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Autore: Menade Danzante    28/05/2016    1 recensioni
Dal testo:
Il Dottore cerca la donna dalla quale è scappato, codardo, in un pomeriggio grigio e freddo, la donna che non ha voluto gli rimanesse accanto negli ultimi istanti della sua vita, tanto da fargli gettare alla rinfusa i suoi abiti nel bagaglio e lasciare l'appartamento quasi dopo di lei [...] Lì, a New York, mentre si mescola in una molteplicità dalla quale non riesce ad emergere singolarmente, egli capisce che il problema è stato – e continua ad essere – lui.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Doctor - 10, Rose Tyler
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nostos





Si trova a Roma. Mani nelle tasche dei pantaloni, naso all'insù, arricciato per assecondare la concentrazione dello sguardo, bocca aperta in una smorfia che pare di disgusto – in realtà deve solo completare l'espressione.
Non ha scelto a caso la via in cui fermarsi. Il Foro Romano appare meraviglioso da quell'inclinazione all'ora del tramonto, e il Dottore si è sempre ritenuto un amante del buongusto e della bellezza. Per un attimo, uno solo, pensa di voler scattare una fotografia allo spettacolo di rovine di fronte a sé; poi ricorda che a lui le fotografie non piacciono. Il ricordo di una cosa bella deve rimanere impresso nella memoria, non su una pellicola.
Batte le ciglia nel rivede per un attimo la dolce – la sua – Rose mentre inforca la macchina digitale o il telefono, mentre prende l'inquadratura concentrata e fa poi scattare un fastidioso click che ferma una copia della realtà.
Batte di nuovo le palpebre perché Rose Tyler non è lì con lui a pregarlo di fermare un passante, uno qualsiasi, di mettersi in posa e di passarle un braccio intorno alla vita o alle spalle.
Deglutisce come per cacciare via un peso che gli opprime le vie respiratorie.
Nel suo campo visivo entra una figura femminile dalle tonalità chiare. Si volta per metterla a fuoco e vede che ha, tra i capelli, un nastro rosa che a Rose sarebbe piaciuto molto.
Quando torna in hotel, a tarda sera, il Dottore ricorda meglio l'ornamento sui capelli di quella sconosciuta.
Mentre prepara la valigia e la chiude si dice che avrebbe dovuto effettivamente fare una foto. Poi guarda quella che raffigura Rosa sorridente che sta sul comodino. Quella deve essere riposta nello zaino.
«Buonanotte» sussurra, spegnendo la luce.


«... Un tumore. Sono desolato, mi creda. Non vorrei essere io a darle la notizia»
L'uomo non ha voglia di pensare una risposta sarcastica o pungente. Dalla parola tumore non ha capito più molto. Si sussegue un termine tecnico dopo l'altro e la medicina non è proprio il suo campo perché possa muoversi in quelle parole con destrezza.
«Guarirò?» interrompe all'improvviso, conciso.
Il silenzio cala tra di loro. Segue un altro discorso di cui capisce “grave forma di”, “rare complicazioni che si sono presentate”, “nessuna cura disponibile”.
«Quanto mi resta?» domanda di getto. Nemmeno guarda il medico, nemmeno ragiona. Si aspetta di sentire solo un numero, che arriva poco dopo.
«Due, forse tre mesi» Dopo qualche attimo avverte un: «Mi dispiace»
«Anche a me» ma non è sicuro di averlo detto o solo pensato.


Si chiede per quale ragione, di città in città, debba sempre alzare gli occhi e piegare la testa con quell'inclinazione assurda per guardare qualcosa che svetta. È una domanda che gli sorge spontanea, perché cercare di osservare al meglio la facciata della cattedrale di Notre Dame gli sta procurando un leggero ma insistente dolore al collo. Se lo massaggia con una mano mentre continua a guardare su, provando a memorizzare il più possibile, ma qualcosa gli sfugge in continuazione.
Il Dottore persevera, guarda ancora su e trova tutto geniale, trova la risposta: mai come in quel momento ha avuto chiaro davanti a sé ch'egli è fatto per puntare in alto, per conoscere ciò che sta sopra di lui, qualcosa che punta verso l'infinito al cospetto del quale si sente solo un essere minuscolo e affascinato. Gli spunta un sorriso quando pensa piuttosto chiaramente:
Sono come Notre Dame.
Approfondisce il pensiero: la cattedrale simbolo di Parigi, per quanto si innalzi sul piccolo universo che la circonda, non è arrivata così in alto, non ha superato il suo limite; così lui, come lei, non ha oltrepassato il suo.
Sospira, prima infilandosi le mani nelle tasche, poi le occupa a fissare un paio di bottoni del cappotto per non farlo svolazzare al vento di fine febbraio.
Mentre lotta con i lembi, il suo sguardo si inchioda alle sue scarpe da tennis: d'un tratto, il desiderio di volare alto lo abbandona.


Rose sembra sconvolta, e il Dottore riesce a capire che, se fosse in lei, evidentemente farebbe lo stesso: si fisserebbe con orrore.
Si ritrae, cerca di non avere un confronto diretto con lei, sperando che voltarsi basti a nascondere la menzogna. È troppo impegnato ad odiarsi per ricordare che la sua Rose si fida ciecamente di lui per metterlo in dubbio. Gli affiderebbe la sua stessa vita. Egli non vuole darle il peso di vederlo perdere la sua.
«Parliamone» è la proposta speranzosa della ragazza che ha appena sentito il Dottore dirle che non vuole più stare con lei.
«Non ho più niente da dirti»
«Aspetta-»
«No»
«Ti prego!»
«Ho detto no»
La fiamma negli occhi del Dottore incontra per un attimo la freschezza dei fiori nell'iride di Rose, e la vede appassire per colpa sua.
«Vattene» intima, consapevole che non riuscirà a dirlo di nuovo. Intima e lo urla allo stesso tempo.
Le è grato per non aver replicato, ma quando sente la porta dell'appartamento sbattere con foga capisce di essere stato un idiota.


Il Dottore corre come un pazzo per tutto l'aeroporto. Ha capito male il suo gate e adesso è completamente perso nei meandri di persone disordinatamente messe in fila per l'imbarco.
Corre, corre, corre.
Urta la gente come se non la vedesse, ma il tempo di voltarsi a chiedere sinceramente scusa non è a sua disposizione. Spinge la valigia con forza per poi riprenderla qualche metro più in là in uno stridore di ruote e calci per farla andare più veloce.
Imbocca la giusta direzione solo dopo un altro minuto abbondante. Trascina il bagaglio con forza, riuscendo perfino ad allungare il passo già fuori dall'ordinario.
È con un sorriso burlone, a metà tra un buffo tentativo di scusarsi e una vittoriosa ammissione di superiorità nei confronti dei voli, che sbatte passaporto e biglietto sul banco dell'impiegata, che fa il suo dovere come se avesse davanti un folle e non un passeggero qualunque.
«Allons-y!» ridacchia il Dottore prima di infilarsi nell'aereo a cercare il suo posto, rigorosamente prenotato per il finestrino.
Osserva solo per un paio di minuti il panorama mozzafiato che vede dall'oblò, poi decide che un sonnellino può anche permetterselo. E si risveglia sette ore dopo con una voce metallica e gioviale che annuncia che la traversata si è conclusa con successo e che ora sono a New York.
Non fa in tempo a posare la valigia in hotel che già il Dottore sente che non è stata una grande idea includere la Grande Mela nella sua sconclusionata tabella di viaggio.
Quando aveva prenotato il volo, in fretta e furia, da Parigi, gli era sembrata l'idea più brillante che avesse mai avuto nelle ultime due settimane: cosa se non i grattacieli di New York avrebbero potuto suggerirgli il desiderio di andare oltre?
Ma ora che tocca con mano quella realtà, il Dottore crede di non essersi mai sbagliato tanto.
Passeggiando tra le strade affollate si sente del tutto impotente, fuori posto, annichilito e soprattutto solo.
Gli andrebbe anche bene se potesse dedicarsi a ritrovare se stesso tra la folla caotica e multiforme che gli sfreccia accanto in un tripudio di odori fantasiosi e vari. Potrebbe anche accettare questa soluzione di completo abbandono, e in fondo è quello che cerca.
La verità, però, non è questa. La verità è che il Dottore, tra la miriade di facce che gli passano vicino e che non ricorderà in capo a due minuti, non sta cercando di ritrovarsi in una catartica analisi di se stesso, in un esame di coscienza prima di morire. Il Dottore cerca la donna dalla quale è scappato, codardo, in un pomeriggio grigio e freddo, la donna che non ha voluto gli rimanesse accanto negli ultimi istanti della sua vita, tanto da fargli gettare alla rinfusa i suoi abiti nel bagaglio e lasciare l'appartamento quasi dopo di lei, perché Rose Tyler, nonostante tutto, sarebbe tornata in quelle stanze per riprendere il discorso, litigare furiosamente se necessario, ma l'avrebbe fatto perché lei non ha mai smesso di lottare per loro.
Il Dottore si è ripetuto tante volte, fin quasi a convincersene, che si è comportato così male con la donna che amava – che ama – per non farla soffrire in quei due mesi di agonia e preparazione alla morte.
Lì, a New York, mentre si mescola in una molteplicità dalla quale non riesce ad emergere singolarmente, egli capisce che il problema è stato – e continua ad essere – lui.
Seduto su una panchina a Central Park, si dice – ma non con pensieri concreti; è come un'emozione rivelatrice quella che avverte – si dice che è stato troppo codardo per sopportare la sofferenza sua e di Rose insieme. Se si fosse lasciato compatire dalla sua compagna, ne è convinto, sarebbe morto prima dell'inevitabile e previsto appuntamento fatale.
Ora che è solo, però, percepisce il dolore della sua Rose come se il suo cuore fosse doppio e una parte le appartenesse. Il cuore nel petto di Rose, può avvertirlo, è più lacerato del suo, insidiato dall'ignoranza.
«Mi dispiace» mormora. «Mi dispiace tanto»
Si sta rivolgendo ad una ragazzina pallida e paffuta che gioca vicino a lui con una palla e che risponde fatalmente al nome di Rose gridato da una madre ansiosa. Lo guarda sospettosa e si allontana.
In un modo o nell'altro, Rose Tyler gliel'ha fatta pagare.
Gli manca da morire e se potesse tornare indietro nel tempo, giura che le direbbe tutto.


Il Dottore si è rivolto ad uno psicologo.
Da solo non ce la fa – non ce l'ha mai fatta, ha sempre avuto qualcuno accanto, e ora che non ha nessuno ne sente terribilmente il bisogno.
Eppure, egli ha capito praticamente subito che non gli sarebbe stato di grande aiuto quell'uomo ben vestito e dall'aria socievole. L'ha capito quando gli ha chiesto il suo nome e, seppur a malincuore, egli ha dovuto rispondere John Smith.
Con Rose ha sempre potuto giocare con il suo nome. Non aveva mai capito perché dovesse circoscriversi in uno John Smith qualunque. A Rose non importava di chiamarlo così o Dottore. Al resto del mondo, a quanto pare, sì. Non basta la sua carta d'identità, o il passaporto. Il Dottore deve dirlo, deve urlare che si chiama John Smith, deve proclamarlo.
Dottore gli dà libertà. Senza identità, senza vincoli, senza origine.
È per questo che ha risposto brevemente a tutte le domande che gli sono state poste. Ha perso interesse subito negli argomenti con cui lo psicologo ha sostenuto l'accettabilità della morte come inevitabile conclusione della vita – il Dottore ha cercato di ribattere che è la morte per vecchiaia, quella, e non un tumore che gli macera il corpo dall'interno, ma crede che le parole gli siano rimaste in gola. Il sorriso smagliante che gli ha rivolto prima di uscire, come se non fosse andato lì a parlare di morte, della sua morte, quello no, non l'ha solo immaginato.
Ha visitato nel giro di una settimana tre città – Siviglia, Berlino e New Orleans. Si è entusiasmato con la prima, giocando persino a farsi ritrarre da un artista di strada. Gli ha chiesto di posizionarlo nel porticato alle sue spalle, bramoso di accentuare il contrasto tra la sua figura così poco araba e l'architettura moresca fin troppo elegante.
Ha rimirato il quadro sul battello che l'ha traghettato sul Mississippi e ha deciso che al posto di quelle arcate avrebbe anche accettato di vedersi di fronte all'Antoin's, o alla stazione di Berlino.
Tuttavia, ora che passeggia mesto a Tokyo, non ha dubbi: può pensare di vedere sostituito lo sfondo magistrale dell'immagine solo da un ciliegio in fiore, maestoso e fiero come solo la natura può essere.
Tira fuori dalla giacca blu un taccuino in pelle. Non è un amante del disegno, ma sente il bisogno di imprimere su carta un volto sorridente di donna, un nome che non osa pronunciare, troppo lontano, troppo amato, troppo dissacrato.
Disegna Rose con un sorriso largo e luminoso, come se fosse con lui, appoggiata al tronco in contemplazione. Il Dottore avrebbe riso gentile e innamorato di questa dolcezza, ma quando richiude il quaderno l'espressione che gli atteggia il volto è più dolente che mai.


Comincia a non poter ignorare il dolore fisico che il suo corpo prova di continuo. Ora è più forte, gli toglie il respiro, a volte gli strappa una fitta. Altre, ha problemi a coordinarsi e si sente poco concentrato.
Cammina poco, ormai. Non corre più, nemmeno adesso che sente sotto ai piedi nudi la sabbia fine della spiaggia di Perth. Ha tentato, ma quando muovere contemporaneamente la sabbia e il suo corpo gli è risultato troppo faticoso ha smesso, si è seduto, ha inforcato gli occhiali da sole e si è perso a guardare il mare.
Non ha chiaro il motivo per cui la sua scelta sia ricaduta sull'Australia. Non ne è mai stato attratto, né può definirsi un grande appassionato del mare o del surf. Però è lì, e tutto sommato gli fa piacere. Può persino accettare la staticità, e questo gli fa definitivamente capire che non sta bene.
Glielo ricorda anche l'improvvisa rigidità della gamba destra. La mano corre a massaggiarla, ma non è sicuro che serva a qualcosa.
Con urgenza cerca conforto nello sciabordio delle onde che si infrangono sugli scogli e sulla riva, rallentano appena e ripartono con velocità ridotta, ma non finiscono mai il loro corso.
Il Dottore non è come il mare. È una consapevolezza che gli toglie il respiro per un attimo, che lo fa arrabbiare in un istante e gli delinea di fronte una fine vicina. Troppo vicina.
Un'altra verità gli saetta nella mente: non vuole morire aspettando di sentire tutto il dolore che può provare ancora e ancora.
E soprattutto non vuole morire a Perth.


Ama Londra. Lo sa quando scende dall'aereo e ne respira l'odore. Lo sa quando una familiare esclamazione nella sua lingua lo desta dal torpore. Lo sa quando si guarda intorno e ricorda perfettamente dove dover andare per prendere il mezzo pubblico più vicino. Lo sa quando ne rivede le case così contrastanti tra loro, retaggi di epoche passate che a lui dànno sapore di novità.
Ama Londra perché è l'unica alla quale può pensare di dare l'onere e l'onore di accogliere il suo corpo anche da morto, non solo che da vivo.
La ama così tanto che non cerca subito una stanza d'albergo – non può tornare nell'appartamento che ha diviso con Rose per tanto tempo –, ma si preoccupa di visitare la città, come se non la conoscesse a memoria, come se cercasse di trovare eventuali cambiamenti davanti ai suoi occhi. La ricorda e vuole innamorarsi di nuovo.
Solo a serata inoltrata decide che è il momento di stendersi un po'. Il viaggio e l'esplorazione l'hanno stancato, gli hanno indolenzito le ossa e le membra, ed è arrivato il momento di trovare ristoro.
È una stanza delicata, accogliente e confortevole quella che il Dottore ha scelto per sé, e ne saggia il letto con fare esperto, con l'orgoglio di dire a prescindere che non è stato così comodo in nessuna stanza d'albergo di tutto il mondo.
Il Dottore ama Londra e ciò che desidera in questo momento è di viverla per sempre.


Il suo medico di fiducia – unico, in realtà – non ha nascosto lo stupore nel vederlo ricomparire davanti ai suoi occhi dopo quasi due mesi di assenza. Il Dottore ha creduto alla sincerità con cui l'ha accolto, evitando in un primo momento di parlare del tumore; è stato proprio lui a dover intavolare l'argomento quando, nel mezzo di una frase, ha scordato ciò che doveva dire e ha perso secondi interi per provare a ricordarlo. Quando non ci è riuscito, ha ammesso di provare dolore, a volte più acuto, altre vagamente sopportabile, ma comunque dolore.
Sono bastate poche altre domande mirate perché il medico potesse dirgli che il tumore aveva accelerato i tempi e che non mancava molto. Per cosa, non lo ha precisato per discrezione.
Ciò, però, a cui il Dottore ripensa, mentre beve un tè in un bar vicino al Tamigi, è il modo in cui il medico gli ha suggerito, in quella mattinata, di riprendere gli eventuali contatti londinesi e di prepararli alla sua perdita, di riconciliarsi con qualcuno e, soprattutto, di ammettere quello che sta per succedere. Deve aver capito che il Dottore non ha fatto parola del suo stato di salute, che deve aver fatto le valigie il giorno stesso e che è partito, lasciando tutto a metà. O forse, quello è un consiglio che i medici dànno a tutti i malati terminali per cercare un conforto nella gente, un ultimo barlume di vita. Il Dottore non lo sa, ma pensa solo a Rose.
Immagina che sia tornata a vivere da sua madre, immagina come debba essersi sentita disperata e abbandonata in quel pomeriggio freddo e spaventoso, e anche nei giorni successivi. Ancora, probabilmente, deve sentirsi così, arrabbiata e lasciata sola.
Per l'ennesima volta, il Dottore si ripete che è stato un idiota, che lui non voleva lasciarla andare, cacciarla. Forse l'ha voluto, ma ora desidera solo di averla accanto, di ridere con lei, di meravigliarsi insieme a lei di tutto ciò che li circonda e che li avvolge. Sa per certo che se Rose fosse lì, gli farebbe notare come è calmo oggi il fiume, e glielo direbbe con la gioia a intaccarle la voce.
Se la sua Rose fosse lì, sarebbe impegnata ad infondergli tutta la sua creatività, tutto il suo entusiasmo, pur di vederlo sorridere nonostante tutto.
Ma Rose non è con lui e il Dottore non sorride.


Il Dottore darebbe anche ascolto al suo medico, se non fosse per il fatto di essersi sentito completamente oppresso da tutte le chiamate perse, da tutti i messaggi lasciati nella sua segreteria, da tutti gli SMS che gli hanno invaso la scheda di memoria del suo telefono. Non ha acceso il suo cellulare per tutto questo tempo. L'ha spento il giorno in cui si è alienato dalla vita, e non l'ha più toccato. Ora che l'ha fatto, non può che guardare con gli occhi sgranati le caselle dei messaggi che si riempiono senza sosta, segnando numeri spropositati.
In cima alla lista c'è Jack, l'amico e il collega più caro. Faccia di Boe, lo chiamavano ai tempi del college. L'informazione gli torna alla memoria e lo fa sorridere. Legge un “Ehi, così ci fai preocc-” e il resto della frase si perde nell'anteprima di un nuovo SMS. Non lo guarda neppure: c'è una grossa lacrima che gli appanna la vista per un momento, ma riesce a reprimerla poco prima di lasciarla crollare.
Per la prima volta da quando è partito, il Dottore si chiede quanto abbia fatto preoccupare tutti coloro che gli stavano accanto. Nemmeno lo fa ridacchiare – e normalmente lo farebbe molto – il riflettere sul fatto che persino la madre di Rose, per quanto arrabbiata nei suoi confronti per aver lasciato in un modo così brutale sua figlia, sarà di certo preoccupatissima.
Ha paura di scorrere ancora il lungo elenco di nomi e buste lampeggianti perché teme di trovare un altro mittente al quale non ha la forza di pensare.
Stringe l'oggetto, poi lo mette da parte: il peso che sente nel cuore è troppo gravoso per sostenerlo ancora per molto, soprattutto sapendo che troverà il nome di un fiore tra i tanti che affollano il suo cellulare.


Il tu-tu costante del telefono gli dà il tempo di riflettere per alcuni momenti.
È di nuovo lì, in piedi alla finestra del suo vecchio appartamento, il cuore che gli batte all'impazzata e le mani che tremano furiose. Se Rose lo vedesse in questo stato, non lo riconoscerebbe. Per sua fortuna, ci sono almeno quattro isolati tra di loro.
Non sa perché l'ha fatto, perché, alla fine, si sia deciso a pigiare quel pulsante verde e a premersi il cellulare sulle orecchie, ma si ritrova in quella posizione scomoda e con l'ansia a divorarlo dall'interno.
Ansia che non accenna minimamente a placarsi quando la chiamata viene accettata dal destinatario.
L'esitazione dall'altra parte della cornetta lo spaventa come non mai. Rose è lì, ha risposto, avverte il suo respiro. Avverte anche un lieve rumore di automobili, clacson e parole troppo distanti per essere capite.
Il cuore gli si ferma all'improvviso, o almeno gli sembra così. Vorrebbe parlare, dire qualcosa, urlare, ma il Dottore non è bravo con le parole e i sentimenti, nemmeno per Rose, nemmeno quando si sente morire nel corpo e nell'anima.
Tace e attende, trepida e si odia per il dolore, ma tace e le lascia il tempo per capire, realizzare, accettare.
«Tu?» sussurra Rose d'un tratto, spaventata e titubante.
«Ciao, Rose» ribatte il Dottore, abbozzando un sorriso triste, e si dispiace che lei non possa vederlo. Da come la donna geme capisce che sta trattenendo le lacrime.
«Come stai?» osa il Dottore, sentendosi un idiota: Rose non risponde, non parla, probabilmente lo sta odiando, ma che mantenga attiva la linea telefonica è già un punto a suo favore.
Si sente in dovere di continuare: «Sono tornato a Londra» Lo annuncia con leggerezza e non ha intenzione di approfondire.
«Sei stato via per tutto questo tempo?»
Ha la sensazione che Rose lo stia interrogando per assicurarsi sinceramente che non sia stato in città per quasi tre mesi.
«Sì, sono andato via. Ho visto il mondo»
Gli viene da ridere nel constatare che no, non ha ovviamente visto il mondo intero, ma non ritiene opportuno commentare.
«Perché?»
C'è un improvviso vuoto nella mente del Dottore che non ha la più pallida idea di cosa dire. Il pensiero di riuscire a dirle tutto ciò che accadrà di lì a pochi giorni lo annienta. Non è ancora in grado di farlo, non è in grado di ammetterlo neanche a se stesso.
Esita appena, poi confessa un timido, sciocco: «Mi dispiace»
Rose non parla, non gli comunica tutto ciò che pensa, non gli riversa addossa né angoscia, né dolore, né rabbia. Solo, tace. La terribile prospettiva per cui, forse, non dice nulla per non ferirlo con parole troppo dure lo fa stare ugualmente male, ma in fondo gliene è grato. Fa appena in tempo a pensare che chiuderà la chiamata, che non ha senso continuare una conversazione che sembra dover rimanere muta, che la ragazza prende la parola.
«Perché sei tornato?», e lo sforzo che ha fatto per essere lievemente più gentile gli scioglie il cuore.
«Vorrei parlarti» Non è mai stato così felice di aver fatto una proposta del genere. Ricorda di essersene andato durante un litigio. Andarsene per sempre dopo una chiacchierata di scuse e, forse, amore reciproco gli sembra un'idea più che allettante.
«Anch'io credo di doverti parlare» È più rude di prima, ma il Dottore pensa che sia assolutamente giusto che gli riservi un trattamento di questo tipo.
«Dove sei?» le domanda, infilandosi la mano in tasca, gesto di conforto e incoraggiamento.
«Non in Inghilterra» principia Rose a metà tra il disperato e l'abbattuto. «Sono in Francia. Parigi»
Il Dottore fa per chiedere allucinato il motivo di tale improvvisa partenza, ma viene preceduto.
«Cercavo te»
Trasecola e si appoggia al muro della stanza con tutto il suo peso, sconvolto perché qualcuno è stato in grado di comprendere al volo il suo itinerario, quel percorso logico e illogico al tempo stesso che ha deciso di seguire.
«Mi hai cercato?» non può trattenersi dal chiedere.
«Sì, certo che ti ho cercato! Sei sparito, non sei più tornato, il telefono era sempre spento... Ero spaventata, capisci?»
Capisce. Capisce perché lo era anche lui – spaventato da sé, dal futuro inesistente, dall'essere completamente solo per un suo maledetto errore, dall'essere senza Rose.
È stato terrorizzato e lo è tuttora, ma per un motivo diverso: e se Rose non volesse davvero rivederlo? Se decidesse di ripensarci e di rimanere in Francia ancora per molto? E se non riuscisse a vederla prima della fine?
«Mi dispiace tanto» riesce a dire, articolando le parole e i suoni con fatica. «Non avrei dovuto»
«No, non avresti dovuto»
La stilettata lo colpisce con forza e vigore, quasi con cattiveria.
Il Dottore merita tutte quelle sensazioni.
«Questa volta... rimani?»
È la voce di Rose che lo ridesta dallo stato di autocommiserazione in cui si è gettato senza nemmeno accorgersene.
«Come?» soffia, non consapevole di aver inteso bene.
«Questa volta rimani a lungo a Londra, Dottore?»
L'ha chiamato Dottore. Dottore. Non John Smith. Non come tutti gli altri fanno. Rose ha ripreso il gioco di sempre, il loro piccolo modo di essere diversi dagli altri. Lo ha chiamato come se non fosse accaduto niente di spiacevole tra di loro.
Il sorriso che ammicca sulle labbra dell'uomo fa capolino anche nella sua voce.
«Questa volta non me ne andrò più»
Non si perde ad analizzare i sottintesi di quell'affermazione, non ha il desiderio di pensare che rimarrà per sempre a Londra, sepolto in una bara e con una lapide a ricordare di nuovo a tutti che il suo nome è John Smith. Si concentra sulla risposta che non tarda ad arrivare.
«Perché hai smesso di viaggiare? Non ti è piaciuto il mondo?»
L'ironia bonaria della giovane gli fa esalare una risata spontanea e felice.
«Avevo bisogno di tornare a casa»
Non si è preoccupato di nascondere la mestizia: ha compiuto un errore.
«Che cosa intendi?» inquisisce infatti Rose, candida ma perspicace. Non che se ne possa stupire più di tanto. È probabile che abbiano girato il mondo in maniera speculare, perciò non si meraviglia che possa capire che qualcosa non va.
«Non è il momento» mormora, cercando di suonare tranquillo e vagamente sereno. Fallisce miseramente.
«Dottore, non te ne sei andato solo per me, vero?»
L'ha detto con un tono che gli ha fatto mancare un battito: un misto tra una conferma e una nuova dolorosa scoperta è stato quel pensiero formulato quasi per caso. Il Dottore non sa rispondere, vorrebbe solo dirle che lei non c'entra affatto. Rose non ha molto a che vedere con la sua discutibile scelta di fuggire da tutto e tutti. Rose ha solo subito il suo egoismo.
«No, non è colpa tua»
Tacciono per un po', ed evidentemente Rose decide che no, davvero qualcosa non va.
«Dottore, che cosa sta succedendo? Torno a Londra»
Ritiene saggio non ribattere e gustarsi quella speciale confessione. Rivedrà Rose, questo è tutto ciò che per lui conta ora. Forse accadrà molto presto, forse persino in giornata.
O forse non vivrà così a lungo per attenderla, ma ha buonsenso a sufficienza per accantonare quel pensiero e tornare a sentire il sospiro accorato della donna al di là della cornetta.
«Sono contento» dice e basta, la voce inerte, ma è convinto di aver dato la giusta idea del sentimento che gli colora il cuore.
Le sfugge uno sbuffo divertito. Per un attimo il Dottore si illude che sia rilassata, meno ansiosa, meno preoccupata. Si concede un altro sorriso, sentendo all'improvviso le lacrime pungere delicatamente contro le palpebre. Si bea della sensazione e non cerca di reprimerla.
«Perché sei proprio a Parigi?» chiede, appoggiandosi a tutto il suo autocontrollo per non piangere.
«Perché a te sarebbe piaciuta» C'è una pausa. «Speravo di trovarti qui»
Il Dottore si sente mancare. Capisce che Rose ha provato a guardare nel suo egoismo, ha provato ad esplorare un campo minato e ne ha anche colto il senso, ha intuito il fascino di Parigi, ma non ha considerato l'amore per Londra, il luogo della sua anima.
Ma come farne una colpa a Rose, la dolce Rose che non sa niente, che non sa che a Londra è tornato solo per morire nella sua amata città? Rose non ha ancora afferrato il significato di tutto, e forse è meglio così.
«Posso tornare oggi, se vuoi» Il sussurro della donna è un balsamo per il Dottore che in questa sensazione ritrova un po' di se stesso, sfacciatamente egocentrico, così innamorato e così impacciato per parlare, chiedere, desiderare.
«Okay» dice, il sorriso che gli atteggia la bocca. Già immagina di andarla a prendere all'aeroporto, di abbracciarla forte e di raccontarle tutto.
Scopre tutto d'un tratto che gli è mancata molto. La rivelazione lo colpisce così inaspettatamente e così intensamente che quasi non sente che Rose gli ha appena detto di amarlo.
Le aveva mai detto di amarla a sua volta?
Non gli serve formulare un pensiero di senso compiuto, ma solo cogliere la pressione spiacevole contro il petto. È sempre stato un codardo, e la distanza, la frustrazione di non poter rivedere la sua Rose ma solo sentirla acuisce il rimpianto.
Gli occhi pungono come mai prima d'ora ed è convinto di non poter sopportare oltre la disperazione. È convinto di sentirsi pronto, di poter fronteggiare il peso di quelle parole che sente così vere, così chiare, così sue. Capisce che è giunto il momento di dirglielo perché non ne avrà più tempo – ne ha già sprecato abbastanza.
Prende un respiro energico.

«Rose Tyler-»

Mentre il telefono emette un suono acuto che accompagna lo spegnimento improvviso, una lacrima rotola giù sulla guancia del Dottore.







Angolo dell'autrice. Salve a tutti!
Innanzitutto grazie per essere arrivati fin qui a leggere. È da tantissimo tempo che questa storiella aspettava di essere conclusa, e finalmente sono riuscita a riprenderla, a rivederla e a completarla. Il trionfo dell'angst del finale della seconda stagione non mi bastava, evidentemente, perciò ho deciso di dare un'ulteriore visione della faccenda. Preciso soltanto che siamo in un universo alternativo in cui non esistono Signori del Tempo, il Dottore è un essere umano normalissimo con un cuore solo. John Smith non è, dunque, Meta-Crisis.
Di nuovo, grazie infinite per aver letto e grazie a tutti coloro che vorranno fermarsi a lasciare un parere. Grazie anche a tutti coloro che semplicemente apriranno la storia!
Alla prossima,

Menade Danzante

   
 
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