Serie TV > Teen Wolf
Ricorda la storia  |      
Autore: sfiorarsi    24/05/2016    7 recensioni
[AU!Sterek | 3264 parole | possibile!Spoiler | Tematiche delicate]
E senti il sangue affluirti alle guance, di nuovo, e percepisci un tuo lieve sospiro uscirti dalle labbra, uno sfarfallio docile che è il fantasma di se stesso, mentre riporti il tuo sguardo fuori dalla finestra, e ti sembra quasi di sentire bruciare sulla nuca lo sguardo di Derek – che, puoi scommetterci, ha le braccia conserte.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La terapia dei colori.
 
Disclaimer: i personaggi sotto descritti non mi appartengono, ma sono proprietà di Jeff Davis e di MTV, o di chi ne detiene i diritti. Pertanto, la fanfiction è stata ideata e scritta dall’autrice senza alcuno scopo di lucro.
 
La pesante e fredda aria di ottobre soffia al di fuori degli spessi vetri trasparenti, producendo un suono sgradevole alle tue orecchie ferite, abituate al costante ed insistente bip dei macchinari che, come ombre scure, ti seguono perennemente. Il letto sfatto su cui giaci, coperto da chiare e asettiche lenzuola, è troppo grande per il tuo corpicino gracile, reso più magro dalla malattia, di un bambino di otto anni.
Ti sfiori la nuca liscia con le dita lunghe, ricordando con bramosia il periodo in cui i tuoi capelli schizzavano da ogni parte, indomabili. Pungente, un accenno di lacrime si forma ai bordi dei tuoi grandi occhi ambrati che, con la luce grigia di un pomeriggio di inizio ottobre, si colorano di sfumature verdastre, per poi virare al nero solido della pupilla, in contrasto con il candido pallore della tua pelle sottile, e del freddo ambiente che ti circonda. Sulle pareti – come a testimoniare la mancanza di una palpabile realtà in quell’ambiente ostile e a te sconosciuto – sono stati dipinti dei fiori colorati che tu, fin dal primo giorno, hai odiato. Ricordi quel giorno come fosse ieri, un pomeriggio di luglio in cui un forte mal di testa ti aveva come trapanato le tempie, lacerandoti e accecandoti dal dolore. Ti eri arrampicato sulle ginocchia di tuo padre, convinto che le sue carezze avrebbero potuto allontanare tutto quel malsano dolore, cosa che, inaspettatamente, non successe. Il calendario – appeso alla parete di fianco a te che, con un minimo sforzo, può essere sfiorata con le dita – segna la data del quattro ottobre, a undici asettici, sporchi e abitudinari giorni dal tuo nono compleanno, che pensavi avresti passato fra i palloncini colorati e le coperte di casa tua, che portavano ancora il profumo del detersivo usato da tua madre.
Uno stridere acuto di ruote metalliche sul pavimento duro e freddo dei corridoi attira vagamente la tua attenzione, facendo spostare il tuo sguardo assorto in direzione dell’ingresso, mentre un paio di infermiere – le solite che ti imboccano, quando le chemio ti stancano troppo perfino per riuscire a farti tenere le palpebre sollevate – spingono la porta, per permettere a un lettino come il tuo di passare. La prima cosa che di lui ti colpisce sono gli occhi verdi, brillanti e vigili che, con minuziosa attenzione, scrutano nell’ambiente circostante con fare sospettoso. Guardi i contorni del suo viso, l’espressione indurita e le sopracciglia aggrottate, per poi spostare lo sguardo sul gesso che gli circonda la gamba sinistra. Ha le braccia conserte sul petto, come ad accentuare l’espressione indurita sul suo volto, quella sorta di cipiglio interrogativo che, una volta notato il tuo sguardo insistente sul suo viso, si accinge a rivolgerti, quasi obbligandoti a voltare nuovamente la testa verso la finestra chiusa.
Il nuovo arrivato quasi contorce il viso in un’espressione stranita alle tenerezze della sua famiglia, ma tu puoi quasi sentire la felicità del bambino alle attenzioni che riceve – riesci a notarlo dalla lieve piega che le labbra di lui hanno, ripiegate verso l’alto ad ogni carezza a lui dedicata. Passa una buona decina di minuti prima che il nucleo familiare si ritiri, lasciando il giovane con sporadiche impronte di rossetto e baci sulle guance, i capelli scuri disordinati e ribelli.
«Come ti chiami?» ti azzardi a chiedere, stringendo gli occhi e chiudendoli, prima di riaprirli e riportarli sulla figura nel letto accanto al tuo. Ti rivolge un’espressione che tu, stranamente, non sai decifrare, uno sguardo composto da sopracciglia aggrottate e due occhi brillanti, che sembrano quasi scintillare di vera luce propria.
E tu rimani senza fiato, ma non quella mancanza di ossigeno cattiva, quella mancanza che ti porta a schiudere la bocca in una forma a “o”, ricercando l’aria e non riuscendo a distogliere lo sguardo da quel volto corrucciato, quasi mosso a ritmo di quei silenziosi respiri.
«Come ti chiami?» lo richiedi, con una spavalderia che non ti appartiene, riprendendo fiato come dopo ore di apnea, e portandoti istintivamente le mani sulla nuca liscia, ad accarezzarti il capo.
«Derek» pronuncia, e la sua voce ti fa ricadere nell’abisso di emozioni che non riesci a comprendere, e la mancanza d’ossigeno precedente ti sembra quasi una bazzecola in confronto al peso che, dolce, ti pesa sul cuore, non appena quella voce giunge alle tue orecchie, soave.
«Io sono Stiles» proferisci, con tutta l’intenzione di allungare la mano per protenderla verso Derek, gesto che non compi. Rimani immobile, un sorriso che assomiglia a una smorfia a rigarti il volto, in quella che sembra una muta espressione di nostalgia. E ti accorgi del suo sguardo – chi diavolo chiama il proprio figlio Stiles? – malinconico che, inaspettatamente, riporta in vita, nei tuoi ricordi, la tua vecchia voce, che ora è ridotta ad un suono rauco, graffiante contro le pareti della gola secca e infiammata. E senti il sangue affluirti alle guance, di nuovo, e percepisci un tuo lieve sospiro uscirti dalle labbra, uno sfarfallio docile che è il fantasma di se stesso, mentre riporti il tuo sguardo fuori dalla finestra, e ti sembra quasi di sentire bruciare sulla nuca lo sguardo di Derek – che, puoi scommetterci, ha le braccia conserte. Ti tornano in mente alcuni momenti, durante i quali tutti si complimentavano con te, perché sapevi osservare la gente. E non solo superficialmente, ma anche nella parte più recondita dell’essere, quel segreto nascosto nel cassetto più profondo del nostro animo – ma di te sai solo che il tuo è sporco, così come la tua mente è contaminata da cellule tumorali, le stesse che ogni giorno combatti e ti distruggi per farlo. Passano le ore, e consumi quello che è un frugale pasto serale che, però, riesce a riempire il tuo stomaco di piccole dimensioni, mentre tuo padre – arrivato da una decina di minuti buoni insieme a tua madre – ti racconta della sua giornata a lavoro.
«Il vicesceriffo Jackson1 ha risolto il caso della famiglia Moore. Avresti dovuto vedere la faccia del figlio, guarda caso l’unico sopravvissuto» emette tuo padre tutto d’un fiato, e tu non puoi fare altro che sorridere e spostare lo sguardo verso Derek, immobilizzato nel lettino d’ospedale, costretto a farsi imboccare dall’infermiera. La mano di tua madre, gentile, ti accarezza il capo liscio, e tu sei obbligato a guardarla negli occhi. Due scure e profonde occhiaie spiccano sul suo viso smunto, il suo sorriso ormai schiacciato dalla malattia2. E, quanto ti rimbocca le coperte, scomparendo oltre la porta, tu non puoi fare a meno di rintanarti fra le lenzuola asettiche, mormorando «buonanotte, Derek» e ricevendo un mugugno in risposta. Ti addormenti di colpo, ma non prima di aver sentito lo sguardo di Derek bruciare su ciò che si vede del tuo pallido volto.
 
*
«E’ ufficialmente fuori pericolo» dice il medico a tuo padre, mentre quella frase ti rimbomba, placida, nelle orecchie. E, se da una parte vorresti saltare di gioia e sfiorarti la nuca ricoperta da una corta zazzera di capelli, dall’altra ripensi a tua madre in quel letto d’ospedale, come se avesse voluto prendere il tuo posto. La sua immagine si ripete a intermittenza nella tua mente, intervallata dai bip insistenti che la circondano, in quella stanza bianca e asettica. Ricordi ancora quando te lo comunicarono, il giorno del tuo nono compleanno. La tua malattia sembrava essersi assestata, le sue dimensioni erano notevolmente diminuite e i tuoi parenti erano venuti a farsi visita in ospedale, portandoti doni e carezze. Persino Derek ti aveva rivolto un sorriso augurandoti un felice compleanno, prima di sparire, insieme alla fisioterapista, oltre la porta. Tua madre, però, era stata colta da attacchi di tosse e giramenti di testa continui, e una TAC notturna aveva confermato ciò che, nella tua testa, si era infantilmente andato a creare. Fino a qualche ora prima non ne conoscevi nemmeno il nome, mentre ora questa sorta di demenza frontotemporale ti incuteva una specie di terrore crudele.
«E’ scientificamente provato e confermato che i vari colori hanno diversi effetti sulla mente» comincia quella che vuoi definite “la maestra”. Sei circondato da bambini più o meno della tua stessa età – ti ricordi che sono passati nove giorni dal tuo compleanno, e da quella notizia – e, ognuno di loro, ascolta interessato. Persino Derek, la cui stampella è poggiata contro ad un comò bianco, sembra interessato alla notizia, nella sua solita posizione formata da braccia incrociate e cipiglio burbero e duro, fin troppo per un ragazzino di undici anni. La ragazza – che ricordi chiamarsi Beth – afferra un minuto portapenne all’interno del quale sono contenuti dei pastelli colorati, e li dispone ordinatamente a terra, indicandoli uno per uno.
«Il rosso» comincia, e tu la osservi rapito, portandoti le ginocchia al petto e appoggiandovi il mento «possiede un tipo di energia molto calda che, di conseguenza, porta una persona ad essere loquace, aperta e premurosa. Ha un effetto positivo sul corpo ed è molto utile in caso di raffreddore, mal di gola e asma» afferma, mentre traccia una linea rosso vivo sul foglio bianco, facendola risaltare sulla carta candida e, fino a qualche secondo prima, illesa da tracce colorate.
«Ora» vi dice, distribuendo un foglio ciascuno – il tuo svolazza fino a terra, e tu ti diverti a vederlo oscillare fino al tappeto morbido – e un pastello rosso per ognuno di voi «vorrei che scriveste una parola che vi ricorda il colore rosso, qualcosa che riporti in vita un sentimento» così dicendo, incrocia le gambe e rivolge un sorriso generale. Scorgi, con la coda dell’occhio, il pastello che Derek tiene tra le mani ruotare lievemente, mosso dal suo proprietario – che, dall’espressione contrita sul volto, sembra stia ragionando profondamente. Rimugini qualche istante e, come se la tua mano avesse vita propria, scrivi “batticuore” in caratteri ordinati, in un angolo del foglio. Aspetti, con una calma innaturale che non ti appartiene, che tutti gli altri ragazzi abbiano terminato – c’è chi sta ancora ragionando, chi chiede disperatamente l’aiuto di Beth per scrivere una parola e chi, come te, sta educatamente attendendo un risvolto in quella situazione.
A turno, una volta completata questa prima fase, la maestra vi domanda quale parola avete scelto, e perché. Vorresti spiegare che è tutta colpa di Derek e dei suoi occhi verdi, ma l’unico motivo che fornisci consiste nello spiegare ciò che tuo padre ti ha detto sul batticuore. Beth ti sorride, prima di dedicarsi a un altro folto gruppo di bambini. Derek è l’ultimo della lista, ma non aspettavi altro se non una sua spiegazione che, inaspettatamente, ti colpisce all’interno.
«Rosso come il fuoco, come le fiamme» pronuncia, e la sua voce assomiglia quasi a un ringhio «le stesse che bruciano dentro di me» conclude, e tu vedi Beth in completa difficoltà, come se non sapesse fra quale delle tante reazioni scegliere. Si limita a rivolgergli un sorriso – forzato, ti accorgi – per poi afferrare, con malcelato nervosismo, il pastello arancione, alzando gli occhi dal pavimento.
«L’arancione» proferisce, ripetendo la medesima procedura utilizzata per il rosso «è il colore che induce a serenità, entusiasmo e allegria. Viene considerato un importante cura contro la depressione e la paura. Quindi, come fatto prima, vorrei che scriveste una parola con il pastello arancione che vi susciti un ricordo positivo» così dicendo, inizia a distribuire i pastelli, e a te subito viene in mente la torta di zucca che tua madre ti preparava ogni domenica. Ed è proprio quello che scrivi, “zucca”, una parola che ti suscita sentimenti che, ancora, non riesci a decifrare del tutto. Lacrime amare ti si formano ai bordi degli occhi mentre una, incontrollabile, va a bagnare il pastello, lasciando la sua scia diffondersi, per qualche centimetro, sulla parte candida e intonsa del foglio bianco, accecante.
«Stiles?» senti la voce di Beth rimbombarti nelle orecchie, dedicandole un sorriso di conforto e asciugandoti, con fare schietto e veloce – e con un orgoglio che non ti appartiene –, le guance scarne.
«S-sto bene, maestra» la rassicuri, spiegandole poi il motivo di quella scelta, e stupendoti di vedere Derek con gli occhi chiusi, la mascella indurita da un’espressione indecifrabile, quasi come se provasse dolore a sentire i tuoi lievi singhiozzi che intervallano ogni parola.
«Grazie per esserti aperto con noi, Stiles. E ora» dice, rivolgendosi alla fitta massa di ragazzini che la attornia «il colore terapeutico per antonomasia: il verde. Un colore neutrale, completamente neutrale» vi informa, e tu, per una volta, rimani senza possibilità di scelta. Vorresti urlare al mondo che il verde è il colore degli occhi di Derek, ma non dici altro ad esclusione di non ho nessun ricordo associato al verde, maestra. Rimani ad ascoltare Derek, le gambe ora incrociate, i palmi delle mani a circondarti le ginocchia fragili e sottili.
«Il verde mi ricorda i boschi in cui, ogni domenica, mio padre mi portava. Mi ricorda il colore dei pini, delle foglie estive e dell’erba attorno al lago nella foresta» dice, e tu non credi alle tue orecchie, non puoi immaginarti Derek Hale che riesce a comporre una frase di senso compiuto di ben trenta parole – le hai contate mentre le diceva.
«La scienza che abbiamo blandamente studiato oggi prende il nome di cromoterapia, che consiste nell’utilizzo dei colori come beneficio per il corpo e per la mente» conclude Beth, e tu sai che il verde, il colore considerato da tutti neutrale, per te non lo sarà mai, perché ha gli occhi di Derek Hale.
 
*
Il verde ora vi circonda, quel nucleo ristretto di persone che attorniano una bara di legno scuro – che, ti ricordi, non ti è mai piaciuto quel colore, non adatto allo spirito solare di tua madre – e ti torna in mente quella cromoterapia di sei mesi prima. Hai tentato, in modo blando, di stringere una vaga amicizia con Derek – senza però trascurare Scott che, a quanto pare, è parso molto geloso di questa nuova aggiunta – e pensi di essere abbastanza riuscito nel tuo intento, conoscendo la reputazione del giovane Hale. La sua famiglia si stringe accanto a voi, mentre Derek ti rivolge uno sguardo colmo di tristezza e dolore, lo stesso che sembra voglia condividere con te, per farlo percepire un po’ meno al tuo corpo stanco. I tuoi capelli ora sono ricresciuti, fino a diventare una zazzera disordinata e castana, che tuo padre ama tanto accarezzare. La funzione termina con la stessa velocità con cui è cominciata, ma tu non vuoi – non riesci – a prendere parte al corteo funebre, ed è per questo che, al riparo da sguardi indiscreti, vai a nasconderti fra due cespugli non molto distanti, nascondendoti il viso nel petto e lasciando scivolare per le guance quelle lacrime tanto attese. Trattieni i singhiozzi, conficcandoti le unghie nei palmi delle mani, senza permettere all’urlo che spinge nella tua gola di uscire.
«Stiles» dice una voce roca, solida, che tu riconosceresti fra mille altre voci. Si siede accanto a te, Derek, stringendoti un braccio attorno alle spalle e lasciandoti sfogare. Appoggi la tua nuca sulla sua spalla, e mai un luogo ti è sembrato tanto adatto alla tua persona.
 
*
«Non se ne parla, Stiles» ti dice, con la stessa espressione corrucciata di sette anni addietro «no, non verrò con te a comprare un regalo a Scott» proferisce, incrociando le braccia al petto e alzando gli occhi al cielo alla vista del tuo adorabile broncio, che ora occupa le tue labbra con lo scopo di impietosire quel lupastro crudele e insensibile.
«Ti prego, Derek» lo supplichi, e lui sembra arrendersi al tuo sguardo da cucciolo che, nonostante i quindici anni suonati, ti ostini a fare. Annuisce lievemente, ruotando le chiavi della sua nuova macchina fra le dita, e sbuffando scocciato. Eppure sei sicuro che quella che aleggia sulle sue labbra è la parvenza di un sorriso.
Sorriso che, sfortunatamente, scompare dalla sua bocca non appena gli esponi le tue idee sul regalo che hai intenzione di comprare a Scott.
«Delle bolle di sapone, Stilinski? Sul serio?» ti chiede, mentre su quel viso – coperto da un leggero accenno di barba – compare il solito cipiglio interrogativo, le sopracciglia alzate di scatto e la bocca mossa in una smorfia di stupore e indifferenza. Annuisci, mentre lo osservi scuotere la testa, rassegnato dalla tua costante e docile infantilità.
«Ti supplico proprio per questo. Ho bisogno di un consiglio» lo preghi nuovamente, congiungendo le mani in una muta preghiera, e immagini i tuoi occhi brillare alla vista del lieve cenno di assenso che Derek compie. Cenno di assenso che, però, non avviene quando gli mostri una confezione doppia di bolle di sapone, accompagnata da un abbonamento Netflix annuale e da una confezione maxi di chicchi di mais per cucinare i popcorn. Un semplice «no» non è sufficiente a scalfire il tuo entusiasmo infantile e, quando vi dirigete alla cassa, sei quasi sicuro – quasi – che Derek stia cercando di nascondere un sorriso fra il corrucciamento delle sue sopracciglia folte e scure.
 
*
Sei quasi sicuro che Derek sarà pronto ad ucciderti, strappandoti la gola a morsi, quando vedrà, dinnanzi ai suoi occhi, il regalo che hai deciso di fargli, nonostante quest’ultimo sia accompagnato da un anello di fidanzamento bello e buono. Ti sei sentito piccolo, in un certo momento, nella semi-avanzata età di ventidue anni, per convolare allegramente a nozze, ma ti è poi tornato in mente il dolce e possessivo bacio che Derek ti ha stampato a fior di labbra, una sera in cui rimanere a casa era diventato troppo noioso, e la discoteca e l’alcool erano sembrati un’ottima alternativa. La mattina successiva ti eri svegliato fra le sue braccia – i vestiti ancora intonsi, brillo ma non troppo da concederti del tutto – con il sapore dei suoi baci ruvidi ancora a lambirti la bocca, e mai tu ti eri sentito tanto giusto come in quel momento, con Derek e le sue labbra dischiuse al tuo fianco, un braccio a cingerti la vita sottile e gracile.
Impacchetti velocemente il regalo, stracciando in più punti la carta colorata, e aggiungendovi un disordinato fiocco dall’aspetto un poco disordinato e confuso. Ti strofini i palmi delle mani sui jeans, mentre senti la serratura scattare, e controlli – per quella che sarà la decima volta – che la scatola sia al suo posto nella tasca posteriore dei pantaloni. Così, quando porgi a Derek la confezione, chiudi gli occhi, impaziente della sua malcelata, paurosa e lupesca reazione.
«Il rosso possiede un tipo di energia molto calda che, di conseguenza, porta una persona ad essere loquace, aperta e premurosa» pronuncia, mentre tu riapri gli occhi, e ti accorgi dello sguardo colmo d’amore che ti rivolge, alla vista di quel biglietto breve.
«Dei pastelli, Stilinski? Sul serio?» conclude, e se Derek non avesse detto questa frase non sarebbe Derek. Così, esattamente così, quando ti inginocchi davanti a lui, sei sicuro che stia pensando al modo assurdo in cui cerchi di proteggerti – inginocchiandoti, Stiles? –, non gli lasci nemmeno il tempo di pronunciare una sola parola ancora.
«Ora, io so che tu sei una persona estremamente solitaria e burbera e, quando ti ci metti, anche crudele e cinica» cominci, sfilando la scatolina dalla tasca posteriore dei jeans «ma la prima cosa che mi ha colpito di te – lo ricordo come se fosse ieri – sono stati gli occhi, verdi come una foresta, come i cespugli in cui mi hai permesso straordinariamente di poggiare la mia nuca sulla tua spalla, o come la confezione delle bolle di sapone che-» prosegui, senza terminare la tua strampalata dedica d’amore, perché mentre parlavi hai innalzato la scatolina all’altezza dell’ombelico di Derek, e lui non ha potuto fare a meno di inginocchiarsi dinnanzi a te e baciarti. E, proprio mentre si stacca da te, riesci a percepire un fugace cenno di assenso da parte sua, e mai un luogo ti è sembrato tanto adatto alla tua persona.
 
 
Nota 1: nome e storia blandamente inventate dall’autrice, che non ha nulla a che vedere con i personaggi della serie televisiva originaria;
Nota 2: la mamma di Stiles, in Teen Wolf, è morta precedentemente ai fatti narrati, di una malattia del cervello chiamata demenza frontotemporale.

 
 
N.d.A: AU rigorosamente Sterek che riporta momenti sporadici dell’evoluzione del loro rapporto. Incredibile a dirsi, ma mi sono dedicata anima e corpo a questa one-shot, la più lunga che io abbia mai scritto. Mi farebbe piacere un commento, un segnale di fumo che mi assicuri la vostra presenza. Grazie!
  
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Teen Wolf / Vai alla pagina dell'autore: sfiorarsi