CAPITOLO I
1
settembre 1991
«Sei sicura di
avere tutto quel che ti serve?».
«Per la
quattordicesima volta, sì».
«Perché starai
via fino a Natale e hai bisogno di pergamene, abiti, forse un mantello
più
pesante...».
«Oh, Merlino,
davvero starò via fino a Natale?! Non me n'ero resa conto!
Calmati, pa', potrai
mandarmi pacchi via gufo ogni volta che vorrai, ormai dovresti avere
imparato a
farlo».
«Questo stupido
Babbano ora ci riesce, stronza di una figlia».
Med e suo padre
si guardarono negli occhi per tre secondi, poi scoppiarono entrambi a
ridere.
«Mi mancherai,
lo sai?».
«Come ogni
volta, pa'». Allargando le braccia, Med rispose all'abbraccio
del padre.
Immaginava il rumore delle lancette che si muovevano alle sue spalle,
ricordandole che doveva far presto se non voleva perdere l'Espresso per
Hogwarts, ma non riusciva a staccarsi da lui.
Alla fine fu suo
padre a parlare. «Mi spiace che tua madre non sia potuta
venire oggi...».
«Si sta bene
anche senza di lei».
A Med non era
andata giù la valanga di scuse che la sua adorabile
mammina aveva utilizzato per evitare di accompagnarla a
King's Cross: «Ho
un mal di testa tremendo... E se poi vomitassi lungo la strada? Con
tutte
quelle curve... Non posso certamente presentarmi alle altre famiglie di
maghi
con questi capelli, che cosa penserebbero?».
Quelle ultime
tre parole avevano riassunto alla perfezione il vero motivo per cui,
quella
mattina, sua madre non era lì con lei. Diane era una strega
mediocre, ma con un
talento naturale per la Materializzazione che con il tempo le aveva
permesso di
essere a capo dell'Ufficio per il Trasporto Magico al Ministero della
Magia.
Appena diplomata aveva sfidato la tradizione, lavorando per guadagnarsi
da
vivere nonostante il grosso patrimonio dei genitori, e anni dopo aveva
perfino
deciso di sposare un Babbano; le sue amicizie con alcune delle
più importanti
famiglie Purosangue erano continuate, ma un inatteso imbarazzo era
sorto nel
momento in cui aveva incontrato le migliori amiche di Med e relativi
parenti.
Parkinson e Pucey erano nomi rinomati nell'ambiente che lei stessa
aveva frequentato
a Hogwarts, mentre Diane dopo le nozze si portava dietro un cognome
babbano.
Inutile dire che le signore Parkinson e Pucey avevano subito trovato il
modo
per guardarla dall'alto della loro stupida superiorità di
sangue e questo non
aveva fatto un buon effetto su Diane, che cercava di evitare qualsiasi
fortuito
incontro con loro per evitare di sentirsi a disagio. Al contrario, suo
padre si
era ulteriormente elevato rispetto alle rivali di Diane e aveva deciso
che gli
sguardi a lui rivolti non facevano alcun male; si divertiva perfino a
rispondere a tali sguardi con un allegro saluto, che costringeva i
Purosangue
colti in fallo ad abbozzare il più tirato dei sorrisi.
C'era stato un
tempo in cui anche Med aveva creduto nella superiorità della
razza magica.
Questo prima di sentire il padre di Lobelia pronunciare parole poco
graziose
per descrivere Diane e Wes: suo padre era un babbano incapace di fare
la magia
più elementare, ma era il suo
stupido
padre babbano e solo lei aveva il diritto di prenderlo in
giro.
«Le porterò i
tuoi saluti».
«Dille che mi
mancherà come i brufoli dell'anno scorso».
Wes ridacchiò,
arruffò i capelli della figlia e poi sollevò lo
sguardo verso l'orologio della
stazione. «Va' o farai tardi. E io non posso accompagnarti a
Hogwarts, la scopa
della nonna non vuole saperne di sollevarsi».
«La nonna è
babbana, pa'».
«Tu dici? Avrei
giurato che fosse una strega. Ma non dire che te l'ho detto».
Rivolgendogli un
ultimo sorriso, Med si congedò da lui e riprese i propri
bagagli per raggiungere
il binario 9 e ¾. Ormai attraversare il passaggio era
diventata una
passeggiata: si appoggiò al muro, attendendo di essere
celata da Babbani di
passaggio in tailleur e ventiquattrore, e si lasciò cadere
oltre le insegne tra
i binari 9 e 10, tornando in quel mondo che per lei era una casa, un
rifugio...
e una maledettissima scuola.
Com'era
prevedibile, c'era più confusione nella stazione magica che
in quella babbana.
Un gufo le sfiorò i capelli, mentre il suo proprietario
urlava cercando di farlo
tornare nella gabbia; poco più in là, un
ragazzino paffutello – sicuramente del
primo anno – si vantava con quella che doveva essere sua
nonna del bellissimo
rospo che teneva in mano. Mentre cercava qualche volto conosciuto, Med
lo sentì
dire: «...il regalo migliore del mondo, nonna! Lo
chiamerò Oscar, ti piace?
Sta' tranquilla, non lo perderò, lo metto in questa
gabbietta...». Un attimo
prima il bambino reggeva il rospo, l'attimo dopo strillava
perché la porta
della gabbia era aperta. Med sogghignò, superandolo e
lasciando il rospo sul
baule di una Tassorosso con il terrore degli anfibi.
Ah,
ora sì che siamo di nuovo in pista!
Cresciuta in una
famiglia per metà babbana, Med non aveva avuto problemi ad
adattarsi al divieto
di fare magie fuori dalla scuola; era stato quindi semplice continuare
a
infastidire i ragazzini più stupidi e codardi con i tipici
trucchi da Babbana.
Ora che stava tornando a Hogwarts, però, poteva infierire su
di loro nei modi
che più la divertivano. Le mancavano solo poche ore e poi
non avrebbe dovuto
aprire una gabbietta con la mano per far piangere qualche primino.
«Med!».
Si voltò,
riconoscendo subito quella voce; a giudicare da come si stava
sbracciando,
tuttavia, sembrava che Louis Nott stesse cercando la sua attenzione da
un bel
po'. Lo raggiunse di corsa, felice di vederlo.
«Louis! Che ci
fai qui? Ti mancavano i sotterranei?».
«Così tanto
che
volevo farmeli costruire anche a Bristol. Come stai?».
«Bene... il
rospo di quel ragazzino un po' peggio» ridacchiò,
indicando il primino indaffarato
a cui aveva tirato uno scherzo.
A differenza di
molti altri della loro stirpe, la famiglia Nott – perlomeno i
due figli – non
manifestava disgusto vedendo Med, Diane o "quel babbano che si era
sposata"; Louis, in particolar modo, era sempre stato un buon amico per
Med, nonostante i loro tre anni di differenza: le aveva presentato
alcuni
studenti più grandi, che si erano diplomati l'anno
precedente insieme a lui, e
le aveva spiegato i trucchi migliori per passare un esame. Med non
ricordava di
avere fatto niente di importante per contraccambiare, ma a Louis era
bastato
che lei gli fosse stata accanto, tre anni prima, quando sua madre era
scomparsa.
E, ora che lui
aveva concluso gli studi, a Med non restavano altro che Lobelia e Grace.
«Come mai sei
qua, allora?».
«Ho accompagnato
mio fratello. Ora sta salutando... papà».
Louis storse il naso, facendole capire che il suo rapporto con il padre
non era
cambiato da quando si era trasferito a Bristol per mettere
più distanza
possibile fra di loro e, per un buffo scherzo del destino, aveva finito
per
essere diseredato. «Hai letto la Gazzetta
stamattina? Dicono che... Oh, no, sono tornati».
Med non ci mise
molto per capire di chi stesse parlando. C'era una Casa di Hogwarts che
lei non
avrebbe mai imparato a sopportare: i Grifondoro. Tronfi, arroganti e
rumorosi,
a Med avevano sempre ricordato i giocatori di football che nei film
horror
babbani fanno subito una brutta fine; si vantavano di essere grandi
giocatori
di Quidditch, sebbene non vincessero la coppa da anni; camminavano
lungo la
scuola occupando l'intero corridoio, facevano chiasso mentre lei
leggeva sulla
riva del Lago Nero e passavano il tempo a sfidarsi nelle maniere
più stupide.
La cosa peggiore, tuttavia, era il loro bisogno di sentirsi al centro
dell'attenzione in ogni momento:
per
quanto i Tassorosso fossero sfigati, perlomeno avevano la decenza di
aiutare i
più deboli per altruismo, non per ricevere un'immaginaria
medaglia al valore.
Ma, per quanto
la disgustassero, c'era qualcosa che Med detestava più dei
Grifondoro in generale:
i fratelli Weasley. Una massa di
capelli rossi e lentiggini, più chiassosi e tronfi degli
altri, abituati a fare
del mondo il loro palcoscenico e per niente imbarazzati all'idea di
girare con
vestiti di seconda o terza mano. Ogni volta che ne vedeva uno in
lontananza,
Med si chiedeva se trovassero i loro abiti fra quelli donati in
beneficenza e,
al contempo, come fosse possibile sterminarli una volta per tutte. Vide
i gemelli,
caotici e buffoni; vide il Prefetto, saccente e pieno di sé;
vide due nuovi
ragazzini e la loro ingombrante madre, carichi di bauli; ma,
fortunatamente,
non vide i più grandi.
«Quest'anno non
ci hanno reputati degni della loro presenza»
sibilò fra i denti.
I gemelli erano
fastidiosi, il Prefetto era noioso, il nuovo arrivo insignificante, la
ragazzina frignava già troppo, ma a incarnare lo stereotipo
del perfetto
Grifondoro erano Bill e Charlie Weasley, i fratelli maggiori. Charlie
non era
un grosso problema, perché pur essendo osannato come grandissimo giocatore di Quidditch aveva
avuto la decenza di essere
un cesso, ma lo stesso non si poteva dire di Bill: Prefetto, Caposcuola
e idolo
delle ragazzine, Bill sapeva farsi amare da tutti e odiare da ogni
singolo
Serpeverde; perfino alcuni Corvonero non sopportavano la sua presenza.
Per
fortuna aveva frequentato Hogwarts solo durante il primo anno di Med,
ma a
volte si faceva vedere al binario 9 e ¾ in compagnia degli
altri perdenti dei
fratelli. Quell'anno doveva essere ancora in giro per il mondo a farsi
ammazzare da qualche avido folletto.
«Devo salire,
fra poco l'Espresso partirà» si rese
improvvisamente conto Med controllando
l'orologio alla parete. «Scrivimi, ogni tanto!».
Quando lo salutò con un rapido
bacio sulla guancia, Louis arrossì, ma lei non ci fece caso.
«Lo farò. Vedi
di mantenere alto l'onore dei Serpeverde!».
«Per chi mi hai
preso? Hogwarts non sa cosa l'attende, quest'anno!».
*****
«Io continuo a
pensare che una cosa del genere sia inconcepibile».
Fera sbuffò.
«Dai, papà, lascia perdere…».
«Inutile,» la
interruppe sua madre, «andrà avanti con questa
storia per il resto della
settimana».
«Dico solo,»
riprese il padre di Fera, continuando a spingere il carrello verso
l’accesso al
binario 9 e ¾, «che è assurdo.
Un’incursione dentro la Gringott? Dovrebbe
essere il posto più inespugnabile del mondo! E cosa fanno i
goblin? Sdrammatizzano».
«Certo
che sdrammatizzano, Niall. Non è stato rubato nulla,
ricordi? Santo cielo,»
borbottò la donna, rivolta a Fera,
«perché diavolo abbiamo abbonato tuo padre
alla Gazzetta del Profeta?».
«L’idea stessa
che qualcuno sia entrato nella banca è
drammatica, Maire» proseguì
imperterrito l’uomo, mentre Fera ridacchiava e scuoteva la
testa. «Ci pensi?
Meno male che non abbiamo messo i nostri risparmi là dentro,
come ci aveva
suggerito quel goblin dalla testa grossa…».
Maire e Fera si
scambiarono un’occhiata esasperata e lasciarono che Niall,
preso
dall’indignazione, seguitasse a blaterare. L’uomo
poteva anche essere un
Babbano, ma l’interesse che mostrava per il mondo magico era
paragonabile solo
a quello di un Ministro della Magia: da cinque anni era un lettore
appassionato
delle più importanti riviste magiche, quale appunto la Gazzetta del Profeta, e questo lo faceva
sentire in diritto di
esprimere a chiara voce le sue opinioni su ogni avvenimento –
salvo quando
c’erano altri Babbani nei paraggi, ovviamente.
«E cosa fa
quell’ameba di Caramell, invece di occuparsene? Si balocca
con le sciocchezze…».
«Ehm, papà? Io
sarei arrivata».
Finalmente,
Niall smise di parlare e si guardò attorno: la barriera di
mattoni si ergeva di
fronte a loro. «Oh, di già? Come vola il
tempo».
Fera sospirò e
scosse la testa, poi abbracciò suo padre e sua madre.
«Vi scrivo appena arrivo,
ok?».
«Studia, mi
raccomando. Voglio vedere tanti bei G.U.F.O. sulla tua pagella,
l’anno
prossimo».
«E se anche
stavolta c’è un insegnante di Difesa squilibrato,
scriverò al Ministro!» tuonò
Niall.
«Tranquillo,
quest’anno dovrebbero averne preso uno normale. Ci vediamo a
Natale!» e
agitando la mano, Fera oltrepassò il muro.
Immergersi nella
folla antistante l’Espresso per Hogwarts fu al contempo un
sollievo e uno
stress. Il mondo babbano sembrava così lontano, quasi non
esistesse affatto,
eppure Fera poteva ancora avvertirne un’eco dalla parete alle sue
spalle.
Ricacciando il
leggero magone che le veniva ogni volta che si allontanava da casa, la
ragazza
si avvicinò al treno. Raggiunta la prima porta disponibile,
salì sul predellino
e tirò il baule verso di sé: di solito quella
operazione le richiedeva qualche
tentativo, ma stavolta sperava di farcela senza troppi problemi.
Speranza vana.
«Uffa,» si
lagnò, dopo la quarta volta che provava ad issare il baule.
Come poteva essere
così pesante? Di sicuro sua madre ci aveva aggiunto una
tonnellata di vestiti
pesanti per l’inverno… o forse erano quei
quindici-sedici libri che aveva
portato da leggere fino a dicembre? Chissà.
«Serve una
mano?».
Fera alzò gli
occhi. Sulla banchina, di fronte a lei, c’era un ragazzo
bruno e alto che le
sorrideva. «Oh,» gli rispose, «no,
tranquillo, ce la faccio».
Ignorò
l’espressione scettica apparsa sul volto del ragazzo e
tentò ancora una volta
di sollevare il baule, senza riuscirci. Accidenti alle norme! Se solo
avesse
potuto fare un incantesimo… Invece il divieto di fare magie
fuori da Hogwarts
si estendeva alla stazione, fino al momento esatto della partenza del
treno.
Che seccatura.
«Ok, mi
arrendo»
sospirò rivolta al ragazzo, che allargò il
sorriso e alzò la parte di baule
rimasta a terra. Insieme riuscirono a trasportarlo fino al corridoio.
«Grazie mille,
è
stato gentile da parte tua».
«Aspetta, ti
aiuto a portarlo nel vagone».
Prima che Fera
potesse rifiutare, trasportò il baule fino ad uno
scompartimento libero, verso
la metà del treno. «Ecco qua» fece lui,
mostrandole il posto con un ampio gesto
del braccio.
«Grazie di
nuovo. Non dovevi disturbarti così tanto».
«Figurati, è
stato un piacere».
Fera si
aspettava che, a quel punto, il ragazzo la salutasse e andasse via, o
che si
presentasse; invece le domandò di punto in bianco:
«Com’è andata
l’estate?».
«Ehm…
bene?».
«Sono contento.
Pensi di tornare al club di lettura, quest’anno? Io mi sono
già iscritto, non
vedo l’ora che ricominci…».
Fera restò un
po’ perplessa di fronte a quella confidenza. Era convinta di
non aver mai visto
quel ragazzo in vita sua – o meglio, sicuramente
l’aveva incrociato a Hogwarts
– ma quello parlava come se si conoscessero da tempo.
Incerta se ammettere
la sua ignoranza o rischiare una figuraccia, Fera cercò di
mantenersi sul vago.
Dopo un po’, il ragazzo tacque.
«Tu non ti ricordi
di me, vero?».
A quel punto,
Fera si arrese. «No» sospirò,
«non ho la più pallida idea di chi tu sia, anche
se ho capito che siamo nello stesso club di lettura. Ho una memoria terribile per le facce».
Il ragazzo
scoppiò in una sonora risata. «Ehi, non
è colpa tua. Dicono che io sia
cresciuto parecchio, questa estate». Le tese una mano.
«Sono Edmund Fawley. Ed.
Corvonero, sesto anno, Prefetto, amo i romanzi babbani e ogni tanto li
chiedo
in prestito a te».
Edmund Fawley? Cosa?!
Fera spalancò gli occhi. Ricordava
Ed come un ragazzo pieno di brufoli, appena più alto di lei
e con la faccia
tonda come la luna, mentre quello che aveva davanti… Forse
era per l’accenno di
barba, ma pareva decisamente più interessante di quanto lei
ricordasse.
«Oh, per
Circe!»
esclamò, stringendogli la mano. «Perdonami,
io…».
«Sì, pessima
memoria. Non preoccuparti».
Fera accennò un
sorriso, ma dentro si sentiva morire d’imbarazzo. Se quello
era l’inizio del
nuovo anno, non osava pensare a
cosa
l’aspettasse.
Scambiarono
ancora qualche parola, poi Ed la lasciò sola a crogiolarsi
nella vergogna.
Perché, perché solo lei faceva queste figure di
cacca di drago? Con uno così
carino, poi!
Quando
l’imbarazzo fu un po’ diminuito, Fera si
affacciò al finestrino. Gruppi di
ragazzini e genitori sciamavano avanti e indietro lungo la
banchina, salutandosi
e lanciandosi vicendevoli raccomandazioni; aguzzando la vista,
intravide infine
quello che cercava: una serie di teste coi capelli rosso fiamma, sparse
tra la
folla variopinta.
Con un gran
sorriso, abbandonò bagagli e pensieri e corse verso la porta.
«Mostramela. Ora».
«Argh!».
Vedendosela
comparire davanti all’improvviso, Percy sobbalzò e
quasi cadde dal predellino. Quando
capì che era solo Fera,
sbuffò con
ferocia.
«Ciao anche a
te,» rispose, sarcastico. «Bella giornata, non
trovi?».
«Quasi quanto il
giorno in cui mi libererò di te,»
replicò Fera con soavità, osservandolo
dall’alto. «Ma basta coi convenevoli: mostramela, o
non ti faccio salire sul
treno».
Percy sospirò e
roteò gli occhicome se fosse esasperato, ma Fera sapeva
benissimo che era un
modo per nascondere la soddisfazione: un istante dopo, il ragazzo mise
una mano
in tasca e ne estrasse, avvolta con cura in un fazzoletto, la sua
spilla da Prefetto.
«Oooooh!».
«Attenta a non
farla cadere, è nuova...».
«Lo
so che è nuova, non mi hai scritto
altro per tutta l’estate!». Fera prese la spilla,
la rigirò tra le dita e poi se
l’appoggiò al petto, fingendo di provarsela.
«Diamine, mi sarebbe stata
benissimo».
Finalmente, si
scansò e lasciò salire Percy in treno. Da quando
si erano conosciuti,
esattamente cinque anni prima, entrambi erano cresciuti parecchio: lui
aveva
guadagnato in altezza, lei in sicurezza di sé. A volte, a
Fera sembrava
incredibile che fosse già passato così tanto
tempo, ma per convincersi le bastava
vedere la fronte di Percy dieci centimetri più in alto della
sua.
«Mi dispiace che
non abbiano nominato Prefetto anche te,» disse lui,
riprendendosi la spilla e
seguendo Fera verso lo scompartimento. «Proprio non capisco
perché Vitious
abbia deciso così».
«Forse è
perché
ho polverizzato la sua cattedra durante l’ultima
lezione?».
«Ma non l’hai
certo fatto apposta! Oppure sì? Santo cielo,
Fera,» si fermò di colpo, «mi hai promesso che non l’avevi fatto
apposta!».
«E infatti non
l’ho fatto apposta. Non del tutto».
Se c’era una
cosa che Fera amava fare, era suscitare indignazione nel suo amico.
Anche
quella volta, com’era prevedibile, ci riuscì: il
viso di Percy divenne rosso e
le sue guance si gonfiarono, pronte a sparare una delle sue solite
tiritere. «Sta’
calmo, sto scherzando» lo fermò allora lei.
«Vorrei ben
vedere» replicò Percy, gelido.
Lo
scompartimento di Fera era ancora vuoto, i bagagli dove lei li aveva
lasciati.
La ragazza si sedette accanto al finestrino, mentre Percy
restò in piedi
accanto alla porta. «Parlando seriamente,» riprese
lui, «è un vero peccato. Mi
sarebbe piaciuto che fossimo entrambi Prefetti».
«Anche a me».
Fera prese a frugare nel suo zainetto. «Insieme avremmo
impedito a Serpeverde
di vincere di nuovo la Coppa delle
Case».
«Fera!».
«Che
c’è?» Fera
alzò le mani. «Non dirmi che non ci hai pensato
anche tu. Immagina,» guardò in
aria e fece un ampio gesto con la destra, «il Prefetto
Weasley che si imbatte
in un Serpeverde a caso, gli punta un dito contro e dice:
“Stai respirando in
maniera scorretta, un milione di punti in
meno!”».
Percy fece un
verso col naso, come se cercasse di reprimere una risata.
«Non è divertente»
disse, a dispetto di ciò. «Non posso mica
comportarmi come un bullo».
«Non sei un
bullo, sei un’autorità».
«Adesso
capisco perché non ti hanno
nominata Prefetto. Saresti stata terribile».
«Oh, dai, per
favore. Almeno una volta, quest’anno, togliti la
soddisfazione di levare punti
a caso a Serpeverde. Fallo per me».
Disse l’ultima
frase con un tale candore, che stavolta Percy non riuscì a
trattenere la
risata. «Solo una volta, però» mise in
chiaro, «e solo perché tu non potrai
farlo per conto tuo».
«Mio eroe».
Fera
tornò a cercare nello zaino. «E comunque, non
preoccuparti: ci penserà Penelope
a consolarti della mia assenza» buttò
lì.
Da parte di
Percy vi fu silenzio per un paio di secondi.
«P-Penelope?».
«Sì, ti
ricordi
di lei? Vi ho presentati lo scorso maggio, avete studiato per l'esame di
Aritmanzia insieme,
nelle tue lettere l’hai nominata più spesso della
tua spilla da Prefetto… Quella Penelope».
Di sottecchi,
osservò l’amico e rise sotto i baffi. Il viso di
lui era diventato tutto rosa,
sognante e sorridente. «Penelope è diventata
Prefetto? Davvero?».
«Eh, già. Non
ha
polverizzato nessuna cattedra, lei».
«Ma è splendido». Di colpo, Percy
sembrava
molto più allegro. «Voglio dire, è una
persona seria e responsabile, lavorare
con lei sarà sicuramente proficuo…».
«Certo, certo. Lavorare».
Percy ignorò
l’ironia. «Chi altro è diventato
Prefetto della tua Casa?» chiese.
«Paul. E
Catherine per Tassorosso».
«Oh, no!»
Percy sospirò gravemente. «Dovrò
controllare che non si appartino durante i turni di
guardia…».
«E chi
controllerà te e Penelope?».
«Fera!».
Finalmente, la
ragazza trovò quello che cercava: dallo zaino estrasse un
walkman, delle cuffie
e due musicassette. «Va bene, la smetto di prenderti in
giro» disse. «E per
farmi perdonare, quest’anno lascio scegliere a te: Patti
Smith o Stevie
Nicks?».
Sollevò le
musicassette, tenendone una per mano. A partire dal loro secondo anno,
avevano
inaugurato la tradizione di passare parte del viaggio
sull’Espresso ascoltando
musica che Fera sottraeva all’ampia collezione dei genitori.
Non sempre Percy
apprezzava quello che la sua amica sceglieva, ma qualche volta erano
riusciti a
far incontrare i rispettivi gusti musicali.
Quel giorno,
però, Percy non parve gradire la proposta; al contrario, si
fece scuro in
volto. «In realtà…»
borbottò. «Quest’anno non
farò il viaggio con te».
Fera spalancò
gli occhi e sollevò le sopracciglia.
«Cosa?» balbettò.
«Perché? Guarda che
scherzavo, se ti ho offeso non…».
«No, è
che…
dovrò stare nel vagone riservato ai Prefetti».
«I Prefetti
hanno un vagone?».
«Due. E dovremo
anche fare turni di controllo in treno e cose
così». Percy si guardò le scarpe.
«Ti dispiace?».
Fera si
trattenne dal fare una smorfia. «Ma no, figurati. Sono solo
sorpresa». Sorrise.
«Vorrà dire che ascolterò Patti Smith e
Stevie Nicks».
«Davvero, io
preferirei che non fosse così,
però…».
«Non
preoccuparti» ripeté Fera. In quel momento si
accorse di alcuni dettagli, come
l’assenza del bagaglio di Percy e il suo rimanere vicino alla
porta, che
avrebbero dovuto farle capire immediatamente quanto le era stato detto
a voce.
Rimasero
entrambi in silenzio per qualche istante. «Meglio che
vada,» disse infine lui,
«devo cambiarmi e salutare mia madre».
«Certo. Ci
vediamo a Hogsmeade».
Con un cenno del
capo, Percy uscì e si allontanò verso la testa
del treno. Fera rimase ad
osservare le musicassette che teneva tra le mani, poi le
appoggiò mestamente
accanto a sé.
In quegli anni,
non aveva mai viaggiato da sola. Sebbene i suoi amici si contassero
sulle dita
di una mano, Fera ci teneva a passare il tempo in loro compagnia,
perlomeno
nella parte magica dell’Inghilterra: per questo, trascorreva
i tragitti
sull’Espresso per Hogwarts sempre insieme a Percy, Paul e
Catherine. A quanto pareva, però, quel giorno nessuno dei
suoi
tre amici sarebbe stato lì a farle compagnia, e
probabilmente le cose sarebbero
addirittura peggiorate nel corso dell’anno scolastico. Poteva
ancora andare a
far compere da Scrivenshaft con
Catherine? Sarebbe riuscita ad incontrarsi in biblioteca con Percy ogni
giorno,
alle quattro, per fare i compiti? E chi lo sapeva? Ora che tutti erano
Prefetti,
tranne lei, di sicuro i loro orari avrebbero smesso di coincidere, e
così la loro
disponibilità a stare insieme.
Persa in questi
pensieri, Fera quasi non si accorse che il treno era partito. Il nuovo
anno
scolastico era ufficialmente iniziato.
*****
Non passò
nemmeno un'ora perché Med si pentisse di non avere costretto
Louis a salire sull'Espresso
e a venire a Hogwarts con lei. Perché – continuava
a chiedersi – le ragazze del
suo anno erano una tale palla? E
perché si portavano dietro sorelle ancor più
pallose di loro?
«Non vedo l'ora
di essere a Hogwarts! Belia dice che è fantastica, devi solo
studiare
parecchio, ma non importa, in fondo... Eh, Belia?».
"Belia"
riemerse improvvisamente dal cumulo di stracci accanto al finestrino
– No, non è un cumulo di
stracci, sono solo
due idioti che non possono fare a meno di pomiciare in qualsiasi momento
–
e guardò la sorella, mettendosi a posto la chioma nera.
«Cosa dicevi, Pansy?».
Alle sue spalle
Miles Bletchley, il portiere di Serpeverde, fissava Lobelia con
un'espressione
beata, pregustandosi probabilmente il momento in cui avrebbe ripreso ad
affondarle
la lingua in bocca. Miles era del terzo anno, ma la sua fama di bravo
giocatore
gli aveva fatto guadagnare le attenzioni di una ragazza più
grande – di età,
non di cervello. Lobelia non era bella, tuttavia aveva già
collezionato un buon
numero di fidanzati e appuntamenti, al contrario delle sue due amiche,
e non
passava giorno in cui non dovesse ricordarglielo.
«Che devi tenere
le mani e la bocca a posto» rispose Med, anticipando
qualunque altra
stupidaggine volesse dire Pansy. «Siamo su un treno, non in
un bordello.»
Lobelia avvampò
e le rivolse un'occhiata furente, ma non disse nulla: poteva anche
avere
successo con i ragazzi, poteva anche provenire – come Grace
– da una famiglia
Purosangue, però era chiaro che il capo del terzetto fosse
Med. Non doveva fare
altro che ricordarglielo, ogni tanto.
Proprio mentre
nello scompartimento era sceso il silenzio, interrotto soltanto dal
suono della
mascella di Grace, la porta si spalancò rivelando un figura
pallida e
allampanata. «Ciao, Med. Posso sedermi con voi?».
«Ciao, Theo. Vieni
pure, Lobelia ti farà spazio».
«A dire la
verità, Med, qui siamo già in tre. E Grace non ci
permette di entrare in sei in
un solo scompartimento...».
«Lo so, ma tanto
Miles stava andando via. Vero, Miles?».
Med parlò senza
guardare il portiere. Fissava Lobelia, in attesa che passasse gli
ordini al suo
cagnolino.
«Ci vediamo
dopo, Miles» disse a denti stretti, spingendolo nel corridoio
e tornando a
sedersi.
Senza scomporsi,
Med passò alle presentazioni. «Theo, loro sono
Grace Pucey e Lobelia e Pansy
Parkinson. Ragazze, lui è Theodore Nott, il fratello di
Louis».
«...'ao»
mormorò
Grace mentre masticava l'ennesima bacchetta alla liquirizia.
«Ciao, Theo!»
esclamò Pansy porgendogli la mano: sembrava l'unica persona
entusiasta di
vederlo lì. «Sei del primo anno anche tu?
Serpeverde?».
«Beh... non lo
so ancora, ma ne sono abbastanza certo, sì».
Mentre parlava, Theo aveva già
cominciato a tirare fuori dal baule il libro di Pozioni.
«Ehi, sapete chi...?».
Prima che
potesse dire altro, la porta si aprì di nuovo e Adrian
Pucey, il fratello
minore di Grace, fece irruzione nello scompartimento.
«Non c'è
posto!»
si affrettò a dire Lobelia, forse temendo che anche sua
sorella venisse mandata
via.
«Ce l'ho già,
un
posto, genio» rispose Adrian con una smorfia, poi si rivolse
alla sorella.
«Grace, hai saputo?».
«La signora del
carrello è malata? Cavolo, sapevo che avrei dovuto portarmi
dietro un panino!».
«Un po' di dieta
non ti farebbe male. No, intendo dire... Potter! Dicono che sul treno
ci sia
Harry Potter!».
Pansy fece un
gridolino. «Belia, posso andare a vedere? Dai, Belia, ti
prego!».
«Mamma ha detto
che devi stare con me, quindi da qui non ti muovi. Che storia
è questa,
Adrian?».
«Marcus ha
sentito Baston dire che Jordan aveva sentito dai gemelli Weasley che
Potter era
sul treno!».
«Mi sta venendo
il mal di testa...» esclamò Med, facendo capolino
dietro la montagna di dolci
di Grace. Non appena la vide, Adrian sbiancò.
«Oh... ehi...
ciao, Med».
«Quanti anni
dovrebbe avere Potter?» chiese lei, ignorando il saluto:
Adrian aveva
cominciato a comportarsi in quel modo da quando era andata a trovare i
Pucey
durante l'estate e ancora non si era degnato di spiegarle il motivo.
«Undici?».
«Ma se Marcus
dice che Baston sostiene che...».
«Ti prego,
Lobelia, non ricominciare. A quanto pare, nessuno dei presenti ha visto
questo
Potter, quindi basterà fare un rapido calcolo per capire se
queste voci
corrispondono a verità».
«Io l'ho visto».
Si voltarono
tutti verso Theo, che era già affondato nel libro di Pozioni
– Tipico dei Nott.
«È quello che
volevo dirvi prima. Potter era alla stazione, me l'ha indicato mio
padre»
spiegò. «Ha detto che era identico al padre e che
oggi avrebbe undici anni,
quindi doveva essere lui».
«Beh, certo,
quel che dice il tuo paparino è sicuramente più
vero di...». Lobelia si
interruppe, cogliendo lo sguardo intimidatorio di Med.
«Belia, dai,
posso andare?» squittì ancora Pansy saltando sul
sedile.
«Basta, lo
vedrai a scuola!».
«Mi sorprendi,
Lobelia». Med aggrottò la fronte. «Come
mai non hai nessuna voglia di andare a
cercare la star del momento?».
Lobelia sospirò,
cercò una posizione più comoda e si
controllò le unghie. «Non credo che Potter
sia degno delle mie attenzioni. Voglio dire, è solo un
moccioso orfanello che
una volta, per puro caso, ha annientato il più grande mago
di tutti i tempi. Ma
se tu e il tuo amico Nott voleste andare a cercarlo...».
«No, non me ne
andrò per permetterti di limonare qua dentro con Miles. Come
tu stessa hai
detto a Pansy... lo vedrai a scuola».
Prima che Lobelia
potesse ribattere, alle spalle di Adrian – che era ancora in
piedi sulla porta,
con lo sguardo a terra da quando Med si era manifestata –
apparvero due
ragazzoni del primo anno grossi come quelli del terzo, con spalle
larghe e
braccia grassocce; dovette passare qualche secondo perché
tutti si accorgessero
che c'era un altro studente con loro, molto meno imponente e con
l'arroganza
tipica della sua famiglia già stampata in volto.
«Potter è
qui»
disse a Pansy senza degnare di un saluto nessuno degli altri presenti.
Non c'era
bisogno di presentazioni: capelli biondi, occhi grigi, pallido come la
morte,
quello era un Malfoy. Il carissimo amico della sorella di Lobelia,
stando ai
suoi racconti.
«Oooh!»
esclamò
sorpresa Pansy, come se non lo avesse ancora sentito da altre due
persone.
«Posso andare con Draco, Belia? Posso?».
Questa volta
Lobelia non la sgridò. Si spostò una ciocca nera
dietro l'orecchio e sorrise a
Malfoy. «Ciao, Draco. Mi dispiace, ma mia madre ha insistito così tanto che Pansy rimanesse
con me
durante il viaggio...».
La sua voce
melliflua tradiva l'interesse che aveva nei confronti del ragazzino. Se
fosse
stato più grande di almeno un paio di anni, Med avrebbe
scommesso che Lobelia
stesse tentando di sedurlo; tuttavia in quella precisa situazione non
c'erano
dubbi: Draco era un Malfoy e i Malfoy erano tra le più
rispettabili famiglie di
maghi Purosangue.
Ma
non sono come i Nott.
Se la madre di
Louis e Theo era stata bendisposta nei confronti della sua famiglia
nonostante
la scelta di Diane di sposare un Babbano, i Malfoy erano dall'altra
parte della
barricata insieme al signor Nott: si trattava, in sostanza, di quel
preciso
tipo di persone che Diane aveva voluto evitare rimanendo a casa quel
giorno.
Lucius, Narcissa e il loro figlioletto non avrebbero visto di buon
occhio la
Mezzosangue Med, ma per fortuna non sembrava che Draco fosse in vena di
conoscenze che non fossero Harry Potter, il bambino che era
sopravvissuto alla
più forte Maledizione Senza Perdono probabilmente mai
lanciata.
«Va' con lui,
Pansy».
Lobelia si girò
di scatto verso di Med. «Cosa?».
«Prima o poi tua
sorella dovrà rimanere senza di te, o vuoi accompagnarla
anche a lezione?
Meglio che cominci a farlo con una persona che conosce da una
vita».
Pansy guardò
Lobelia, poi Med, di nuovo la sorella e alla fine si alzò
entusiasta dal suo
posto per seguire Malfoy nel corridoio del treno.
E
ci siamo levati di torno anche quella piaga.
Dei quattro che
avevano sostato sulla porta, soltanto Adrian era ancora lì.
«Che c'è? Vuoi
sederti qui?» sbottò Med, stufa del suo stupido e
improvviso silenzio.
«No... no, vado
via. Volevo... ehm... augurarti buon viaggio».
«Grazie»
bofonchiò senza neanche guardarlo. Adrian si
allontanò, chiudendosi la porta
alle spalle, e solo allora Med udì Lobelia ridacchiare.
«Cosa
c'è?».
Il suo sorriso
divertito prese alla sprovvista tutti quanti: Grace smise per un attimo
di
mangiare e gli occhi di Theo fecero capolino dalla cima del libro.
«Hai fatto colpo,
cara la mia donna di ghiaccio».
«Di che cavolo
stai parlando, Lobelia?». Med stava già
cominciando a spazientirsi.
«Adrian! Non hai
visto come ti guarda?».
«Come non
mi guarda, vorrai dire».
«Esatto! Quando
un ragazzo non ha il coraggio di guardarti, significa che è
cotto di te, non lo
sai?».
«So solo che
dici un mucchio di cavolate. Grace, tu lo conosci meglio di tutte,
dille come
stanno le cose».
«È
vero».
«Grazie,
Grace...».
«No, intendevo
dire che è vero, Adrian è cotto di te».
Il sorriso di
Lobelia si fece, se possibile, ancor più irritante.
«Era così palese! Ah,
finalmente anche tu assaggerai le gioie dell'amore e mi lascerai in
pace! Un
tempo non avrei proprio capito cosa ci trovasse in te, ma ora che non
sei
più...».
«Basta,
Lobelia!».
Med aveva quasi
urlato. Non sopportava quel discorso, non sopportava ricordare il suo
terzo
anno e non sopportava Lobelia. Seguendo l'esempio di Theo, prese un
libro a
caso dal baule e si immerse nella lettura.
*****
Due ore dopo la
partenza, Fera dormiva con la fronte schiacciata contro al finestrino;
a
risvegliarla bruscamente fu lo scatto della musicassetta nel walkman,
segno che
era già ora di cambiare lato. La ragazza
sbadigliò, si strofinò gli occhi e
lanciò uno sguardo alle quattro undicenni seduti nel suo
stesso scompartimento,
che chiacchieravano di ciò che avrebbero trovato una volta a
Hogwarts.
«… dicono che
questo sia il suo primo anno! Vi immaginate? Chissà
com’è…».
«Di sicuro è bellissimo».
«E potente! Ho
letto che gli è bastato guardare Voi-Sapete-Chi
per…».
Fera aprì il
walkman e girò la cassetta. Il rumore attirò
l’attenzione delle undicenni, che
tacquero e si voltarono a guardarla. Notando il loro interesse, la
ragazza
sorrise.
«Tecnologia babbana,
piccole,» spiegò, agitando la cassetta.
«Se fate le brave, potrei addirittura
raccontarvi come funziona».
Tre ragazze fecero
“Uuuuuh”, ma la quarta grugnì.
«Chi se ne importa, di quella robaccia babbana»
commentò, ostentando insofferenza. «Siamo streghe,
noi».
«Anche Patti e
Stevie lo sono,» ribatté Fera senza perdere il
sorriso, «ma voi, coi vostri
intrasportabili grammofoni magici, non potete ascoltarle in treno,
mentre io sì».
Mostrò di nuovo la cassetta. «Mica male per una
robaccia babbana, eh?».
«Ha ragione lei,
Millicent» ridacchiò la ragazza bionda seduta a
sinistra di Fera. Quella che si
chiamava Millicent storse il naso, incrociò le braccia e si
chiuse in un
mutismo impenetrabile.
Uno
a zero.
Senza aggiungere
una parola, Fera cambiò lato alla cassetta e si rimise nella
posizione di
prima, testa contro finestrino. Ogni occasione era buona, per difendere
la propria
origine non magica.
La musica
ripartì. Fera sapeva che era solo questione di minuti, prima
che il meccanismo
del walkman soccombesse alla vicinanza con Hogwarts e le rendesse
impossibile
ascoltare musica decente fino a dicembre; si predispose quindi a non
lasciarsi
disturbare da alcunché.
Niente e nessuno
doveva mettersi tra lei e “Bella donna”.
Ovviamente, proprio in
quell’istante la porta dello scompartimento si
spalancò, e un tornado dai
boccoli dorati si gettò tra le braccia di Fera.
«Finalmente ti
ho trovata!» ululò Catherine.
«Perché diavolo non sei venuta da noi?!».
Schiacciata dal
peso dell’amica, Fera cercò di divincolarsi.
«Perché siete nel vagone dei Prefetti,
voialtri!» rispose a fatica, appena Catherine si fu staccata
da lei. «Che ci
fate qui?».
Dalla porta si
affacciò anche Paul.«Beh, non siamo mica obbligati
a fare tutto il viaggio
insieme ai Prefetti e ai Capiscuola» rispose questi.
«Appena abbiamo potuto,
siamo venuti a cercarti».
Fera fece un
enorme sorriso. All’improvviso dimenticò le
preoccupazioni che l’avevano
crucciata due ore prima. «Temevo di dover stare da sola per
tutto il tempo…».
«Sei proprio
sciocca. Scusa, bimba, mi serve che ti scansi». Con un gesto,
Catherine fece
spostare una delle undicenni e si sedette davanti a Fera.
«Perché non sei
venuta con noi? Non hai incontrato almeno Percy?».
«Beh, sì, ma
lui
ha detto che…».
«E ti pareva!
È sempre colpa di
Percy!» sentenziò Catherine, rialzandosi di scatto.
«Andiamo,
ti porto nel nostro vagone».
«Amore, non
credo sia possibile…» tentò di dire
Paul. Quel ragazzo era dolcissimo, ma
assolutamente impotente di fronte alle decisioni della sua fidanzata,
la quale
infatti lo ignorò per rivolgersi alle ragazzine.
«Bimbe…» iniziò a dire.
«Bimba sarai
tu!»
le rispose Millicent.
«Sì,
sì, adesso
fa' parlare l’adulta. Noi lasciamo qui il bagaglio della
mia amica: fategli
la guardia e io vedrò di non togliere troppi punti alle
vostre future Case.
Tutto chiaro?».
Fera e Paul si
scambiarono un’occhiata rassegnata. Catherine poteva anche
essere una dolce e
amichevole Tassorosso, ma nessuno riusciva mai a superare la sua forza
di
volontà.
Il primo dei due
vagoni riservati a Prefetti e Capiscuola era esattamente uguale a tutti
gli
altri; da quel punto di vista, sembrava che gli amici di Fera non
godessero di
particolari privilegi.
«Eccoci qua».
Catherine spalancò uno scompartimento e fece cenno
all’amica di entrarvi. «C’è
giusto il posto per un’altra persona».
«Permesso?»
domandò Fera, automaticamente. Alla sua sinistra
trovò seduto Percy, che sembrava
assorto in una fitta conversazione con Penelope Light: quando lui la
vide
entrare, sulle prime parve contento, poi assunse un’aria
severa.
«Questi vagoni
sono solo per i
Prefetti!» sbottò.
«Silenzio, tu.
Come hai potuto abbandonare la nostra amica?!» lo
rimproverò Catherine, con
aria drammatica. Percy lanciò un’occhiataccia a
Fera mentre entrava, e lei, con
la massima noncuranza, si passò il dito medio sul naso in
modo che lui lo
vedesse. Solo dopo aver salutato anche Penelope, notò
l’altro occupante dello
scompartimento.
«Ehi» la
salutò
Ed, con lo stesso enorme sorriso di prima.
«Com’è piccolo il mondo, eh?».
«L’Espresso per
Hogwarts lo è ancora di più» rispose
Fera, sentendosi avvampare senza motivo.
Si sedette di fronte a lui; per un po’ ascoltò
Catherine ciarlare delle ultime
due ore trascorse tra istruzioni e regolamenti, ma ad un certo punto Ed
si
chinò verso di lei. «Posso chiederti una
cosa?».
«Certo» disse
Fera.
«So che è
stupido, ma… Hai un nome strano, e mi sono sempre
domandato…».
Fera trattenne
una risata. «Me lo dicono spesso, sì. Per farla
breve: i miei genitori erano
indecisi tra Fey e Clara, quindi hanno trovato una via di
mezzo».
Doveva essere la
millesima volta che raccontava quella storia. Tutti
le domandavano da dove sbucasse quel nome insolito, se fosse
tipicamente babbano o se si trattasse di un diminutivo…
L’unico a non averle
mai chiesto spiegazioni era Percy, ma lui era un caso a parte.
Ed sembrò molto
divertito dalla storiella, e per un po’
chiacchierò con Fera del più e del
meno. Chissà come mai non si erano frequentati, a scuola;
doveva essere a causa
della differenza di età, altrimenti Fera non comprendeva
perché non avessero legato
prima. Parlare con lui era così
gradevole…
«Ehi, avete
letto il Profeta in questi
giorni?»
chiese a un tratto Penelope, rivolta a tutti i presenti.
«Pare che…».
«Ti riferisci
all’effrazione nella Gringott, vero?» intervenne
Percy. «Incredibile, no? Voglio
dire, dovrebbe essere il posto più sicuro al
mondo… È inconcepibile. E i goblin
sdrammatizzano! Che
c’è?» chiese
bruscamente a Fera, accorgendosi che questa lo fissava.
«Ti ho mai
presentato mio padre, Perce?» domandò lei.
«Tuo… padre?
Mi
pare proprio di no».
«Controllavo
soltanto». Mosse una mano in un gesto che indicava di
proseguire col discorso.
«In
realtà,»
riprese Penelope, «mi riferivo al fatto che
quest’anno dovrebbe esserci anche
Harry Potter, a scuola».
«Harry
Potter?» fece Paul. «È
già ora?».
«Fantastico!».
Catherine congiunse le mani. «Finalmente, essere
più piccola delle mie sorelle
porta a qualcosa di buono… Io
andrò a
scuola con Harry Potter, e loro no! Oh cielo,» si
portò le mani al viso, «potrei
essere Prefetto della Casa di Harry Potter!».
«Perché,
secondo
te sarà smistato in Tassorosso? Il bambino che ha sconfitto
Voi-Sapete-Chi, a
Tassorosso?».
L’occhiata
furiosa di Catherine raggelò Penelope. «Ha il
venticinque per cento di
probabilità di essere smistato a Tassorosso: sperarci
è più che ragionevole,
no?» osservò seccamente.
«Potrebbe anche
essere un Corvonero,» intervenne Paul, per stemperare
l’atmosfera. «Sono secoli
che un personaggio importante non passa per la nostra Casa…
Sarebbe un onore».
«Sono
d’accordo,
Corvonero sarebbe una scelta sensata… Almeno rispetto a
Tassorosso» disse
ancora Penelope. Con la coda dell’occhio, Fera
osservò le reazioni di
Catherine: la fronte corrugata e le labbra arricciate indicavano, senza
ombra
di dubbio, che Penelope si era appena guadagnata tutto il suo odio.
«Non è una
questione di scelta: Harry Potter verrà smistato in base al
suo carattere,
tutto qui». Ed accennò un sorriso verso Fera,
quando la vide attenta alle sue
parole. «Se ha attitudini da Tassorosso andrà in
quella Casa, se risulterà più Corvonero,
invece…».
«Bello notare
come abbiate escluso Grifondoro dalle vostre illazioni». Un
verso esasperato
provenne da Fera, in risposta all’osservazione di Percy.
Questi insistette: «Beh?
È vero. Non esistono solo le vostre Case».
«Giusto, ma sei
in minoranza, quindi zitto» disse Fera, facendogli poi la
linguaccia. «Comunque,
nessuno di voi ha pensato allo scenario più
interessante».
«Ossia?».
«Se finisse a
Serpeverde».
Un silenzio di
tomba calò nello scompartimento. «Non oso
immaginare,» disse infine Paul, «quanto
diventerebbero insopportabili i
Serpeverde, se Potter finisse nella loro Casa».
Tutti quanti
convennero. I membri della Casa di Salazar erano già
abbastanza pieni di sé:
non avevano bisogno di un ulteriore motivo a sostegno della loro
superiorità.
*****
Per
la barba di Merlino, muovetevi.
Lo stomaco di
Med gorgogliava, ma la tradizione andava rispettata: niente cena
finché lo
Smistamento non fosse finito. Il guaio era che non era neanche iniziato.
Se
solo avessi preso qualcosa dal carrello...
Rimpiangeva di
non aver mangiato niente sull'Espresso per Hogwarts, tanto era
arrabbiata con
Lobelia e Grace – che, seduta accanto a lei, continuava
invano a esaminarsi le
tasche in cerca di residui di Pallotti Cioccocremosi. No,
più che arrabbiata
Med si era innervosita e questo costringeva il suo cervello ad
arrovellarsi in
cerca della verità.
Il terzo anno
per lei era stato terribile: la
pubertà era una brutta bestia, ma vedersi spuntare peli da
ogni dove era stata
la cosa peggiore. C'era chi pensava che le avessero gettato una
maledizione,
perché a distanza di tre giorni le sopracciglia tornavano a
nasconderle quasi
completamente gli occhi castani, mentre un accenno di barba le spuntava
dal
mento. Med aveva provato con tutto, finché sua madre non
aveva deciso di
portarla al San Mungo e farle fare un Incantesimo Anti-Ricrescita.
Peccato che
ciò fosse accaduto non appena aveva rimesso piede a casa,
qualche mese prima,
quando sua madre aveva appurato lo stato effettivo delle sue
sopracciglia
cespugliose; prima di allora, non c'era stato verso di trovare una
soluzione e
mettere a tacere le voci – probabilmente messe in giro da
qualche compagna di
dormitorio – sul suo reale sesso biologico.
Med si era
sfogata nel modo che preferiva, strafogandosi di pudding e roast beef
come
sempre, senza immaginare che anche il suo metabolismo dovesse essere
cambiato.
Nel giro di cinque settimane era ingrassata di due taglie e la
situazione era
andata peggiorando; prima del termine delle lezioni aveva rischiato di
fare
invidia a Grace, ma fortunatamente l'arrivo dell'estate era stato
provvidenziale.
Il primo
settembre Med non aveva – né avrebbe
più avuto – peli di troppo sul viso e,
sebbene il suo fisico non fosse tornato a essere quello di una
ragazzina, la
dieta l'aveva resa una donna. O era ciò che suo padre diceva
quando Med si
lamentava di avere ancora un sedere troppo grande.
Alla fine della
giornata Med era giunta a una conclusione: qualcosa era cambiato nel
modo in
cui i ragazzi la guardavano, se ne rendeva conto dagli sguardi che
ricevette
anche da un paio di Corvonero. L'idea, tuttavia, che Adrian si fosse
preso una
cotta per lei continuava a disturbarla: Med era sempre la stessa
persona, come
poteva vederla in un altro modo?
Si riscosse dai
propri pensieri nel momento in cui nella Sala Grande scese il silenzio:
la
professoressa McGranitt teneva in mano un rotolo di pergamena, pronta a
iniziare lo Smistamento.
Finalmente.
«Abbott,
Hannah!».
Codini biondi:
troppo facile.
«Tassorosso»
mormorò Med un attimo prima che il Cappello Parlante
ripetesse la stessa
parola.
Era uno dei suoi
giochi preferiti: gettava un rapido sguardo ai nuovi studenti,
ipotizzava la
loro Casa e la maggior parte delle volte ci azzeccava in pieno. Fino
all'anno
precedente ci aveva giocato con Louis, ma ora le toccava indovinare da
sola
perché Lobelia e Grace non avrebbero mai trovato il gioco
interessante quanto
"Purosangue o Mezzosangue".
Indovinò un
altro Tassorosso e due Corvonero, ma giocare da sola era noioso.
All'improvviso
alle sue spalle udì: «Grifondoro».
Era così stupita
che non fece nemmeno una propria ipotesi per «Brown,
Lavanda». Voltandosi,
scoprì che Grace aveva scambiato il proprio posto con il
fratello. Sembrava una
persona diversa rispetto a quella che aveva visto sul treno e quel
giorno d'estate
a casa dei Pucey; sembrava, a dire la verità, l'Adrian che
aveva sempre
conosciuto con il suo tipico sorriso genuino e la fossetta sul mento
–
nonostante quello strano rossore sulle guance. Guardandolo meglio, Med
si
accorse che qualche cambiamento c'era stato: Adrian era più
alto di lei, lo
notava anche se erano seduti, e intorno alla bocca sottile era spuntata
una
manciata di peli.
Perché
la pubertà dev'essere così semplice solo per i
maschi?
«Non si gioca
così?».
Doveva essere
rimasta a fissarlo per un po', perché la voce della
McGranitt aveva appena
annunciato: «Finnigan, Seamus!». Si riscosse e
assunse la tipica aria altezzosa
dei Serpeverde – quella che preferivano mostrare quando
venivano colti in
fallo.
«Grifondoro» si
limitò a dire, indicando con un cenno del capo il ragazzino
che aveva appena
indossato il Cappello Parlante.
«Tu dici? Mi
sembra più Tassorosso...».
«Fidati, è
Grifondoro».
Ebbero tutto il
tempo di discutere della futura casa di Finnigan perché il
suo Smistamento durò
quasi un intero minuto; come indovinato da Med, il Cappello
urlò:
«GRIFONDORO!».
«Si vede dagli
occhi» spiegò lei. «Quel Finnigan ha
l'aria di far saltare l'intera scuola per
farne una delle sue».
«Granger,
Hermione!».
«Questa
è Corvonero».
«Io dico
Grifondoro» ipotizzò Adrian.
«Stai
scherzando? Ha già l'espressione da prima della
classe!».
Il Cappello,
tuttavia, diede retta ad Adrian. Med strinse le palpebre, ma si stava
cominciando a divertire. Indovinò tutti gli altri
finché non giunsero a «Paciock,
Neville»; quando il ragazzino cadde, Med sogghignò.
«Mi pare di
averlo già visto a King's Cross, quello. Sicuramente
Tassorosso.»
«Grifondoro» la
corresse Adrian.
Med sollevò un
sopracciglio. «Ma l'hai visto? Cos'avrebbe quel ciccione di
coraggioso e... spericolato?».
La sua bocca rimase
aperta, tuttavia, quando il Capello smistò lo studente a
Grifondoro.
«I genitori»
rispose Adrian con un sorriso. Il rossore gli era quasi del tutto
sparito dalle
guance. «I Paciock discendono da una lunga stirpe di
Purosangue e Grifondoro,
non fidarti delle apparenze».
Dopo Paciock
vennero un paio di Serpeverde, tra cui Malfoy, e finalmente fu il turno
di
Theo. Su di lui Med non aveva dubbi e il suo applauso fu il
più fragoroso
quando, con un enorme sorriso sul volto, il fratello di Louis venne
Smistato a
Serpeverde. Anche Pansy dovette raggiungere il tavolo della sorella, ma
Med non
si diede la pena di battere la mani nemmeno una volta.
Lei e Adrian
stavano ancora discutendo dell'incredibile avvenimento appena accaduto
– due
gemelle Smistate in Case diverse - quando tutti i mormorii che avevano
attraversato la Sala Grande si interruppero. La McGranitt aveva
chiamato un
nuovo nome, e non uno qualsiasi.
«Potter,
Harry!».
Un ragazzino
mingherlino, occhialuto e con una massa di disordinati capelli neri si
stava
avvicinando al Cappello Parlante. Sembrava una persona qualunque, ma il
suo
nome lo tradiva.
«È
lui?» Med udì
qualcuno mormorare al suo tavolo. «Potter... è
lui?».
Nessuno dei due
Serpeverde ipotizzò la sua futura Casa. Med lo fissava in
silenzio, chiedendosi
come fosse possibile che quel bambino, al tempo solo un neonato, avesse
potuto
sconfiggere il più potente mago oscuro di tutti i tempi.
Sembrava così... comune,
uno di quegli studenti a cui
passare accanto senza accorgersi della loro presenza. Un bambino
qualsiasi e,
al contempo, il più famoso di tutta la comunità
magica.
«GRIFONDORO!».
Il Cappello ci
mise un po', ma alla fine fu quella la sua decisione. Il tavolo di
Grifondoro
scoppiò in applausi e grida di felicità, e uno di
quegli stupidi dei Weasley si
alzò per stringergli la mano. Le venne da vomitare.
Il gioco
continuò per pochi altri nomi, ma lo sguardo di Med
continuava a tornare al
tavolo di Grifondoro – così come quello di gran
parte degli studenti. Non
riusciva a trovare una risposta.
*****
L’arrivo a
Hogwarts fu festoso e caloroso come sempre. Fera non invidiava proprio
i
ragazzi di primo anno costretti ad affrontare il lago in barca, per
quanto
quella sera il tempo fosse splendido: non una nuvola oscurava le
stelle. Si
incantò a guardare il soffitto della Sala Grande, la cosa
che più amava in
assoluto della scuola, e pensò che non era troppo diverso da
quando l’aveva
visto per la prima volta.
«I primini ci
stanno mettendo un sacco,» sussurrò Penelope,
seduta accanto a lei. «Qual è il
problema? Perché non iniziano?».
Fremeva
d’impazienza, e il motivo era uno solo: la
curiosità. Quasi tutte le persone
sedute nella Sala attendevano il momento in cui avrebbero visto, per la
prima
volta, il leggendario Harry Potter.
Si trattava, per
lo più, di figli di maghi, cresciuti con il racconto della
sconfitta di
Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato da parte di un neonato dagli
straordinari
poteri; da parte sua, Fera aveva solo letto qualcosa sui libri di
storia magica
contemporanea, ma non poteva negare che l’attesa rendesse
vagamente ansiosa
anche lei.
Ci volle ancora
un minuto prima che la porta della Sala Grande si spalancasse,
lasciando
entrare i nuovi arrivati. Sebbene avessero solo quattro anni meno di
lei, a
Fera parvero piccolissimi. Dalla sua posizione non li vedeva molto
bene, ma
quando si fermarono intravide subito una chioma rosso brillante, e
ricordò le
lettere in cui Percy le parlava del fratello minore prossimo a iniziare
la
scuola.
«Vedi quello
lì?»
disse, dando di gomito a Penelope. «È il fratello
di Percy. Gli somiglia, non
trovi?»
«Oh! È vero,
gli
assomiglia un sacco. Com’è carino!».
Non era
“carino”
il termine che Fera avrebbe usato, semmai
“spaesato”, ma lasciò stare.
Cercò di
seguire lo Smistamento: dopo i primi, tuttavia – tra cui la
Millicent
incontrata in treno, che fu mandata senza sorpresa a Serpeverde
– fu difficile
non cedere alla noia. L’attenzione si risvegliò
quando un certo “Paciock,
Neville” rimase sotto al Cappello per quasi due minuti, e
tornò del tutto
quando, dopo “Perks, Sally Anne”, fu chiamato
“Potter, Harry”.
Un fitto brusio
accompagnò il piccolo Harry verso lo sgabello. Lui sì che era piccino:
mingherlino, coi capelli sparati in ogni
direzione, gli occhiali storti e i vestiti che lo facevano apparire
ancora più
magro. A Fera, più che curiosità,
ispirò tenerezza.
«Ma quello…
non sembra Harry Potter»
commentò Penelope,
evidentemente delusa dall’aspetto del leggendario bambino.
«Che ti
aspettavi, Arnold Schwarzenegger?» avrebbe voluto chiedere
Fera, ma tenne per
sé la citazione babbana e guardò il Cappello
calare sulla fronte del bambino.
E se fosse
finito nella sua Casa? Paul aveva ragione, per Corvonero sarebbe stato
un
grande lustro. D’altra parte, era come diceva Ed: dipendeva
dal suo carattere,
non da altro.
Dopo qualche
lungo secondo, in cui si potevano sentire i ritratti stessi respirare,
il
Cappello emise il verdetto a gran voce.
«GRIFONDORO!».
Fera sobbalzò,
mentre il tavolo rosso e oro esplodeva. D’istinto, la ragazza
cercò con lo
sguardo Percy, e quando lo vide sorrise: il suo amico si era alzato in
piedi
per dare personalmente il benvenuto a Harry nella sua Casa.
«Per Circe,»
mormorò tra sé, «adesso ci
rinfaccerà per secoli
il fatto che il grande Potter è un Grifondoro come
lui».
In fondo, però,
non le dispiaceva; e quando Percy guardò raggiante nella sua
direzione, si
congratulò in silenzio alzando un pollice.