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Autore: feffyna22    19/04/2016    6 recensioni
Seguito di Dandelion In The Spring - Dal capitolo 15b [Everlark]
Katniss è l'unica vincitrice dei 74esimi Hunger Games. Adesso è un mentore e Snow proverà a sfruttare la popolarità della ragazza. Ma Katniss ormai non è più la stessa, si è smarrita nell'arena e adesso combatte per ritrovarsi. Come si evolveranno le cose tra lei e Peeta? E la rivolta nel distretto 12?
"Not all those who wander are lost", cit. J.R.R. Tolkien
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Black Pearl'
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CAPITOLO 3b  -   Sempre






Sono passati due mesi.
Mi sveglio, faccio colazione, arriva la grossa, grassa infermiera che mi perseguita da quando mi sono risvegliata. Continua con questa storia che prima o poi dovrò pur recuperare un qualche ricordo. Siamo praticamente inseparabili, la detesto.
Puzza di sudore, i suoi passi sono pesanti e percepisco la sua immensa massa di lardo muoversi in giro per casa.
“Mi complichi il lavoro!”, mi ha detto dopo che ho perso la vista. Dice che secondo lei non è colpa dell’arena, ma è tutta opera mia, del mio cervello malato. E’ tutta una cosa psicologica, insomma.
Devo ammettere che, nonostante sia davvero un’idiota, ogni giorno se ne inventa una per farmi ricordare qualcosa. E’ di sicuro molto più difficile adesso, dato che non posso più concentrarmi sulle foto.
Ma devo confessare che, se davvero è questo ciò che la mia mente desidera, meglio di così non poteva andare: finchè non divento abbastanza brava a muovermi col bastone, resto confinata a casa. E poi, se incontro qualcuno o se ricevo visite, non devo più fingere di riconoscere quei volti tutti uguali.
Comunque, dopo pranzo la trippona se ne va al diavolo ed io mi godo un poco di aria fresca. Mi sposto sulla veranda con la sedia a rotelle, resto lì per qualche ora. Verso sera, un’ora prima che scatti il coprifuoco, il ragazzo del pane viene a trovarmi. Mi bacia sulla fronte, posa in cucina il cestino con le pagnotte e trascina una sedia vicino alla mia. Di solito, parla solo lui. Mi rende serena, non si aspetta nulla e non ha mai provato a stuzzicare la mia memoria, anche se so che muore dalla voglia di farlo.
Mi ascolta, anche se non parlo. Ed io mi perdo nei suoi racconti, nella gente che incontra e che adesso mi sembra davvero di conoscere.
A volte, penso di essere molto fortunata, penso che a poche persone è concesso di vivere due volte l’infanzia. In fondo, quello che vivo adesso non è la stessa cosa?
Ed è molto strano quello che provo quando so che lui sta per arrivare, quando sento i suoi piedi camminare nella mia direzione, quando se ne va e temo che non rinnovi la silenziosa promessa di tornare da me il giorno dopo.
Non mi sento meno vuota di prima, nonostante tutto. Ad un certo punto, meglio così. La cosa che mi punge è la mia totale mancanza di empatia.
Cioè, mi spiego: non provo amore ma vorrei riconoscerlo.
Forse non potrò più provare rabbia o tristezza o gelosia, ma desidero con tutta me stessa sapere che effetto fa sentirsele addosso.
Invece io non me le ricordo proprio, io non so che cosa si prova ad amare, ad odiare, ad essere gelosa, ad essere felice, non so che cosa dovrei sentire per dire “Ho paura!”.
Quel ragazzo me le descrive come meglio può, ogni volta che chiedo nuove spiegazioni, stremata. Lui si sforza di trovare nuove parole ed io ne sono affascinata, ma non è che riesco a sentirle.
Così, non riconosco le battute, non capisco quando sono offensiva o quando dico qualcosa di inopportuno. Mi insegnano gli argomenti di cui è meglio non parlare in pubblico, il tipo di linguaggio da adottare in ambienti formali. Insomma, la vacca si dà un gran daffare e anche l’altro non scherza.
A volte, come poco fa, il panettiere fa il simpaticone e mi mette a dura prova: “Dì il mio nome!”
“Dai su!”
“Dillo! Oppure domani ti scordi le focaccine al formaggio!”
“Non potresti!”
“Sfidami!”
“E’ uno scherzo, giusto?”
“Ah! Ci risiamo! Si arriva sempre a questo punto!”
“Quale punto?”
“Che se ti dico che non scherzo, ci credi e mi tocca comunque dirti che scherzo!”
“Quindi domani avrò le mie focaccine?”
“Sissignora! Ma ora dì il mio nome!”
“Sai, vero, che non provo alcun tipo di dispiacere?”
“Bè, ma sai che se non lo dici ci rimango male!”
“Ma io non so che effetto fa!”
“E’ come quando ti sei bruciata l’indice due giorni fa!”
“Fa male!”
“Sì…”
E restiamo in silenzio, perché a quanto pare abbiamo trovato un modo per capirci. Il ragazzo del pane ha trovato un modo per farmi sentire quello che prova.
Forse perdo una lacrima, penso per l’adrenalina che sale all’idea di sapere che effetto fa la sofferenza. Fa male.
Me lo chiede di nuovo, ora un po’ forse per testarmi. Me lo chiede: “Dì il mio nome!”.
 
Peeta
 
Ho passato gli ultimi due mesi ad evitare quel nome. Perché, immagino, ripeterlo vorrebbe dire che c’è un qualche legame tra di noi, che però io non sento. Perché significherebbe che, in mezzo ad una folla, io potrei riconoscere i suoi occhi, il suo sorriso, almeno la sua voce. Ma non mi sembrava una cosa possibile.
Ora è molto diverso, mi ha insegnato la mia prima emozione. E’ quasi più intimo della prima parola pronunciata da un bambino.
E penso che anche lui pensi la stessa cosa, perché mi sfiora la mano e non parla più.
Restiamo qualche altro minuto in silenzio e poi ricomincio a fare mille domande, sul mondo, sul distretto, sulle persone.
“Dov’è mio padre?”
“Tuo padre è morto nell’esplosione delle miniere, quella di cui ti ho parlato molte volte.”
“No, no!”
“Calmati, Katniss!”
“No, ti assicuro che non è morto, te lo assicuro! Lo ha detto anche il dottore, che non è morto! E’ qui! Dovrebbe essere qui ma non è mai venuto a trovarmi! Dov’è?”
“Calmati, calmati! Cosa ricordi di lui?”  -Un bel niente-
“Ricordo che mi hanno fatto vedere una foto prima di tornare qui, che ho detto che era mio padre.”
“Non ricordi l’uomo nella foto? Ricordi qualcosa del suo viso? Potrei aiutarti a riconoscerlo!”
“No, so solo che è mio padre, ma per il resto mi sembra uguale a tutti gli altri.”
“Non hai nessun ricordo?”
“Ricordo la mia mano nella sua, fuori da scuola. Non c’era nessuno, solo io e lui e un’altra persona che non ricordo proprio e il terriccio per terra e sulle mie scarpe nere. Mi ha portato in un posto importante, ma non so che posto era. Lui era molto alto, quindi sarò stata una bambina. Comunque, per quel che ne so, potrebbe essere stato anche soltanto un sogno.”
Ci pensa un poco su, entra in casa e sento che cerca qualcosa, spostandosi da una camera all’altra.
Esce poco dopo e mi dice che ha preso il quaderno dei miei progressi, la balena ci stava scrivendo qualcosa su un giorno che era venuto a trovarmi prima che lei se ne andasse. Lei lo aveva messo da qualche in parte in soggiorno e poi se ne era andata.
Mi chiede il permesso di leggerlo, poi cerca qualche indizio. Immagino le sue mani sfogliare il libro e dei brividi corrono lungo la mia schiena. Scaccio quella strana sensazione, non so bene cosa sia e non mi sembra il caso di aggiungere altra carne sul fuoco. Ma forse il mio viso mi tradisce, sento Peeta ridacchiare e decido di ignorarlo del tutto.
Ad un certo punto, sento che si raddrizza sulla sedia: “Ecco! Cazzo, è Haymitch!”
“Sì, lui! Dov’è? Non è mio padre?”
“No, bè, io non lo so…penso di no. Comunque, vive due case più in là!”
“Anche ora sta lì?”
“Sì!”
“Non è mai venuto a trovarmi?”
“No.”
“Immagino che dovrei sentirmi come quando mi sono bruciata il dito.”
“Mi dispiace.”
“Non mi vuole bene?”
“Non lo so, penso di sì! Cioè, da quello che ho visto negli anni e durante gli Hunger Games, penso che te ne voglia molto!”
“Lo rivedrò?”
“Potresti andare da lui!”
“Ma non me lo ricordo!”
“Pensaci su, forse ti aiuterebbe!”
Annuisco, poi se ne va, come ogni sera. Dopo dieci minuti sento la sirena del coprifuoco, torno in casa e, barcollando da una parte all’altra, prendo al volo due focaccine, mi porto al piano di sopra e me le gusto sentendo della musica che Effie mi ha consigliato. E’ musica classica, penso di aver sottovalutato quella donna.
 
 
 
Non l’ho detto a nessuno, ma qualche ricordo ce l’ho. Cioè, è come se fosse un sogno: è tutto in bianco e in nero e, se non mi concentro abbastanza, il ricordo sfuma velocemente e non riesco a riacchiapparlo più.
Ricordo un ballo e un nastro blu. Delle mani piccine e dei capelli biondi. Se mi sforzo moltissimo, penso di poter quasi assaporare il profumo di legno e lavanda di una cassapanca. Ci sono occhi color ghiaccio e mani sporche di carbone, nei miei ricordi. E lucciole.
Mi corteggiano nel dormiveglia, poco prima di alzarmi. Ma siccome stamattina ha piovuto moltissimo, mi sono svegliata di soprassalto e me li son persi tutti.
Sono molto incazzata con il mondo per questo risveglio, perciò mi alzo e metto la tuta. Esco con il bastone del cazzo, la pioggia cade fitta e giuro su tutto quello che sono e che ero, su tutto quello che ho amato e che c’è in qualche spazio recondito della mia mente, io vi giuro, giuro a tutti e a tutto il mondo che non vorrei altro se non rivedere il cielo grigio e le luci dei lampioni accese.
Lo voglio! Voglio il cielo grigio! Voglio ritrovare quel colore, voglio non dimenticarmi dei loro occhi! Gale! Oddio, Gale è morto! E’ morto! E’ morto! Non rivedrò più Gale!
-Chi cazzo è Gale?-
Sento queste fitte, dentro.
Corro veloce, sento le guardie dell’ingresso del villaggio che mi salutano. Le supero e mi dirigo verso i miei boschi.
Ogni tanto qualcuno mi riconosce, li evito. Sto ben attenta a non sollevare lo sguardo: per quel che ne so, in pochi sanno del mio stato fisico. Inciampo nella melma, cado ogni cinque passi, ma mi rialzo e mi trascino dietro quel coso inutile. Non capisco come riescano a pensare che davvero un bastone possa sostituire i miei occhi.
Sono stufa, di tutto questo.
Ignoro le urla che sento dietro di me, non voglio ricordare, non voglio più ricordare nulla.
Sono una matta, sono fuori di testa, non sono più nulla.
Arrivo ad un ponticello, è quello che mi separa dalla solita entrata, ma è troppo stretto. Decido di gattonare prudentemente per raggiungere il lato opposto.
Sto quasi per raggiungere la recinzione quando sento più chiaramente le sue urla: “Katniss! Katniss, no! Katniss, c’è l’elettricità!”
Così mi fermo, indecisa se proseguire o meno.
“Ti prego, Katniss!”
Mi dirigo verso il ponticello e provo maldestramente a ritornare da dove sono arrivata.
“Prendi la mia mano!”, mi dice.
Ed io lo faccio.
E nel momento in cui lo faccio, percepisco più chiaramente le gocce della pioggia sul mio viso, sul mio naso, sui miei occhi. Le sento, trasparenti e limpide, mi ovattano il mondo intero. Chiudo gli occhi, lascio che scivolino via. Quando li riapro, la luce mi colpisce in pieno viso, ma non urlo.
“Katniss?”, sento, ma nessuno dei due si muove.
Accarezzo il mio viso con una mano, mentre con l’altra stringo le dita forti che ieri sera sfogliavano le pagine di un quaderno. Le riconosco.
Apro gli occhi, gli apro più che posso, il nulla sbiadisce e il verde degli alberi è il primo colore che mi riscalda il cuore.
Il secondo è il celeste dei suoi occhi.
Lui, ancora dubbioso e preoccupato, mi guarda. Quando si accorge che, per la prima volta, riceve un mio sguardo in risposta, mi trascina verso il suo petto e mi abbraccia.
Non mi lascia andare, neanche quando dopo un poco sento le mie gambe intorpidirsi. E alla fine non oppongo resistenza.
Ne approfitto per alzare gli occhi verso il cielo, le nuvole sono belle, proprio come immaginavo. E mi ricordano quel colore intenso, che non saprei dire da quale anfratto della mia mente sono andata a pescarlo.
E’ un incanto.
Peeta raccoglie il mio viso tra le sue mani e mi bacia ed io lo attiro a me e provo a comunicargli quanta più gratitudine posso. Passa le dita tra i miei capelli e, quando si stacca, lo fa per osservarmi bene, per riprendersi quello che cercava da tanto e che io gli avevo portato via. E’ serio e languido, anche questo penso di riconoscere.
Mi fa alzare, la sua bocca si spande in un sorriso caldo ed io, ipnotizzata, mi sento davvero come se fossi solo una bambina. Lascio che mi guidi verso casa.
Tolgo i vestiti bagnati e ne indosso alcuni asciutti, presi a caso da un cassetto. Torno nel soggiorno, dove lui mi aspetta davanti al camino. Gli passo un asciugamano ed una felpa. Mi ringrazia e si sfila quella bagnata. Non so se lo metto in imbarazzo, ma io non smetto di fissarlo per tutto il tempo.
Si siede sul divano al mio fianco e mi accarezza il viso. Vorrei riprendere il controllo del mio corpo, ma non sembra che io ne sia in grado. Devo sembrargli davvero stupida.
Suonano alla porta.
 
“Devo andare.”
“Torni?”
Sempre.” 
   
 
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