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Autore: Lady_Elizabeth    06/04/2016    0 recensioni
All’improvviso gli venne in mente una frase che Lily gli aveva letto da un libro babbano, anni addietro: “O te miserum si contemnis hunc testem!”, ovvero “O misero te se disprezzi questo testimone, la tua coscienza”. A Severus non era mai importato molto della propria coscienza, e la riteneva solo uno stupido valore Grifondoro utile a vantarsi. Eppure, mentre pronunciava l’Avada Kedavra, non poteva fare a meno di sentire un vuoto nello stomaco.
Storia partecipante al contest: "Mangiamorte VS Ordine, chi vincerà la sfida?" indetto nel Forum da S.Elric_ (Queila)
[Conteggio parole: 1k]
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: I Malandrini, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Correva, correva a perdifiato, ansimando per lo sforzo. Severus Piton, però, non era mai stato un tipo atletico, un amante dello sport o del Quidditch; al contrario, aveva sempre preferito studiare e dedicarsi alle sue amate pozioni, motivo per cui negli anni trascorsi ad Hogwarts veniva deriso ed umiliato. Aumentò il ritmo della corsa, mentre il sudore gli inzuppava la maglietta e i capelli corvini. Era notte inoltrata e aveva aspettato che le luci del castello e della capanna di Hagrid fossero spente per eludere la sorveglianza ed uscire senza difficoltà. Ma, sfortunatamente, non aveva messo in conto il fattore Thor: il grosso cane infatti, attirato dal rumore della sua corsa, aveva iniziato a seguirlo, latrando rumorosamente. Severus, preoccupato che qualcuno potesse svegliarsi, si girò verso Thor e «Languelingua» sussurrò. Il cane lo guardò spaventato, sentendosi la lingua bloccata al palato, e si allontanò in direzione della capanna, mentre il silenzio tornava ad avvolgere la notte simile ad un rassicurante mantello dell’Invisibilità. Il giovane mago, giunto al limitare della Foresta Proibita, non esitò neanche un momento prima di entrare, come soleva fare in passato, ma vi si gettò dentro animato da una rara determinazione: doveva, voleva dimostrare al Signore Oscuro di essere degno della cerchia dei Mangiamorte, dei fedelissimi, dei prescelti. Portando a termine quella missione avrebbe ricevuto onore e fiducia e sarebbe stato invidiato ed ammirato da coloro che prima lo disprezzavano. Evitò una radice che sporgeva dal terreno e, seguendo il sentiero, si inoltrò ancora di più nella foresta; rallentò l’andatura per riprendere fiato e si avvicinò ad una piccola radura illuminata dalla luce lunare, dove un magnifico esemplare di unicorno riposava placidamente. Lo osservò per qualche istante, rapito dal manto argenteo dell’animale e dalla potenza che emanava; quando stava per immettersi nello spiazzo, però, si ritrovò circondato da una decina di centauri che, assai pacificamente, gli puntavano contro archi carichi di frecce. “Dannati centauri” pensò Severus, senza tuttavia scomporsi minimamente.

«Cosa cerchi di notte nella foresta, umano?» lo interrogò un centauro imponente, con i capelli color nocciola e gli occhi neri come la pece. 

«Non vedo per quale motivo dovrei rispondervi». 

I centauri tesero ancora di più le corde dei loro archi, scalpitando nervosi.

«Rispondi, umano, sarà meglio per te».

Severus li squadrò, irritato per il tempo che stava sprecando, e con una smorfia di disgusto sul volto disse: «Mi dispiace, ma il Principe Mezzosangue non può essere intralciato da un branco di stupidi cavalli. Sectumsempra!». Tre centauri caddero rovinosamente a terra, coperti da profondi tagli sul petto. Nel medesimo istante il mago venne inondato da decine di frecce che si fermarono a qualche centimetro dal suo corpo, grazie all’incantesimo di protezione che intelligentemente aveva lanciato su di sé prima della missione. Con un gesto della bacchetta spazzò via le frecce e si voltò ad affrontare i centauri rimasti,che dopo l’inaspettata svolta della situazione erano arretrati e avevano sciolto il cerchio.

«Nessuno a parte me può guarirli, moriranno. Adesso andate via e non infastiditemi oltre» disse Severus con voce atona e distaccata.

«Gli astri non mentono mai: stasera Marte è davvero luminoso» commentò sconvolto un giovane centauro, prima di seguire gli altri che si stavano già allontanando.

Il Mangiamorte gettò alle creature morenti un’ultima occhiata schifata e priva di rimorso, prima di entrare nella radura, dove notò con disappunto crescente che l’unicorno, destato dal rumore provocato, era fuggito. Aveva studiato per giorni le abitudini dell’animale ed era riuscito a trovare la radura dove riposava ogni notte, ma i suoi sforzi erano stati quasi del tutto vanificati per colpa dei centauri e il tempo a sua disposizione era diminuito vistosamente, dato che avrebbero potuto chiedere aiuto a qualcuno o, peggio, a qualcosa. Imprecò tra sé e sé, e prima di ritornare sulle tracce dell’unicorno si ripeté che quella missione era il suo biglietto d’ingresso per la cerchia dell’Oscuro. Ricominciò a correre seguendo le orme dell’animale, carico di rinnovata determinazione; gli sembrava che nelle vene l’adrenalina scorresse al posto del sangue e un sorriso freddo, quasi isterico, gli deturpava il volto. La sua sete di vendetta era insaziabile, l’ossessione del potere e della gloria era sempre stata in lui ed adesso pretendeva di essere placata. Scorse nuovamente il manto dell’unicorno e accelerò il passo. Si ritrovò sulle rive di un piccolo corso d’acqua al quale l’animale si stava abbeverando, e rafforzò l’impugnatura sulla bacchetta. L’unicorno si voltò verso di lui, rassegnato, quasi consapevole di non poter più fuggire: gli occhi luminosi lo mettevano in soggezione, squadrandolo con tristezza. All’improvviso gli venne in mente una frase che Lily gli aveva letto da un libro babbano, anni addietro: “O te miserum si contemnis hunc testem!”, ovvero “O misero te se disprezzi questo testimone, la tua coscienza”. A Severus non era mai importato molto della propria coscienza, e la riteneva solo uno stupido valore Grifondoro utile a vantarsi. Eppure, mentre pronunciava l’Avada Kedavra, non poteva fare a meno di sentire un vuoto nello stomaco. Eppure, mentre avvicinava il pugnale al corpo ancora caldo dell’animale per prenderne il sangue, non poteva impedire alle mani di tremare. Eppure, mentre privava la propria vittima del corno argentato, non poteva fare a meno di chiudere gli occhi. Si rialzò in piedi, chiedendosi distrattamente quando si fosse accovacciato accanto all’unicorno, e si rese conto di averlo accarezzato per tutto il tempo. Si allontanò di scatto, con il cuore che batteva forsennato, temendo che il senso di colpa potesse fargli cambiare idea. Appoggiò la schiena ad un abete secolare e rassicurante e osservando la luna piena sospirò profondamente. La missione era compiuta. Voldemort sarebbe stato fiero di lui, o almeno soddisfatto. I suoi amici lo avrebbero rispettato, i suoi nemici anche. L’unica che lo avrebbe odiato ancora di più sarebbe stata solo lei: Lily.Severus fu attraversato da un moto di rabbia, viscerale e profonda quanto il suo essere. Urlò alla notte, incurante delle creature della Foresta e dei potenziali pericoli, e in quel grido animalesco ci mise tutta la sua frustrazione, il rimpianto di non averla amata abbastanza e la consapevolezza di non poterlo più fare, perché ormai lei gli aveva voltato le spalle. Si inginocchiò sul terreno fangoso, imbrattando i pantaloni e il mantello, e si prese la testa tra le mani, come se temesse di smarrirla. O forse l’aveva già persa e non se ne era accorto. Forse, mettendosi al servizio di Voldemort, aveva  perso una parte di sé. “Era la parte più debole di te, stupido! Quella che ha permesso a James di umiliarti tutti quegli anni!” urlò la sua adolescenza, venuta a galla come i cadaveri riemergono dal letto di un fiume. La sua mente fu attraversata dai ricordi, che invadevano il suo campo visivo e lo immobilizzavano al suolo: le risate di scherno di quegli stupidi Grifondoro, capeggiati da San Potter, gli insulti sibilati nei corridoi o detti ad alta voce davanti a tutti, gli scherzi umilianti. Ma in quel momento, in quel bosco buio, quei ricordi gli sembravano meno importanti rispetto a ciò che lui aveva appena fatto, ciò di cui si era appena macchiato. Lo sentiva chiaramente quel peso sul petto che lo opprimeva e rischiava di soffocarlo, che lo ancorava al suolo e gli impediva di alzarsi. Lo sguardo perso nel vuoto, Severus era schiacciato dalle conseguenze delle sue azioni, che mettevano in risalto per l’ennesima e frustrante volta i meriti di  James, il ragazzo che non sarebbe mai arrivato a compiere una tale nefandezza, a uccidere un unicorno, la più pura tra tutte le creature esistenti. Fu in quell’istante, quando comprese il significato dei valori tanto osteggiati dai grifoni, che lo sentì, chiaro e limpido nella notte: un bramito riecheggiò lontano e il pozionista scattò in piedi, volgendo lo sguardo attorno a sé e temendo di veder spuntare dal nulla un cervo, quel cervo. Iniziò a camminare verso il sentiero, prima lentamente e poi più veloce, fino ad arrivare a correre disperatamente, rincorso dal bramito che si faceva sempre più vicino e insistente. La sua folle corsa fu interrotta però da un branco di cervi che attraversò il sentiero e si allontanò nella fitta vegetazione, e a quel punto Severus non capì più se quello fosse un incubo o la realtà. Sfoderò la bacchetta, pronto a difendersi dal nemico, ma non riuscì a comprendere quale fosse. Un topo sgattaiolò vicino a lui, squittendo, e l’ unica parola che uscì dalle sue labbra, quasi involontariamente, fu: «Peter». Avanzò cautamente sul tracciato, con gli occhi spalancati e il respiro mozzato, e una paura irrazionale lo avvolse. Poi, come una sequenza inevitabile, arrivò il latrato di Sirius, assordante e irritante. Il suo corpo cominciò a tremare, scosso da brividi di sconcerto, o forse di terrore, o forse di attesa. Per ultimo, in un perverso scherzo del destino, vide il lupo mannaro, agghiacciante come nei suoi ricordi, stagliarsi nelle tenebre e fissarlo implacabile. I quattro giudici avevano scoperto il misfatto e lo stavano condannando, ergendosi sui loro piedistalli d’oro e indicandolo come unico e vero responsabile di tutto il male commesso. Severus riprese la sua fuga, spinto da una forza estranea, e non si voltò indietro, pur percependo il loro sguardo perforargli la schiena. E allora, come aveva sempre temuto, ebbe la certezza di essere inseguito: sentì la foresta frusciare e mormorare, lì dove si nascondeva Codaliscia; il terreno dietro di lui tremare, sotto il peso delle falcate di Lunastorta, che si avvicinava sempre di più; l’aria fremere con il bramito di Ramoso e il latrato di Felpato, che incombevano sulla sua nuca come una spada di Damocle. Tutto intorno a lui si fece confuso e distante, mentre la sua condanna diventava reale, concreta; l’unica cosa che poteva fare era correre, con tutta l’energia e la determinazione che aveva ancora in corpo. Il confine della Foresta giunse come una boccata d’aria fresca dopo troppo tempo passato sott’acqua e Severus lo oltrepassò con sospetto, quasi potesse svanire da un momento all’altro. All’improvviso si accorse che l’unico rumore tangibile era quello prodotto dalla sua falcata leggera, e un ghigno gli si dipinse sul volto, orgoglioso di essere riuscito nell’ impresa e di aver sconfitto i suoi demoni interiori che, rinchiusi in quella Foresta, non lo avrebbero più tormentato. O almeno era ciò che sperava, mentre continuava a correre in direzione del castello.
  
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