Racconto scritto per il contest
“Il
telefono”
indetto sul forum di
EFP.
Note
autore:
I nomi di
luoghi e di persone presenti nel testo sono esclusivamente
frutto della fantasia.
Racconto revisionato in data 19 febbraio 2017.
“Per
me l'amore è un puro concetto dotato di un corpo inadeguato,
che passando attraverso cavi sotterranei, linee telefoniche ecc,
riesce faticosamente a trovare il contatto. Una cosa terribilmente
imperfetta.
A volte ci sono errori di trasmissione. A volte non si conosce il
numero. A
volte ti chiamano, ma hanno sbagliato numero.”
Dance
Dance Dance
–
Haruki
Murakami
Un
telefono squilla insistentemente e non c’è nessuno
nei dintorni che possa
sollevare la cornetta. Il suo trillo acuto si spande negli ambienti di
una casa
diroccata: attraversa la sala da pranzo, con le sedie di legno
intagliato
rovesciate sul pavimento, giunge nella camera da letto dalle pareti
ammuffite
e, accarezzando la ruggine delle imposte, si riversa
all’esterno.
Luglio.
Ho
scoperto l’esistenza di un paese fantasma che
posso vedere solo io. Si trova a circa tre chilometri da casa mia e lo
si può
raggiungere attraversando la prateria dei Lamberti.
Le
case sono tutte in legno: cadenti catapecchie
dalle travi scrostate, tenute assieme da una manciata di chiodi corrosi
dalla
ruggine. Sopra l’entrata di ogni abitazione
c’è un numero civico inciso sullo
stipite della porta. In passato, probabilmente, erano colorati in
modo
sgargiante, ma – dopo tutte le stagioni trascorse
– oggi è rimasto gran poco
della pigmentazione originaria. Al tempo piace fare razzia delle cose.
A lui
piace appropriarsi indebitamente dei dettagli del mondo, ma non lo
ammetterebbe
mai. No, lui si definisce un collezionista, mica un ladro.
Quando ho bisogno di un po’ di tempo per me stessa, mi reco
spesso in quel
luogo. È comparso magicamente proprio in un periodo della
mia vita in cui avrei
voluto fuggire da tutto e da tutti.
Nessuno
può trovarmi lì, perché è
un luogo
imprigionato in una bolla temporale. I comuni mortali non percepiscono
ciò che
si muove eternamente nella dimensione del tempo. E io, lì
dentro, posso
smettere di esistere per un po’; smettere di essere la
giovane segretaria
dell’avvocato, smettere di indossare vestiti formali e tenere
i capelli
raccolti. Posso essere me stessa e ribellarmi alle convenzioni della
società.
Avevo sempre pensato che fare la segretaria fosse un lavoro noioso,
contro la
mia indole avventuriera. Tuttavia, all'età di venticinque
anni, in un periodo
in cui trovare lavoro era piuttosto complicato, avevo accettato anche
quella
mansione.
Lungo le vie di quel paese è un po’ tutto nel
caos, ma l’atmosfera è piacevole.
A tratti si respira l’odore di cose vecchie e consumate dal
tempo, a tratti
profumo di fiori selvatici e camomilla. Mi ricorda un po' le mie
escursioni ai
mercatini dell'usato, quando vado alla ricerca di qualcosa di prezioso
e
abbandonato.
C’è
una panchina infossata tra la vegetazione:
su di essa ogni tanto rivedo le ombre di chi si sedeva ad aspettare e
chiacchierare.
Un paio di scarponi abbandonati sul secondo gradino di una scalinata
sono
rivestiti di muschio, ma se mi concentro li posso vedere indossati da
un uomo
brizzolato che si reca giornalmente dal panettiere in fondo alla via.
Non
sono pazza, semplicemente all’età di tre
anni, tre mesi e tre giorni di vita ho deciso di inserire
l’uncinetto di mia
madre nella presa della corrente del salotto. Ci potevo rimanere secca,
invece
mi è andata bene, e da allora il presente si è
mescolato al passato. Continuo a
vedere cose che ora sono già polvere, oggetti e voci che non
appartengono più
al presente da qualche giorno o da qualche secolo.
Di
solito sono manifestazioni temporanee di
breve durata: l’evento più lungo si è
protratto per una decina di minuti. Dunque non mi
so spiegare perché questo complesso di case sia
così insistente: continua a
stagliarsi in mezzo alla campagna, con la nebbia, con la pioggia,
durante il
giorno e con la luna. Potete immaginate la mia sorpresa quando sono
tornata a
passeggiare nel luogo e ho ritrovato la città fantasma,
così come l’avevo
lasciata l’ultima volta. I Lamberti sarebbero ammattiti se
avessero saputo che
i loro possedimenti confinavano con una cittadina oscura a
misteriosa.
Conoscendo il loro attaccamento morboso alla terra, non avrebbero
dormito alla
notte.
Le
residenze di questo particolare paese non
sono tante. Il numero civico più alto che io abbia
incontrato finora è il 100.
Nella casa numero 99, l’unica con un portico e una sedia a
dondolo
costantemente mossa dal vento, c’è un telefono
nero che ogni tanto suona. È uno
di quei vecchi apparecchi con la cornetta e la ruota numerica; il cavo
che lo
collega alla linea elettrica è tagliato, mangiato dai topi,
eppure lui continua
a squillare, come se chi sta dall’altra parte riuscisse a
creare un
collegamento solo tramite la forza di volontà.
A telefonare è sempre il solito ragazzo dalla voce serena e
un po’ malinconica.
Mi piace il tono e la frequenza di vibrazioni che produce
nell’aria. È così
piacevole parlare con lui che mi sembra di conoscerlo da sempre. Quando
sollevo
la cornetta, lui inizia sempre con la solita frase: «Pronto.
Com’è il cielo lì?
Qui sembra stia per venire la fine del mondo.»
La
prima volta ho guardato fuori dalla finestra.
Un riflesso condizionato: sapevo che era una giornata soleggiata. Ero
appena
entrata in quella casa attirata dallo squillo del telefono e dovevo
ancora
abituarmi al buio degli interni polverosi. Gli dissi semplicemente che
c'era il
sole, e allo stesso tempo mi chiesi perché fosse
così importante per lui sapere
com'era il tempo qui.
Oggi mi
permetto di rispondergli con frasi
più poetiche e lontane dalle convenzioni.
«Il
cielo sembra lo specchio appannato di un
lago, e il sole il lampione d’un’antica
città sommersa.»
Agosto.
Sì,
ora posso dirlo, ne sono certa. Ahimè, mi
sono innamorata di una voce. Non credevo fosse possibile amare qualcosa
di
astratto. Pensandoci è un po’ come amare un sogno
irrealizzabile, una figura
intangibile. È una pazzia, no?
La
voce di quel giovane esiste solo perché
esiste l’atmosfera terrestre e dunque il suono può
propagarsi nell’aria. È il
mero risultato delle leggi della fisica che, da quello che ne so,
potrebbero
anche essere del tutto errate.
Certe
volte mi siedo per terra ad aspettare che
l’apparecchio si metta a suonare. Sul pavimento, a gambe
incrociate, l’attesa è
una dolcissima tortura. L’incertezza è come un
masso di diverse tonnellate
sostenuto da un sottile filo sopra la mia testa. Potrebbe cedere da un
momento
all’altro, ma l’adrenalina mi impedisce di
andarmene. Potrei morire da un
momento all’altro se lui non telefonasse, ma potrei anche
sopravvivere. Dipende
solamente dalla resistenza di quella fine cordicella che è
la speranza.
Ogni volta che il telefono emette un suono squillante tutto intorno, un
po’
della polvere che gli si è posata sopra durante la mia
assenza scivola giù, ed
è una slavina vista con gli occhi di un gigante.
Quando
alla fine della chiacchierata riattacco
la cornetta, è come se la mente del ragazzo si azzerasse.
Ricominciamo sempre
da zero e ogni volta ritroviamo una sintonia familiare, come due
persone che si
conoscono da molto tempo.
Ci
penso spesso: potrei dirgli qualsiasi cosa e
alla fine sarebbe come se non gliel’avessi mai detta. La
più bella
dichiarazione d’amore di tutti i tempi finirebbe persa nel
vento che ulula tra
le fenditure sulle pareti, fra le crepe del soffitto al piano
superiore.
Anche
se sono cresciuta con questo dono, dopo tanti
anni non ho ancora capito come una cosa del genere sia possibile; non
mi è
chiaro nemmeno il motivo per cui certe cose del passato
sostino più a
lungo nelle mie percezioni, mentre altre svaniscano in breve. Temo che
questo
dubbio rimarrà irrisolto, a meno che, in futuro, io non
decida di consegnarmi
nelle mani della scienza.
Un giorno, dopo aver risposto alla sua consueta domanda, gli ho chiesto
che
anno fosse. Per qualche secondo dall’altra parte della
cornetta si è protratto
il silenzio, tanto che pensavo fosse caduta la linea.
«È
il 10 agosto 1942... Ed è anche il mio
compleanno», rispose infine.
«Davvero?
Tanti auguri! Mi spiace non essere lì
per farteli di persona.»
Lo
sentii ridere. «Cos’è, uno
scherzo?»
Per
un attimo l’ho visto nella mia mente:
capelli castani, occhi scuri e profondi, arricciati ai lati a causa
della
risata, un filo di barba a incorniciare un viso pulito e giovane. Non
sapevo se
fosse veramente così, ovviamente, ma qualcosa mi suggeriva
che il suo aspetto
fosse abbastanza simile.
Prima che
potessi dire qualunque cosa, il
ragazzo parlò di nuovo: «Compio
ventitré anni.»
Formulai
mentalmente un veloce
calcolo: amavo qualcuno che, se era ancora vivo, ora aveva
novantasette
anni?!
«Io
ho due anni in più di te», dissi infine,
consapevole della contraddittorietà di quanto stavo
affermando.
No,
io amavo un ragazzo di ventitré anni
intrappolato in una parentesi temporale, un ragazzo che continuava a
far
squillare il telefono nonostante il cavo sfilacciato che non ospitava
più
nemmeno un watt di elettricità.
La seconda settimana di agosto, ho realizzato che un collegamento
vocale verso
una linea temporale passata mi importava molto di più di una
relazione reale
nel presente. Ho detto al mio datore di lavoro che ero malata,
così, invece di
fare la segretaria, ho aperto il portatile e mi sono messa a fare una
ricerca
negli archivi storici del catasto. Con una buona dose di fortuna, verso
sera ho
trovato ciò che cercavo. Tramite una serie di ricerche su
città storiche italiane
abbandonate, sono risalita al nome di Aurivo.
Riconobbi il posto da una foto datata 1940. Si trattava un comune
fondato dal
paladino Nobile Aurivo
nel 1867, prima designato
Borgo Lorus. Questa
informazione era accompagnata da
alcuni articoli: in uno si leggeva che il comune era stato teatro di un
violento rastrellamento in epoca nazista: precisamente il 20 agosto
1942. C'era
persino una lista di persone che avevano perso la vita durante il
tragico
evento. La stampai e studiai i nomi, ma ovviamente nessuno mi era
familiare.
Ci
credete che per tutto questo tempo, io e il
ragazzo del telefono, non ci eravamo mai presentati come si deve? Nella
mia
testa, in realtà, lui si chiamava Giulio. Non so
perché proprio quel nome:
forse me lo suggerivano il tono della voce e i modi gentili.
D’altronde mi
era sempre piaciuto dare un nome alle persone sconosciute che
incontravo per
strada, quelle che sapevo che non avrei rivisto più, e
così avevo fatto anche
con Giulio.
Nei
giorni seguenti mi recai sul posto
quotidianamente, ma il telefono non squillò mai. Stavo
iniziando a pensare al
peggio, quando finalmente, dopo una lunghissima settimana di silenzio,
il
trillo del telefono mi ridestò al torpore.
Driiin.
Il
suono del telefono in quel momento sembrò
diverso, carico dell'ansia e del tormento che avevo dentro. Ci misi una
manciata di secondi a raggiungere e sollevare la cornetta per
rispondere. Avevo
preso l'abitudine di gironzolare nei paraggi del numero civico 99 e, in
quel
momento, ero proprio nel selciato all'esterno dell’abitazione.
«Grazie
a Dio hai telefonato!», esordii senza
dargli il tempo di porre la solita domanda. «Ascolta, ti
sembrerà strano, ma ho
bisogno di sapere il tuo nome.»
«Devo
aver sbagliato numero...», disse lui dopo
un attimo di titubanza. E certo, una pazza estranea che ti si rivolge
in quel
modo avrebbe spaventato chiunque. Mi maledissi e cercai subito una
soluzione
per non farlo fuggire.
Mi
schiarii la voce. «Chiedo
scusa, il numero è giusto, solo che in
questo momento sono occupata. Se mi lasci il nome e il numero, ti
richiamo.»
Esitò
qualche attimo e poi mi rispose: «Capisco.
Sono Didimo Traisci e
questo è il mio numero...»
Mentre
lui mi forniva le cifre, io controllavo i
nomi sull'elenco che avevo portato con me. Didimo Traisci
era il quarto. Sentii il panico crescere.
«Ehm,
mi sono appena liberata da quell’impegno»,
lo interruppi. «Ascoltami, quello che sto per dirti ti
sembrerà insensato, ma
devi lasciare il paese prima del 20 agosto 1942! Mi hai
capito?»
«Perché
dovrei farlo?»
«I
nazist–»
«Shhh! Sei pazza! Se è
uno scherzo non è divertente», mi
bloccò.
Rimasi
per un attimo interdetta. Perché non
voleva che nominassi i nazisti? Temeva forse che potessero rintracciare
la
chiamata? Non mi risultava che al tempo ci fosse la tecnologia
necessaria
per
compiere intercettazioni telefoniche, ma potevo anche sbagliarmi: non
sono una
storica.
Tralasciai quelle riflessioni e ripresi a parlare con fervore: «Non è uno scherzo! E anche se lo fosse, che cosa ti costa darmi ascolto? Sei in pericolo! Ti devi fidare di me...»
Seguì
il silenzio. Credo di non aver mai udito
una quiete più desolata e profonda di quella. Né
un sospiro, né un fruscio o un borbottio. Nulla. E poi
Giulio
riattaccò.
Tut
tut tut…
Settembre.
Le foglie degli alberi stanno ingiallendo. La prateria dei Lamberti sembra più ampia, ora che la città fantasma è scomparsa. Non c’è più nessun telefono che squilla, ma solo campi lasciati incolti, alberi e un fiume serpeggiante. E quella voce attraverso il tempo sembra un ricordo lontano, la voce di un fantasma che continua a vivere da qualche parte nel passato.
"Quella voce attraverso il tempo" di Monique Namie
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