Libri > Hunger Games
Ricorda la storia  |      
Autore: Ser Balzo    16/03/2016    2 recensioni
Del signor Abernathy che è convinto di non aver alcun bisogno di essere salvato e di una donna dalle mani sporche e sudate che non si pone neanche la questione.
"Non andranno mai via. Lo ha sempre saputo, in fondo. Dopotutto era per questo che beveva.
Per ingannare la morte, ingannando se stesso."
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Effie Trinket, Haymitch Abernathy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
HTML Editor - Full Version

 

 

 

 

 

I fantasmi e quello che siamo

 

 

 

 

 

 

 

La guerra è finita. I buoni hanno vinto, i cattivi hanno perso. Niente più Hunger Games, niente più Tributi, niente più vincitori.

Eppure loro sono ancora lì, e non hanno alcuna intenzione di andarsene. Il fuoco morente nel camino illumina il loro sguardo. 

«Andate via, maledizione... andate via. Non vi voglio.»

Loro non parlano. Loro sono lì. Rimangono immobili, e non smettono di fissarlo.

«Ho detto che non vi voglio, cazzo! Io... vi odio. Mi avete sentito? Vi odio!»

Sanno che sta mentendo, almeno in parte. Dopotutto, come si può mentire se non si sa esattamente quale sia la verità?

Il bicchiere vola in aria, si infrange sul muro e cade a terra in mille pezzi.

Con lucida amarezza, non può fare a meno di pensare che la sua anima e quel bicchiere hanno molto, troppo in comune: entrambi finiti, entrambi spezzati, entrambi annegati nell’alcol.

 

 

Lei profuma di gelsomino, corre, ride e lo abbraccia. Lo stringe forte, non vuole lasciarlo andare via.

«Te l’avevo detto che sarei tornato» dice lui. Per la prima volta, dopo tanto tempo, si sente a casa.

Appena si staccano, un bambino dai capelli neri tagliati a scodella gli salta al collo.

«Lo sapevo che tornavi, lo sapevo! Sei il più forte!»

Lui ride, gli scompiglia i capelli. «Cosa credevi, scusa? Avevamo una partita a carte interrotta. Pensavi che ti avrei lasciato vincere a tavolino?»

Una donna si avvicina. Ha il viso stanco e tirato, le borse sotto gli occhi e i lunghi capelli neri raccolti in una crocchia. Non parla. Lo attira a se’ e scoppia a piangere, incapace di esprimere a parole quello che il cuore vuole dire.

«Sono a casa, mamma. Sono tornato. Non andrò più via. Lo prometto.»

Dopo quella che gli pare un eternità, sua madre lo scioglie dall’abbraccio. Ed è in quel momento che la vede.

Lei è morta, lui lo sa bene. È morta fra le sue braccia, giù nell’arena. Eppure è lì.

Lei è lì, e non smette di fissarlo.

 

 

Il camino è spento da un pezzo. Ma loro sono ancora lì. Può sentire la loro presenza, avvertire i loro occhi puntati su di lui.

La bottiglia vuota rotola sul tavolo, verso il bordo. La guarda avanzare verso la sua fine con cinico distacco. Lascia che vada avanti, verso l’inevitabile fine. La guarda cadere, spezzarsi, distruggersi.

La guarda morire. Come ha sempre fatto.

 

 

È diventato un Mentore. Un maestro, un esempio, un eroe. Farà tutto quello che è nelle sue forze per aiutare i suoi protetti ad arrivare fino alla fine.

È fiero di se’. Si è trasferito nel Villaggio dei Vincitori con i suoi cari. Ora è vuoto, ma ben presto avrà nuovi vicini di casa. Ne è certo.

Poi viene quella notte.

Vengono a prenderli in sei. Lui lotta e grida, ma lo coprono con un cappuccio. Strilla fino a farsi venire il mal di gola, ma nessuno gli risponde.

Quando gli permettono di vedere di nuovo, vorrebbe strapparsi gli occhi dalle orbite. Sono lì davanti a lui. Le persone della sua vita. Con le mani legate e la schiena contro il muro.

Sua madre lo guarda, e sorride. Come solo una madre può sorridere al proprio figlio.

«Va tutto bene, tesoro.»

Poi i Pacificatori sollevano i fucili, e tutto finisce.

 

Deve fare il bravo, e comportarsi bene. È così che funziona. Non è stato carino quello che ha fatto nell’arena. Non è stato educato volersi impicciare di cose che non lo riguardavano. È stata tutta colpa sua. Se lo è meritato.

Ma ora non accadrà più. Sarà un ottimo Mentore, e farà tutto il possibile perché si accendano più luci possibili nel Villaggio dei Vincitori. Così, soltanto così, la morte dei suoi cari avrà un senso.

Stringe alleanze, ottiene sponsor, si fa molti amici. I suoi ragazzi sembrano avere speranze. È fiducioso, ostenta sicurezza.

Ma la notte, prima di addormentarsi, li vede ai piedi del letto.

Ora sono in quattro. 

E, come sempre, non smettono di fissarlo.

 

I suoi ragazzi muoiono. Per quanti sforzi faccia, per quanto sudore, rabbia e pazienza sprechi, non riesce a salvarli. Non può salvarli. Perché la fortuna non sarà mai a loro favore.

E lui sa già che la notte verranno a trovarli.

Prova ad essere più distante. A dimenticare i nomi. A non lasciare alcuno spazio al rimorso.

Ma alla fine, quando il cannone spara, loro sono lì. Per quanto cerchi di dimenticarli, loro sono lì.

E non smettono di fissarlo.

 

 

Non si accorge nemmeno di scivolare dalla sedia. La tempia batte contro il pavimento, ma lui non sente niente. Solleva il braccio, lentamente, e si sorprende di vedere le schegge di vetro infilate nella sua carne.

Che idiota, è caduto sulla bottiglia.

Ma non tutto il male viene per nuocere, pensa, mentre il sangue inzuppa il tappeto.

Forse questa volta smetteranno di fissarlo.

 

Si illude. Si è sempre illuso. Credeva che potesse finire, ma non finirà mai. I volti, i nomi, le parole, i gesti, gli occhi, le mani, tutto, tutto è inciso nella sua memoria, come lo squarcio fumante aperto da una spada.

Non andranno mai via. Lo ha sempre saputo, in fondo. Dopotutto era per questo che beveva.

Per ingannare la morte, ingannando se stesso.

 

 

You saw my pain, washed out in the rain
Broken glass, saw the blood run from my veins 

But you saw no fault no cracks in my heart
And you knelt beside my hope torn apart

 

 

Una voce lo chiama. È strano, nessuno di loro lo ha mai chiamato. Si sono sempre limitati a fissarlo. A fissarlo e basta. Il silenzio era la loro firma, la loro condanna, la loro vendetta.

«Oh, accidenti, uno non può lasciarti solo un momento e guarda che pasticcio combini.»

Apre gli occhi, incredulo. Lei non può essere qui. È soltanto un parto della sua mente devastata.

Lei se n’é andata. E lui l’ha guardata andare via.

Eppure lei è lì. Non esattamente, in realtà. Non è la donna che ha sempre conosciuto, non è la svampita madamigella tutta fronzoli e ottusità. I suoi capelli sono lunghi e scompigliati, i suoi occhi stanchi e senza trucco, il suo volto distorto e corrucciato. Non indossa pizzi e merletti, ma un vestito sgualcito. Sembra un’altra persona. È un’altra persona.

«Guarda un po’ chi è venuta a farmi visita» borbotta, ridacchiando e tossendo.

Lei arriccia il naso, probabilmente per via del suo alito distillato in botti di quercia. «Non sarei neanche qui, se tu non fossi in grado di badare a te stesso.»

«Ti credevo nella capitale.»

Lei esita. «Anche io.» Cerca di comporre sul suo viso il suo caratteristico sorriso di facciata, ma le esce una smorfia storta incorniciata da labbra screpolate. Abbassa gli occhi, imbarazzata. Non è mai stata così imperfetta. Non è mai stata così insicura. Non è mai stata così bella.

«Avanti, lurido ubriacone, ora vai sotto la doccia e ci resti un bel po’. Non ho intenzione di restare accanto a te se continui ad emanare questo imbarazzante fetore.»

Lui si alza in piedi, e tutta la casa comincia a danzare. Le gambe vacillano, e si immagina già con il sedere per terra. Ma qualcuno decide che non è così che deve andare. Che non è per terra che deve stare. Qualcuno che lo afferra, e lo trascina energicamente verso il bagno, profondendosi in ingiurie colorite ed insuliti estremamente eleganti. Qualcuno di insopportabilmente testardo. Come lui.

La doccia fredda è un terrificante toccasana. Quando esce dalla doccia, lei ha già preparato dei vestiti puliti, e glieli ha ordinatamente adagiati sul letto. Tutto perfettamente coordinato, ovviamente.

Mentre scende le scale, è colto dal terrore che sia uno dei suoi miraggi. Che nessuno sia venuto da lui. Che sia ancora a terra, immerso nel suo sangue, circondato dai suoi fantasmi.

«Oh perdincibacco, questa casa è davvero un disastro. Da quanto non dai una bella pulita? E che cos’è questa puzza? Che i numi ti stramaledicano, intollerabile strapezzente che non sei altro!»

«Fai attenzione, potrei offendermi.» Scende le scale con passo rapido, inciampa ma riesce a recuperare tempestivamente l’equilibrio.

«Oh cielo, ci manca solo che ti rompi qualcosa. Ma chi me l’ha fatto fare di tornare qui?»

Lei si avvicina, con aria seccata e preoccupata. Prima che possa fare qualunque cosa, lui le afferra la mano. È piccola, umidiccia e sporca. Perfetta. Lei sbatte gli occhi nervosamente, e si lascia sfuggire un piccolo oh.

«Hai ragione, questa casa è un letamaio. Andiamo a fare una passeggiata?»

Lei lo guarda stupita. Non se l’aspettava.

Passa solo mezzo secondo, ma è uno di quegli istanti che durano per una vita intera.

Poi lei sorride. È buffo, l’ha guardata sorridere un sacco di volte, ma questa è la prima volta che glielo vede fare davvero.

Le offre il braccio, come un vero gentiluomo. Forse ha esagerato. Poi gli scappa un rutto, e tutto torna al suo posto.

«Sei un vero cafone, Haymitch Abernathy.»

«Riservo il mio meglio solo per te, lo sai.»

 

 

So give me hope in the darkness that I will see the light
Cause oh they gave me such a fright
But I will hold as long as you like
Just promise me we'll be alright

 

Aprono la porta e scendono i gradini dell’ingresso. È una bella giornata. La piazza del villaggio è vuota: la signorina Everdeen e il signorino Mellark dormono ancora. La scena è tutta per loro.

Improvvisamente, avverte qualcosa alle sue spalle. Mentre si gira, sa già cosa lo aspetta.

Loro sono lì, davanti alla sua casa. Sono lì.

Sono lì, ma hanno smesso di fissarlo. Chiudono gli occhi, beati. Come un bambino che si addormenta fra le braccia della madre.

«Haymitch?»

Lui si volta. Lei e lì, e lo guarda preoccupata. «Tutto bene?»

«Io...»

Lancia un’altra occhiata alle sue spalle. Nessuno ricambia il suo sguardo.

Sorride.

Sono andati. Non spariti, questo no. Semplicemente, sono passati da fuori a dentro di lui.

Lei lo guarda. Vede il suo sorriso, e capisce. Non sa bene cosa, o perché, ma l’ha capito. E questo basta.

Leggera come un petalo di rosa, poggia la mano sulla sua spalla.

«Andiamo?»

Lui le offre il braccio. E questa volta non rutta.

«Andiamo.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

And the ghosts that we knew will flicker from view

And we'll live a long life.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: postai questa storiella di presenze poco educate e gente che capisce tutto al volo un po' di tempo fa, colto da un raptus notturno di quelli da scrittore impegnato (solo che magari lo scrittore impegnato ci scrive qualcosa di impegnato, io me ne esco con le fanfy di Hunger Games. E vabbé). La cancellai poco dopo, perché non mi convinceva/mi sembrava un po' troppo lagna/che fai ti metti a scrivere haffie fluff la dignità questa sconosciuta; qualche giorno fa l'ho ripescata dal mucchio, e ho deciso che meritava una seconda chance. Perché oh, se ti piace una cosa che rileggi dopo mesi che l'hai scritta vuol dire che, brutta o meno, quella cosa ha fatto il suo dovere. E poi che diamine, ogni tanto anche i maschi c'hanno i momenti cippicioppi, è tempo di sdoganare questo sessistico tabù e contribuire al progresso della razza umana.
Quindi niente, viva i feelings, viva le fanfiction young adult, viva la gente fracassata dalla vita che finalmente saluta i fantasmi che conosceva e viva le canzoni dei Mumford&Sons che dopo una cert'ora ti farebbero shippare il comodino con lo spigolo del letto. 

Tante care cose, miei cari, e alla prossima!

 

 

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Ser Balzo