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Autore: Stella cadente    01/05/2016    6 recensioni
"«Voi potete mentire a voi stessa, o a quei servi che stanno con voi, ma non potrete mai scappare di fronte agli occhi di Notre-Dame!» esclamò l’uomo, puntandomi il dito contro.
Come per enfatizzare le sue parole, un lampo squarciò il cielo, illuminando tutte le statue dei santi; incastonate nei cornicioni della cattedrale, mi guardavano con i loro occhi di pietra, come per rimproverare tutte le mie azioni.
Il cuore mi mancò di un battito. Aveva ragione."
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Gender Bender
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Nina

 
 
1467
 
Era una notte di gennaio. Una gelida notte di gennaio, in cui il freddo sembrava mordermi la pelle anche attraverso la toga e un leggero nevischio mi si infiltrava tra i capelli.
Avevo lasciato un esercito di uomini in pattuglia nei pressi di Notre-Dame, e anche io stavo di guardia. Mi ero ripromessa di eliminare gli zingari infesti dalla città di Parigi, e così avrei fatto.
 
 
Quella notte piansi tutte le mie lacrime. Mia madre era morta di parto, per dare alla luce mia sorella. Correva l’anno 1464. Avevo diciassette anni.
«Claudie.»
Tremai sotto la mano di mio padre, che mi si posò sulla spalla in un gesto gentile.
«Sì, padre?» chiesi, trattenendo a stento altre lacrime che minacciavano di uscire, già sicura di ciò che stava per dirmi.
«Tua  madre non ce l’ha fatta.»
Strinsi i denti, ma sentii lo sguardo farsi spaventato e sconvolto. Mio padre mi guardava con il volto distrutto, segnato dal dolore e dalle lacrime.
Si sedette davanti a me, con delle ombre malinconiche negli occhi; intuii che mi stesse per fare un discorso importante e trattenni il fiato.
«Io comincio ad essere vecchio, e tu cominci ad esser matura. La nostra famiglia rischia di non avere più tutto il nostro prestigio.»
Restai in silenzio, in attesa che proseguisse.
«Devi sostituirmi. Un giorno devi far sì che il tuo nome sia glorioso, Claudie. Voglio che tutta Parigi ti tema e ti rispetti, proprio come fa adesso con me.»
Si era fatto molto serio, mentre parlava. Io lo osservavo incantata, mentre mi perdevo nelle sue parole.
Mio padre era giudice. Ed aveva ragione: tutti lo temevano e lo rispettavano. La gente faceva così, con i giudici. Io li avevo sempre ammirati; ero solo una ragazza, ma ero nobile, mio padre aveva un incarico importante, e sapevo che studiando duramente avrei potuto fare anche io ciò che faceva lui.
 Solo che non me lo aspettavo. Ero una ragazza. Non potevo avere possibilità; quando mai si era vista una ragazza giudice?
Io non sapevo nulla di quello che studiava mio padre. Sapevo fare le faccende di casa e ricamare, non avevo mai studiato veramente, e in più stavo anche per maritarmi. Sarebbe andato tutto all’aria.
Quello che mi veniva chiesto era molto importante.
«State parlando sul serio, padre?» chiesi, stralunata.
«Sì, figlia mia. Sei una ragazza intelligente, determinata e ambiziosa, e sono sicuro che riuscirai a raggiungere il tuo obbiettivo.»
Sollevai appena gli angoli della bocca, asciugandomi frettolosamente le lacrime.
Ero felice, stranamente.
 
«Signora, gli uomini si stanno addormentando» disse il capitano de Germont, preoccupato.
«Io vi ho ordinato di effettuare un compito» replicai freddamente, «e voi dovete svolgerlo. Svegliate i soldati immediatamente, o vi condanno tutti alla veglia» sentenziai tranquilla, incenerendo l’uomo con lo sguardo.
Il capitano rabbrividì leggermente, poi si diede da fare per svegliare i soldati, mentre io restavo imperterrita seduta sul mio purosangue César, che come una bellissima ombra se ne stava fermo, come fossimo sulla stessa lunghezza d’onda.
Ero sicura che, prima o poi, da lì sarebbero passati degli zingari.
Ed io li avrei eliminati.
 
 
Era passato un anno dalla nascita di mia sorella. L’avevo chiamata Nina, come mia madre.
Era bellissima, perché era uguale a lei, anche se aveva più i lineamenti di mio padre. Con me non aveva nulla in comune, a parte la carnagione chiara e lo sguardo intelligente e critico. Avevamo entrambe gli occhi azzurri, ma i miei erano color ghiaccio, mentre i suoi erano più sul blu.
Mi sarei potuta perdere, in quegli occhi. Generalmente non amavo i bambini, ma lei era diventata tutto per me, ormai.
Come mi aveva detto di fare mio padre, mi ero messa a lavorare sodo per studiare; dovevo diventare giudice. Avevo paura che non mi accettassero per il fatto che fossi una donna – sapevo che le probabilità che venissi presa erano scarse – ma ero determinata a seguire le sue orme e mi ero imposta che così avrei fatto.
Quel giorno, mentre passavo dal panettiere, stavo ripetendo mentalmente tutti i trattati che avevo appena studiato, quando una ragazza mi venne improvvisamente addosso.
«Signorina, potreste spiegarmi cortesemente perché avete questi modi così villani?» chiesi, scoccandole un’occhiataccia.
Lei mi fissava con aria colpevole, guardandomi con un misto di timore e ammirazione: doveva aver capito che ero appartenente al ceto nobile. Aveva una lunga e selvaggia chioma di capelli neri, la pelle scura di chi fa tutto all’aria aperta e due grandi occhi di un profondo color castagna.
Solo allora capii che era una gitana e che le avevo mancato gravemente di rispetto. I suoi modi non mi erano sembrati aggraziati, ma del resto sapevo che tra la sua gente non era usanza seguire il galateo.
Mi schiarii la voce.
«Perdonatemi. Sono Claudie Frollo, figlia di Gervais Frollo, Ministro della Giustizia di Parigi.»
La ragazza sembrò impallidire, poi mi fece un sorrisetto timoroso.
«Ah» disse, titubante. «Io sono Gabriela. Ehm... solo Gabriela» aggiunse poi, con un’espressione divertita e imbarazzata insieme. «Ero venuta per prendere un po’ di pane, ma a quanto pare non sono stata molto fortunata.»
«Prendete» dissi, porgendole un pezzo abbondante di baguette che avevo appena preso.
La ragazza spalancò gli occhi come se avesse appena assistito ad un miracolo.
«Stai scherzand... voglio dire: siete seria?» chiese, rigirandosi la pagnotta ripetutamente tra le mani.
Ridacchiai, portandomi elegantemente una mano alla bocca.
«Certo. Prendetelo. Per me è un’inezia.»
«Una cosa?» rise lei.
Risi di nuovo.
«Per me non fa’ niente» semplificai. «È una cosa da nulla.»
Gabriela si sciolse in un sorriso di gratitudine.
«Grazie. Possiamo darci del tu?»
Assentii.
«Bene. E... se continuassimo a vederci? Non dico solo per il pane, insomma sì mi hai fatto un favore, ma mi sei sembrata gentile e quindi...»
Sollevai le sopracciglia, perplessa.
«Quello che voglio dire è», riprese, «che non sei come gli altri nobili. Sei diversa. Sei più...vera
«Ti ringrazio» dissi educatamente, senza sapere se interpretare quella constatazione come un’offesa o un complimento.
«Ci troviamo vicino a Notre-Dame, quando le campane suoneranno le sette. Che ne dici?»
«Ottimo» risposi, con un sorriso.
 
 
Avevo già passato due anni a dare la caccia agli zingari. Non era ovviamente ciò che mi ero aspettata dalla mia carriera, inizialmente, ma sapevo che non potevo fare altrimenti. Non potevo permettere che quegli infimi individui andassero a mescolarsi ai parigini, nobili e puri.
Non potevo più permettere che calpestassero lo stesso suolo che calpestavo io.
Avevo vent’anni, ma mi sembrava di averne molti di più.
 
 
«Claudie, è fantastico!» esultò Gabriela. «Sei riuscita a passare tutti gli esami! Lo sapevo che ce l’avresti fatta!»
Mi stritolò in un abbraccio e poi mi guardò raggiante.
«Grazie» risi io. «Ma forse sbagli ad aver così tanta stima nei miei confronti.»
«Questo lo dici tu» mi rimbeccò lei. «Sei una ragazza intelligente, colta e brava in qualunque cosa. Insomma, sai leggere! Probabilmente ci sei solo tu che a diciotto anni e mezzo sai leggere. E pensa tra noi gitani, invece. Non c’è nessuno che sappia farlo. Noi sappiamo leggere le persone, è vero, ma non le lettere dell’alfabeto purtroppo.»
«Grazie» dissi di nuovo. Adoravo quella ragazza. Gabriela era diventata in pochissimo tempo una mia carissima amica; era vivace ed esuberante, e riusciva sempre a tirarmi su nei momenti di sconforto. Eravamo diverse, ma nella nostra diversità ci eravamo legate indissolubilmente.
«Non ringraziarmi; non è un complimento, è un dato di fatto. E poi ti ci vedo, ad impartire ordini a tutti e a spaventarli non appena entri in aula, perché il cattivissimo giudice Frollo» – e qui storpiò un po’ la voce, facendomi ridere sonoramente – «ha fatto il suo regale ingresso, e chiunque le manchi di rispetto sarà spacciato.»
Non riuscivo a smettere di ridacchiare.
«Sì, immagino che funzioni così.»
«Davvero, secondo me hai fatto la cosa giusta.»
Silenzio.
«Sono contenta» dissi improvvisamente, pregustando il mio incarico da Ministro della Giustizia.
«Ed io per te» ricambiò lei, con un gran sorriso sul volto olivastro che mi scaldò il cuore.
«Senti, devo chiederti un favore. È quasi imbarazzante, ma siamo... amiche. Giusto?» chiesi, passandomi distrattamente una mano tra i miei capelli scuri.
«Certo. Dimmi pure.»
«Ecco, avrei bisogno che tu badassi un attimo a Nina. Devo andare al mercato, ma ha appena un anno. Non me la sento di portarmela dietro, al che mi chiedevo se ...»
«Nessun problema, mi occupo io di lei» disse Gabriela.
«Sicura che non ti sia d’impiccio?»
«E per cosa? Tanto non ho nulla da fare, e per Clopin basta che entro mezzanotte io sia alla Corte dei Miracoli, perciò...»
La squadrai un attimo. Le avevo chiesto più volte cosa fosse, questa Corte dei Miracoli, ma lei non aveva mai voluto dirmi nulla in proposito.
«Molto bene» asserii. «Allora ci vediamo dopo.
«A dopo!» mi salutò, facendomi un cenno con la mano.
Quella fu l’ultima volta che la vidi.
 
Guardai Notre-Dame, poco distante. Il luogo in cui mi trovavo era fin troppo familiare.
Il ricordo mi sfiorò, e fu come ricevere un pugno in pieno petto. Come avevo potuto?
Come avevo potuto diffidare da ciò che mi aveva detto mio padre al riguardo e fidarmi di lei?
Non me lo sarei mai perdonato.
 
Passai tutta la notte a cercarla. Passai tutta la notte a gridare il suo nome lungo le strade di Parigi, ad aspettare, a sperare di vedere quella piccola creatura bianca dagli occhioni blu intenso e i capelli biondi come quelli della mia meravigliosa madre. Chiamai anche Gabriela, ma nemmeno lei rispose mai.
Non dormii, mi ostinai a cercarle ancora, ancora e ancora, perché non volevo ammettere che mio padre aveva ragione riguardo agli zingari – che erano subdoli, bugiardi e malvagi.
Ma io non potevo – non volevo –  realizzare che Nina fosse scomparsa.
Soprattutto, non riuscivo a realizzare che fosse a causa di una gitana che credevo essere la mia migliore amica, e che quest’ultima si fosse volatilizzata con lei.
 
Mi sentii, inaspettatamente, gli occhi umidi, quando ripensai alla mia sorellina scomparsa nel nulla insieme ad una zingara che se l’era portata via.
Chissà se era ancora viva...
 
 
«Ministro Grenonat» dissi, non appena il Ministro si sedette sulla poltrona del mio studio. «Ho bisogno che mi forniate delle pattuglie per setacciare tutta Parigi. Devo trovare mia sorella. E finché non avrò raggiunto il mio scopo, molti gitani ne pagheranno le conseguenze.»
«Ma Claudie...»
«Ho l’autorizzazione del Re in persona» mostrai la pergamena come fosse un trofeo, con un ghigno soddisfatto «e sto aspettando che voi raduniate i vostri uomini.»
Il ragazzo – che era di poco più vecchio di me, in realtà, ma che aveva molto più potere – assentì, poi mi chiese:
«È proprio necessario coinvolgere le autorità?»
La mia risposta non si fece attendere più di tanto.
«Certo che sì.»
 
Non trovai mai mia sorella. Molti zingari, in compenso, vennero rinchiusi nelle segrete e costretti a morire di fame, condannati o torturati. Il Re apprezzò questo movimento da parte del nuovo Ministro. E giurai che, se avessi ottenuto ancora più potere, avrei eliminato quel popolo di adulatori dalla Francia.
Avrei eliminato il male di Parigi.
 
Un rumore lieve mi distrasse, facendomi drizzare le orecchie. Sembrava un piccolo scroscio, eppure aveva prodotto un rimbombo dentro di me. Sapevo che dovevo fare attenzione ad ogni piccolo, insignificante suono.
Era proprio uno scroscio, uno sciacquio sommesso.
Mi appostai, e dalle acque dei moli che davano su Notre-Dame vidi sbucare una barca in legno con tre gitani a bordo. Una di loro – l’unica donna – tra le braccia teneva un fagottino, e per un attimo l’immagine di Gabriela che si portava via mia sorella mi attraversò la mente, veloce e crudele.
Ma non può essere.
Feci cenno ai miei uomini di dare il via all’agguato, e subito i gitani vennero intrappolati. Poi uscii allo scoperto, avanzando lentamente con César sulla strada ricoperta di neve.
Contemplai con sadica soddisfazione le loro espressioni impaurite, il loro modo di arretrare che ricordava tanto quello dei topi quando si accorgono che sono faccia a faccia col gatto.
«Portate questi zingari infesti al Palazzo di Giustizia» ordinai, con il disprezzo nella voce.
Una guardia adocchiò il fagottino che la gitana si stringeva al petto. I suoi occhi scuri mi guardavano intimoriti.
Eppure l’avevo già vista...
Poi, nell’istante in cui lei spalancò gli occhi nel guardarmi, capii.
Gabriela.
«Ehi tu, che cosa nascondi?» chiese il soldato, indicando il fagotto.
Nessuna pietà, Claudie.
Non se la merita.
«Merce rubata, senza dubbio. Levategliela dalle mani!» tuonai, la voce che fendeva l’aria come un nastro elettrico.
Subito la zingara iniziò a correre, sfuggendo alla presa dei soldati.
E, senza pensarci due volte, mi gettai al suo inseguimento.
 
 
 
L’avevo inseguita lungo i sobborghi di Parigi, mentre lei correva senza sosta. Era ancora agile come mi ricordavo, ma io ero a cavallo e César era molto veloce, perciò ero in netto vantaggio.
«Asilo, per pietà, dateci asilo!» la sentii urlare, mentre bussava febbrilmente alla porta della cattedrale.
Non ebbe risposta, e nei suoi occhi color castagna si disegnò il terrore nel vedermi avanzare sempre di più verso di lei.
Corse ancora, corse fino ad arrivare sul sagrato di Notre-Dame.
«Claudie» disse poi, senza più fiato, con un piede su uno scalino e l’altro su un gradino un po’ più in basso «finiamola. Ti prego. Ti chiedo perdono.»
La guardai come se fosse un disgustoso insetto.
«Che cos’hai lì?»
«Niente.»
«Ho detto» ripetei, con voce ferma. «Che cos’hai lì?»
«Stammi lontana!» gridò lei. «Ho sentito delle cose su di te, alla Corte dei Miracoli. Tutti dicono che sei stata accecata dal potere, che hai iniziato una persecuzione contro di noi.»
«Questo è il mio lavoro» replicai, gelida. «E adesso dammi quella cosa
Lei se la strinse più gelosamente al petto.
«È stata colpita da un maleficio!» disse, mentre le strappavo il fagotto dalle braccia. «Deve venire con noi! Noi la guariremo!»
Non la ascoltai e la calciai via, mettendo in quel gesto tutto l’odio e il disprezzo ormai fin troppo radicato che nutrivo per lei e per la sua razza.
Gabriela inciampò e cadde sul sagrato; il rumore secco di una botta venne seguito dallo spargersi di una grande macchia di sangue sulla scalinata di Notre-Dame. Non ci badai.
Sotto la stoffa del fagotto sentii che qualcosa si muoveva.
Che cos’era?
Scostai la stoffa e rimasi stupefatta.
«Un bambino?»
Tra le mie mani stava sgambettando proprio un candido neonato, con uno strano amuleto a forma di goccia d’acqua allacciato al collo. I suoi occhi blu intenso sembravano scavarmi fin dentro l’anima e ciuffi di capelli fulvi spuntavano dal gomitolo di stracci in cui era immerso.
Per un attimo rimasi incantata a fissarlo. Aveva qualcosa nello sguardo che...
È stata colpita da un maleficio!
Quindi era una bambina.
La neonata mi sorrise; mosse le mani in gesti brevi e scoordinati, e un piccolo fiotto d’acqua scaturì dai suoi palmi come se l’avesse evocato lei. Per poco non la lasciai cadere direttamente sulla neve.
Era un demonio, senza ombra di dubbio; solo un essere malefico poteva trattarsi, dal momento che era venuta da una zingara. E chissà chi l’aveva partorita... Una strega, probabilmente.
Per un attimo pensai di lasciarla lì a morire assiderata; poi adocchiai un pozzo, a poca distanza da me.
E mi venne un’idea.
Mi avvicinai, tenendo il fagotto con una mano sola; stavo per farlo cadere nell’acqua gelida, quando una voce mi interruppe.
«Che cosa state facendo?»
L’arcidiacono di Notre-Dame guardava me, poi il cadavere di Gabriela. La chiazza di sangue si allargava sempre di più sotto la sua testa.
«Questo è un empio demone, voglio rispedirlo all’Inferno da cui proviene» dissi solo.
«Giudice, questa donna ha versato sangue per voi...» continuò il vecchio. La sua misericordia mi infastidiva: quello era un popolo maledetto, e meritava di essere sterminato.
«Sono senza colpa, è scappata e l’ho inseguita» ribattei, freddamente.
«E ci aggiungereste anche il sangue di un bimbo innocente?»
«Ho la coscienza pulita» insistei, alterata.
«Voi potete mentire a voi stessa, o a quei servi che stanno con voi, ma non potrete mai scappare di fronte agli occhi di Notre-Dame!» esclamò l’uomo, puntandomi il dito contro.
Come per enfatizzare le sue parole, un lampo squarciò il cielo, illuminando tutte le statue dei santi; incastonate nei cornicioni della cattedrale, mi guardavano con i loro occhi di pietra, come per rimproverare tutte le mie azioni.
Il cuore mi mancò di un battito. Aveva ragione.
Non replicai, atterrita, mentre una scossa di paura mi vibrava in fondo al cuore.
«Adesso dovrete occuparvi voi di quella povera creatura» aggiunse l’uomo, indicando la bambina con un cenno della testa e interrompendo tutte le mie riflessioni. «Crescetela come se fosse vostra.»
«Cosa? Devo addossarmi questa storpiatura?» Mi disgustava l’idea di tenere in vita una strega gitana.
A rispondermi ci fu solo il silenzio.
«Molto bene» dissi. «Ma che viva con voi, nella vostra Chiesa.»
«Vivere qui?» l’arcidiacono parve sorpreso, ma continuava a guardarmi con astio. Non era mai corso buon sangue tra noi. «E dove?»
«Dove volete» risposi. «Che sia chiusa laddove nessuno la vedrà... magari nel campanile. E chissà, il Signore opera in modo imperscrutabile; vedrò se potrà servirmi anche così com’è.»
Diedi un ultimo sguardo alla piccola, che mi fissava tutta sorridente con i suoi grandi occhi color mare.
Ha lo stesso modo di sorridere di...
La coprii impercettibilmente, giusto per ripararla un po’ di più dal freddo, e la posi tra le braccia dell’arcidiacono.
«Sapete come si chiama?» mi chiese. Sembrava il tipo di domanda che farebbe un amico, ma l’uomo continuava a dimostrarsi scettico verso di me.
«No» dissi, per tutta risposta. «Ma potete battezzarla con il nome di... Nina
«Nina?»
«Sì» assentii, inflessibile.
«Come volete» disse. «Adesso andate» mi incitò, senza staccarmi di dosso quegli occhi carichi d’odio.
Ricambiai l’occhiata, mentre facevo indietreggiare César.
Poi mi allontanai al galoppo contro quel cielo che ormai albeggiava, senza più voltarmi indietro.

 


Sto scrivendo questa nota alla shot con Hellfire di sottofondo ehheh.
Dite che ci sono andata un po’ in fissa con Frollo? Noo..
Baggianate a parte, eccomi di nuovo in questo fandom, con uno spin-off di “Paris”. Diciamo che è anche un modo per dare profondità al personaggio di Claudie, un po’ una specie di spiegazione immaginaria del fatto che il nostro giudice odi così tanto gli zingari, ma alla fine era calzante, perciò l’ho collegata alla mia long :)
Personalmente ho amato scriverla. Spero che anche a voi sia piaciuto ritrovare Claudie e capire di più su di lei. Tra l’altro, questa shot ha anche lo scopo di fornirvi qualche brandello di passato di Nina, perciò spero di non aver deluso nemmeno i fan di questo personaggio, anche se è evidente che il brano è incentrato perlopiù su Claudie.
Detto ciò, spero sia stato di vostro gradimento e vi lascio con una gif di Claudie da ragazza, nel 1464 





Mio Dio, me l’ero immaginata proprio così D:
Domani (o oggi, dipende) posterò la Crossover di Harry Potter di cui vi parlavo... spero di ritrovarvi tutti ;)
Alla prossima,
Stella cadente
  
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