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Autore: Tomi Dark angel    20/03/2016    2 recensioni
STUCKY
Finalmente, Steve ritrova Bucky. Può riportarlo a casa, possono ricominciare a vivere insieme. Ma Bucky non è solo. Con lui, c'è anche il Soldato d'Inverno.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Steve Rogers
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il mondo ha uno strano modo di invecchiare. Appare stranamente sempre giovane, mai anziano, a dispetto del suo reale istante di nascita. Si avvale di una coperta di vite giovani, che nascono e crescono, di cadaveri che si decompongono in giovane terra e umida natura appena nata. Il pianeta è una creatura bizzarra ma, nella sua bizzarria, sa accogliere esseri viventi ancora più strani di lui.
Il Soldato d’Inverno è una di queste creature. Nel complesso, reincarna la falsa giovinezza del pianeta stesso. Non appare anziano d’età, eppure dovrebbe essere fisicamente un vecchio. La pelle è giovane, ma gli occhi così stanchi, così incartapecoriti da sembrare orbite di un dio che già da troppi secoli respira e osserva il lento scorrere del mondo verso un baratro inevitabile.
Alla fine di tutto, oltre la battaglia sull’Helicarrier, è tornato indietro. È stato un uomo a cercarlo, un uomo a trovarlo, un uomo a ricondurlo in luoghi che lui non riconosce.
“Ti porto a casa, Bucky”.
Casa. Il Soldato d’Inverno, una casa non ce l’ha. Non l’ha mai avuta o, più semplicemente, non se lo ricorda. È facile dimenticare, ma ritrovare le proprie stesse memorie è un impossibile miracolo.
Il Soldato d’Inverno sa di dover ricordare il volto di Captain America. Sa di conoscerlo, lo sente fin dentro le ossa, ma non riesce a tornare sui suoi passi. Da quando Steve l’ha riportato a casa, il Soldato d’Inverno giace seduto su un letto, chiuso a chiave in una stanza. Non è stato Steve a rinchiuderlo, ma il Soldato stesso. “Bucky”, l’ha chiamato. Lui non sente di meritare un nome, non più. È morto da uomo, è rinato come un Soldato. Ha ucciso come un mostro.
Steve Rogers bussa alla sua porta ogni giorno. Lo chiama, gli parla attraverso la piastra di legno rinforzato che li separa, ma il Soldato non reagisce. Lui non reagisce mai. Non se qualcuno non glielo ordina. Libertà è solo un concetto inutile, una parola astratta priva di significato. La vera gabbia del Soldato, non è più l’Hydra da tanti e tanti anni. La sua reale prigione è lui, la sua testa, il suo dolore. È come una bastia nata e cresciuta in cattività: una volta libera, non sa che farsene di tutto quello spazio.
Per l’ennesima volta, qualcuno bussa alla porta. –Bucky?- esala una voce gentile di giovane uomo. È un timbro morbido, delicato, che non si addice quasi per nulla al grande e potente Captain America. Quella non è la voce di una leggenda, ma del più gentile degli uomini. Nella sua grandezza, Captain America si è dimostrato il più umano di tutti. Ha portato il Soldato a casa sua, si è preso cura di lui, non l’ha giudicato o fissato come se quello potesse aggredirlo da un momento all’altro. Il Soldato vorrebbe ricordare i momenti vissuti insieme a quell’uomo angelico, così diverso da lui, ma non ci riesce e questo lo fa imbestialire. Steve cerca Bucky, ma Bucky non c’è più. Steve cerca speranza, ma la speranza è morta anni e anni addietro, caduta in un gelido crepaccio insieme all’umanità del suo migliore amico.
-Bucky, potresti aprire la porta? Ascolta, sei chiuso qui dentro da giorni. Hai bisogno di uscire, e io posso aiutarti. Parliamone. Per favore. Non sei più prigioniero, perciò non costruirti un’altra gabbia.-
Quelle parole scatenano nel Soldato d’Inverno un’ondata di rabbia. La sente strisciargli dentro, risalire lungo la spina dorsale, su fino al capo, che sembra in procinto di esplodere. Un cane rabbioso pronto a mordere la mano del padrone. È così che l’hanno addestrato, e Steve non riesce a capirlo. Pensa ancora che sia in grado di compiere opere di bene, pensa che il Soldato d’Inverno sia Bucky. Due diverse entità, due diverse creature separate da un baratro di sangue e brutalità. Hanno lo stesso volto, ma non sono la stessa persona.
Lotta contro il bisogno di aggredire Steve, il bisogno di reagire come il sicario che è sempre stato. Gli spezzerebbe il collo, se solo perdesse il controllo per un millesimo di secondo. Basterebbe così poco, un solo istante, e Steve morirebbe.
-Bucky, parliamone…-
La porta si apre all’improvviso, con tanta violenza da essere quasi scardinata. L’uomo che è sulla soglia è una creatura bizzarra, antica, furiosa. Bellissima come un dio vendicativo, bellissima come mare in tempesta. Nessun essere umano possiede capelli d’ebano tanto lucidi, come piume di corvo brillanti alla luce del sole. Nessun essere umano possiede quel viso marcato, scolpito nella pietra del dolore e delle ere, cristallizzato in un istante di vita che non gli ha permesso di invecchiare. Nessun uomo ha quegli occhi, così grigi, così azzurri, così iridescenti. Quelli sono occhi dai mille colori, occhi che hanno visto e assorbito i più splendenti colori dell’universo. Gli occhi di Bucky, gli occhi del Soldato d’Inverno. Steve si sofferma a guardarlo solo ora, e lo guarda davvero, così come andrebbe fissata una splendida opera d’arte. D’improvviso, Steve si sorprende a pensare che Bucky sia bellissimo.
-Cosa ne sai tu di me?- ringhia il Soldato, oltrepassando la soglia per portare la sua faccia a un centimetro dal viso di Steve. Lo sfida, lo fissa come una bestia incattivita, arrabbiata e pronta a saltargli al collo. Steve non distoglie lo sguardo. Al contrario di Bucky, lui i ricordi ce li ha ancora: quando era bambino, fu proprio Bucky a trovarlo in un vicolo, inginocchiato davanti a un cane randagio sporco, troppo magro, tremante di ringhi feroci e paura incanalata. Non lo faceva avvicinare. In quel frangente però, anziché tirare via Steve così come avrebbe fatto chiunque altro, Bucky si era inginocchiato e gli aveva afferrato la mano, tendendola lentamente verso il cane ringhiante.
“Non distogliere lo sguardo, Stevie. Non si fidano, se lo fai”.
E Steve, certi insegnamenti li ricorda ancora. Non distoglie lo sguardo nemmeno adesso che il cane randagio è Bucky, non distoglie lo sguardo da quegli occhi così imperscrutabili, lucenti come punte di diamante.
-Che ne sai?- sbotta ancora il Soldato d’Inverno. –Mi hai allontanato dalla strada, mi hai strappato alla gabbia di ghiaccio in cui mi rinchiudevano fino al giungere di una nuova missione. Pretendi che i tuoi stessi gesti ti permettano diritti su di me che non puoi esercitare? Sono nato in cattività, Rogers, sono un dannatissimo animale selvatico! Sono una bestia, ma tu ti ostini a vedere un uomo! Io non sono umano, non sono come te! Hai accolto in casa tua un assassino soltanto perché somiglia al tuo amico d’infanzia, ma lasciatelo dire: Bucky non esiste più. Speravi di aver salvato lui, ma io non mi chiamo Bucky. Io sono il Soldato d’Inverno, la stessa persona che ha ammazzato centinaia di uomini come te! Queste sono mani sporche di sangue, e per quanto tu voglia ignorarlo, sappi che non potrò lavarlo via!-
Prima che Steve possa reagire, il braccio metallico del Soldato d’Inverno saetta, veloce come la testa di un cobra in attacco: il manrovescio lo colpisce al petto con tanta forza da scagliarlo attraverso la stanza, contro la parete, laddove il corpo di Steve si schianta con violenza prima di accasciarsi. Tossisce, respira a fatica per l’improvviso dolore al petto, ma quando solleva lo sguardo, il Soldato non c’è più.
 
Il Soldato d’Inverno è appena uscito dal palazzo quando la bomba esplode. Un innesco violento, brusco, che sovrasta grida e stridore di pneumatici sull’asfalto. Qualcuno urla da qualche parte, un uomo lo urta nel vano tentativo di accelerare la sua ipotetica fuga verso la salvezza. Un violento spostamento d’aria investe il Soldato d’Inverno un istante prima che il palazzo cominci a cedere. Si trova in fondo alla strada, a poca distanza dall’appartamento di Steve. Un attentato? Possibile. Potrebbe trattarsi dell’Hydra, e per questo il Soldato avverte al contempo l’istinto di aggressività e quello di sopravvivenza lottare tra loro: dovrebbe scappare dalla minaccia. Dovrebbe correre incontro al pericolo.
Il palazzo cede in quel momento, tra grida e pianti disperati, un titano di stucco e cemento che si avvita su se stesso e sprofonda, sollevando un’ondata di polvere e fragore assordante. Una sottile polverina bianca investe il Soldato, sporcandogli i capelli e il viso di uno strato quasi invisibile di sporcizia. Il marchio del disastro. Per lui, è come un segno, la vittoria schiacciante dell’istinto omicida che contraddistingue il Soldato d’Inverno. Il Soldato scatta verso il luogo del disastro, scansando la folla di gente in fuga. Alcuni gridano, altri piangono, ma a lui non importa. Non li sente quasi. Tutto ciò che vuole, è trovare la minima traccia di vendetta che chiede, un punto di partenza per rintracciare l’Hydra.
Quando raggiunge il luogo del disastro, il Soldato è travolto dall’odore nauseabondo del sangue, del dolore, della paura. È un tanfo insopportabile per molti, ma non per il Soldato d’Inverno: lui ci è abituato. Non lo spaventa il sangue schizzato sulle macerie, non lo spaventano le grida della gente, i pianti delle persone, i gemiti delle vittime. Quando era al servizio dell’Hydra, il motivo di quei suoni era lui. Forse, lo è ancora.
“I mostri non possono cambiare”.
Il Soldato d’Inverno avanza nel fumo, tra urla disperate e gente che tenta di rialzarsi. Alcuni hanno ossa spezzate, altri non si muovono più. Sono morti velocemente? Il Soldato non lo sa, non gli interessa saperlo. Lui non è un eroe, non è lì per aiutare.
“I mostri sono mostri. Non salvano nessuno, sanno solo uccidere”.
Elegantemente, il Soldato scavalca le macerie, balza tra vetri rotti e frammenti di legno. Uno spuntone particolarmente sporgente gli ferisce la gamba, strappando il pantalone, ma lui non sente più dolore. Non ricorda cosa sia. L’ha provato così a lungo che non ha potuto fare a meno di abituarsi ad esso fin quasi a disconoscerlo.
“Le bestie non possono cambiare”.
Un lamento basso, soffocato, giunge alle orecchie del Soldato d’Inverno. È una richiesta di aiuto, un verso diverso dagli altri. Vi è terrore in esso, una cieca paura di morire, ma il Soldato stranamente vi bada: non riesce a ignorarlo. È un lamento come gli altri, un verso di sottofondo… che tuttavia, in qualche modo, il Soldato d’Inverno riesce a sentire davvero fin quasi ad assimilarlo. Lentamente, abbassa lo sguardo sulle macerie sottostanti. Il suono viene da lì: c’è qualcuno sotto. Può davvero uno come lui azzardarsi a compiere un’azione di giustizia, un gesto che soltanto Bucky Barnes compirebbe? Lui non è più umano, non è più niente: lui uccide, non salva. Lui è bestia, non uomo.
Il Soldato d’Inverno serra le palpebre, si inginocchia. La testa gli fa male, il braccio di vibranio cala ad afferrare la maceria più grande. Vuole farlo davvero? Lui non è Steve Rogers, lui non è un giusto. È nato nella sozzura dell’oscurità, in essa si è visto riplasmare. Non è così facile lasciarsi tutto alle spalle, non è così facile accostarsi a una luce troppo pura, troppo brillante. Rischierebbe di sporcarla. Lui sporca tutto ciò che tocca.
“Puoi scegliere”.
Una voce. Limpida come l’acqua, gentile come carezza di morbida piuma. Il Soldato d’Inverno conosce quella voce, giunta dal più recente dei ricordi. Una voce beata di angelo guerriero, capace di richiamare alla luce anche la più oscura delle bestie. Una guida, una risposta.
Senza esitare, Bucky Barnes solleva la maceria. E li vede: un bambino di appena otto anni, moro, con incredibili occhi blu. Ha gli abiti strappati e perde sangue dal braccio sinistro, che ormai pende inutilizzabile lungo il fianco. Lo fissa in silenzio, gli occhi sbarrati, i capelli arruffati. Ha graffi dappertutto, ma a Bucky non interessa perché… è vivo. Il bambino è vivo, e Bucky si sorprende che la cosa gli interessi. Con uno scatto del braccio metallico, rovescia la maceria e salta all’interno della piccola voragine che accoglie il bambino come macabra culla. Non vuole spaventarlo, non vuole che inizi a gridare. Sa che lo farà, perché lui è il Soldato d’Inverno, col suo braccio mostruoso e l’espressione animalesca. Un bambino è puro, candido, intoccabile. E lui si azzarda adesso ad accostarsi ad esso, lurido di un’oscurità che non vorrebbe mai affibbiare a una creatura così piccola.
“Puoi scegliere”.
E Bucky sceglie, fosse solo per un istante. Forse non si tratta di seppellire il Soldato d’Inverno e di resuscitare un defunto Bucky. C’è altro, oltre tutto questo. C’è una bestia che per una volta, per una sola volta, potrebbe ritrarre gli artigli e annusare semplicemente la mano che gentilmente qualcuno le porge.
Con cautela, Bucky si inginocchia. Osserva il braccio del bambino: rotto. Non può spostarlo, o peggiorerà la situazione.
-Sei un angelo?-
Tra tante frasi che Bucky si aspetta, quella è decisamente esclusa dalla lista. Nessun grido, nessun gemito di terrore, nessun verso di paura. Una semplice domanda, un banale quesito che lo stesso Bucky si sorprende ad osservare. Sul volto del bambino non vi è derisione: non lo sta prendendo in giro.
Bucky lo fissa, inclina il capo. Lo hanno chiamato in tanti modi, ma angelo mai. Forse. O forse sì?
“Sei il mio angelo custode, Buck”.
-Non sono un angelo.- dice lui, fissando il bambino. –Non lo sono mai stato e non lo sarò mai.-
Il bambino cerca di replicare, ma dalle sue labbra non esce altro che un sordo gemito. Bucky lo guarda serrare gli occhi, flettere le ginocchia nel vano tentativo di accovacciarsi per contenere il dolore, ma le macerie non gli permettono di muoversi.
“Ti sei già occupato di una creatura indifesa?”
Stranamente, Bucky sa cosa fare. Stranamente, non gli risulta bizzarro e anomalo appoggiare la mano bionica sul capo del ragazzino. Per la prima volta, quell’arto non fa male: non ferisce, non uccide. Per la prima volta, il Soldato d’Inverno guarda gli occhi di un bambino, specchiandosi in essi e vedendosi per ciò che è. Sembra così umano, se visto attraverso lo sguardo di quella sperduta creatura. Umano, quasi angelico. È così che lui lo vede?
-Vedi la mia mano? Vedi come brilla?- dice Bucky dopo un po’. –È magica.-
Il bambino lo fissa, distogliendo l’attenzione dal dolore. Osserva con interesse il braccio di Bucky, la cui mano ancora affonda tra i morbidi capelli scompigliati e incrostati di sporcizia. –Davvero? Sei un angelo, allora. Hai detto una bugia.-
-Tu vorresti che io fossi un angelo?-
Il bambino solleva stancamente l’altro braccio mentre Bucky fa scivolare la mano lungo la sua guancia. Le dita del bambino, così piccole in confronto a quelle rudi e forti del Soldato d’Inverno, si aggrappano alle sue. Sono dita fragili, figlie di una giovinezza che ha rischiato di spezzarsi all’improvviso e senza motivo. Un innocente condotto al macello.
“Puoi scegliere”.
Il bambino serra forte gli occhi, ancora aggrappato alla mano di Bucky. Il sicario è sorpreso dall’innata semplicità con cui il bambino lo tocca, come se fosse la cosa più semplice del mondo. Si aggrappa alla sua mano come se non avesse altro appiglio nella vita, come se quell’ancora sicura fosse qualcosa di pulito e benigno anziché un arto nato e cresciuto al solo scopo di uccidere.
-Signor angelo?-
-Mh?-
-Posso… posso esprimere un desiderio?-
Bucky lo fissa, in attesa mentre il bambino serra le palpebre e stringe forte la sua mano.
-Voglio che mamma e papà stiano bene. Voglio tornare a casa.-
Bucky non sa che dire. È confuso, stanco, provato da se stesso. Comincia a capire cosa farebbe Bucky Barnes in una situazione del genere, ma non sa cosa farebbe invece il Soldato d’Inverno. Entrambe le entità gli appartengono, in un modo o nell’altro. Forse non è giusto sperare che l’una o l’altra prevalga. Forse Bucky dovrebbe provare ad essere entrambi: determinato come il Soldato d’Inverno, giusto come Bucky Barnes.
Per capire cosa fare, Bucky pensa a Steve Rogers. Non sa perché gli venga in mente lui, non sa perché è consapevole proprio grazie a quel nome che la forza di volontà può abbattere qualsiasi muro, qualsiasi limite, qualsiasi debolezza. Si è forti solo se si è convinti di esserlo.
-Stringi forte la mia mano.- sussurra, chinandosi su di lui. Si sfila la maglietta e con dolcezza non sua, ben lontana dal tocco del famigerato Soldato d’Inverno, la avvolge intorno al braccio ferito del bambino. Lo fa con delicatezza, come se quel piccolo arto fosse fatto di cristallo. –Ho intenzione di fare una magia, ma per poterlo fare, devi aiutarmi. Devi… credere in me. E in te stesso. Puoi farlo?-
Il bambino annuisce, convinto, e Bucky respira a fondo.
-Voglio usare la magia per cancellare il dolore dal tuo braccio. Devi crederci, ok? Credici con tutte le tue forze. Fidati di me.-
“Fidati di me”. È strano dirlo, è strano azzardarsi a pronunciare parole tanto cocenti. Lui stesso non si fiderebbe del Soldato d’Inverno. È sbagliato, innaturale. Lui non è Captain America. Non è Steve, con quel suo sorriso rassicurante, lo sguardo gentile e i capelli biondissimi. Lui è un angelo vero, di quelli che da un momento all’altro potrebbero spiegare le ali bianchissime e innalzarsi su, fino alla luna, oltre il sole e l’universo. Steve Rogers è un angelo, una creatura che Bucky non dovrebbe neanche azzardarsi a guardare.
-Io credo in te, signore. Sei il mio angelo custode.- sorride il bambino con tanta disarmante semplicità da farlo tremare.
Pregando che vada tutto bene, Bucky gli stringe forte la vita e poco a poco lo solleva dalle macerie. Il bambino geme contro la sua spalla, ma la fasciatura è abbastanza stretta da immobilizzargli il braccio. Si aggrappa all’arto metallico di Bucky con la manina piccola, fragile, sottile come ala di farfalla.
Bucky ha creduto di aver dimenticato come si abbraccia un qualsiasi altro essere vivente senza ucciderlo. Non è facile toccare qualcosa di tanto delicato senza spezzarlo. Gli hanno insegnato a distruggere, a frantumare, a lacerare. Non credeva di sapere come toccare senza stringere. Quasi pensa che sia Bucky ad agire in quel modo, ma non è così: il Soldato d’Inverno non è mai andato via. Non è qualcosa che si possa cancellare, distruggere, spezzare così come l’Hydra gli ha insegnato ad agire contro le sue vittime. No, il Soldato d’Inverno… forse è giusto abbracciarlo come Bucky sta abbracciando adesso quel bambino fiducioso. Forse.
 
-Toglietevi di lì! Forza, andate via!-
Per la prima volta in vita sua, Steve ha davvero paura. Fino a quel momento, non ha mai concepito per davvero cosa sia il terrore vero, di quello che piega le gambe e fa tremare forte le mani. In passato, non gli è mai accaduto. Adesso invece, riesce a malapena a trattenere lo scudo senza farlo cadere. Nonostante la sua priorità sia adesso il luogo dell’incidente, il suo pensiero continua a volare a Bucky. Bucky, non Soldato d’Inverno. Steve si è ripromesso di cercarlo, di trovarlo, di inseguirlo fino a consumarsi le gambe. Se Bucky vorrà ucciderlo per liberarsi di lui, Steve non si ribellerà. Ha un solo desiderio, una sola preghiera per l’uomo che sin da bambino ha imparato ad amare: Steve prega che Bucky trovi se stesso, con o senza di lui.
Nel caos generale, Steve solleva una maceria particolarmente grossa. Sotto, vi sono un uomo e una donna. In qualche modo, l’armadio che si è rovesciato su di loro senza schiacciarli, li ha protetti da ciò che è seguito. Si stringono l’uno all’altra, gli occhi sbarrati, la pelle coperta di graffi. Hanno paura, non riescono a muoversi, e Steve li capisce: si sente esattamente così adesso. Senza Bucky, è come se gli avessero strappato una parte di se stesso, quel lato di Steve Rogers senza il quale Captain America è nient’altro che misero oggetto.
-Ce la fate a muovervi?- chiede, con voce appena tremante. Si sente disorientato, stanco, ma non può mostrarsi tanto debole al cospetto di chi ha davvero bisogno di aiuto. Perciò, non ottenendo risposta, Steve si schiarisce la voce: -Ce la fate?-
La donna annuisce per prima. L’uomo è ancora stordito, si guarda intorno spaesato e col viso sporco di sangue e polvere, ma quando la donna comincia a strisciare via dal loro rifugio sicuro, lui la segue meccanicamente. Con fatica, entrambi si trascinano oltre il raggio d’azione della maceria gigantesca che Steve sta reggendo. Uno dei pompieri li afferra e li aiuta ad alzarsi mentre Steve abbassa nuovamente la maceria.
-State bene?- si accerta il pompiere, ma la donna non risponde, ha gli occhi sbarrati e pieni di lacrime. Le tremano le labbra, le gambe cedono e lei cade nuovamente in ginocchio. Non parla, ma Steve sente che c’è qualcosa che non va.
-Mio… figlio…- sussurra con voce arrochita. Trema così forte da dare l’impressione che stia per avere un attacco epilettico. –Dov’è mio figlio?-
Steve si sente gelare. Dopo tanto tempo trascorso in guerra, si dice che dovrebbe essersi abituato a scene del genere, ma la realtà è che non è così: al dolore di una madre che ha perso il suo bambino non ci si abitua mai.
-Dov’è mio figlio?- esala ancora mentre il marito la abbraccia piangendo. Ha capito, già sa. Sa, ma non vuole parlare. Sa, ma si rifiuta di spezzare ancora una volta l’animo di una donna già devastata, che in qualche modo non accetta l’inevitabile verità.
“I mostri sono mostri. Si pensa che sia facile riconoscerli: nelle favole, i cattivi hanno l’aspetto di semplici bestie, così come gli angeli hanno le ali e i demoni hanno le corna”.
Un fruscio, una folata di vento più violenta delle altre, in grado di dissipare la polvere e il fumo che aleggiano intorno a loro come nebbia maledetta. È un cambiamento improvviso, che spinge Steve a voltarsi verso una sagoma sporca e coperta di graffi che sguscia sicura tra le macerie. Steve riconoscerebbe ovunque quella figura, perché l’ha osservata, sognata e immaginata così tante volte da poterla disegnare a occhi chiusi.
“A volte però, agli angeli piace travestirsi. Si mascherano di corna appuntite e code acuminate, di oscurità soffocante e sguardi assassini per nascondersi laddove almeno il più piccolo degli innocenti sa ancora vedere la luce dei loro animi”.
Steve non crede ai suoi occhi. Di tutte le scene che si sarebbe mai aspettato, quella è la più sorprendente, la più irreale… la più bella che potesse mai immaginare.
Bucky Barnes è lì, sporco, sanguinante, con indosso solo una canotta strappata e annerita. Ha lo sguardo basso, la guancia appoggiata alla massa di capelli scompigliati di un corpicino piccolo, ma saldamente aggrappato a lui. La mano metallica di Bucky gli accarezza il capo con una dolcezza disarmante, candida, che nessun essere umano saprebbe dimostrare. È un tocco reverenziale, la carezza di un angelo al suo protetto.
Di meraviglie, Steve ne ha viste tante. Ha attraversato gli oceani del tempo, ha lottato al fianco di dèi e sconfitto macabri alieni assassini. Ma oltre qualsiasi altra cosa, oltre ogni paradiso, meraviglia, o pallida rappresentazione di dolcezza, vi è quel Bucky così trasandato, coi lunghi capelli scuri che gli piovono sul viso e gli occhi brillanti di qualcosa che Steve non ha mai visto in vita sua.
Appena la donna lo vede, sbarra gli occhi. –IL MIO BAMBINO!- urla, tendendo le braccia. Si alza in piedi scivolando, scansando il marito e il pompiere, oltrepassando Steve con la forza che soltanto una madre potrebbe avere. Raggiunge Bucky di corsa nello stesso istante in cui il bambino si volta.
-Mamma!- esclama, schiudendo il piccolo volto in un sorriso sdentato. –Mamma! Papà!-
Con delicatezza, Bucky abbandona il bambino alle braccia della madre. –Ha un braccio rotto.- dice soltanto, cercando di indietreggiare mentre anche il padre corre ad abbracciare il figlio.
C’è però un particolare che Bucky ha tralasciato, un particolare che riempie il suo animo di purissima sorpresa: la mano sana del bambino è ancora lì, aggrappata al suo braccio metallico. Gli impedisce di allontanarsi.
-Grazie, signor angelo.- sorride, fissandolo. –Grazie per aver esaudito il mio desiderio.-
Bucky annuisce lentamente e solleva lo sguardo su Steve, che lo fissa incantato e non osa muoversi per timore che il suo amico scappi di nuovo. Il bambino segue la traiettoria del suo sguardo, sorride esausto.
-Anche tu hai un angelo custode, allora. Non sapevo che gli angeli ne avessero. Scommetto che la sua magia è nello scudo: brilla come il tuo braccio.-
Bucky non riesce a distogliere lo sguardo da Steve. Affonda nel suo sguardo, nell’azzurro dei suoi occhi. E improvvisamente, gli sembra di volare nello stesso cielo che racchiudono le sue splendide iridi, un cielo di un azzurro incredibile venato di sfaccettature colorate, uno spettro di sfumature senza tempo, senza fine.
-Vai da lui, angelo.- dice il bambino, sorridendo. Gli accarezza il braccio un’ultima volta prima di lasciarlo andare. –Torna a casa anche tu.-
Casa. Bucky non se la sente di crederci davvero. È davvero la sua casa, quella? Può veramente azzardarsi ad accostarsi a una creatura pura come Steve? È un azzardo, una possibilità che Bucky teme più di ogni altra cosa. L’ha picchiato, prima di abbandonare il loro appartamento. Gli ha urlato addosso, l’ha accusato, l’ha deriso. Eppure, nonostante tutto, Steve è ancora lì e lo fissa con occhi lucidi, commossi, gli occhi di chi ha perduto e ritrovato una parte stessa del suo animo.
Notando che Bucky non si muove, Steve si avvicina lentamente, con cautela. Lo fissa negli occhi ancora una volta, senza distogliere lo sguardo, azzardandosi a credere a un’ennesima speranza disperata. Quando lo raggiunge, quando respira il suo odore, la sua aria, la sua stessa anima, Steve si sente rinascere così come non gli accadeva da tanti e tanti anni.
-Scusami.- dice Steve, a sorpresa.
Bucky inclina il capo, lo sguardo nuovamente incolore. –Tu ti scusi? Quello che ti ha lanciato nel muro sono io.-
Ma Steve scuote il capo, sofferente. Serra forte gli occhi, si massaggia la radice del naso. Alla fine, così come fece allora sull’Helicarrier, lascia cadere lo scudo. –Ho cercato in te ciò che eri, non ciò che sei. Cercavo Bucky, ma non il Soldato d’Inverno, senza capire che entrambi sono semplicemente due facce di una stessa medaglia. Ho sperato di cancellare quella parte di te che ormai è aggrappata al tuo essere, e ho sbagliato, perché tu… tu sei Bucky e il Soldato d’Inverno. Sono stati loro a salvare quel bambino, sono stati loro a tornare da me. Il mio Buck è salvo grazie al Soldato d’Inverno, e io non lo ringrazierò mai abbastanza.-
Lentamente, Steve solleva lo sguardo su di lui. Ha le guance rigate di lacrime, le labbra strette in un’espressione sofferente. Trema forte, fragile dinanzi a un dolore che non riesce a contrastare.
-Se puoi perdonarmi… ti prego. Ti prego, fallo. Forse ti chiedo troppo, forse non dovrei nemmeno osare tanto, ma tu sei tutto ciò che ho sempre avuto. Tu sei il motivo per cui esiste Captain America. Il motivo per cui esiste Steve Rogers. Anche io ho due diverse entità da accomunare, ma tu non avresti mai provato a soffocare in me uno dei due. Lo capisco ora. Mi dispiace, Buck… mi dispiace.-
Silenzio. Steve crolla in ginocchio tra le macerie, ferendosi le mani e le gambe contro i detriti appuntiti. Non singhiozza, ma piange in silenzio, prostrato ai piedi dei suoi più grandi errori, delle sue più grandi speranze. A volte, anche i supereroi piangono. A volte, anche Captain America si concede di essere umano.
Contro ogni probabilità però, Bucky si inginocchia davanti a lui, alla sua altezza, riportandoli a una situazione di parità, così come è giusto che sia. Sorprendendo anche se stesso, allunga la mano di carne e afferra delicato quella di Steve, sollevandola. Il palmo è sporco di sangue, pieno di schegge e calli da guerriero.
Sotto gli occhi adesso sbarrati di Steve, Bucky accosta la mano al volto e, afferrando le schegge coi denti, le estrae e le sputa una alla volta, con minuziosa precisione, agendo senza malizia ma col solo intento di aiutarlo a star meglio. L’ha fatto tante volte quando Steve era un fragile ragazzo asmatico, e ancora adesso Bucky continua a farlo, perché è giusto così, perché sì… in fondo, Steve è casa sua.
Mentre le labbra di Bucky gli sfiorano la mano, Steve non riesce a staccargli gli occhi di dosso. Il palmo brucia, ma laddove Bucky lo tocca, quasi baciandolo, Steve si sente rinascere, sbocciare di nuovo grazie a quelle stesse labbra morbide che tante e tante volte ha già sognato, immaginato, ricostruito con la sola forza dei ricordi.
Quando Bucky ha finito, strappa un lembo della canottiera che ancora indossa e lo stringe intorno alla mano di Steve, tamponando il sangue, ripulendogli la pelle e l’anima. È un lavoro minuzioso, gentile, troppo accurato per una mano callosa e malridotta come quella di Captain America.
-Non mi devi niente, Steve.- sussurra Bucky senza guardarlo negli occhi. –Né scuse, né lacrime, né devozione. Dovresti andare avanti, farti una famiglia, vivere. Io sono soltanto… non lo so cosa sono, ma adesso ho capito. La verità è che anche io ho detestato il Soldato d’Inverno, senza capire che alla fine di tutto, il Soldato d’Inverno sono io. Detestare se stessi fino a questo punto è peggio che morire.-
A sorpresa, una piccola e calda lacrima piove sulla mano di Steve. Il viso di Bucky è chino, coperto da una cortina di capelli scompigliati. Non lo guarda, troppo impegnato ad occuparsi delle ferite di Steve.
-Se… se c’è qualcuno che può aiutarmi… qualcuno in grado di salvare uno come me… quello sei tu.-
Lentamente, Bucky solleva lo sguardo su di lui. Occhi umani, limpidi, giovani di vita e anziani di terribili ricordi. Quelli non sono né gli occhi di Bucky Barnes, né quelli del Soldato d’Inverno: quello sguardo appartiene a entrambi, e Steve si accorge di amare ogni sfaccettatura di quell’uomo, ogni suo gesto, ogni suo sguardo. Ama i sorrisi di Bucky, ama gli occhi del Soldato d’Inverno.
Sbarrando gli occhi, Bucky si tocca la guancia bagnata di lacrime per poi osservare la sua stessa mano stranito. –Piango? Non sapevo di poterlo fare.-
Steve lo osserva, osserva i suoi occhi limpidi, la sua aria stupita di bambino. Lo ama, ama ogni suo più semplice aspetto. Ama Bucky, ama il Soldato d’Inverno.
Ci sono momenti in cui è necessario tentare, momenti in cui azzardare è tanto pericoloso quanto giusto. Steve capisce che quello è uno di quei momenti, l’istante di una vita: sa cosa significhi temporeggiare per poi pentirsene subito dopo. Ha aspettato quando era ragazzo, e ha perduto Bucky. Ha aspettato perché umanamente credeva che ci fosse tempo, mentre in realtà tempo non ve ne era. Adesso Steve lo sa, e non intende perdere di nuovo quell’istante che attende ormai da più di settant’anni.
Senza pensare, si sporge verso Bucky, verso il suo viso, verso la sua stessa anima. Con delicatezza, facendo attenzione a non fare movimenti bruschi, gli bacia una guancia, laddove ancora giace una lacrima rappresa. Non gli interessa che siano in pubblico, non gli interessa che il mondo intero li guardi.
Al tocco leggero delle labbra di Steve, Bucky trema. Non si muove, e questo spinge Steve a continuare, un bacio dopo l’altro, lungo il naso, lo zigomo, la mandibola, il mento. Sono tocchi gentili, un leggero sfiorarsi di anime che da bambine si sono scoperte, da giovani si sono toccate e adesso, a distanza di tanto e troppo tempo, finalmente si toccano e si intrecciano.
Quando Bucky socchiude gli occhi, Steve capisce che non si allontanerà. Contro ogni previsione, contro ogni suo più pallido sogno, Bucky riesce a sorprenderlo ancora. Per questo Steve lo bacia, per questo sente di amarlo ancora di più, fino a perdere il respiro e l’anima, la vita e la concezione stessa dello spazio e del tempo. Tutto inizia e finisce con Bucky, coi suoi occhi, col suo viso, con le sue mani spaiate.
Le labbra di Steve si appoggiano delicate su quelle di Bucky, chiedendo un bacio semplice, quasi di bambino, timido di un affetto puro e incondizionato. È un contatto gentile, al quale Bucky non è abituato. Non fa male, non brucia, non lacera. È qualcosa di piacevole, quasi di paradisiaco. È qualcosa di umano. È qualcosa da Steve.
Dolcemente, Steve gli avvolge un braccio intorno alla vita. Continua a baciarlo, ignorando gli applausi del bambino e della famiglia che loro stessi, insieme contro il mondo hanno salvato. Lì, al cospetto del cielo e della terra, del mondo e dell’universo stesso, Steve Rogers bacia Bucky Barnes mentre Captain America sfiora le labbra del Soldato d’Inverno. Insieme, fino alla fine. Insieme, perché dopotutto, Bucky può finalmente tornare a casa.
“Il bambino aveva ragione. Anche io ho un angelo custode”.
 
“Cosa fa di un uomo un uomo?
Forse le sue origini, il modo in cui viene alla vita?
Sono le scelte che fa:
Non come comincia le cose, ma come decide di finirle”.
 
Angolo dell’autrice:
Ehm… cosa ho scritto? Non lo so, sinceramente. Sto pensando di scrivere una long, ma non ne sono molto convinta. Cosa ne pensate della storia? Piaciuta? Fatemi sapere, e grazie per aver letto!
Tomi Dark Angel
 
  
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