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Autore: pandafiore    04/06/2016    5 recensioni
{One-Shot} {Psicologica}
Peeta è a Capitol City, e non lo vogliono far tornare nel distretto dodici, da lei.
Dal testo:
"Piove fuori.
Cadono gocce infinite per terra, proprio come le lacrime che vorrebbero scendere dai miei occhi."
[...]
"Non possono portarmi via i miei possedimenti così; mi hanno già sottratto tutto, non gli permetterò di togliermi le tele. Le tele non si toccano."
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dottor Aurelius, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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OneShot

 

Portatemi da lei.





Piove fuori.
Cadono gocce infinite per terra, proprio come le lacrime che vorrebbero scendere dai miei occhi.
-Buongiorno, Peeta.- Distraggo lo sguardo da quelle gocce lacerate a terra come il mio cuore.
-Buongiorno, dottore.- Il tono ancora sadico, ancora un ghigno sul mio volto.
-Di cosa vuoi parlarmi oggi, Peeta?- Esito, pensandoci diversi minuti.
-Voglio poter dipingere.-
-Sai che non possiamo...-
-Portatemi delle tele!- Sbraito, perdendo il controllo. -Perfavore...-
Scrive qualcosa sul suo affare trasparente, il dottor Aurelius, per poi guardarmi nuovamente, con occhio preoccupato.
-Cosa vorresti dipingere, Peeta?- Sorrido. Sorrido in un modo strano.
-Lei.-
-Peeta...- È buffo come ripeta sempre il mio nome, ad ogni singola proposizione. So benissimo come mi chiamo, e anche chi ero prima. Non serve ricordarmelo, grazie.
-Dottore, la prego, mi porti delle tempere. O giuro che mi taglio le vene e la dipingo sui muri col mio sangue.- Sa benissimo che ne sarei capace.
Lo vedo arricciare il naso schifato, scervellandosi su una soluzione. Vorrei solo che mi portasse delle dannatissime tele, non pretendo la luna.
Respira in modo pesante, quasi sbuffasse, come se non sapesse cosa farne di me.
Lo pagano per curarmi, e io sono ancora qui, pazzo, folle, maniaco.
Mi gratto con la manetta il polso che prude, e torno a guardare la pioggia di fuori.
Per lei affronterei l'uragano, se questo servisse a salvarla da me, dal mostro che sono diventato e che non controllo. La delusione più grande arriva quando, ogni giorno, realizzo che lei per me non si bagnerebbe nemmeno il calzino in una pozzanghera.

-La prego. Mi porti quelle tele.- Supplico.
-Come la dipingeresti?- Ci penso, per la prima volta in vita mia forse.
-Di rosso.- È la prima cosa a cui penso, e realizzo che è sbagliata e non dovevo dirla, non a lui.
-Come mai di rosso, Peeta?- Domanda, con quel tono superiore che odio. Rosso come la pozza di sangue nella quale ha abbandonato i miei genitori. Rosso come le fiamme in cui dovrebbe ardere; le sue stesse fiamme. Rosso come il colore dei suoi occhi, iniettati di sangue. Rosso perché è così che la vorrei vedere, quando mi vendicheró per ciò che mi ha fatto. Quando le taglierò la gola.
-È il suo colore preferito.- Mento. Spero solo non se ne accorga.
-Lo sai che non è così, Peeta.- Merda.
-È il rosso. Ne sono certo.- Ribatto, distogliendo nuovamente lo sguardo da quella pozzanghera, che ora vedo scarlatta e so che non va bene così.
-Non devi mentire a me, Peeta.- Abbasso lo sguardo da quegli occhi indagatori, da serpe, e verdi come pochi. Verdi... Cazzo. Voglio solo togliermela dalla testa, voglio solo che se ne vada via da qui!

Mi tiro i riccioli sulla nuca e inizio a dondolarmi sulla sedia convulsamente. Vattene! Vattene da qui, Katniss. Vattene dalla mia testa...
Ma niente, guardo implorante quel cielo plumbeo e vi ritrovo i suoi occhi metallici, argentei. Guardo le pozzanghere a terra e mi sembrano il lago del bosco che tanto ama. Guardo le gocce battere sul vetro della finestra e ci rivedo le sue lacrime. Quelle che mi facevano male al petto, ma per le quali ora godo, a volte.

Sbatto la testa sulla parete imbottita - come ogni angolo sporgente qui - e aspetto che la crisi finisca.
Le sento le lacrime ustionarmi gli zigomi, ma voglio solo dipingerla. Voglio solo dipingerla. Solo dipingerla...
Ho pensato che forse se la dipingo, se rilascio la sua immagine sulla tela, poi questa se ne andrà da qui dentro. Forse... Vorrei solo non pensare costantemente a lei, e penso che scaricare tutto su una tela mi aiuterebbe. Spero.
-Va bene. Potrai dipingerla.- Sospira il dottore, abbandonando la stanza.

Quando la porta si riapre entra una donna grassa e sgraziata, che appoggia di peso un cavalletto a terra e, con esso, pochi colori e qualche pennello.
Tra questi colori non c'è il rosso.
Sogghigno, mentre mi siedo di fronte al candore della tavola e raccolgo il pennello tra le dita; inizio a mescolare tonalità su tonalità, e a stendere la tempera in movimenti placidi, naturali, semplici, che mi rilassano.
Le setole si allargano, mentre scorrono a disegnare quel volto ovale, ma bello; quel naso allungato, ma perfetto; quegli occhi grigi, ma ribelli.

Quando termino, getto il pennello in una ciotola d'acqua e, notando che fuori le gocce di pioggia si sono arrestate assieme alle mie lacrime, abbandono il dipinto e vado a letto; ormai è calata la sera.
Peccato che quegli occhi mi puntino, e non riesca ad addormentarmi.
Sono dannatamente grigi, e mi fissano incazzati.
Prendo la lampada e gliela lancio addosso, scalfendo il suo naso, ma non quelle pupille assassine, che hanno visto i miei genitori morire.
Mi alzo come una bestia dal letto e prendo la tela, spezzandola sul mio ginocchio; è come aver ucciso Katniss. Ed è gratificante.

***

La luce del mattino mi trova di malumore, già sveglio a creare tele su tele e a spezzarle tutte.
Gli occhi sgranati per lo sforzo e la mano che trema per l'assenza di sonno.
-Buongiorno, Peeta.-
-Vaffanculo.-
-Ti trovo di buonumore.- Lo fulmino. -Cosa sono tutti questi frantumi?- Domanda, come se non lo sapesse, raccogliendo qualche brandello di tela o di lampada da terra. -Mi rispondi, Peeta?-
-Mi guardava...- Sibilo, ricordando quegli occhi di ghiaccio fissati su di me.
-Chi ti guardava, Peeta?-
-Lei...- Scuote la testa, a questa risposta. Significa che non sto andando bene. Ma io non vado mai bene, a nessuno.
-La Katniss del dipinto... ti fissava?- Mi domanda, scettico, ed io annuisco.
-E credi fosse reale?-
-Certo che lo era.- Irrompo; lei era lì, lei viveva in quegli occhi, in quel naso, in quelle labbra rosa di tempera.
-Ne sei proprio così sicuro?- Lo ignoro, continuando a ripassare strati su strati di capelli neri, sparsi al vento. Lo stesso vento che le arrossava le guance in modo dolce e adorabile.
-È meglio che io faccia portare via questa roba.- Sibila, sbattendo dietro a sé la porta. Cosa?

Guardo questi infermieri bianchi come Pacificatori e grassi come Capitolini portarmi via tutta la vita che avevo appena riottenuto. Trattano male le mie tempere, le mie tele, il dipinto che stavo facendo.
-Lasciate tutto qui! Non toccate niente, andatevene! Andate via!- Salto addosso a due di loro, ma tentano di amanettarmi per l'ennesima volta; prima che mi prendano rompo il naso a qualcuno e scappo furioso nei corridoi bianchi - troppo bianchi - dell'edificio, tutti uguali.
Li sento chiamarmi, ma io sono più forte, sono più veloce, io ho fatto due Arene, ragazzi.
Non possono portarmi via i miei possedimenti così; mi hanno già sottratto tutto, non gli permetterò di togliermi le tele. Le tele non si toccano.

Sento i piedi nudi battere veloci sul cemento. Sono fuori dal manicomio. Dove cazzo era la stazione?
Corro a perdifiato verso il suono del treno e fortunatamente lo trovo. Ho bisogno di vederla, devo vederla.
Portatemi da lei.

Mi siedo sul treno che porta al Dodici, e mi sembra di essere già a casa; sento nuovamente il profumo di pane e il forno caldo, il profumo di lei e i suoi abbracci tiepidi. Solo provando ad averla tra le braccia, potrò sapere quanto sto male. Potrò definire il mio grado di follia.

Ma qualcosa mi pizzica il braccio e la vista mi si annebbia, improvvisamente. Le persone che mi guardano terrorizzate iniziano di colpo ad ondeggiare, e mi volto a rilento verso questa cosa che mi punge il braccio.
Un'uniforme bianca. Una siringa. E cado a terra svenuto.

Portatemi da lei. Voglio solo che mi portiate da lei.



Ma quando mi risveglio sul magro letto bianco del manicomio, è come tornare dentro l'incubo.
È come rivivere un'Arena, tutta nuova.
Fanculo a tutti, ad Aurelius per primo. Fatemi tornare da lei, giuro che se dovessi torcerle anche solo un capello, sarei il primo a punirmi, nel peggiore dei modi. Ma ora portatemi da lei, perfavore. Perfavore...

Ma i giorni passano, tra queste quattro pareti bianche. Smette anche di piovere, arriva il sole con il suo calore, e l'incubo continua.

È un incubo, la mia vita.
È un labirinto senza soluzione, perché la soluzione sarebbe poterla stringere tra le braccia.
Ma non posso farlo.

   
 
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