the Mirror


Non lo capivo e ancora non so spiegarmi per quale motivo. Eppure, davvero, io non lo capivo.
Quel panno umido era la mia vita, lo specchio il futuro. L’odore del detersivo – pungente, alcolico –rappresentava, nella metafora in cui vivevo imprigionata, il veleno con cui avevo deciso di morire. E ogni volta che annegavo quel pezzo di stoffa per strofinarlo con forza sulla superficie … ogni volta, senza saperlo, rendevo più opachi i giorni ancora da vivere. Almeno tre volte, dall’alba al tramonto, spesso più di frequente, raggiungevo il bagno, mi piegavo sulle ginocchia e frugavo nell’anta sotto al lavandino. Sceglievo sempre il prodotto più forte per assicurarmi di non lasciare alcuna macchia. Forse non volevo impurità o sporcizia, nel mio futuro. Non volevo neppure quest’ultimo.
Pensavo spesso alla morte: ho soppesato per ore i vari metodi con cui porre fine a quella tortura – il più semplice, il meno doloroso, il più rapido –; ho programmato per giorni il mio funerale, la lettera per mia madre, le scuse; ho ignorato per mesi che, in realtà, avevo già scelto il mio tragitto e che lo stavo percorrendo di fretta. Precipitosamente, affannata nella rovinosa caduta.
Almeno per tre volte, durante il tempo impiegato dal sole a tracciare il suo solco nell’azzurro del cielo, sfregavo con forza quello specchio. Se riguardo a quei giorni, ora, distinguo cose che all’epoca non sospettavo neppure. Ho dovuto aspettare d’allontanarmene per poterle guardare davvero. Non c’erano affatto “le ore”, in quel periodo della mia vita. Sono certa che nulla scandisse davvero il tempo: non i sonni agitati che riuscivo a concedermi e di certo non l’alternarsi dei pasti. Non c’era affatto “la volta celeste”, in quel momento sospeso. Non uscivo mai di casa, se non dopo il tramonto: ho evitato ogni luce che non fosse quella dei lampioni. Me ne stavo chiusa nella mia camera, sul mio tapis roulant, in attesa dell’appuntamento con le lucciole, sul marciapiede. Stavo mandando a puttane la mia vita. Da questa posizione, distante e sopraelevata, lo capisco anche io, ma lì, mentre vi ero dentro da sola, potevo vedere solo il buio attorno a me. Ed era denso e pesante, ma anche sensato e forse persino confortevole. Mi bastava saltare da una lanterna all’altra, per sopravvivere. Ed era abbastanza, quell’esistenza di falena, come null’altro invece mi sembrava essere. Non il mio corpo, non il mio talento, non io.
Ho strappato con rabbia i petali, tacciandoli di mediocrità, e ora conservo con cura, in una teca di vetro, quel che resta di me. Non sono il più bel fiore, non lo sono mai stata, ma sono uno dei più forti, lo sono diventata.
Almeno per tre volte, nella quotidianità. La pelle, già fragile, tradiva le mie colpe. Così le avvertivo, quelle piaghe arrossate sulle falangi. Colpe. Le unghie spezzate sulla carne retratta, a volte persino il sangue. Le mani delle persone dicono sempre la verità. Sono dure per chi fa un lavoro manuale e pesante, sono fragili per chi ha dinnanzi meno di ciò che ha alle spalle e sono diafane per chi lotta contro la malattia. La mia, io, l’avevo sposata. Tutti noi, che buttiamo nel cesso non soltanto il pranzo, portiamo segni simili: nessuno è estraneo a quella fede che ci cinge alla base della dita. Alcuni lo portano all’anulare, altri all’indice, ma quell’anello, quello che gli incisivi imprimono ad ogni conato di vomito indotto, ci marchia forse più della magrezza come caini a noi stessi. M’è rimasta una cicatrice, l’ho coperta con il segno dell’amore di mio marito. Nonostante ciò, so che essa è sempre lì.
Sono stata anche una formica. Riducevo il cibo in piccole porzioni, le masticavo febbrilmente e aspettavo qualche minuto per non dare nell’occhio. Ma nessuno mi guardava davvero. Ero lì, un disastro ambulante, sotto gli occhi di tutti. Tuttavia ero troppo piccola ed insignificante, per essere notata. In fin dei conti, mi brucia ancora ammetterlo – ma non come i succhi gastrici che risalgono l’esofago –, volevo solo quello. Qualcuno che mi vedesse e mi dicesse che ero bella. O così credevo. In verità, oggi so che non mi sarebbe stato sufficiente. Avevo deposto ogni difesa, persino il buonsenso, ai tarli dell’anima. Pensavo soltanto a quanti chili avrei dovuto perdere prima d’essere carina. E sono dimagrita tanto, fino a scoprire le scapole e a contare le costole, ma la mia immagine riflessa era sempre più grassa di me. Quei fianchi, lo giuro, non volevano sgonfiarsi, nonostante i miei sforzi. “Sono solo sportiva”, mi dicevo. “Ancora due chili”, mi promettevo. “Io sto bene”, mi mentivo. Sprofondavo.
Mi sono spogliata persino delle mie vesti di donna. Non me ne accorsi neppure, tanto mi ero perduta. Quando mia madre mi portò in ospedale per la prima volta, dopo molti tentativi d’aprire una comunicazione che con lei non ero capace di sostenere, un’infermiera me lo fece notare. Devo aver pianto. Perché quell’ideale, quello che ancora dovevo raggiungere, mi aveva portato via la possibilità di scegliere l’avere un figlio. Nonostante ciò, ho combattuto la cura con tutti i miei quaranta chili scarsi: mi hanno dovuta sedare per avere la meglio. Al mio risveglio, li ho maledetti. Tutto il mio impegno, la mia dedizione! Mi ingozzavano come una scrofa tramite quel loro schifoso sondino naso-gastrico. Mi vedevo come un’oca da foie gras e non riuscivo a capacitarmi del salto di qualità della mia condizione. Non ero più un insetto. Ancora oggi vado a trovarle, quelle donne gentili che mi hanno acciuffata per i capelli: non ci sono abbastanza fiori, su questa terra, per ringraziarle di non aver desistito. Di non aver dato peso alle mie occhiate furenti e al mio tacere forzato. Mio padre mi aveva insegnato il silenzio – me lo aveva impartito con violenza –, ma da quella volta mi sono ripromessa di non usarlo più, per quel suo essere un’arma così bastarda. Ho fatto voto di parola. E parlo e scrivo.
La voglia è venuta più tardi. La mia bramosia di vita, di vedere il mondo al di là delle mura della mia stanza, l’ho conquistata lentamente. Perché se discendere è stato solo un lasciarsi cadere nel vuoto, risalire dal fosso m’è costato molto sudore. Mi ci sono afferrata con forza, alla parete di pietra, e ho cercato con cura gli appigli su cui fare leva per tornare a respirare aria vera: mia madre, gli amici ed un ragazzo dal sorriso timido. Io sono arrivata in ritardo, come al solito. Eppure, alla fine, ho cominciato ad amarmi. A farlo davvero, senza cercarmi in un’immagine riflessa. Con i miei difetti e con quel che mi resta. Pago ancora le conseguenze della mia malnutrizione, nonostante oramai stia bene da anni: mi si è cariato quasi ogni dente, mi sono rotta un braccio urtando contro un passante e la cefalea a volte non mi lascia dormire per giorni.
Ma sono viva e la mia pancia si tende per far spazio ad un nuovo esserino. Ogni volta che si muove, dentro di me, mi risuona nella testa una convinzione. “Ne è valsa la pena”.
Sento mio padre un paio di volte all’anno e va bene così: al telefono parla poco, ma ho imparato a chiacchierare anche per lui. Mia madre, invece, mi gira attorno febbrile ogni giorno: pare che la mia malattia abbia dato nuova vita anche a lei. Colui che più si agita, durante questa gravidanza, è mio marito, perché non gli do ascolto quando mi dice di starmene a letto a riposare: sa che non posso permettermi altre pause dalla vita e, in fin dei conti, mi capisce.
Io, infine, quello specchio l’ho buttato.

Note dell'Autore
Pensavo sinceramente di non ricordarmi più come postare una storia su questo sito, ma mi sbagliavo. Sebbene sia passato molto tempo, avevo voglia di condividere con voi questo breve stralcio, oggi che è la V Giornata del Fiocchetto Lilla contro i disturbi alimentari. Il mio supporto e il mio affetto verso tutti coloro che lottano ogni giorno per accettare se stessi - e il proprio corpo - : vi sono vicino, davvero, con tutto me stesso.
Per quel che riguarda la mia persona, non sono più molto attivo su EFP (causa studio e, non posso mentire, pigrizia), ma non ho abbandonato la scrittura. Ovviamente, se vi va, mi farebbe piacere leggere le vostre recensioni (molto piacere, spero di non aver urtato la sensibilità di nessuno)!
Come al solito, spero a presto,
Jerry

 
   
 
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