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Autore: ChiiCat92    08/04/2016    2 recensioni
"Ho sempre pensato di essere quel tipo di persona che anche nelle situazioni più critiche riesce a mantenere il sangue freddo e che pensa con lucidità per trovare una soluzione. Per questo ho scelto la carriera medica. Non tanto per salvare delle vite o per rendere il mondo un posto più sicuro, ma solo perché sono – o pensavo di essere – quel tipo di persona che anche nelle situazioni più critiche riesce a mantenere il sangue freddo, l'ho già detto, no?
Eppure davanti alla Morte non va così."
Genere: Angst, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Axel, Saix
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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05/04/2016

 

X” marks the spot

 

Ridicolo. Patetico.

Davanti alla Morte è così che sono: ridicolo, patetico.

Ho sempre pensato di essere quel tipo di persona che anche nelle situazioni più critiche riesce a mantenere il sangue freddo e che pensa con lucidità per trovare una soluzione. Per questo ho scelto la carriera medica. Non tanto per salvare delle vite o per rendere il mondo un posto più sicuro, ma solo perché sono – o pensavo di essere – quel tipo di persona che anche nelle situazioni più critiche riesce a mantenere il sangue freddo, l'ho già detto, no?

Eppure davanti alla Morte non va così.

Sono ridicolo, patetico.

Sento con vivida chiarezza come suona la mia voce quando urlo. E non sapevo di poter urlare tanto forte.

Credevo che sotto stress avrei mantenuto la calma, e che sarei riuscito ad estraniarmi totalmente come succedeva in sala operatoria quando le cose si mettevano male.

Ma a diecimila metri di altezza non è come stare con i piedi per terra e con un bisturi in mano, mentre la vita del paziente dipende da quanto affondo inciderai la carne.

A diecimila metri di altezza non puoi urlare ad un'infermiera di andare a prendere un'altra sacca di sangue mentre premi sulla ferita cercando di limitare l'emorragia.

A diecimila metri di altezza non hai il controllo, neanche la parvenza del controllo, ma soprattutto non sei tu che stai per morire.

Quello che puoi fare a diecimila metri di altezza, mentre il tuo normalissimo, anonimo volo di linea precipita, è: tenere la cintura allacciata, mantenere il sedile in posizione eretta, relax and enjoy the flight.

Prendere l'aereo non mi ha mai fatto paura – sempre per quell'erronea convinzione che fossi una persona che mantiene il sangue freddo –, d'altronde è comunque il modo più sicuro di viaggiare.

Credevo – come la maggior parte delle persone – di conoscere a memoria tutte le norme di sicurezza. Quante volte ho visto le hostess ripetere le procedure con in sottofondo la petulante voce in inglese priva di inflessioni?

Tante, ma non ho ascoltato neanche una volta.

Welcome on board of...

...please take...

...this flight has...

...if you...

...fast your seatbelt until...

...you lifejacket...

Credevo, lo credevo davvero, che avrei saputo cosa fare quando sarebbe venuto il momento. Nella mia mente era tutto perfettamente organizzato, un misto di pensieri che mi appartenevano e voci metalliche del sintetizzatore elettronico: in caso di depressurizzazione ci sono le maschere di ossigeno – non preoccupatevi se il sacchetto non si gonfia, l'ossigeno esce lo stesso –, nella – rara – eventualità di un ammaraggio, il giubbotto di salvataggio si trova sotto il sedile – rimuoverlo dalla confezione, indossarlo come mostrato dalle hostess, non gonfiarlo all'interno della cabina –, e quando allacciavo la cintura, forse inconsciamente, cercavo sempre l'uscita di sicurezza più vicina a me – familiarizzate con le uscite di sicurezza più vicine a voi, in quanto potrebbero trovarsi alle vostre spalle –.

Sì, mi dicevo, so cosa fare, ma poi perché dovrei preoccuparmi di farlo?

C'è, profondamente nascosto nell'intimo di chi sale su un aereo, la consapevolezza che tutte quelle norme di sicurezza siano del tutto inutili.

Perché una persona dovrebbe preoccuparsi di tenere la cintura allacciata mentre l'aereo precipita? Probabilmente è solo per rendere più semplici alle autorità il riconoscimento del cadavere dopo lo schianto.

Chi c'era seduto al 17B? Ah, ecco qui la metà inferiore del suo corpo, ehi ha tenuto la cintura allacciata! Andiamo a dire alla sua famiglia come sia stato un passeggero modello fino all'ultimo.

Inutile, eppure c'è chi si illude che ad un certo punto, in una certa situazione, quella solfa ripetuta miliardi di volte da hostess e stuart gli avrebbe salvato la vita.

Lo pensavo anch'io, ma ci si comporta in modi strani quando si realizza di essere arrivati al capolinea.

Tanto per cominciare, il cliché della vita che ti passa davanti agli occhi è assolutamente confermato, solo che nessuno ha mai detto che, rivedendo in loop i momenti peggiori e migliori della tua vita, non ti senti in pace con te stesso ma ti assale solo il terribile, graffiante, doloroso desiderio di non morire, e improvvisamente – dopo anni di convinto ateismo, un periodo agnostico, e in generale una vita di scetticismo – ti riscopri religioso e cominci a pregare.

Qual è la parte peggiore? Bhe, non è pregare, ma sapere che per quanto tu possa farlo l'aereo sta precipitando lo stesso e non c'è nessuna Mano Magica dall'alto che gli impedirà di sfracellarsi al suolo con te dentro.

È abbastanza frustrante.

Ma comincio ad avere paura quando vedo l'ala fuori dal finestrino staccarsi di netto.

È semplice, chiaro, è una rivelazione: gli aerei hanno bisogno di entrambe le ali per volare. Non sapevo di essere stupido finché non mi è venuto in mente questo pensiero.

Assurde le vie di pensiero quando l'90% del tuo cervello è zuppo di paura e il 10% attivo mostra la capacità reattive di un bambino di cinque anni.

Gli aerei hanno bisogno di entrambe le ali per volare, e quello dentro il cui sono seduto ne ha appena persa una.

Sento il pop delle orecchie quando comincio ad urlare, e riesco a pensare “era ora”: Per tutto il viaggio ho provato a liberarmi della pressione soffiando, sbadigliando, masticando una gomma, ma niente. Quanto meno morirò con le orecchie libere, così potrò sentire fino all'ultimo le grida, i pianti e la disperazione dei passeggeri.

Vorrei dire “che culo”, ma anche guardando in faccia la Morte non riesco ad essere scurrile, dunque: che fortuna!

Subito dopo che l'ala è andata, dallo sportello sopra le mia testa cade la maschera d'ossigeno. Per un attimo mi sembra la cosa più sbagliata che possa succedere, perché, insomma, io sto solo andando ad una conferenza medica a cui sono stato invitato a prendere parola – e sono stato così felice di preparare i bagagli e partire – perché dovrei morire adesso in questo modo?

Non è giusto.

Ah, ho realizzato che anche pensare “non è giusto” quando stai morendo è una sorta di cliché. Nessuno vuole morire, che sia giovane o vecchio, che sia malato o sano. Nessuno. E non sono tanto stupido da dire che io sono diverso, e questi potrebbero essere i miei ultimi pensieri, è giusto che sia sincero con me stesso.

Là fuori – fuori dal finestrino – il terreno si sta avvicinando ad una velocità allarmante. Tecnicamente so che morirò sul colpo e che quindi non dovrei provare nessun dolore. Ma ho paura lo stesso. Ho paura che la mia sarà una lenta, lunga sofferenza, ho paura di rimanere paralizzato ad aspettare la Morte.

Ho paura.

Poche volte nella mia vita ho avuto paura.

Ripensandoci è buffo, perché adesso mi sembrano tutti motivi stupidi per cui avere paura.

La prima volta che ho fatto sesso con un ragazzo. Oh Dio, sì che ho avuto paura. Forse mi faceva paura accettare di essere gay, o di essere gay e fare la parte passiva, ma il piacere ha presto cancellato entrambe le cose.

La prima volta che ho visto sul foglio di un compito in classe “C” e non la solita “A”, quello è stato panico puro, che non è sfumato solo perché l'insegnante si era accorta in tempo che aveva sbagliato ad assegnare il voto. Il panico legato al fallimento mi aveva seguito tutto il giorno.

La prima volta, dopo la laurea in medicina, che mi avevano lasciato da solo con un paziente, e quel paziente – per complicazioni che non erano dipese dal mio operato – era morto.

Nient'altro, credo che siano le uniche volte in cui ho avuto paura. Davvero paura.

E sono tutte stupide.

Perché adesso me la sto facendo addosso.

Vorrei morire già solo per averlo pensato, e, ti prego Dio se devono ritrovare il mio corpo fa' che non abbia i pantaloni sporchi di urina e feci. Sarebbe abbastanza per uccidermi un'altra volta. Sì, sono un medico, lo so che quando si muore il rilassamento dei muscoli porta ad uno svuotamento subitaneo degli intestini. Ma non voglio che l'ultima cosa che diranno alla mia famiglia sia “si è cagato addosso prima di morire”.

Oh, Dio, Dio, avevo detto che non sarei stato scurrile di fronte alla Morte, ma il mio desiderio di imprecare ha raggiunto limiti intollerabili.

Vorrei imprecare per tutte le volte che non l'ho fatto, per tutte le volte che mi hanno tagliato la strada e ho trattenuto un “cazzone!”, per tutte le volte che ho incontrato qualche testa di cazzo ferma alla cassa del supermercato che ha abusato del mio tempo facendomi rimanere in coda più del dovuto, per tutte le volte che avrei voluto – e dovuto – mandare a 'fanculo i miei colleghi di lavoro .

Vorrei aver avuto più tempo per imprecare, in generale.

Vorrei aver avuto più tempo per un mucchio di cose.

È rimpianto in punto di morte? Cliché, un altro po' e farò l'en plein.

Cos'altro manca?

Ah, giusto, l'ultimo pensiero alle persone care.

A dire il vero non lascio molte persone care sulla Terra, perché nessuno è riuscito ad arrivarmi tanto vicino da poter essere considerato “persona cara”.

Ci sarebbe il mio “migliore amico”. La Morte mi rende abbastanza sentimentale da pensare che forse avrei dovuto trattarti un po' meglio, che sarei dovuto uscire con te più spesso per ubriacarmi anche se non ne avevo voglia, che avrei dovuto dirti di sì per accompagnarti a comprare il tuo abito da sposo, o quanto meno non tirarla tanto per le lunghe prima di dirti di sì – perché tu lo sai che in fondo era un “sì” sin dalla prima volta che me l'hai chiesto, no? –. Mi dispiace non esserci il giorno del tuo matrimonio, a proposito. Ma sono contento che non dovrò fare da babysitter ai marmocchi che hai intenzione di sfornare.

Mia madre. Penso che sapere dell'incidente ti farà un male atroce e...non te lo meriti. Hai trattato così bene la mia misantropia che a volte penso che se riesco a stare in mezzo alla gente senza impazzire lo devo tutto a te. Puoi prenderti cura del mio cane?

Ecco fatto, miserabile Essere Umano.

Fine della corsa.

Ti sei congedato con tutti quelli che volevi congedarti? Hai sbattuto il muso davanti alla cruda realtà che stai morendo così come hai vissuto? Solo?

Mi irrita il fatto di essere giunto alla massima illuminazione sulla mia esistenza proprio adesso che sto per morire.

Chiariamoci, non penso che sarebbe cambiato realmente qualcosa se l'areo non fosse precipitato e io fossi arrivato alla conferenza e poi tornato indietro.

Le persone non cambiano quando sono in vita. Cambiano davanti alla Morte.

Mi chiedo se qualcuna delle persone che stanno morendo con me avranno realizzato di essere molto meglio di quanto credevano, o molto peggio.

Io ho realizzato di essere ridicolo, patetico.

 

*

 

Sinceramente non pensavo che avrei riaperto gli occhi. Quindi, quando mi accorgo che posso farlo, non lo faccio. Perché non voglio.

Non so cosa mi aspetta oltre il buio forzato delle palpebre chiuse, non so neanche se voglio saperlo.

Immagino di ritrovarmi disteso in un mare di nuvole, di fronte al cancello d'oro del Paradiso, e di chiedermi che cosa diamine ci faccio qui. Sono un sodomita senza Dio in fin dei conti.

Forse dipende dal fatto che a nessuno piace l'idea di svegliarsi all'Inferno. L'Inferno fa paura, e non è difficile tranquillizzarsi con frasi tipo “in fondo non ho mai ucciso nessuno” come se il vivere rubando, abusando, bestemmiando non fosse sufficiente per garantirsi un biglietto di sola andata verso il centro della Terra.

E di certo non mi consola il fatto che io, in fondo, ho ucciso più persone di quante ne abbia salvate.

Essere medico fa schifo, avrei dovuto scegliere di sedermi dietro una scrivania e fare...il segretario, sì, niente stress, niente responsabilità, passare le telefonate, graffettare documenti, rispondere “Mi dispiace, il Signor Jones è in riunione, provi a chiamare più tardi”, e non avere altri pensieri al mondo. Ma immagino che per fare un lavoro del genere ci voglia un viso cordiale, un sorriso sulle labbra, e al 70% essere donna. Non ho i requisiti principali.

Penso di essermi distratto, cos'è che stavo dicendo?

Ah sì, gli occhi. Non devo aprirli, per nessuna ragione.

È più istintivo che altro il bisogno del mio corpo di controllare se stesso, come un computer che fa un check-up per capire se tutti i sistemi sono in funzione.

Mi sembra di respirare, un po' velocemente, ma bene; il battito cardiaco è presente, anche quello un po' veloce; ho ancora sufficiente consapevolezza corporea per sapere che sono disteso a pancia in giù su qualcosa di vagamente morbido, che braccia e gambe sono tutte al loro posto, e che ho caldo ma che la temperatura del mio corpo sta scendendo.

Sono vivo.

Le orecchie mi fischiano – piene del rombo del sangue e del battito cardiaco – tanto che non riesco a sentire nulla al di fuori del mio veloce ansimare.

Non sento dolore, il che di per sé può indicare che mi trovo in stato di shock e forte stress, tanto da alterare le mie normali percezioni.

Ricapitoliamo.

Mi chiamo Saïx Karalis. Dopo il liceo ho preso medicina – forse a causa di una mania di grandezza – e mi sono laureato con il massimo dei voti. Dopo un anno di tirocinio e tre di specialistica mi hanno assunto a tempo pieno in una struttura pubblica. Non piaccio alla gente, ma sono un medico brillante. Non ho ancora compiuto trent'anni e mi hanno già invitato a parlare ad una conferenza di fronte a tutti i più grandi medici e chirurgi di questo secolo. L'aereo su cui mi trovavo ha avuto un'avaria, ha perso un'ala ed è precipitato. Sono sopravvissuto, probabilmente senza riportare danni.

Ora posso aprire gli occhi.

All'inizio non capisco perché sia così difficile vedere, poi realizzo che ho davanti un mare di capelli blu, i miei capelli. Muovere un braccio è un'impresa titanica, ma riesco a togliermeli dalla faccia quanto basta per poter vedere.

È uno scherzo?

Una spiaggia. Sono steso sulla sabbia. E questa è una spiaggia.

Il calore proviene dal muso dell'areo sfracellato ad almeno cinquecento metri da dove mi trovo io. Ricordo davvero vagamente di essermi slacciato la cintura di sicurezza ad un certo punto mentre precipitavamo. Questo mi ha impedito di rimanere bloccato al mio sedile, e di trovarmi in quella fornace ardente che ora è il muso dell'aereo. Plausibilmente l'odore che sento nell'aria è carne umana che brucia.

Mi viene un brivido solo a pensare che se mi sono salvato è perché inconsciamente ho fatto quello che le hostess dicono strenuamente di non fare. Davvero ironico.

Credo di avere in bocca un bel po' di sabbia perché quell'appiccicaticcia sensazione granulosa contro il palato e la lingua non vuole abbandonarmi.

In ogni caso devo alzarmi, subito.

È uno sforzo immenso quello che chiedo al mio corpo sotto shock, ma sono contento di constatare che tutto risponde ai miei comandi come prima.

Mi tiro su a sedere prima di avere la forza di alzarmi in piedi, e anche così sento la testa girare improvvisamente. Così avverto la prima stilettata di dolore.

La testa, ah, la testa. Trauma cranico, emorragia subaracnoidea: forse sto morendo, e non posso farci niente. Cerco di ricordarmi quali sono i sintomi, e per fortuna non trovo così difficile farlo.

I sintomi di emorragia subaracnoidea includono un forte mal di testa con una rapida insorgenza ("cefalea a rombo di tuono"), vomito, confusione mentale o un abbassamento del livello di coscienza e, talvolta, convulsioni.

Mi fermo un attimo a costatare il mio stato come se avessi davanti un paziente.

Mal di testa? Sì, ma non così forte.

Vomito? No, non ho la nausea.

Confusione mentale? Bhe, sono appena sopravvissuto ad un incidente aereo, mi sembra legittimo essere un po' confuso.

Abbassamento del livello di coscienza? Insomma, devo essere svenuto ad un certo punto, ma credo sia stato per la perdita di pressione in cabina quando l'areo si è spezzato a metà – si è spezzato a metà, ho il muso proprio davanti a me –.

Convulsioni? Se avessi avuto convulsioni mi sentirei più stordito e intorpidito di quanto non sono, quindi direi di no.

Diagnosi: sto bene, per essere uno che si è risvegliato a cinquecento metri sbalzato fuori da un aereo appena precipitato.

Provo a vagliare anche l'ipotesi di un “semplice” trauma cranico che possa giustificare il mal di testa, ma non ho nessuno dei sintomi che ricordo. Ed essenzialmente ricordare già tutto il lungo elenco di sintomi esclude a priori traumi alla testa di qualsiasi genere.

È solo un mal di testa, e dovrei smettere di pensare che ci sia dell'altro quando sono in piedi sulle mie gambe, quasi del tutto illeso – semmai un po' ammaccato – mentre nell'aria sento l'odore di carne alla brace, e non quel tipo di carne che sarei felice di mangiare ad un pranzo domenicale.

C'è uno sgocciolio persistente, però. Allora porto una mano al viso per raccogliere il liquido – che è sangue, ma è okay, la presenza di sangue è qualcosa che posso gestire – e il dolore quasi mi paralizza. Devo avere un brutto taglio sulla fronte, ancora sanguina.

Lascio che sia il mio corpo a portarmi vicino alla riva, ed è solo con una minuscola parte della mente che penso che il mare non mi è mai piaciuto ed è assurdo adesso trovarsi immerso fino alla ginocchia.

Solo adesso mi accorgo che questo potrebbe felicemente essere un bellissimo luogo di villeggiatura.

Spiaggia bianca dalla sabbia sottile, acqua azzurra, cristallina, lucida come uno specchio, i resti di un aereo precipitato che bruciano alzando fumo nero all'orizzonte, il sole alto e caldo che invoglia a rimanere sdraiati a bere un cocktail.

Guardo il mio riflesso nell'acqua e un nodo mi stringe la gola. Mi aspettavo di vedere un'espressione allucinata, i capelli arruffati, i vestiti strappati, ma non l'enorme taglio sulla fronte. C'è da chiedersi quale detrito vagante possa aver causato quel taglio così preciso, tanto da essere quasi bello a vedersi, e quanto fortunato sono stato: qualche centimetro più giù e avrei perso gli occhi. Invece ci sono tutti e due, funzionano tutti e due, e sono ancora del consueto color ambrato.

È quella ferita che mi destabilizza per un attimo.

Visto che non rischio più di morire – non nell'immediato – riesco a trovare la calma che ha fatto di me uno dei più giovani chirurghi del paese. Raccolto l'acqua con le mani a coppa e me la getto sul viso.

Brucia. Da morire. E stringo i denti per non urlare e ripeto il procedimento, almeno finché non sono sicuro al 90% di aver eliminato tutti i possibili detriti che potrebbero causare un'infezione. Poi strappo una manica della camicia che indosso – tanto è comunque messa male, posso farmene ben poco – e cerco di ridurla in strisce per improvvisare una benda intorno alla ferita. Alla fine del processo sembro un idiota con una fasciatura intorno alla testa, ma almeno il sangue si è fermato.

Bene. Benissimo.

Quando arriva il momento di realizzare di essere l'unico sopravvissuto di un incidente mortale?

Credo di averlo pensato – o aver sfiorato il pensiero – già parecchie volte, ma non ci ho ancora pensato veramente.

Rimandiamo la cosa a quando ne avrò capito di più, che fretta c'è?

Il quadrante del mio orologio da polso è rotto, e la lancetta ferma, non ho modo di sapere che ore sono almeno finché non avrò preso un orologio da un morto – fantastico – ma a giudicare dalla luce del sole – e dall'ultima volta che ho controllato l'orario quando ancora l'aereo era in quota e tutti eravamo pienamente felici delle nostre vite e di quello che ci aspettava all'atterraggio – deve essere primo pomeriggio, poco dopo pranzo. Il mio stomaco concorda gorgogliando, quindi è un sì.

Dovrei essere arrivato a quest'ora, dovrei essere in aeroporto in attesa del mio bagaglio, dovrei aver riacceso il telefono e cominciato a leggere le email accumulate in quelle tre ore di viaggio. A proposito, il mio telefono. Che idiota sono stato a lasciarlo nella borsa e non a tenerlo in tasca. Cosa avrei potuto farmene visto le circostanze? Non so, ma vivere in questo mondo moderno mi ha insegnato ad affidare una sensazione di sicurezza a quel rettangolino di plastica,vetro e microchip. La sola idea di poter provare a fare una telefonata per chiamare aiuto sarebbe stata rassicurante.

Metto nella lista di cose da fare prima che faccia buio la ricerca della mia borsa da lavoro e del suo contenuto. Magari sono fortunato.

Il mio codice deontologico mi informa che sarebbe ora di cercare qualche superstite e di prestare primo soccorso. Ippocrate, grazie mille. Per cui mi inerpico su per la spiaggia, i piedi che affondano nella sabbia morbida, verso il muso dell'aereo.

Ora una certa nausea comincio a sentirla, ma credo sia dovuta al fatto che più mi avvicino più l'odore di bruciato e morte si fa pressante e insopportabile.

Nella mia carriera ne ho viste di cotte e di crude – letteralmente –, mi hanno portato pazienti così ridotti male da poter essere quasi impossibile riconoscere in loro persino una forma umana, figurarsi rimetterli insieme.

Ricordo quella volta in cui mi ritrovai a dover ricucire un idiota che – in qualche modo – si era fatto cadere addosso una sega elettrica ancora accesa. Il puzzle più realistico che mi sia trovato a fare. Alla fine il paziente era vivo, tutto d'un pezzo, e cosciente. Una gran bella soddisfazione.

Quindi, come dire, da medico sono pronto a tutto. Ma quando vedo quello, è troppo, troppo per il mio stomaco almeno. Volto la testa da una parte e vomito, incurante del fatto che potrebbe essere un allarmante segno del trauma cranico che potrei avere.

Quanti passeggeri ci possono essere su un volo di linea?

Facciamo un breve calcolo.

Ci sono due file con tre posti a sedere ciascuna per un totale di 33 numeri dalla A alla F.

1A, 1B, 1C, 1D, 1E, 1F a continuazione fino al 33A, 33B e via di seguito.

Vuol dire che su un aereo ci sono una media di 190 persone, più il personale di bordo e i piloti. Arrotondiamo a 200? Ma ho timore che potrebbero essere di più.

In ogni caso non ho mai visto 200 persone morte tutte insieme – 199, visto che sono ancora vivo, ma per quanto ne so potrei morire anch'io nel giro di qualche ora –, forse ne avrò viste 200 in tutta la mia carriera, ma tutte insieme?

Di fronte a me non ci sono 200 persone morte, ma 100 sì, visto che il muso dell'aereo ne contiene almeno metà.

È così sbagliato il carnevale di abiti colorati che occhieggia dalle valigie esplose in mezzo a tutto il rosso del sangue e al nero dei corpi carbonizzati.

Devo premermi una mano sulle labbra per non respirare quell'odore – e non dare di nuovo di stomaco –.

Mi muovo tra i rottami dell'aereo a pezzi e non riesco a crederci. Non riesco a credere di essere ancora vivo.

Ci sono sedili divelti sparsi dappertutto e ho la macabra impressione che tutto ciò sia il set di LOST. Il protagonista non era un medico?

Mi aspetto di vedere da un momento all'altro una telecamera occhieggiare da qualche parte in mezzo alle fiamme e una troupe con buffet annesso che mi guardano come a dire che sono l'unico idiota che non ha ancora capito che è tutta finzione cinematografica.

Sì, sono in stato di shock.

Già che ci sono vomito di nuovo. Tanto peggio di così non può andare.

Quando riesco a ritrovare la forza per alzare la testa e affrontare quel campo di battaglia di corpi, valige, sedili, maschere per l'ossigeno, pezzi di metallo e fiamme mi faccio anche un po' avanti, attento a non calpestare cose.

Il primo corpo che vedo è quello del signore distinto in giacca e cravatta che era seduto due posti davanti a me. Me lo ricordo perché ha litigato con una hostess: non voleva mettere la valigetta nella cappelliera.

“Ci sono importantissimi documenti di lavoro” aveva urlato, e la signorina si era prodigata per fargli capire che era troppo grande per riporla sotto il sedile e che di conseguenza doveva andare nella cappelliera.

Mi avvicino a lui mentre ancora ripenso a come sbraitasse, paonazzo in volto. Quella valigetta doveva essere davvero importante per lui. Mi abbasso per controllargli il polso, ma già al tatto sento che la sua pelle è gelida.

Niente da fare, non c'è battito.

Continuo a camminare, ogni corpo che incontro è freddo, senza vita. Allora sono davvero l'unico sopravvissuto dopotutto.

Il calore delle fiamme è insopportabile ma va a scemare.

Chissà dov'è finita l'altra metà dell'aereo. Deve essersi spezzato in volo, così il muso è finito sulla spiaggia e la coda...da qualche parte nella foresta. Perché che incidente aereo sarebbe stato se non ci fosse stata una spiaggia deserta e una foresta incolta che comincia dove la sabbia finisce?

Ho sempre più difficoltà a non credere che questo sia il set di LOST.

Mi arrampico nella fusoliera dell'aereo, scricchiola pericolosamente ma ormai qualsiasi cosa potesse bruciare è bruciata da un pezzo, e i serbatoi, così come i motori, sono chissà dove – probabilmente in corrispondenza delle colonne di fumo che si alzano tra gli alberi – quindi non devo temere esplosioni collaterali.

Mi provoca un brivido constatare che la parte di aereo in cui dovrebbe trovarsi il mio sedile manca completamente. La fila 17 dalla A alla D è sparita, sparata verso fuori durante la caduta, rimangono superstiti i sedili 17E e 17F, passeggeri annessi. Loro hanno tenuto la cintura allacciata. Quasi automaticamente mi accerto se ci sia battito o meno, ma da come gli penzola la testa sul petto presumo che l'impatto abbia spezzato loro l'osso del collo. Credo che nessuno dei due abbia sofferto. In più, si tengono per mano. Non so se fossero una coppia, di qualsiasi genere, ma in ogni caso sono morti con qualcuno che dava loro conforto.

Proseguo verso la cabina di pilotaggio tastando tutti i polsi delle persone ancora sedute al loro posto che trovo. C'è anche una hostess riversa a terra nel corridoio, è la ragazza che ha cercato di convincere il signore distinto a riporre la valigetta nella cappelliera. Morta anche lei.

Cerco di superare il cadavere senza calpestarlo e deglutisco a fatica. Vorrei dell'acqua da bere, e qui su fa un caldo asfissiante.

La cabina di pilotaggio manca per metà, un pilota – morto – è ancora al suo posto, mentre dell'altro – e dell'altra metà della postazione – non c'è traccia.

La buona notizia è che il carrello delle bevande è ancora integro e posso bere una coca – normalmente non lo farei, ma sono in stato di shock e stress e ho bisogno di zuccheri –, la cattiva è che la radio di bordo è in mille pezzi. Sembra che dovrò frugare in tutte le tasche e in tutte le borse per trovare un telefono ancora funzionante. Intanto prendo l'orologio del pilota. Grazie, scommetto che hai fatto del tuo meglio per non farci morire tutti. Bhe, uno l'hai salvato.

Sono quasi le quattro del pomeriggio, ho ancora qualche ora di luce ed è il caso che cominci a capire dove mi trovo e come fare per andarmene.

Uscendo dalla fusoliera raccolgo quante più valige, quanti più zaini, quanti più borsoni posso dalle cappelliere e li porto fuori.

Sono tutti bagagli a mano senza lucchetto e senza combinazione, quel genere di bagagli che pensi di non perdere mai di vista quindi perché chiuderli a chiave?

I primi due che apro appartenevano a due donne, è un po' imbarazzante frugare tra gli effetti personali di qualcuno che è appena morto, ma quando tropo penicillina e antidolorifici sono felice di averlo fatto.

Infilo tutto quello che può essermi utile in uno zaino da trekking preventivamente svuotato e controllato – una miniera d'oro, c'era anche un sacco a pelo, borraccia, bussola, un ricambio di scarpe della mia misura e un fornello da campo –, ringrazio vivamente il ragazzo che mi ha permesso di affrontare la mia prima notte da sopravvissuto.

Quando ho terminato con la razzia dei bagagli mi ritrovo con uno zaino pesante sulla schiena e una considerazione piuttosto dolorosa che mi stringe lo stomaco: il sole sta tramontando e devo decidere se accucciarmi nella fusoliera dell'aereo tra un sedile e l'altro e addormentarmi in mezzo ai cadaveri, o se accendere un fuoco distante dall'odore di bruciato e morte e usare il sacco a pelo del mio “amico” defunto.

Scelgo la seconda. Non mi piace l'odore di morte.

 

Avevo circa dodici anni l'ultima – e la prima – volta che sono andato a fare campeggio. Mia madre voleva tanto che facessi amicizia con qualcuno, che la mia vita fosse più di pianificare il futuro e starmene sui libri tutto il giorno. Immagino che lei volesse che facessi il bambino, ma io raramente mi comportavo da bambino.

Però quell'anno decisi di accontentarla, e oh quanto era contenta. Andammo insieme a comprare tutto il necessario per le due settimane di campo estivo che avrei passato lontano da casa, e quando dico che comprammo tutto il necessario non scherzo. A malapena mi si vedeva sommerso dallo zaino e dalle vettovaglie che dovevo portarmi dietro.

Mi sforzai di essere felice, per la donna che mi aveva cresciuto praticamente da sola e che mi aveva dedicato tutta la sua vita. È difficile non sentire di dover dare qualcosa in cambio ad una persona così, e mia madre d'altronde voleva solo che andassi in campeggio.

Già arrivato capì che sarebbe stata una tortura. Canzoncine intorno al fuoco, corsi di sopravvivenza di dubbia utilità, tornei sportivi, scomodità lontani da qualsiasi forma di civilizzazione: quel posto non faceva per me. Ma mia madre...mia madre...presi un profondo respiro e andai incontro al ragazzo responsabile del campo. Così stupidamente felice di vedermi, mentre io di certo apparivo essere tutto l'opposto.

Per tutta la prima parte del primo giorno ascoltammo le norme di sicurezza basilari, imparammo a fare nodi – scorsoi, cappi, a farfalla – e quando cominciò a fare buio usammo acciarino e pietre per accendere il fuoco.

Dormimmo sotto le stelle, con le sole luci dei fuocherelli accesi qui e là a rischiarare la notte.

Sotto quel manto stellato, finalmente solo con i miei pensieri, acquisita una parvenza di privacy, potei respirare l'aria fresca a pieni polmoni e apprezzare il calore del fuocherello che anch'io avevo aiutato ad accendere.

In quel momento pensai che non fosse tanto male, che forse mi sarei potuto divertire, o quanto meno che avrei imparato qualcosa.

No, non mi sono divertito, ma se il fuoco scoppietta proprio di fianco a dove sono sdraiato con il sacco a pelo e se ho potuto costruire una tettoia con rami caduti e foglie di palme lo devo solo a quello che ho imparato in quelle due settimane.

Chi avrebbe mai detto che il campeggio mi avrebbe salvato la vita?

È una notte senza Luna e l'unica luce visibile è quella del mio allegro fuoco vivo. Non riesco a vedere il muso dell'aereo e neanche tutti i rottami o i cadaveri. Nell'aria non c'è più puzza di bruciato, solo salsedine.

In quest'oscurità mi sembra di essere solo al mondo.

Lo so, è una stupida fantasia malinconica e dovrei smettere di pensarci ma non ci riesco. Cade su di me all'improvviso la consapevolezza di essere sopravvissuto.

Eccoti qua, ti aspettavo durante il giorno, non pensavo saresti arrivata adesso.

Non so se questa è un'isola e non voglio allontanarmi troppo dal muso dell'aereo, ma domani dovrò darmi da fare se voglio continuare ad essere vivo.

Ho bisogno di trovare una fonte d'acqua – quella del carrello delle bibite non durerà a lungo – e del cibo – non posso davvero nutrirmi di merendine e starmene seduto in panciolle sulla spiaggia aspettando che qualcuno mi trovi –.

Quasi sicuramente verranno a cercare l'aereo, è impossibile che l'incidente sia passato inosservato, e se voglio che le mie probabilità di salvarmi salgano verso l'alto è meglio che gironzoli nei pressi del luogo dell'impatto. Sarebbe davvero divertente se arrivasse una squadra di salvataggio e io fossi in giro a fare il turista nella foresta. No, grazie.

Forse dovrei cercare l'altra metà dell'aereo, non è detto che io sia l'unico ad esserne uscito illeso – a proposito, la ferita sulla fronte non è abbastanza profonda da avere bisogno di punti, e non rimarrà neanche la cicatrice – e nel tragitto posso cercare del cibo. Male che vada mi metterò a pescare.

Non l'avrei mai detto, ma sento la mancanza di Riku, quell'idiota. Quanto sarà stupidamente in pena per la mia morte. Oh certo al telegiornale avranno detto solo che c'è stato un incidente e che il mio aereo è precipitato, non che tutti i passeggeri sono morti – o quasi –, quindi a quest'ora starà sperando che io sia sopravvissuto. E mia madre? Anche lei sarà preoccupatissima. Forse per loro sarebbe quasi meglio sapermi morto e non in questa specie di limbo di non-vita come il Gatto di Schrödinger.

Ah, che diamine, non voglio essere il Gatto di Schrödinger.

Mi costringo a chiudere gli occhi e dormire.

 

*

 

Mi sveglio alle prime luci dell'alba ma torno cosciente al mio consueto orario: le sette meno un quarto. Il mio orologio biologico non sa che che cosa è successo, si limita a svolgere il suo lavoro.

Il fuoco si è spento da un pezzo ma sono sicuro che smuovendo la cenere troverò una fiamma quiescente.

Incredibile a dirlo ma fa un freddo cane. Sarà per colpa del sole non ancora sorto o del vento che spira dal mare.

Rimango raggomitolato nel sacco a pelo ancora per un po', almeno finché non accetto di trovarmi in questa situazione, dopo di che prendo coraggio e mi alzo.

Per prima cosa la ferita. Mi tocca disinfettarla di nuovo con l'acqua di mare e brucia come la prima volta. Ingollo un antibiotico e una barretta ai cereali e presumo che questa sia la mia colazione. Non so quanto tempo mi ci vorrà per raggiungere – trovare – l'altra parte dell'areo, e non voglio perdere tutte le ore di sole disponibili e rimanere al buio dentro la foresta. Quindi devo mettermi in marcia al più presto.

Non mi piace fare trekking, non sono un esperto di sopravvivenza o di vita in mezzo alla natura, ma non sono una persona stupida. Devo stare attento a che direzione prendo se non voglio perdermi.

Ho con me una bussola e la possibilità di muovermi in linea retta sull'asse che mi indica. Proseguirò verso nord per un po' oggi, domani proverò con nord-est, poi con nord-ovest e così finché non avrò trovato qualcosa. Starò attento a segnare tutti i punti in cui mi fermo in modo da crearmi dei riferimenti per la volta successiva, e se tutto andrà bene dovrei riuscire a battere una buona sezione della foresta senza allontanarmi dal muso dell'aereo più di mezza giornata.

Ho carta e penne a sufficienza per scrivere tutto quello che ho bisogno di scrivere – anche se non ho trovato la mia borsa, e rimane una delle prime cose da cercare in giro – a cominciare da un improvvisato calendario.

Oggi è 05 aprile, accanto alla data scrivo “Giorno I – verso nord”.

Sul riquadro del calendario che ho disegnato corrispondente al 25 aprile scrivo “salvataggio”, perché penso che dare venti giorni ai soccorsi per trovare il luogo dell'incidente – e me – siano abbastanza. E in ogni caso penso più lucidamente se so che tutto questo non durerà per sempre.

Su un'altra pagina del quaderno abbozzo una lista delle cose che urge trovare – superstiti, coda dell'aereo, borsa, cibo, acqua, medicine? –.

Non è molto ma in qualche modo mi fa sentire di avere tutto sotto controllo.

Il sole intanto è sorto, il canto degli uccelli nella foresta si fa più forte e deciso, il mare scroscia con più intensità. È ora di mettersi in marcia.

Infilo il quaderno e la penna nello zaino da trekking e indosso le scarpe sportive. Arrotolo il sacco a pelo, lo porterò con me, non si sa mai cosa potrebbe succedere. Guardo il mio piccolo accampamento arrangiato, come per imprimermi l'immagine nelle retine, e parto, bussola alla mano.

Non dovrò camminare molto prima di tornare, o almeno spero.

Cercò di ignorare il muso dell'aereo e mi dirigo nella direzione opposta. È per questo che ho scelto il nord, visto che così do le spalle ai rottami e ai corpi morti. Il gracchiare dei gabbiani non annuncia niente di buono, non voglio esserci quando cominceranno a banchettare con i morti, e non ho il tempo per seppellirli tutti.

Lo zaino è pesante ma sono felice che lo sia. Mi sembra di camminare ad un metro di altezza, il terreno è cedevole sotto i piedi, e lo zaino mi tiene ancorato a terra, è un bene. Non so se sia a causa dei medicinali o per lo shock o per il mal di testa, ma ho quasi l'impressione che volerei via come un palloncino senza lo zaino.

 

Per un po' cammino lungo la spiaggia, faccio una pausa all'una per mangiare un sandwich al tonno. Con questo caldo non so per quanto tempo saranno commestibili gli altri che ho lasciato all'accampamento, forse la mie scorte di cibo si sono appena dimezzate. Bevo giusto il necessario per idratarmi e poi riprendo, seguendo la bussola, ma inoltrandomi per la prima volta nella foresta. Fa più fresco all'interno, sotto gli alberi, e per un attimo penso che potrei lasciare il carrello delle bevande con tutto il suo contenuto all'ombra della foresta, ma presumo che così attirerei qualche animale. Forse è già stato un errore non aver infilato il cibo in qualche sacchetto e seppellito sotto la sabbia.

Con le piante che mi sfiorano le gambe e i versi di uccelli che si alzano in volo non appena gli passo accanto, ogni movimento che faccio mi sembra troppo rumoroso e rischioso. Mi guardo continuamente intorno alla ricerca di segni di vita – che sia vita umana, ti prego – senza però trovare altro che alberi dall'alto fusto, felci nel sottobosco, un tappeto di terriccio morbido. Speravo nelle palme per avere cocco o banane o qualsiasi altro frutto cresca sulle palme, ma fin ora non ne ho viste, che non sia la giusta stagione?

Sto giusto pensando che è ora di tornare indietro quando sento il rilassante, meraviglioso scrosciare d'acqua fresca.

Non corro solo perché temo che potrei mettere un piede in fallo e cadere, ma vorrei farlo.

Mi apro la strada con le braccia, strappando liane verdi e appiccicaticce foglie di non so quale pianta e mi ritrovo davanti ad una cascata. Non penso di essere mai stato tanto felice di vedere una cascata.

Avvicinandomi all'acqua noto la presenza di pesci – inutile pescarli, troppo piccoli – e considero che se è abbastanza buona da farci vivere dei pesci, sarà buona anche da bere. O almeno lo spero. Un avvelenamento è l'ultima cosa di cui avrei bisogno ora come ora. Riempio la borraccia e tre bottigliette d'acqua, dopo di che provo ad appuntare sul quaderno la posizione della cascata. A larghe linee dovrei essere in grado di ritrovarla, ma per non sbagliare mentre torno indietro mi lascio una scia di vestiti. Li lego stretti ai tronchi degli alberi sul ramo più alto che riesco a raggiungere. Hansel e Gretel insegnano più di quanto pensassi, e avere a disposizione tante valige e tanti indumenti è macabro ma d'aiuto.

Un po' più rincuorato dall'aver trovato una cascata il primo giorno delle ricerche neanche penso che si trova ad almeno quattro ore dal mio accampamento e che farò meglio a calcolare bene i tempi per non fare avanti e indietro inutilmente per un bicchiere d'acqua. Ma la camminata non mi pesa, forse dipende dal fatto che sto tornando indietro, e vincitore tra l'altro.

Non ho ancora trovato del cibo, ma non posso pretendere di diventare Robinson Crusoe in ventiquattro ore.

Sono grato a mia madre per aver incoraggiato la mia passione per la lettura.

Arrivo all'accampamento che sono le sei e il sole va a terminare il suo percorso verso l'orizzonte. Mi chiedo se non sia il caso di scrivere “S.O.S” sulla spiaggia con sassi e tronchi per rendere visibile la mia presenza dall'alto. Magari domani.

Non ho la forza di mettermi a pescare qualcosa per cena – e prima di tutto di costruire una canna da pesca – ma di rimpolpare la mia scorta di “molliche di pane” sì. Ancora una volta ignoro i gabbiani e le loro strenue lotte per la carne e mi limito ad aprire i bagagli che trovo prendendo quello che potrebbe servirmi, poi torno alla tettoia per accendere il mio fuoco da campo – stranamente è più semplice farlo adesso – stendo il sacco a pelo e tiro fuori un altro sandwich, prosciutto e funghi stavolta.

Guardando il mare, il cielo, la foresta e la spiaggia so di non essere mai stato tanto solo in vita mia come adesso. Solo in mezzo agli altri, sì, tante volte, ma solo, solo, completamente solo su un'isola...mai.

Abbasso lo sguardo sulle fiamme che scoppiettano e sottovoce comincio a recitare il giuramento di Ippocrate.

- Consapevole dell'importanza e della solennità dell'atto che compio e dell'impegno che assumo, giuro: di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento; di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo l'eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario; di... -

Quando comincio a sentire gli occhi umidi e la voce si spezza, il mio buon senso mi spinge a tacere.

 

Il fuoco è spento, il cielo è nero seppur trapunto di stelle. Stelle che a causa dello smog e dell'inquinamento non ho mai avuto modo di vedere in città. Brillano come diamanti, ma sono lontane e pallide.

Nello stordimento del sonno e del freddo che mi avvolge non mi rendo subito conto di essere sveglio e cosciente almeno finché, oltre al mio respiro e al continuo scrosciare delle onde sul bagnasciuga, non avverto un altro suono.

Lì per lì non mi rendo subito conto della sua presenza, forse perché sono ancora imbrigliato in quella ragnatela tessuta dal mio subconscio che comunemente chiamano “sogno”.

Un gran bel sogno. Scendevo dall'aereo e al mio arrivo trovavo un ragazzo con un cartello con su scritto “Saïx KARALIS” a grande lettere. Mi avvicinavo a lui, mi salutava gentilmente, prendeva una delle mie valige e mi portava alla macchina. E poi andavamo dritti dritti verso l'albergo dove avrei alloggiato e dove si sarebbe tenuta la conferenza. Proprio un bel sogno.

Ma il suono è disturbante e si insinua nell'incoscienza costringendomi a svegliarmi.

Deve essere quel genere di istinto primordiale che hanno tutti gli esseri umani – ma che si è lentamente perso in favore di cose come il pollice opponibile, la posizione eretta, lo smartphone – che mi fa rotolare su un fianco un secondo prima che qualcosa di appuntito, tagliente e mortale si conficchi dove un secondo prima c'era il mio petto.

Sento un ringhio di frustrazione mentre i sensi si affinano. Persa la vista a causa del buio pesto della notte acquisto uno straordinario senso extra. Deve essere una conseguenza dell'essere sopravvissuto a morte certa.

Non vedo, ma sento. Sento i passi di qualcuno di fronte a me, sento il suo respiro grosso, sento che è armato e pericoloso, sento che divelle dalla sabbia l'arma con cui ha cercato di colpirmi. E sento che è ora di schizzare in piedi e correre più velocemente che posso.

Liberarmi del sacco a pelo mi fa sentire come un bruco che si scrolla di dosso la crisalide mentre l'adrenalina mi inonda tutto il corpo.

Lotta o fuga, avevo studiato qualcosa del genere all'università.

Non appena sono libero mi volto indietro per cercare di scorgere qualcosa nel buio, ma vedo solo una sagoma più scura del cielo, alta e sottile, sicuramente umana.

Se si tratta di un sopravvissuto come me non è molto amichevole.

Qualcosa mi dice che non è il caso di provare con la dialettica visto che lui è armato e io no, per cui prendo a correre, per quanto sulla sabbia sia faticoso e difficile.

Chi diavolo sei, che diavolo vuoi.

Un sibilo appuntito mi sfiora l'orecchio. Realizzo solo lontanamente che si tratta di una freccia. Il mio assalitore mi ha appena scagliato una freccia e mi ha preso di striscio. Ha gli occhi da gatto o cosa? Come sa dove scoccare con questo buio?

Definitivamente non è uno dei passeggeri dell'aereo. Mi viene difficile immaginare un povero sopravvissuto che costruisce arco e frecce e aggredisce qualcuno nel cuore della notte con l'evidente intento di uccidere.

Un'altra freccia mi prende di striscio il braccio sinistro e sento di aver bisogno di urlare, ma se lo farò lui saprà precisamente dove mi trovo. Tampono la ferita con una mano per trattenere il dolore e ordino alle mie gambe perentoriamente di aumentare la velocità.

Mi sento ansimare, mentre dietro di me il mio inseguitore è silenzioso. Deve essere molto più abituato di quanto penso a correre così dietro una preda.

Sono una preda.

Spero vivamente che non abbia più frecce, perché io non ho più fiato.

Correndo alla cieca so solo che sono entrato nella foresta, perché correre è diventato più semplice – niente sabbia a rallentarmi – e l'oscurità è più fitta.

Vado ad istinto, con quel sesto senso appena riscoperto, e spero di non andare a picchiare il muso contro il tronco di un albero. Se cado o inciampo o qualsiasi altra cosa, sono morto.

Dietro di me sento un altro ringhio di frustrazione. Ah, non era pronto a corrermi dietro in mezzo agli alberi, di certo non può mettersi a scoccare frecce a vuoto.

Lo ritengo un vantaggio almeno finché non vedo in lontananza, nel folto, dei fuochi fatui.

Impiego diversi secondi per capire che non si trattano di fuochi fatui, sarebbe assurdo, ma al buio mi viene difficile distinguere le sagome delle torce e delle persone che le reggono.

Ovunque riesca a guardare è chiara la presenza di altri esseri umani, ma nell'aria posso annusare l'ostilità.

Devo aver inconsciamente preso la strada verso la cascata perché sento lo scrosciare nitido nel silenzio del cielo notturno. Anche questo è un punto a mio vantaggio. Se mi getto nel fiume non avrà modo di capire dove sono andato, e posso proseguire per un po' senza perdermi. Non appena sorgerà il sole dovrò solo ripercorrere a ritroso il percorso del fiume fino alla cascata e da lì all'accampamento seguirò la scia di vestiti.

Rincuorato, corro con più convinzione, senza chiedermi come la cascata possa essere tanto vicina se ieri ho dovuto camminare per quattro ore per raggiungerla. Forse dipende dal fatto che ora sto correndo? La mia concezione del tempo si è distorta?

O non è la mia cascata e non ho la più pallida idea di dove sto andando?

Il gemito che mi scappa dalle labbra quando un sasso – o qualcosa di contundente in ogni caso – è istintivo e rumoroso, subito dopo metto un piede dove non avrei dovuto e la caviglia cede, dolorosamente, cede.

Ruzzolo in avanti per quella che sembra un'eternità, finché non picchio la testa contro un tronco.

Confuso e intontito neanche provo a tirarmi in piedi, sarebbe controproducente. Scintille bianche mi frizzano nel campo visivo e le orecchie mi fischiano. Devo aver preso una brutta botta.

Strizzo gli occhi e quando penso di essere abbastanza lucido cerco goffamente di alzarmi. Ma non ci riesco.

Qualcuno mi afferra e mi sbatte a terra senza troppi complimenti ed io, ancora rintronato dalla caduta, non riesco ad oppormi che con un tenue gemito.

Ora ci sono solo i nostri respiri. Il mio, lento e rassegnato, e il suo, veloce e vittorioso.

Mi sta addosso a cavalcioni, capisco che non è il caso di muovermi quando sento qualcosa di tagliente poggiarmisi sulla gola.

Poi una scintilla, un'altra, una fiamma, e finalmente, alla luce della torcia accesa conficcata nel terreno soffice accanto a me, posso vedere in volto il mio inseguitore.

Sono sicuro che si tratti della stessa persona che ha provato a uccidermi nel sonno, all'accampamento.

Con quella tremula fiamma i suoi lineamenti appaiono distorti, o forse sono io a non riuscire a metterlo bene a fuoco. È un ragazzo, o meglio, mi sembra essere un ragazzo. Giovane, non più grande di me, anzi molto probabilmente è più giovane. Se non fosse per lo striminzito gonnellino-perizoma di pelliccia – non meglio identificata – che indossa sarebbe completamente nudo. Nonostante sia magro e flessuoso come un giovane giunco, i muscoli di petto e braccia sono sviluppati e gonfi per lo sforzo. Porta un arco a tracolla e una faretra legata alla vita, gli sono effettivamente rimaste poche frecce. Il coltello che mi preme contro la gola è tagliente abbastanza da farmi pensare ai bisturi che uso – usavo – in sala operatoria. Il viso è, però, la parte più attraente. Le sopracciglia rosso fuoco aggrottate a dargli un'espressione che vorrebbe essere crudele, le labbra chiare arricciate in un ringhio e schiuse per prendere aria, gli occhi verde intenso, verde da far male, fissi su di me, i capelli incolti e lunghi, lasciati spettinati come una criniera, dello stesso rosso delle sopracciglia, vivo alla luce della torcia come fiamme danzanti: è uno spettacolo affascinante da cui non riesco a distogliere lo sguardo.

Morire per mano sua non sarebbe così male.

Mi rivolge qualche parola in una lingua gutturale e schioccante che non riesco a capire e che non somiglia a niente che abbia mai sentito finora. Quando vede che non gli rispondo preme di più la lama contro la mia gola e ripete.

- Ehi, ehi. - provo, stento a riconoscere la mia voce - Non ti capisco, okay? Non capisco una singola parola. -

Sembra rifletterci per un attimo, come se lui invece capisse eccome. Sono io troppo stupido per parlare e capire quella sua lingua indigena.

Ma quando torna a parlare riconosco la stessa serie di grugniti e schiocchi che mi ha rivolto prima. Sta ripetendo la stessa cosa per la terza volta. Carino da parte sua.

- Mi dispiace, non ti capisco. -

Ripeto ancora e riesco a vedere sul suo volto un cambiamento, ma non in meglio.

Solleva il pugnale, liberandomi la gola, e lo tiene con entrambe le mani. Sta per colpirmi al cuore. Lo so, lo sento, è sempre grazie al mio sesto senso.

È allora che, con le mani di lui impegnate e le mie libere, agisco. Non so bene come, ma lo colpisco alle braccia per fargli cadere il pugnale, mentre con un pugno gli centro lo stomaco.

Ouch. Che muscoli.

Lui però non si aspettava la mia reazione così, preso alla sprovvista, lascia cadere il coltello e si piega da un lato con le mani sullo stomaco. Via libera.

Me lo scrollo di dosso e riesco ad alzarmi. Quando sono sicuro di essere libero, proprio in quell'esatto momento in cui la mia mente urla “LIBERO!”, mi sento afferrare per la caviglia e cado faccia in avanti nel terriccio. Fortunatamente riesco ad attutire la caduta con le mani. Rotolo su un fianco prima che lui scatti a conficcarmi la lama del coltello nel petto. È già la terza volta che sfuggo alla stessa morte, ormai ci ho fatto il callo.

Il suo ringhio frustrato è quello di un felino. Prima che possa alzarmi di nuovo mi è di nuovo addosso. Da questo punto in poi non so bene che cosa succede. Ruzzoliamo insieme in una palla di arti, membra e gemiti per un tempo lunghissimo in cui cerco di non farmi conficcare lame di qualsiasi tipo nella carne. Più volte lui tenta di recuperare il pugnale, ma riesco ad impedirglielo. Lo inchiodo al terreno reggendogli i polsi e mi consento di sorridere. Ma il piccolo bastardo è veloce a scagliarmi una testata sui denti che mi fa esplodere in un urlo di dolore. Non me l'aspettavo. Ricado su un fianco e lui ha di nuovo il pugnale in mano. Stavolta non posso fare niente per evitarlo. Il dolore al volto è terrificante e il sangue sprizza come acqua da una fontana. Mi sento gemere come da molto, molto lontano, mentre il suo strillo di eccitazione e vittoria riempie l'aria.

Ma non mi ucciderà, non stanotte.

Colpisco alla cieca, più che letteralmente, e la mia lunga esperienza professionale in ambito di anatomia umana mi dice che l'ho centrato in pieno ai testicoli.

È solo con la forza della disperazione che riprendo a correre, ancora una volta in direzione dell'acqua che scroscia, mentre sento che lui si accascia sul terreno uggiolando come un animale ferito.

Di colpo sono di nuovo solo con il mio respiro...e il mio dolore.

Il me medico mi consiglierebbe di fermarmi e controllare la ferita, ma il me che vuole sopravvivere continua a spingere le gambe avanti.

Sono vicino, sono vicinissimo.

E poi il terreno mi manca sotto i piedi e cado.

L'ultima cosa che penso prima di perdere i sensi è che l'acqua è davvero, davvero fredda.

 

C'è un concerto di suoni tutto intorno a me. Suoni che non mi sono familiari.

Tanto per cominciare il beccheggio di acqua quasi immobile che smuove appena appena ciottoli lungo la riva, poi la cacofonia di canti di uccelli che si sovrappongono, e tutti quei suoni tipici del sottobosco – movimenti di zampette di piccoli mammiferi, stridio di insetti, rametti che si spezzano –.

Per un lungo momento rimango a godere della sensazione di essere ancora vivo, esattamente come quando mi sono risvegliato dall'incidente.

Un raggio di sole filtra tra le foglie degli alberi e mi colpisce il viso. È caldo. Sono felice di poter ancora sentire quel calore.

Ancora una volta controllo che tutto il mio corpo sia in un pezzo solo e che riesco a muovere tutte le estremità.

Tutto quello che sento è sopportabile. La schiena mi fa male lì dove l'assalitore mi ha colpito con il sasso; in bocca sento il sapore di sangue lì dove deve avermi spaccato la gengiva con la testata; la caviglia per ora è quiescente ma quando mi rimetterò in piedi saranno dolori; sulla nuca sento un bubbone nel punto in cui ho picchiato contro l'albero; e il braccio sinistro frizza dove la freccia mi ha colpito di striscio.

Ma è tutto sopportabile.

A parte il dolore al viso e il continuo pulsare della ferita.

Lascio che siano le dita a tastarmi. Tasto con una smorfia i bordi slabbrati della ferita a X che mi percorre tutto il viso. Sul sopracciglio, sotto lo zigomo, a destra e a sinistra. Una X perfetta.

Tremo per il dolore e cerco di togliermi dalle ciglia il sangue incrostato che mi impedisce di aprire le palpebre. È allora che realizzo di aver sbagliato tutti i miei calcoli.

Ieri notte non ho corso verso la mia cascata – ci ho messo davvero poco tempo per raggiungerla, quindi non poteva essere lei – ma devo essere incappato in una fonte d'acqua più vicina, un fiume di medie dimensioni con una cascata di almeno trecento metri che si getta in una pozza acqua. Correndo devo essere caduto nello strapiombo, ma la fortuna mi ha assistito facendomi arrivare in acqua. La corrente mi ha trascinato per un po', finché non mi sono arenato su una piccola spiaggetta di ciottoli, quella su cui ancora giaccio, senza forze.

Mi sembra un miracolo che non mi sia rotto qualche osso, che non sia annegato, che non abbia traumi di nessun genere.

A quanto pare non devo morire su quest'isola.

Sono consapevole del fatto che ho perso quel poco che avevo. Niente più accampamento, niente più cibo, niente più aereo, niente più salvataggio.

Devo riuscire a risalire lo strapiombo da cui sono caduto e tornare sui miei passi. Ma non ho idea di quali siano i miei passi. Ho corso alla cieca nella foresta per salvarmi la vita.

L'immagine del ragazzo con il coltello mi appare vivida davanti agli occhi e tremo senza accorgermene.

Mi tiro fuori dall'acqua e sento la gambe stranamente molli. Sarà che ho esaurito tutte le scorte di adrenalina e ora mi sento prosciugato.

C'è sangue ovunque sui ciottoli bianchi, e anch'io ne ho addosso un bel po', devo aver continuato a sanguinare per tutta la notte. Ancora una volta mi trovo a specchiarmi nell'acqua cercando il mio riflesso. Se la ferita sulla fronte mi era sembrata un'inezia, di questa qui devo preoccuparmi davvero. È enorme e profonda e mi impedisce di fare buona parte delle espressioni facciali.

Ho una X in mezzo alla faccia.

Una X.

Come un grande bersaglio sul naso.

Una X.

Scoppio a ridere convulsamente anche se so che non c'è niente di cui ridere, e so che questo è il modo più sbagliato di reagire.

Provo a lavare via il sangue con l'acqua ma la ferita sanguina ancora. Non posso strappare la maglia che indosso con il rischio di non avere niente a proteggermi dal freddo. E arriverà il freddo, quando tramonta il sole. Tutto sommato lasciare che la ferita cicatrizzi all'aria è la scelta migliore.

Ho ancora al polso l'orologio e pare che siano le dieci del mattino.

Giorno II, in fuga, direzione...ovunque.

Spero di trovare qualcosa da mangiare prima di avere fame. E spero di vivere tanto a lungo da provare il senso di fame altre volte nella mia vita.

Mi metto in piedi e tutto gira intorno a me, come un caleidoscopio di colori indefinibili. Riesco a trovare l'equilibrio dopo qualche istante e poi prendo a camminare, per quanto la caviglia urli di dolore un avvertimento secco e chiaro: fermati, non reggo il tuo peso, non ce la faccio.

I soccorsi faranno meglio ad arrivare prima che il ragazzo dai capelli di fiamma mi ritrovi. Potrei arrabbiarmi parecchio altrimenti.

Scampare ad un incidente areo e poi morire per mano di indigeno? No.

 

*

 

Mi sono perso.

Vago nella foresta senza meta.

Credo di avere la febbre.

Per un medico è difficile diagnosticare a se stesso una qualsiasi malattia, è come se fosse impossibile per un medico contrarre le malattie dei pazienti. Eppure.

Deve essere colpa del fatto che non ho mangiato niente tutto il giorno, oppure l'acqua di questo corso d'acqua è avvelenata o qualcosa del genere. Oppure è solo colpa della stanchezza. Non penso di aver mai camminato tanto nella mia vita.

Oppure, plausibilmente, è colpa della freccia che mi ha colpito di striscio, quella era avvelenata.

Oh, certo, ci sarebbe anche l'enorme ferita a X sulla mia faccia, quella che non ha mai smesso di sanguinare e che brucia ad ogni goccia di sudore che ci cade dentro.

Sono tutti fattori che possono scatenare una reazione inconsueta nell'organismo, e la febbre è il primo sintomo di guerriglia interna. I miei anticorpi fanno del loro meglio, ma contro un'infezione o un veleno potranno fare ben poco.

Nessuna traccia degli indigeni...per il momento.

All'inizio l'idea era quella di seguire il fiume e riuscire a risalire lo strapiombo e da lì raggiungere la spiaggia. Era una buona idea, se solo avessi saputo in che direzione si trovasse la spiaggia. Così ho cominciato a vagare a casaccio, preso dal panico, e ho finito col perdermi.

Sono le quattro del pomeriggio, l'ultima volta che ho mangiato è stata ieri sera. Comincio a sentire il bisogno di mettere qualcosa sotto i denti.

Sinceramente l'idea di pescare un pesce da questo fiume dopo l'effetto non proprio felice che mi ha fatto berne l'acqua...non mi piace più di tanto, per questo persisto nella convinzione che arriverò alla spiaggia quanto prima.

Potrebbe anche essere che io stia addentrandomi nel folto allontanandomi del tutto dal mio obbiettivo, ma continuerei lo stesso a camminare. Fosse solo per mettere più distanza possibile tra me e quell'assassino dalla chioma rossa.

Solo a pensare a quegli occhi verdi e folli...un brivido mi sale lungo la schiena.

Sento di covare la segreta speranza di riuscire a trovare qualcuno degli alberi a cui ho annodato i vestiti, segno che mi sto dirigendo dalla parte giusta, ma per quanto ne so il ragazzo non è solo e potrebbe aver “mangiato le mie briciole di pane” così da non consentirmi di tornare indietro.

Mi lascio fermare? Certo che no.

Imperterrito continuo a camminare nel folto, inseguito da insetti che non mi danno tregua – attirati probabilmente dal mio sangue –, martellato dalla sete e dalla fame, sicuro che stavolta sia la fine.

È verso le sette, quando il sole ormai sta scomparendo e la luce comincia a diventare fredda e sui toni del blu, che incontro il primo, macabro segno di civilizzazione.

È un palo, un palo di legno, sulla cui cima è piantato un cranio umano. Il palo è tenuto fermo da una serie di grossi sassi.

Decisamente questa non è la direzione giusta per la spiaggia, e sto per tornare indietro – magari sarò più fortunato correndo alla cieca nella foresta come ieri notte – quando noto qualcosa che mi fa tremare. Sul cranio, in mezzo al naso, è segnata una gigantesca X. Del tutto simile alla mia ferita.

Deglutisco a vuoto e dico a me stesso che non è il caso di allarmarsi. È solo il caso di tornare indietro. Molto velocemente anche.

E davvero, davvero, vorrei farlo, ma dal punto da cui sono appena arrivato giunge all'improvviso suono di passi, foglie smosse, rumore di persone in avvicinamento.

Le opzioni sono due.

Mi hanno trovato seguendo le mie tracce.

Mi trovo in direzione di un “villaggio” indigeno e loro stanno “tornando a casa”.

Qualsiasi sia la soluzione rimanere qui sarebbe un suicidio, posso solo andare avanti. E avanti vado.

La caviglia fa sempre più male, non riuscirò a sopportare questo ritmo ancora per molto. Cerco di trattenere il fiatone e fare meno rumore possibile mentre dietro di me i suoni aumentano di intensità. Ora riesco a sentire con chiarezza i suoni gutturali e schioccanti di quella strana lingua aborigena.

So che se continuerò a correre così la caviglia mi cederà definitivamente e non riuscirò più a muovermi, avrei bisogno di una stampella o un bastone o...

Bhe, di una grotta in cui infilarmi.

Lungo la parete rocciosa che ho cominciato a costeggiare da un po' si apre una caverna larga abbastanza per potermi infilare all'interno. Non ci penso troppo a nascondermi lì, e spero che gli indigeni non la pensino alla stessa maniera. Certo, se stanno seguendo le mie tracce questo è il luogo peggiore in cui nascondersi, ma è obbiettivo che non posso andare avanti, non posso.

Rimango schiacciato con la schiena contro la parte con una tale foga che sento il punto tra le scapola dove sono stato colpito dolere debolmente.

Le voci e i passi si fanno più vicini. Riesco a vedere nella mente il momento in cui si infileranno qui dentro, bloccandomi ogni via di uscita. Magari mi uccideranno qui, magari mi porteranno dal ragazzo rosso, magari è proprio lui che sta guidando i compagni.

Passano dieci secondi, venti, trenta. Le voci e i passi mi superano senza accorgersi della mia presenza. Sono salvo.

Mi spingo un po' più in fondo alla caverna dove c'è lo spazio sufficiente per sdraiarmi. Tremo per il freddo e la tensione...e la febbre.

Credo di non essermi mai rannicchiato così, su un fianco, in posizione fetale, da quando ero bambino.

Anche se mi battono i denti è straordinariamente semplice addormentarmi.

 

Giorno III, ancora in fuga, nella caverna.

Il peggio è passato, non ho più la febbre, non alta almeno, non come l'ho avuta per tutta la notte. Forse tutto sommato la freccia non era avvelenata e l'acqua era buona.

La caviglia, dopo il riposo, va decisamente meglio. È giusto un po' indolenzita ma riesco a camminare.

Esamino tutte le ferite e tutti i punti doloranti. Inutile dire che il picco massimo di dolore è sul volto, tutto il resto è, ancora una volta, sopportabile.

Sono le nove del mattino secondo il mio orologio, ma la luce che giunge da fuori è grigia. Quando mi affaccio dall'apertura della caverna capisco perché: nuvole spesse e dense coprono il sole e preannunciano pioggia.

Se da una parte un acquazzone è quello che mi serve per far perdere le mie tracce, dall'altra se comincia a diluviare mi perderò ancora di più – ammesso che si possa essere più persi di così –.

Tanto per far tacere quella vocina spaventata dentro di me controllo bene a destra e sinistra – come se dovessi attraversa la strada – prima di abbandonare il mio rifugio sicuro. Se potessi lasciarmi indietro un sentiero da seguire per tornare qui sarei felice, la grotta è un posto idealmente caldo e nascosto di cui potrei ancora avere bisogno.

Ma ovviamente non posso che abbandonare tutto e riprendere a camminare.

Ora che, in via definitiva, non so dove mi trovo il mio prossimo obbiettivo – oltre a sfuggire agli indigeni – è salire più in alto possibile per localizzare la spiaggia. Per cui decido di cercare una strada per salire lungo la parete rocciosa in cui ho trovato la caverna.

Credo che mi sto comportando egregiamente per essere quello che sono, e cioè completamente ignorante in materia di sopravvivenza. Se solo non avessi così tanta fame. Anche se questo manderà con le gambe all'aria la mia lucidità mentale per via dell'assenza di glucosio, posso resistere senza mangiare almeno un mese. Certo, spero vivamente di non dover rimanere un mese senza cibo, ma posso ancora resistere un giorno. Posso ancora resistere finché non arrivo in cima alla sporgenza rocciosa. Posso ancora resistere finché non capirò dov'è la spiaggia.

Preso un profondo respiro, riprendo a camminare, lo sguardo fisso verso l'alto. Non faccio che ripetermi “è lì che devo arrivare”.

Ma è più difficile di quanto penso.

Non ho idea di come si scali una parete e non sembrano esserci vie più agevoli, a meno che io non voglia circumnavigare tutta l'isola, e allora sì che ritroverei il punto da cui sono partito.

Quanto meno non ho più incontrato macabre effigi con teschi umani, il che mi lascia pensare che mi sono allontanato dal “villaggio”, o qualsiasi cosa sia. Questo pensiero rende il mio tentativo di scalata un po' meno impegnativo.

I primi cento metri sono semplici, la pendenza non è eccessiva e sono abbastanza in forze – per il momento – per riuscire a tirarmi su senza problemi, ma poi capisco che non ci sono appigli e il cuore aumenta il battito. Anche di morire così, attaccato al muro come un insetto, non ne ho per niente l'intenzione.

Mentre scendo piano piano stando attento a dove metto i piedi un sibilare piuttosto familiare arriva a due centimetri del mio viso. Per la paura e la sorpresa lascio andare la presa e cado. Fortuna che si trattava solo di pochi metri. Anche se il dolore è comunque insopportabile.

Un urlo vittorioso mi riscuote ed è un ottimo motivo per cercare di alzarmi il più velocemente possibile ma...diamine, la schiena.

Mi basta un colpo d'occhio, mi basta vedere un lampo di capelli rossi, e scatto in piedi come se fossi nato per questo.

Alla luce del sole il ragazzo appare ancora più giovane di quanto avessi pensato. E il suo sguardo è più assassino che mai.

Mi rivolge qualche parola nella sua lingua accompagnata da un ringhio e poi incocca una freccia al suo arco di canna.

Traduco alla buona.

“Perché non vuoi morire?”

E tu perché non vuoi smetterla di darmi la caccia?

Spero di gettarmi nella direzione giusta quando sento la corda dell'arco scagliare la freccia con un curioso suono, simile ad uno sling. Chiudo gli occhi e ruzzolo su un fianco.

Un lungo secondo prima di realizzare che non mi ha preso, che sono riuscito ad evitare la freccia, e poi carico come un toro. Sento che il ragazzo lancia un urletto di sorpresa per poi sbuffare quando gli cado addosso con tutto il mio peso.

Il contraccolpo mi fa ballare la mandibola, i denti scricchiolano. Sotto di me lui geme e si agita, cercando debolmente di liberarsi...o peggio, di raggiungere il coltello alla cintura. Preventivamente lo prendo e lo lancio dove non può raggiungerlo.

Siamo occhi negli occhi. L'adrenalina mi brucia nelle vene. Nella colluttazione la ferita sul viso si è riaperta e gocciola sulle sue guance, sembrano lacrime di sangue.

- Che cosa vuoi da me? - incredibile come suoni calma la mia voce, sicura, tranquilla, come se avessi tutto sotto controllo. Non mi sentivo così da un'eternità. - Che cosa vuoi da me? - ripeto più forte, non gli urlo in faccia ma quasi. Mi guarda con quegli occhi verdi sgranati, senza un briciolo di timore. Un vero guerriero, devo dirlo. - Perché mi date la caccia? Sono sopravvissuto ad un incidente, se ho invaso la vostra terra sacra o qualche altra stupidaggine del genere non l'ho di certo fatto apposta. - il suo sguardo scivola nel punto in cui si trova un coltello. Sta ancora meditando di uccidermi. - Guardami! - con una mano lo costringo a voltare il viso. Di nuovo occhi negli occhi. Quasi non riesco a sopportare quelle iridi infuocate. È un verde ustionante. - Che cosa vuoi da me? - chiedo per la terza volta. E allora lui mi sputa in faccia.

La mia prima reazione sarebbe quella di dargli un ceffone, ma per qualche ragione c'è un meccanismo strano che scatta nella mia testa.

Sono un medico.

Sono un sopravvissuto.

Sono un disperato.

E forse posso usare questo ragazzo per salvarmi la vita.

Percuoterlo e sfogare la mia rabbia su di lui sarebbe controproducente.

Scosto la testa quel tanto che basta per pulirmi il viso sulla spalla, così da non liberare le mani con cui lo tengo inchiodato al terreno.

- Okay, immagino che sia spaventoso anche per te se uno sconosciuto ti urla addosso in questo modo, mh? - provo a far...capire le mie buone intenzioni con una voce più dolce, lenta. Rimane comunque tesissimo sotto di me ma ha uno sguardo più attento. Gli lascio andare il viso. - Non voglio farti del male, non sono armato, vedi? - è una cattiva idea? È decisamente una cattiva idea. Ma comunque mi allontano da lui, lasciandolo andare pian piano. Gli mostro le mani alzate e lui mi divora con lo sguardo. Forse ha capito. - Ora mi alzo e ti lascio andare. Sarebbe carino se non tentassi di uccidermi di nuovo. -

Cattiva idea, Saïx, cattiva idea.

Mi sposto lentamente, davvero, davvero lentamente. E non sono così stupido da lasciargli modo di prendere il coltello, perché quando sono in piedi lo calcio ed è perso nel sottobosco.

Non appena gli do agio di muoversi lui schizza indietro, ma gli leggo sulla faccia un'espressione di dolore, e sono quasi sicuro che il verso che gli esce dalle labbra è un'imprecazione. Faccio in fretta a capire perché. Placcandolo come un giocatore di football e arrivandogli addosso con tutto il mio peso...gli ho lussato una spalla.

Se la regge con l'altra mano e mi guarda emettendo un sibilo come quello di un serpente a cui è stata pestata la coda.

- Oh dannazione. - mormoro e cerco di farmi di nuovo vicino. Lui soffia di più mentre si tira indietro, e posso capirlo. Una spalla lussata così deve fargli vedere le stelle. Ammiro molto che il suo unico segno di sofferenza siano gli occhi lucidi di lacrime. - Ascolta, sono un medico. - gli mostro ancora le mani alzate mentre parlo - Te la rimetto apposto in un attimo. - soffia. Neanch'io crederei all'uomo che mi ha appena lussato la spalla se si offrisse di aggiustarmela. Mi toccherà usare un trucchetto. Ricordo di averlo fatto quando facevo tirocinio al pronto soccorso. Arrivò un bambino con una spalla ridotta peggio della sua che non voleva farsi toccare per una nessuna ragione al mondo. Sorrido. - Guarda là! - strillo e lui sobbalza voltando la testa nella direzione verso cui sto indicando. Allora salto in avanti per afferrargli il braccio e tiro. La spalla fa clock e torna in sede mentre lui lancia un urlo acuto e si accascia all'indietro, stordito dal dolore. Non voglio essergli troppo vicino quando si riprenderà, per questo mi affretto ad allontanarmi.

Impiega qualche secondo prima di tornare lucido, tra un mugugno dolorante e l'altro, ma il primo sguardo che mi rivolge è di odio puro...almeno finché non muove il braccio per prendere l'arco e scopre, probabilmente, che non ha più dolore e che può tornare a fare qualsiasi movimento desideri fare. Allora sgrana gli occhi e spalanca la bocca.

Sì, ho fatto una magia, ragazzino.

Mi parla nella sua lingua strana, e spero proprio che quello sia un ringraziamento perché rispondo con uno spontaneo “non c'è di che”.

I nostri convenevoli vengono interrotti dal rombo di un tuono che mi fa saltare in aria. Subito dopo una goccia di pioggia mi cade sul volto.

Sono troppo impiegato a tenere gli occhi verso l'alto come un bambino a cui assiste alla sua prima pioggia quando mi sento tirare per la mano. Non è una stretta aggressiva, né mi sembrano tali le parole che il ragazzo mi rivolge, semplicemente mi tira, e appare abbastanza agitato mentre indica il cielo.

- Non... -

Provo, ma esattamente come la pioggia si fa più forte, lui si fa più insistente e mi tira con più forza.

Bhe. Non sta cercando più di uccidermi, no?

No?

No?

Però ormai è tardi per pentirmi.

La pioggia rinforza e ben presto non riesco a vedere dove metto i piedi, se il ragazzo non mi tenesse per la mano mi perderei inevitabilmente nel pantano d'acqua e fango che è diventato il terreno.

Mi sembra di correre all'infinito usando come unico punto di riferimento la sua criniera rossa. È incredibile come risalti in questa foresta, accesa come fiamme galleggianti a pelo d'acqua.

Mi tira violentemente da una parte e quasi rischio di cadere ma poi...all'improvviso la pioggia è un lontano scroscio sopra la mia testa.

Mi verrebbe quasi da ridere se avessi la forza di farlo. Siamo nella stessa caverna che ho usato per ripararmi la scorsa notte.

Lui ansima appena e si passa una mano tra i capelli di fiamma. Mi sembra quasi impossibile che si possano essere bagnati. Sembra piuttosto contrariato dalla mancanza del coltello al suo fianco, ma sono quasi certo che andrà a riprenderselo appena potrà. Se è riuscito a trovare la caverna con quella pioggia, ritroverà anche il coltello.

Lascia arco e faretra da una parte e si siede, le gambe incrociate e gli occhi fissi su di me. Lentamente, con una mano, tasta il terreno accanto a lui. Vuole che mi sieda lì vicino.

È la prima forma di comunicazione che riesco a stabilire.

Non me lo lascio ripetere ma ci guardiamo e riguardiamo come se fossimo bestie rare. E d'altronde credo che sia proprio così.

Lui non deve mai aver visto una persona come me...e io non ho mai visto qualcuno come lui.

È chiaro che non possiamo usare le parole per comunicare, ma rimangono i gesti.

Mi indica e poi con la mano simula quello che capisco essere il movimento di un aereo che precipita.

Annuisco con una smorfia.

Lui mi indica ancora e poi si porta un pollice alla gola passandolo da parte a parte in orizzontale, il gesto di qualcuno che sgozza o viene sgozzato. Immagino che voglia chiedermi se sono l'unico a non essere morto o qualcosa di simile...spero.

Annuisco ancora, e vorrei potergli fare capire che ci tengo a rimanere l'unico a non essere morto.

Mi indica ancora e poi si tocca lo stomaco.

Fame?

Non ho mai annuito tanto nella mia vita.

Ha una piccola sacca di pelle legata alla vita. Non mi aspetto che ne estragga un pollo al forno o simili, ma quando mi porge una mela sono più che felice di accettare.

Eppure la mangio lentamente e quando arrivo a metà gliela porgo in segno di...educazione? Rispetto? Ringraziamento?

Lui mi fissa e scuote la testa. Sono contento che non abbia accettato perché ho ancora una gran fame. Divoro anche l'altra metà della mela e sospiro di piacere. Lo stomaco è ancora vuoto ma...sembra che non morirò di fame oggi.

L'acquazzone fuori infuria, tanto che non è più possibile distinguere niente. Tutto è stato lavato via dalla pioggia e mi sembra quasi assurdo che il soffitto di roccia sopra le nostre teste riesca a sopravvivere a quei colpi di cannone. Forse è per questo che il ragazzo sembrava così preoccupato, sapeva che la pioggia sarebbe peggiorata e che non sarebbe stato furbo rimanere in mezzo alla foresta con...

Un fulmine colpisce un albero poco lontano, non lo vedo ma sento lo schiocco e il frastuono che provoca quando si spezza e cade.

Tutto sommato non è stata una così cattiva idea seguirlo.

Stavolta sono io a indicarmi, con una mano poggiata sul petto.

- Saïx. -

Gli dico, e spero vivamente che capisca che è il mio nome.

Mi guarda piegando appena di lato la testa, curioso del suono forse? Lo pronuncio di nuovo e lui sgrana appena gli occhi. Ancora una volta e lo vedo sillabarlo silenziosamente con le labbra.

- Axel. -

Nel dirlo si porta una mano al petto come ho fatto io, ed è la prima parola...che non mi suona strana all'orecchio.

Axel, è un nome che potrei sentire tranquillamente a casa, mi è quasi familiare.

- Axel. -

Ripeto io, e lui storce le labbra. Ho impressione di aver appena pronunciato male il suo nome.

- Saix. -

Bhe, anche lui pronuncia male il mio.

Sento che percorre con lo sguardo la ferita che lui stesso mi ha provocato sul volto. Non vedo senso di colpa in quegli occhi ma più che altro curiosità...e frustrazione. È quasi come se io fossi l'uccellino e lui il gatto. Continuo a volar via anche se lui mi ha preso più volte tra le zampe. Per un predatore deve essere fonte di orribile irritazione.

Quasi in automatico mi tasto con la punta delle dita uno zigomo tremando appena quando trovo sia la ferita che il dolore.

- Grazie per questo. -

Gli dico, sarcastico. Trovo di avere le dita sporche di sangue quando le guardo. Distrattamente le pulisco sui pantaloni.

Axel rimane in silenzio a fissarmi e non posso non chiedermi cosa gli passa nella mente, cosa vede guardandomi, cosa senta.

Per quanto diversi siamo entrambi esseri umani, possibile che non provi neanche un briciolo di empatia e pietà?

Il ragazzo con quella brutta ferita da taglio al fianco che ho ricucito al secondo anno di tirocinio: mi torna in mente all'improvviso. Era arrivato in piena notte reggendosi la ferita e sanguinando sul pavimento del pronto soccorso, l'espressione irritata come se il problema fosse un'unghia incarnita e non una lacerazione di trenta centimetri sul fianco. Quando gli chiesi cos'era successo lui, candidamente, rispose “Mi ha accoltellato e io ho accoltellato lui”. Dopo averlo ricucito arrivò la polizia, gli fecero tante di quelle domande, così anche a me che l'avevo assistito e curato. Una frase mi aveva colpito e mi aveva fatto rabbrividire insieme. Quando gli avevano chiesto se si rendeva conto di quello che aveva fatto, lui rispose che si era solo difeso, quindi dove stava il problema? Quel ragazzo aveva la mia età ed era già un criminale, ma non sapeva di esserlo perché era cresciuto nella convinzione che rubare e uccidere fosse normale.

Batto le palpebre e rimetto a fuoco Axel che mi guarda con la testa piegata da un lato e l'espressione che vuole chiedermi “A cosa stai pensando?”.

Non conosci nessun altro modo di vivere, vero ragazzo?

Sei cresciuto su quest'isola cercando di sopravvivere come hai potuto, cacciando e uccidendo perché la tua cultura e la tua società ti hanno detto di fare così.

Non hai la più pallida idea di ciò che c'è fuori da questo tuo mondo, sai solo che io sono una spaventosa minaccia venuta dall'esterno a bordo di un aereo precipitato. Per questo hai cercato di uccidermi?

E la ferita al volto? È stata solo risultato della nostra colluttazione?

Il teschio su quel palo aveva lo stesso segno.

Non piove più forte come prima, i tuoni si allontanano. Un vero e proprio temporale tropicale.

Ad Axel sembra cominciare a stare stretta quella caverna, e forse trova innaturale la mia compagnia. Il suo sguardo corre più volte da me alle frecce nella faretra. Sarebbe semplice per lui afferrarne una e infilarmela nel collo come un pugnale.

Comincio ad avere la leggera, sottile, pressante sensazione che questo si tratti di un armistizio temporaneo, e che stia giungendo alla fine.

Deglutisco a vuoto e mi chiedo se non sia il caso scappare prima che sia troppo tardi.

Poi lo vedo tendere l'orecchio e drizzare la schiena. Sente rumore che alle mie orecchie non giungono.

Gattonando si avvicina all'ingresso della caverna rimanendo schiacciato contro la parete, lo sguardo verde scruta attentamente fuori.

Solo quando sono abbastanza vicini riesco a sentire i passi e i richiami che si alzano nella foresta. È un “Axel! Axel!” ripetuto quello che rimbomba tra gli alberi. Lo stesso cercando. Forse temono che sia rimasto fuori durante l'acquazzone? Considerando i fulmini che hanno colpito gli alberi abbattendoli, anch'io sarei preoccupato per lui.

Con una mano mi fa cenno di rimanere immobile ed io mi pietrifico. Recupera arco e faretra e mi guarda prima di lasciare la caverna.

Non comprendo la sua lingua ma i suoi occhi sì.

La tregua è finita, la prossima volta che ci incontreremo ti ucciderò.

Poi schizza fuori dalla caverna e risponde al richiamo dei compagni.

Prima di tornare a respirare aspetto che le voci si siano spente del tutto e che si siano allontanati.

Questo è un gran bel problema.

È ovvio che non posso rimanere qui, sarebbe come aspettare di morire comodamente seduto in una trappola innescata. Ma non posso neanche tentare la scalata della parete rocciosa perché sono troppo lento e inesperto, e soprattutto Axel sa che ci stavo provando: dopo la caverna, quello sarà il secondo posto che andrà a controllare, fosse anche solo per andare a cercare il suo coltello.

Devo riordinare le idee ed escogitare un piano d'azione.

Ho bisogno di un'arma con cui difendermi, fosse anche un bastone con un'estremità appuntita, e cibo e acqua per poter affrontare il viaggio di ritorno alla spiaggia. Devo sperare che i soccorsi arriveranno presto perché non c'è luogo più esposto della spiaggia se Axel vuole davvero uccidermi. Fin adesso sono stato fortunato, non sono così stupido da credere che avrò sempre la meglio. La X sul volto ne è un chiaro esempio.

Dove posso trovare armi, acqua e cibo nelle vicinanze?

Non mi piace, ma ho poche altre opzioni, ed è un'idea abbastanza da folle da poter funzionare.

Devo trovare il villaggio di Axel.

 

18:45. Le nuvole hanno sgomberato il cielo e la luce della sera si fa sempre più tenue.

Non so se le effigi disseminate nella foresta siano il corrispettivo civile di “beware the dog”, ma di certo sono quanto di più simile a indicazioni stradali abbia visto fin ora.

Ogni effige dista all'incirca cento dei miei passi l'una dall'altra, ma la distanza si accorge man mano che mi avvicino al villaggio, comincia ad esserci anche una parvenza di sentiero battuto nel folto. Ovviamente me ne tengo alla larga, scegliendo di nascondermi tra gli alberi e le felci ai lati della “strada”.

So di aver detto di non dover puntare sulla fortuna ma la prossima frase comincia necessariamente con “se sono fortunato”: se sono fortunato la maggior parte degli indigeni, Axel compreso, sarà impegnato a cercarmi nella foresta contando sul favore delle tenebre, mentre io sarò al loro villaggio a derubarli di tutto ciò che riesco a trovare. Ho preso in considerazione la possibilità che ci siano donne e bambini e non mi piace l'idea di dover stordire o colpire le une o gli altri, ma sono disposto a farlo se dovessero cominciare a gridare.

Armi, acqua, cibo. Niente altro, nessun ferito, nessuna vittima. Prendo il necessario e faccio in modo che mi vedano scappare dall'ingresso principale, poi, una volta nel folto, cambierò direzione e prenderò a correre a zig zag – o qualcosa del genere – e tornerò indietro verso il villaggio. Dovrebbe confondere le mie tracce, nella migliore delle ipotesi, nella peggiore mi porterà direttamente sull'altare sacrificale del loro Dio. Ma crederanno che io non sia così stupido da tornare al villaggio per nascondermi – neanch'io credo di essere tanto stupido – e che correrò alla cieca nella foresta per tutta la notte. Nella foresta dove loro sanno muoversi ed io no. Così, impegnati a cercarmi, non sapranno che passerò tutto il tempo accucciato nei pressi delle loro abitazioni, e quando torneranno al villaggio all'alba, stremati per la ricerca, io riposato e scattante potrò darmi alla fuga.

Funziona. O meglio, nella mia testa funziona.

Mi sembra tutto così folle e la tensione mi fa scricchiolare le ossa. Ma non sono a diecimila metri di altezza su un aereo in avaria. Sono con i piedi per terra, e sono ancora vivo. Questo mi rende stranamente spavaldo.

Le effigi diventano sempre più vicine, ormai sono a dieci passi di distanza. E sono sempre più fresche. I teschi infilzati sui bastoni sono ancora in stato di decomposizione, alcuni hanno gli occhi nelle orbite che si liquefanno lentamente, altri hanno i capelli a coprire parte del viso.

A farmi rallentare dovrebbe essere il fatto che la maggior parte dei teschi – se non tutti – hanno un segno a X sul viso, evidente ed enorme, tracciato con un rosso intenso che sono quasi sicuro sia sangue. Ma invece di farmi rallentare mi fa solo correre di più. Prima avrò preso quello che mi serve, prima potrò andarmene.

L'ultima effige è la più macabra e la più grande, costituisce tutto l'ingresso del villaggio. È un enorme arco puntuto su cui sono state conficcate teste che sembrano ancora poter pensare, parlare, vivere.

E sono tutti passeggeri del mio volo.

Riconosco la signora che era seduta nel sedile accanto al mio, lo stuart dall'acconciatura laccata di gel, l'uomo con i baffi che ha fatto il check-in più lungo della storia bloccando la fila. Sono tutti lì. E tutti hanno un X sul volto.

Sento lo stomaco contrarsi con l'intenzione di farmi vomitare ma inghiotto, inghiotto qualsiasi cosa mi risalga su per l'esofago, e non solo perché è importante che la mela che ho mangiato rimanga dov'è, ma anche per non lasciare tracce.

Non riesco a smettere di chiedermi se erano sopravvissuti e li hanno uccisi o se hanno semplicemente spiccato via le teste dai cadaveri.

Vagamente rifletto sul fatto che anch'io ho una X sul viso e che mi stanno dando la caccia.

Sento all'improvviso la bocca asciutta mentre nella mente rivedo Axel che si passa il pollice sulla gola dopo avermi indicato e capisco il reale significato dietro quel gesto: ti ucciderò.

Respiro piano, con calma, cercando di non farmi prendere dal panico. L'ultima cosa di cui ho bisogno è avere un crisi isterica adesso.

Ho un piano da seguire, e tutto d'un tratto non mi sento più tanto reticente all'idea di colpire una donna per salvarmi la vita.

Come da pronostico il villaggio è quasi del tutto deserto, le capanne – costruite a cupola con foglie di palma – sono disposte a poca distanza le une dalle altre disposte in due file parallele. In fondo a quello che sembra un enorme viale si trova una capanna ben più grande, almeno il doppio di quelle normali. La dimora del capo villaggio?

Non mi importa di scoprire gli usi e i costumi di quella gente, soprattutto visto che comprendono sfregi, caccia e omicidio.

Supero l'arco con il cuore in gola e subito mi nascondo dietro una capanna.

Okay. Sono dentro. Da qui in poi può andare totalmente male o totalmente bene, nessuna via di mezzo.

Cerco di rimanere il più lontano possibile dal “viale” che porta alla grande capanna anche se non ho ancora visto anima viva, potrebbe essere un villaggio disabitato per quanto ne so.

La via è libera e mi infilo nella prima capanna. Sono pronto a colpire qualunque cosa trovi all'interno, ma è vuota. Un ambiente circolare con un'unica apertura – la porta di ingresso – coperta da una serie di foglie di palma intrecciate tra loro come una sorta di tenda. L'interno è caldo, soffocante, ma credo che sia solo perché ho il cuore il gola e non riesco a respirare. Il giaciglio di paglia in un lato è vuoto, addossate alla parete di fronte ci sono svariati oggetti inutili che collego immediatamente all'aereo. Sembra che gli indigeni abbiano una passione per i souvenir.

Frugo in mezzo a quella paccottiglia di oggetti ma non trovo cibo o niente che possa essermi utile. Il mio primo buco nell'acqua. Velocemente lascio la capanna e passo alla successiva rimanendo sempre in quello stato di “lotta o fuga” che ormai mi è fin troppo familiare.

Qui c'è un bambino che dorme. Mi da le spalle e sembra immerso in un sonno profondo. Spero che sia così. Anche in questa capanna sono stati accumulati vari oggetti di dubbia utilità, e alcuni sono mangiucchiati dalla salsedine fino ad essere irriconoscibili. Probabilmente devono essere stati raccolti sulla spiaggia. Sono più fortunato di prima, trovo una sacca piena di frutta. Non controllo di che genere di frutta si tratta, semplicemente prendo la sacca, la metto a tracolla e corro fuori, un istante prima che il bambino si volti sull'altro fianco.

L'adrenalina mi sta dando alla testa, mi sento esplodere il cuore in petto, anzi, sento il cuore dappertutto. Professionalmente parlando so che è impossibile, ma la sensazione è difficile da spiegare. È una sorta di euforia che non ho mai provato e che comincia ad essere pericolosa. Se non mi calmo sarò meno attento, troppo spavaldo. Devo ricordarmi che non sono invincibile.

Mi nascondo dietro la terza capanna della fila e mi accuccio con le ginocchia strette al petto per un attimo prendendo grossi respiri, dopo di che infilo un dito nella ferita sul viso. Il dolore mi acceca subito e trattengo a stento un gemito di dolore, ma serve a ritrovare lucidità e a riportarmi con i piedi per terra.

Asciugo il sangue e riprendo la ricerca.

Sto per infilarmi in un'altra capanna quando sento passi in avvicinamento.

Riesco a tirarmi indietro appena in tempo.

Mi consola l'idea di sentire voci femminili che conversano amabilmente. Vuol dire che al villaggio sono rimasti solo donne e bambini, come avevo immaginato.

Tieni i piedi per terra Saïx.

Le voci passano e si allontanano e ne approfitto per entrare nella capanna.

Speravo di trovare l'ennesima capanna vuota ma...c'è una donna. Sarà sulla trentina.

Appena mi vede sgrana gli occhi e prende fiato per urlare.

Il mio corpo agisce per puro istinto di sopravvivenza. Scatto in avanti, un braccio glielo passo intorno al collo, mentre le premo una mano sulle labbra. Prova a dimenarsi ma stringo la presa.

L'anatomia mi ha insegnato che se premo la trachea bloccando l'afflusso d'aria per qualche istante le farò perdere i sensi ma non le causerò danni permanenti.

È uno strano modo di passare dalla teoria alla pratica.

Lentamente smette di agitarsi, sento il suo corpo farsi più pesante tra le braccia e poi...sviene.

Non sono senza cuore, le adagio sul suo giaciglio prima di mettermi a frugare in giro.

Escludo arco e frecce – non ho la più pallida idea di come si usi un arco – ma sono abbastanza felice di trovare un coltello. Ora che possa esaminarlo deduco che è stato ricavato da un osso. Ingegnoso, ma non posso fare a meno di chiedermi se si tratti di un osso umano o meno. Lo infilo nella cintura e prendo anche qualche mela da una cesta.

Ancora niente acqua, quindi presumo che il villaggio sorga accanto a una qualche fonte d'acqua o ad un fiume, ma me ne accerterò più tardi.

Il mio tempo qui è scaduto. Ho al massimo dieci minuti prima che la donna rinvenga e dia l'allarme. Ho comunque trovato tutto quello che cercavo, tanto cale accorciare la sofferenza.

Corro fuori dalla tenda urlando un “ehi!” non molto entusiasta ma che raggiunge lo scopo di attirare l'attenzione.

Le donne gridano qualcosa ed è subito caos.

Seconda parte del piano, vedi di funzionare.

Più velocemente che posso corro verso l'ingresso del villaggio, a perdi fiato. Nessuno mi insegue. Strano.

Quando alle mie spalle il villaggio scompare, scarto di lato e corro in diagonale per almeno cinquecento metri, spezzando più rami e calpestando più piante possibile.

Torno sui miei passi quando penso di essermi inoltrato abbastanza nella foresta, e raggiungo il punto in cui ho lasciato la strada principale. Da lì corro in diagonale, ma nella direzione opposta. Cerco di lasciare indizi della mia presenza e del mio passaggio ovunque.

19:40. Ho pochi minuti di luce, tenue, per ritrovare la strada che porta al villaggio, prima di rimanere bloccato nella foresta come un topo in trappola. E sarà una trappola in cui mi sono infilato da solo.

Seguo, col naso quasi schiacciato sul terreno, le mie stesse tracce e ritrovo la via del villaggio.

Mentre mi ci dirigo, stando attento a tenermi fuori dal sentiero principale, grida e passi concitati mi vengono incontro, o meglio accanto.

Ha funzionato.

I guerrieri sono accorsi al villaggio per le urla delle donne, e ora stanno preparando la battuta di caccia nella foresta che durerà tutta la notte.

Ancora incredulo percorro gli ultimi metri. Mi sento sorridere.

Non posso credere che un piano così male abbozzato abbia davvero funzionato.

Il buio è sceso ormai sulla foresta, il villaggio è pallidamente illuminato da torce accese qua e là.

Mi fermo nei pressi dell'arco di ingresso e mi nascondo nel folto dove immagino non potrò essere individuato finché è notte.

Certo sarà una nottataccia, e sarò costretto a tenermi sveglio in tutti i modi che conosco, ma non dovrebbe durare molto, potrei avere luce sufficiente già intorno alle cinque, e quando sarò abbastanza lontano potrò concedermi qualche ora di sonno.

E poi si tratta di una notte sola, no?

Ho fatto di peggio, dico me stesso, sono stato anche dieci ore in piedi in sala operatoria, quanto per assistere quanto per operare. Questo non può essere peggio.

Cerco una posizione comoda contro il tronco di un albero. Defluita l'adrenalina comincio a sentire tutti i sintomi della stanchezza. L'acido lattico nei muscoli scorre più denso del sangue.

Ora che i guerrieri sono lontani il villaggio sembra essere quietato. Qualche borbottio mi giunge soffuso come se le donne si stiano confidando a vicenda riguardo l'accaduto. Le donne sono uguali in tutto il mondo.

In alto nel cielo sono sicuro che la Luna stia ricominciando a crescere, ma per il momento le stelle rimangono in attesa. Così come me.

I fuochi delle torce illuminano abbastanza da non farmi sentire disperso nel nulla...e solo. È una tribù di indigeni assassini che stanno cercando di uccidermi, eppure mi fanno sentire meno solo. Su quest'isola esistono altri esseri umani – seppur non civilizzati – eppure...eppure...

È una sensazione strana e nuova per me il desiderio di contatto umano, non ne ho mai sentito il bisogno prima d'ora. Deve dipende dai vari – e svariati – traumi che ho subito in questi ultimi giorni. Uno psicologo si occuperà di me non appena tornerò a casa, scommetto che lo pagherà l'ospedale stesso, e che mi daranno le ferie pagate. Di certo non andrò a farmi una vacanza su un'isola. Per me niente più isole, finché respiro.

Mi crogiolo nel pensiero, faccio in modo che entri in me con ogni boccata d'ossigeno, dentro e fuori in un circolo eterno.

Penso alla mia routine, alla mia noiosa routine, penso alle mie conoscenze, alla mia famiglia, all'amico scodinzolante che mi accoglie quando torno a casa, al mio lavoro.

Non è la più bella vita che si possa fare, ma è la mia vita, e la rivoglio indietro.

Anche se tengo gli occhi aperti non vedo comunque nulla in quest'oscurità, così mi permetto di socchiudere le palpebre solo per un momento.

Un momento di troppo.

Mi arriva addosso senza che possa fare nulla per difendermi e mi preme una mano sulla bocca per impedirmi di urlare – anche se non lo farei comunque, a chi esattamente dovrei chiedere aiuto? –, subito dopo sento un sibilo che tradurrei con un shhhh: un invito a tacere.

Nel buio non distinguo di chi si tratta ma è abbastanza semplice giungere alla conclusione quando mi poggia il coltello al fianco. Il coltello appena rubato dalla capanna.

Immagino che voglia che mi alzi visto che mi artiglia un braccio con la mano libera e strattona.

Mi alzo lentamente. Vorrei avere la mente lucida abbastanza da sapere cosa fare. Sento il suo respiro sul collo.

Potrei dargli una gomitata. Potrei gettare la testa all'indietro e colpirlo sul naso. Potrei calciare all'indietro. Potrei, ma il coltello si preme di più contro il mio fianco – neanche avesse sentito il mio pensiero – finché la lama non penetra la carne. Il dolore mi fa trattenere il fiato e stringere le labbra. Ho come l'impressione che stia scuotendo la testa, considerando il fruscio dei capelli.

Non un movimento o quel coltello mi arriva direttamente nel fegato, per intero.

Acconsento a camminare.

Considerando l'avvicinarsi delle torce stiamo entrando al villaggio da un'altra entrata. Il respiro si fa affannato, sento crescere il panico. Non può finire così. Il coltello si insinua di più nella carne e gemo senza volerlo. Mi ucciderà.

Gli occhi si abituano in fretta alla nuova calda luce arancione.

La capanna grande, quella del capo villaggio.

Mi costringe ad entrare dal retro e una volta all'interno mi spinge in avanti.

Potrei aggredirlo adesso, mi volto già intenzionato a farlo, ma sono altre due braccia che mi bloccano. Una seconda e una terza persona mi inchiodano al pavimento, qualcuno mi schiaccia la testa con una mano.

Alzo lo sguardo quel tanto che basta per riconoscere Axel. Tiene in mano il coltello, la lama è sporca di sangue.

Mi trema il cuore quando l'avvicina alla bocca e lo lecca via. Senza mai staccarmi gli occhi di dosso.

Schiocca la lingua e i due uomini che mi tengono fermo mi legano le mani dietro la schiena contro il palo al centro della capanna. Un altro schiocco e li manda fuori.

Quindi è lui il capo villaggio.

Quasi immediatamente arrivo alla soluzione. Tutte le sue vittime hanno la X sul volto. È stato lui ad ucciderle. Ed io gli sono scappato.

Lui mi guarda come si guarda un trofeo ma...c'è qualcosa di strano nei suoi occhi.

Mi si avvicina e sono quasi tentato di colpirlo con un calcio ma costringo i muscoli a rimanere immobili. Mi sento teso come una corda di violino.

Mi passa una mano sul volto, lentamente, spostando una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Sta guardando la ferita che mi ha provocato.

Aggrotta le sopracciglia rosse, le labbra sono tese all'ingiù, un brivido mi percorre la schiena.

Non parla ma gesticola. Di fronte al palo a cui sono legato c'è uno scranno, basso, costruito alla buona con materiali raccolti qua e là. Dovrebbe apparire regale. Ci si siede sopra e si porta una mano al petto.

Sì, è il capo villaggio.

Mi indica e ripete quel gesto di tagliare la gola con un pollice.

Mi ucciderà.

Scuote la testa lentamente e torna ad appoggiarsi una mano sul petto.

Ma non vuole farlo.

Sento qualcosa di simile alla speranza che si accende sul fondo dello stomaco.

- Lasciami andare. -

Gli dico. Non sapevo di avere la voce tanto rauca. È difficile parlare. Sarà per il cuore che mi occlude la gola?

I suoi occhi verdi brillano, è come se volesse capire. Vuole davvero capire.

Scuote di nuovo la testa e ripete i gesti che ha fatto come se fossi io quello a non capire.

Mi agito contro il palo per rendere più comprensibili le mie parole.

- Lasciami andare. -

Sembra capire, a giudicare dalla sua espressione...sofferente.

Scuote di nuovo la testa e si traccia un'immaginaria X sul volto per poi indicarmi e indicarsi.

Sei la mia preda.

Sento i muscoli tendersi nel tentativo di liberarmi dai nodi.

- Lasciami andare. -

Stavolta è un ringhio quello che mi esce dalle labbra. Stavolta è chiara la sofferenza sul suo volto.

Ripete il gesto di “appartenenza” e poi si poggia la mano sul petto, il palmo aperto, più e più volte, per poi ripetere il gesto del coltello sulla gola.

Non lo capisco, smetto di guardarlo. Stavolta è lui che, nella sua lingua, mi urla “guardami”, o almeno, ne ha tutto il tono. Tengo il viso di lato.

Non lo guardo neanche quando si alza e mi si avvicina di nuovo. Si abbassa per prendermi il viso con una mano, delicatamente, e mi poggia un bacio sulla fronte.

Mi sento fremere in ogni parte del corpo mentre il cuore esplode in petto.

Non posso voltarmi per guardarlo uscire dalla capanna, ma vorrei farlo. Eccome se vorrei.

 

Giorno IV, villaggio dei nativi, patibolo.

Fingo che sia stata la scomoda posizione in cui sono stato costretto tutta la notte ad avermi fatto passare la notte in bianco e non la consapevolezza che sto per morire.

Non ho passato un attimo, un secondo, un istante senza pensare ad Axel, ai suoi gesti, alla sua espressione.

E ho capito.

Forse è solo la mia mente che vuole darmi un ultimo gesto di conforto in modo che io possa accettare tutto questo.

Axel non vuole uccidermi, ma deve. È il capo villaggio, è una posizione di comando pur essendo così giovane.

Così giovane.

E così spietato.

Deve esserlo.

Altrimenti sarà lui ad essere ucciso.

Uccidi o sarai ucciso.

Ed io sono stato marchiato. La X segna il punto.

Quando mi vengono a prendere non riesco a non ribellarmi, ma lo faccio sentendomi appena appena padrone del mio corpo. Non ci sono già più.

Sarei dovuto morire nell'incidente, o forse sono morto e non me ne sono capacitato. Chissà.

C'è una strana euforia nell'aria frizzante dell'alba. Il sole non è ancora sorto ma sento ogni raggio vagare incerto sulla mia pelle. La luce è ombra di se stessa finché non si palesa.

Mi spingono al centro del villaggio, donne, uomini e bambini sono tutti intorno. Benché siano in silenzio, un religioso, ossequioso silenzio, sento come sento il sole nascente su di me il loro desiderio di sangue, no, non di sangue, di giustizia nei confronti della Legge del più Forte.

Riesco a sollevarmi sulle ginocchia ma ho ancora le braccia legate dietro la schiena.

E lui è lì. Axel. Con quella luce chiara e rosata sembra una divinità di fuoco. Nessun abito cerimoniale per lui, nessuna strana pittura sul corpo. Solo lui e il suo coltello, com'è giusto che sia in fondo. Un capo non ha bisogno di essere adornato di orpelli per essere tale, deve dimostrare di esserlo.

Questa volta davanti alla Morte non sarò ridicolo. Non sarò patetico.

Tengo la testa alta, offro il collo.

E il coltello affonda nella carne con squisita eleganza, addestrato dalla mano che lo impugna.

Mi sbagliavo, in fondo sono quel tipo di persona che anche nelle situazioni più critiche riesce a mantenere il sangue freddo e che pensa con lucidità per trovare una soluzione.

La vita mi scappa via mentre il nuovo giorno nasce.

Che strano, alla luce del sole mi sembra che Axel stia pian...

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The Corner 

Squillino le trombe!
Per questa one shot ho avuto l'aiuto del mio amoruccio 
che odia la parola "akusai" in ogni sua sfumatura 
quindi grazie per avermi aiutata con la trama anche se non ne avevi voglia 
o se non ti piaceva l'argomento che stavo trattando, 
lo so che mi ami solo per questo. 
Bestie, sono troppo soddisfatta di questa storia, 
quindi c'è qualcosa che non va 
come sempre aspetto il tuo minuzioso parere da #FanNumero1 
Grazie per tutto

Chii

   
 
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