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Autore: Terre_del_Nord    14/04/2009    17 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Hogwarts - II.010 -  Sogni

II.010


Sirius Black
Castello di Hogwarts, Highlands - lun. 25 ottobre 1971

L’atmosfera nella scuola era a dir poco elettrica, ormai mancava meno di una settimana alla famigerata prima partita di Quidditch dell’anno, niente di meno che “Grifondoro/Serpeverde”: anche se a me importava in maniera molto relativa del Quidditch, almeno di quello “scolastico”, in breve mi resi conto che non riuscivo a restarne completamente immune. Anche e soprattutto per l’entusiasmo con cui James Potter ci stava coinvolgendo. Tutto ciò che non avevo ancora appreso da solo o grazie agli Sherton, mi fu snocciolato da Potter che, nei rari momenti in cui non stavamo insieme, aveva saputo tutto sugli ultimi campionati di Quidditch lì a Hogwarts dagli studenti più grandi: erano ormai anni che Serpeverde spadroneggiava, i Grifondoro erano riusciti a vincere l’anno prima solo per il rotto della cuffia e gli Slytherins erano ancora parecchio infuriati per questo. Col passare dei giorni, i loro sfottò e i loro agguati si facevano sempre più pesanti e ricorrenti, lasciando presagire che avremmo assistito a una partita, e soprattutto a un dopo-partita, piuttosto esagitati. Appena aprii la porta della mia stanza, alla fine di quella lunga giornata di scuola, - il lunedì, non c’era niente da fare, era il giorno che odiavo di più-, mi ritrovai davanti ad una “epifania” rosso/ oro tale da far male agli occhi. Come spesso facevo, recitando la mia parte di “Black recalcitrante”, finsi di avere un mancamento, gracchiando con vocetta stridula e facendo così ridere tutti quanti. La mia “calda” imitazione della mia cara mammina era qualcosa che ormai allietava spesso le nostre fredde serate, su nel dormitorio maschile di Grifondoro. Quando riprendemmo fiato, osservai a fondo il “capolavoro” realizzato da Potter, restando impalato sulla porta: James aveva fatto un incantesimo che rendeva rosso e poi immediatamente dorato tutto quello che era presente nella nostra stanza. Proprio tutto, persino l’austero calamaio Serpeverde di mio nonno Arcturus e la foto di famiglia che avevo esposto esitante sulla mia consolle: vedere mia madre vestita con i colori che odiava tanto, era uno spettacolo degno di essere tramandato ai posteri. Un ghigno furfantesco andò a sollevarmi gli angoli della bocca. Alla fine entrai, calamitato da qualcosa che mi aveva colpito all’istante, poi mi voltai offeso verso James; Remus e Peter, fermi sull’ingresso, erano rimasti a occhi sbarrati, osservando i gagliardetti inneggianti la squadra di casa affissi in pratica ovunque.

    “E questo che cos’è?”

Feci la faccia disgustata e risentita, prendendo schifato il gagliardetto più grande per un angolo e sollevandolo appena: Potter l’aveva esposto, logicamente, proprio sopra il mio letto, a titolo beneaugurante, diceva lui, io sospettavo fosse piuttosto un gesto scaramantico. Quella, infondo, non era stata la prima “attenzione” del genere che mi aveva rivolto, da quando era stata annunciata la data ufficiale della partita: i primi giorni, ero rimasto basito, non sapendo se sentirmi offeso o considerarlo un gioco come tutti gli altri. Appena partito Frank, infatti, James non aveva più avuto remore e aveva iniziato a corrermi dietro e a tendermi imboscate, cercando poi di strofinarmi sulla faccia la mia sciarpa rosso-oro: “La tieni troppo lontana dalla bocca, rischi di prendere freddo!”Questa la sua ridicola giustificazione, alla quale credetti solo per mezzo secondo, il tempo di cogliere quel lampo malandrino in fondo ai suoi occhi castani dorati e capire che in realtà cercava di esorcizzare, tra le risate, il Serpeverde che era nascosto dentro di me: un po’ come certi detti popolari babbani, che suggeriscono vanamente di usare l’aglio per allontanare le streghe… Quando però, la sera precedente, l’avevo preso per le gambe e inchiodato sotto di me sul pavimento, aveva compreso che i suoi strani esorcismi non sortivano alcun effetto: casualmente, pochi giorni prima, avevo scoperto quanto fosse sensibile al solletico, così gli avevo dimostrato in modo inequivocabile quanto ci fosse di irrimediabilmente Serpeverde nell’animo di Sirius Black, costringendolo a chiedere invano pietà, mentre rideva e si divincolava a terra fino alle lacrime.

    “E’ solo il mio gagliardetto più prezioso! Non è meraviglioso?”

James represse la sua solita risata da discolo e mi rispose con un’alzata di spalle e un ghigno divertito, ma vidi che cercava di farsi scudo dietro Remus, probabilmente temeva che potessi vendicarmi come la sera precedente. Gli rimandai indietro una smorfia poco raccomandabile: per il momento non gli avrei fatto niente, ma ero sicuro che quella notte avrebbe dormito con almeno un occhio aperto. Lo lasciai in pace e mi ritirai in bagno: quella era una delle poche abitudini che non disprezzavo della famiglia Black, la cura del mio aspetto veniva prima di tante altre cose. Non che avessi bisogno di grande “manutenzione” ma, dopo una giornata piena, non mi piaceva apparire in pubblico, e soprattutto in Sala Grande per i pasti, con la faccia stanca. Tanto più che, sempre più spesso, quelli erano gli unici momenti della giornata in cui riuscivo a incontrare Meissa. Quel giorno, quel maledetto lunedì, però, non ero riuscito a vederla nemmeno a cena, per questo mi sentivo triste e al tempo stesso arrabbiato: a volte mi sembrava che il destino mi strappasse lentamente via da lei e che non riuscissi in nessun modo a mettere un freno a questo lento scivolare degli eventi. A farmi infuriare ancora di più, poi, nemmeno io sapevo contro chi, non capivo perché non riuscissi a fare con lei tutte quelle cose che riuscivano facilmente a quello stramaledetto Snivellus in compagnia della Evans: eppure avevamo le stesse identiche opportunità. Sbuffai e mi passai acqua fredda sulla faccia: un modo l’avrei trovato, me ne dovevo solo convincere.
Quando rientrai in camera Potter stava arringando gli altri, seduti sul tappeto a bocca aperta, mentre lui si esibiva nella dimostrazione pratica di come Jarvis Brent, l’anno precedente, avesse afferrato il boccino dopo nemmeno due minuti, assicurando la vittoria ai Grifondoro. Mi tornò il sorriso all’istante: personalmente pensavo che James Potter mettesse paura, sapeva a memoria tutte le formazioni dei Grifoni dall’inizio del secolo ai giorni nostri, il numero e le date dei campionati vinti, i nomi dei cercatori e i tempi di “cattura del boccino”, oltre al punteggio di tutte le partite dal 1900 a oggi. Sospirai: se amare il Quidditch significava tutto questo, io non sarei mai stato un vero amante di quello sport. Tutto quello spreco di energia… No, era tutto davvero troppo stancante per me. Al contrario, Remus vedeva in queste abilità di Potter un’occasione persa: sosteneva che se James avesse mostrato per lo studio lo stesso trasporto che mostrava per la memorizzazione delle statistiche, avrebbe avuto una valida spalla su cui contare, quando doveva mettere in salvo uno di noi da un’interrogazione. Ghignammo: in effetti, Remus era un vero santo, un martire che ci aveva già tolto dai guai, a turno, in vari compiti e interrogazioni, soprattutto con Slughorn e con la McGonagall. Non che avessi chissà quali difficoltà a capire o a studiare, ma avevo già appreso tutto dal precettore, e finché non fossimo arrivati a temi nuovi e stimolanti, la noia avrebbe continuato spesso a farmi distrarre nei momenti meno opportuni.
Mi avvicinai agli altri e mi sdraiai pancia sotto sul mio letto: sorrisi vedendo quanto impegno ci metteva James nella recita, lo sguardo perso in un orizzonte lontano, in cui secondo i racconti doveva celarsi il boccino. A volte mi chiedevo se in futuro sarebbe stato in grado di dimostrare con i fatti tutto quest’amore per il Quidditch e per la nostra Casa: sapevo già che se un giorno James Potter fosse salito veramente su una scopa da Quidditch come cercatore di Grifondoro, anch’io sarei riuscito ad apprezzare appieno il campionato di Hogwarts. Tremai quando, per la prima volta, compresi che consideravo davvero Grifondoro la mia Casa. Finito il racconto, scoppiammo in un applauso: Remus richiese il bis, io fischiai in segno di approvazione e Peter, immancabilmente, sembrava avere le stelline che gli scintillavano negli occhi. Ci conoscevamo da appena un paio di mesi, ormai, ma sapevo già che quello che Minus provava per Potter poteva chiamarsi venerazione. Ora che, partito Frank, eravamo soli nella nostra stanza, il clima “cospiratorio” tra noi si stava consolidando giorno per giorno e sentivo crescere sempre più la stima che provavo per i miei compagni. Iniziava a piacermi persino Peter, che finora avevo sempre compreso poco e che all’inizio accettavo solo perché vedevo quanto Remus tendesse a proteggerlo e aiutarlo: era un ragazzino timido e impacciato, che si affidava completamente a noi, ma se fino a qualche settimana prima lo consideravo solo come una palla al piede, col tempo, stavo scoprendo che era anche una presenza gentile e discreta, qualcuno con cui ridere, incredibilmente generoso e con guizzi spontanei e imprevedibili di assoluta creatività. Io stesso mi sentivo protetto e accettato da tutti loro, come raramente ero stato nella mia vita: solo con Alshain mi ero accorto di essere apprezzato, anche se in modo molto diverso. Ora sapevo di essere parte di qualcosa che stavo creando con gli altri, ero tra pari e, in certi momenti, mi vedevo tanto al sicuro grazie a loro, da riuscire a pensarmi al riparo persino dalle ire della mia famiglia. Complice il tempo, ormai tristemente autunnale, e il carico di compiti sempre più minaccioso, stavamo di solito sempre insieme. E studiavamo, - o fingevamo di farlo - sempre insieme.
James si prendeva spesso il compito di dirottarci dalla retta via, con il suo entusiasmo e la sua curiosità: aveva sempre mille idee da mettere in pratica e nei tempi morti, sotto la sua insistenza, avevamo iniziato una perlustrazione attenta del settimo piano, per verificare se c’era davvero qualcosa da scoprire. Remus all’inizio la considerava una perdita di tempo, ma poi doveva essersi attivato qualcosa nel suo animo, sempre un po’ troppo controllato per un ragazzino di undici anni, perché in breve aveva iniziato a divertirsi anche lui per quelle nostre “missioni”. Peter, invece, era per natura dubbioso e un po’ spaventato ma, il fatto che finora ce la fossimo sempre cavata egregiamente, iniziava a infondergli un po’ di sano coraggio: stare con noi gli stava facendo scoprire quella sua natura “Grifondoro” in cui ancora credeva poco. Di solito, quando Peter usciva con qualche osservazione entusiasta sulle nostre bravate, Remus ci riprendeva bonariamente, dicendo che avevamo traviato Minus e che se non fosse stato per lui, che a fatica riusciva ancora a controllarsi, in breve tempo saremmo diventati una manica d’incoscienti. A quel punto io e Potter ci guardavamo ghignanti: James perché le considerava “le sacre parole del nostro profeta”, io perché capivo quanto finalmente fossi libero e felice. Non solo potevo fare tutto ciò che mia madre mi aveva sempre impedito, ma ero tanto fortunato da aver trovato dei veri amici con cui dividere quelle meravigliose avventure. In genere le nostre missioni terminavano improvvisamente perché ci scontravamo con Gazza o con la sua gatta: allora la nostra esplorazione si tramutava in una corsa all’ultimo respiro per scale e corridoi, pregando di non essere beccati. Spesso, poi, durante la fuga eravamo finiti nelle mire di Pix che ci aveva bersagliato con scherzi e lazzi, alcuni davvero carini e utilizzabili ai danni di qualche Serpeverde, alla prima occasione; altre volte ci eravamo imbattuti in studenti di altre case. E quando si trattava di Serpi, naturalmente, la situazione prendeva pieghe più o meno imprevedibili.
L’ultima volta, il mercoledì precedente, ci eravamo scontrati con Snivellus, noi cinque, da soli, vicino alla biblioteca: quell’idiota aveva cercato di affatturare James per vendicare la Evans ed io, per distrarlo, ero riuscito a rubargli la sciarpa di Serpeverde, con un semplice “Accio”, richiamando poi in ritirata gli altri e fuggendo per le scale. Una volta raggiunta la salvezza nella nostra Sala Comune, c’eravamo quasi rotolati a terra dalle risate, ripercorrendo con la memoria quei momenti radiosi e ingigantendoli sempre di più, ogni volta che raccontavamo la storia ad altri Grifoni, fino a farne un’avventura leggendaria. Non ci accorgemmo subito che Lily Evans aveva seguito i nostri racconti insieme agli altri Grifondoro, e ora aveva una ragione in più per guardarci con odio e disgusto. Nei giorni seguenti, ne era nata una vera e propria disputa, che si era aggiunta alla faccenda già spinosa della fattura lanciata contro Yaxley e dirottata sulla Evans: Snape mi aveva continuamente teso agguati per riprendersi la sciarpa, che di giorno tenevo come trofeo legata al fianco. Io mi ero sempre battuto come un leone, riportando solo lievi ammaccature e bruciacchiature poco rilevanti: dovevo ammettere, ahimè, che Snivellus era proprio bravo con le fatture. Molto più bravo di me. Nonostante tutto, dal mio punto di vista, quella situazione poteva rivelarsi interessante e divertente, infondo, se c’era una cosa che mi aveva sempre messo paura, era la noia. Purtroppo, invece, quell’occasione così interessante non era durata a lungo. Remus, infatti, la notte precedente era intervenuto, mi aveva rubato la sciarpa che tenevo annodata alle colonne del baldacchino e, per non correre ulteriormente rischi inutili, l’aveva abbandonata durante il giorno su una statua dei sotterranei alla fine della lezione di Pozioni, sordo alle mie continue lamentele e abbastanza abile da sfuggire alle trappole che gli avevo teso per riprendermela.

    “E ora che cosa porto a mia madre per Natale, Lupin? Ti rendi conto che quella sciarpa era il mio unico lascia-passare per rientrare a Grimmauld Place? Se mi troveranno congelato davanti alla porta di casa, sarà solo colpa tua, ricordatelo!”

Finita l’esibizione di James, quella sera toccava anche a me declamare la mia solita scena madre, quella del figlio rinnegato che, finito a Grifondoro, trovava le proprie cose sbattute fuori dalla porta, causando le risate di tutti. Ero bravo a recitare, ma nel profondo dell’anima non ero poi tanto sicuro che non mi avrebbe aspettato davvero qualcosa di simile, una volta tornato a casa. Dal primo settembre avevo ricevuto dalla mia famiglia solo tre lettere: quella da parte di mia madre, con gli insulti per il mio smistamento, cui si erano aggiunte tre righe trasudanti delusione, firmate da mio padre; la sorprendente lettera di Regulus, che mi era stata stranamente consegnata non da un gufo ma da Rigel Sherton, in cui mio fratello voleva assicurarsi delle mie condizioni di salute dopo il mio “incidente”; infine una lettera “tradizionale” di mio padre, allegata a un pacco contenente alcuni abiti invernali. Sapevo di aver preso da lui la mia fastidiosa tendenza a essere freddoloso, ma quel pacco di abiti non richiesti mi aveva scaldato il cuore prima che il corpo: anche se nella lettera c’era il suo solito tono di voce autoritario e distaccato, apprezzavo quella “imprevedibile” forma d’interesse nei miei confronti… Magari, però, mi stavo solo facendo influenzare da Meissa, che senza motivo alcuno aveva una vera e propria venerazione per mio padre.

    “Certo che a volte sei un idiota, Black… Quanto pensavi di portarlo per le lunghe, quello stupido scherzo?”

Tornai con i piedi per terra, mentre Remus stava a braccia conserte di fronte a me, io ero rimasto steso nel mio baldacchino, lo sguardo perso nei miei pensieri lontani. Alzai gli occhi su di lui e ghignai: fosse stato per me, l’avrei portata molto per le lunghe, a scuola nulla mi divertiva di più che far avvelenare Snape. Era raro trovare in giro un tipo altrettanto pomposo e permaloso.

    “Faceva bene a tenersela, Snivellus se le cerca… Secondo me è giusto dargli una lezione!”
    “James! Ti ci metti anche tu? Io non capisco, perché vi siete fissati con lui?”
    “Remus… Remus… Ma non lo vedi? E’ Snivellus! Ed è pure un Serpeverde!”
    “No! Non l’accetto, è una motivazione stupida! Davvero stupida!”

James mi guardò condiscendente, ghignando, sapeva che riguardo Snivellus avrebbe trovato il mio assoluto sostegno qualunque argomentazione avesse tirato fuori.

    “Hai ragione, Remus… Nessuno più di te può parlare così bene delle Serpi… Tu… Quello che non è mai maltrattato e preso in giro da Mulciber e compagni…”
    “Che discorsi fai, James! Vuoi abbassarti al loro livello? E vuoi fare scontare a Snape quello che ci fanno gli altri?”
    “Oh sì… Santo Snivellus!Quello che non prende mai in giro Peter a lezione, quello che non fa mai versi strani quando vede passare Black… proprio un bel soggetto!”

Me la stavo proprio godendo, era davvero buffo vedere come ragionavano dei veri Grifondoro: Remus era il Grifone perfetto, per lui il senso di rispetto, onore e lealtà andavano mantenuti anche nei confronti del nemico. James sosteneva invece che con il nemico, il rispetto poteva esserci solo se era reciproco. Io, in cuor mio, ancora non mi capacitavo di cosa ci fosse di Grifondoro nella mia anima, a parte quel gesto d’incosciente “generosità”, più o meno interessata, rivolto a Meissa. Ero stato, di fatto, abituato a ridere sul concetto di lealtà e perdono; se pensavo di aver ricevuto un torto, poco importava se di fronte avevo un amico o un nemico, un estraneo o un fratello: se un Black si sentiva offeso, l’unica reazione possibile era “Vendetta!”. A volte, però, mi chiedevo quanto credessi davvero a quel tipo di insegnamenti.

    “Basta chiacchiere, pivellini! Il vero problema di Snivellus è che lunedì scorso si è spostato, facendoti centrare in pieno la Evans, dico bene Potter?”

Lo guardai, era diventato improvvisamente rosso in viso. Ebbene sì, ormai per James Potter la povera Emily Bones era solo un nome tra tanti, ormai c’era una bella chioma rosso fuoco a fargli battere il cuore. Se n’era accorto non appena aveva rovinato il suo futuro radioso per salvare me. Ghignai. Dal fattaccio era passata ormai una settimana, James da allora cercava di chiedere scusa in tutti i modi a Lily Evans, che non voleva saperne di lui, Snivellus cercava di affatturarci per vendetta e Meissa Sherton non mi parlava e faceva di tutto per evitarmi. Aveva chiuso con me il mercoledì precedente, prima che rubassi la sciarpa a Snape, sostenendo che avevo amici stupidi e pericolosi e che se ci tenevo alla sua amicizia, dovevo smetterla di difendere quell’idiota di James Potter. L’unica cosa positiva era che in quei giorni non l’avevo più vista parlare nemmeno con Yaxley, anche se non sapevo perché: mi prendeva una rabbia assurda, però, quando pensavo di aver combinato quel casino immane senza che ce ne fosse davvero alcun motivo. Sospirai e mi rigirai sul letto mentre James e Remus continuavano a bisticciare e Peter ci guardava tutti, silenzioso e attento. Alla fine fu proprio lui a rompere quello strano silenzio carico di tensione che si era creato tra noi.

    “Dovresti mandarle un regalo carino insieme a un biglietto con scritto “Scusa”, altrimenti non riuscirai mai a dirglielo… e questo vale pure per te…”

Mi puntò addosso quegli occhietti celesti e acquosi, con la sua vocetta acuta e sottile, Peter cercava di rendersi utile: parlava poco e sembrava sempre in un mondo tutto suo, in realtà, tenendosi al di fuori, aveva una visione semplice e precisa degli eventi.

    “E dovreste entrambi smetterla di azzuffarvi con Snape, visto che le ragazze che vi piacciono sono entrambe sue amiche…”
    “Che cosa? Ma figurati! Io a quello lì non gli chiedo scusa nemmeno sotto tortura! Né ora né mai!”

Detto questo, chiusi a scatto la tenda del mio baldacchino, come avevo fatto spesso i primi giorni, lasciandoli al di fuori del mio mondo e dei miei pensieri, a bocca aperta, se non scioccati, di certo basiti. Figuriamoci se avrei mai chiesto scusa a Snivellus… Non io! Non Sirius Black! Rimasi ancora un po’ a seguire i loro discorsi attutiti dalle pesanti tende di broccato, infervorato da quella strana rabbia che mi sentivo addosso e dalla figura di Snape, che sembrava un’ottima valvola di sfogo per tutte le mie frustrazioni represse. Poi stanco per la giornata e sfinito da quell’onda di pensieri fastidiosi, la mia mente scivolò per pensieri sempre meno coerenti e alla fine mi addormentai.

***

    Salgo la scalinata. Le gambe pesanti di chi ha corso a lungo.
    Devo fare in fretta, più in fretta.
    Urla, urla cupe. Due figure si fronteggiano sulla torre.
    Devo fare in fretta, più in fretta.
    La scala interna è infinita. La mano irrazionale tocca la maniglia e la ruota. La porta è socchiusa.
    Entro in un mondo vuoto. Abbandonato da anni.
    Un urlo mi esce dal cuore. L’urlo di una bestia ferita a morte.
    Chiome bianche emergono dal fondo della stanza. E un volto, millenario di storie e sofferenze. Si avvicina e mi stringe il polso.
    Osservo l’oggetto freddo che pone nella mia mano riarsa. E’ la mano di un uomo, non più quella di un bambino.
    “Ora è tua”.
    Il senso di quelle parole mi getta a terra. Il mio urlo disperato adesso è completamente muto.

Mi svegliai. La stanza, la mia stanza nella torre dei Grifondoro, era immersa nell’oscurità e nel sottile respiro regolare dei miei compagni.  Ero stordito, sudato. Arrancai fino al bagno per rinfrescarmi la faccia e capire il senso di quello che avevo sognato: ma di tutto il sogno che, sfilacciandosi s’immerse rapido di nuovo nella confusione della mia mente, ricordavo solo le rune tatuate sulle dita del vecchio:

Fear

***

Sirius Black
Castello di Hogwarts, Highlands - mar. 26 ottobre 1971

    “Per me questo qui soffre di confusione mentale, Magda... Dì un po’, ragazzino, quante volte ti abbiamo beccato qua sotto ormai? So che è difficile da accettare, io al tuo posto mi sarei già buttato dalla torre per la vergogna, ma visto che non hai scelto quella strada, devi fartene una ragione, questo non è il tuo posto!”

Sapevo che era una grandissima cavolata stare lì, nei sotterranei dei Serpeverde, da solo, in attesa, già in una giornata normale: l’avevo sperimentato sulla mia pelle. Ora che mancava meno di una settimana alla partita Grifondoro/Serpeverde, la mia sembrava davvero la scelta di un pazzo scatenato. Eppure restavo immobile, mani in tasca ed espressione tipicamente Black, convinto della mia decisione, con gli occhi fissi in quelli di Rabastan Lestrange, mostrandomi molto più sicuro e saldo di quanto in realtà non fossi. In fondo lui era l’amico di Rigel e Sherton mi considerava un fratello, giusto? E per colpa di Bellatrix eravamo pure, alla lontana, parenti… Non avrebbe osato mai mettermi le mani addosso!

    “Aspetto Rigel Sherton!”
    “E chi ti dice che vuol vederti, ragazzino? A meno che tu non abbia per noi notizie di prima mano sulla formazione dei Grifondoro!”

I suoi occhi simili a mercurio si staccarono dai miei, gettando un’occhiata complice e lasciva sulla sua compagna: la “ragazza del giorno” di Basty Lestrange ghignò, mentre lui le arpionava possessivo il fianco. Da quando, ormai due mesi prima, avevo iniziato a vederlo quasi quotidianamente, quel ragazzo aveva cambiato “fidanzata” almeno due volte per settimana: non sapevo se provavo più ammirazione o paura, nei suoi confronti. A Grifondoro si diceva che fosse uno dei più feroci e sleali battitori della storia del Quidditch a Hogwarts. Che fosse una persona sleale e un pessimo soggetto anche al di fuori del campo di gioco, come tutti i Lestrange, l’avevo sentito dire, invece, da Meda e da Cissa in più di un’occasione sia a Grimmauld Place, sia a casa degli zii. A quel punto era naturale chiedersi perché i fratelli Lestrange fossero i migliori amici dei fratelli Sherton. Sinceramente avevo paura ad andare a fondo in quella questione. Deglutii, mentre mi passavano per la testa almeno dieci fatture dolorosissime e prive di manifestazioni esterne che Rabastan poteva lanciarmi addosso solo per far divertire la sua bella. Se io, inesperta matricola ne conoscevo già così tante, mi chiedevo quante altre e quanto peggiori ne conoscesse uno come lui, più grande, più esperto e ben più cattivo di me.

    “Che cosa succede Lestrange?”

Mi bastò sentirne la voce per capire che era proprio una pessima giornata per me: ma non poteva restarsene in Sala Grande a spettegolare con le sue amiche come faceva sempre? Infondo, in due mesi, ci eravamo scontrati per le scale pochissime volte. Restando sempre silenziosi e imbarazzati.

    “Nulla d’importante, mademoiselle… Vi lasciamo alla vostra riunione di famiglia… ciao Cissa!”

Lestrange, ghignante, ci lasciò soli lungo i corridoi del sotterraneo, presso l’aula di Pozioni, mi chiedevo impaziente tra quanto sarebbe uscito Sherton. A disagio, mi guardai la punta delle scarpe, come facevo sempre, sia a Grimmauld Place sia a casa degli zii, quando mi sentivo addosso lo sguardo pieno di rimprovero di mia cugina: non era pazza ed esaltata come Bella, ma nemmeno dolce come Meda. Era una persona fuori dal mondo dei comuni mortali, troppo superiore a tutti noi, e da ancor prima del mio smistamento, amava ricordarmi, da brava Black, quanto fossi inadeguato rispetto al nome che portavo e al ruolo di salvatore della nostra famiglia che dovevo ricoprire per nascita, a causa dei miei atteggiamenti poco conformi alle regole. E lei era un caso da manuale, parlando di conformismo... Alzai gli occhi verso Cissa, in tempo per vedere i suoi meravigliosi lineamenti tirarsi nella classica smorfia di disgusto mal celato. Quanto assomigliava alla mamma con quell’espressione di rimprovero. Pur diverse nei “colori” rifulgevano entrambe di una bellezza indescrivibile. E della stessa smisurata freddezza. Non era poi tanto incredibile che la bellissima e altezzosa Narcissa Black non mi avesse rivolto più di dieci “ciao” offesi e disgustati dalla sera del mio smistamento. La sua natura perfettamente Black non poteva che rivoltarsi nel vedere il presunto erede designato vestito con gli odiati colori dei Grifoni.

    “Cugino…”
    “Cugina… Dove hai lasciato il tuo biondo “consorte”?”

Ghignai. Non potevo evitare di comportarmi così, non sopportavo lei come non sopportavo mio fratello, per la loro supina sottomissione alle regole di famiglia e per la tacita accettazione delle conseguenze nefaste che quelle regole avrebbero prima o poi arrecato al loro futuro e alla loro felicità. Vidi appena un accenno di rossore imporporare le guance, sostituendo il disgusto con una nota di compiacimento e al tempo stesso di pudore. Dopo il risultato dello smistamento di Meissa, di sicuro, a casa mia, non si aveva più alcun pudore a parlare di quella possibilità. Mi chiedevo, però, se davvero quello che provava per Malfoy fosse un sentimento autentico e non soltanto soddisfazione all’idea dell’invidia e dell’ammirazione che avrebbe causato in tutto il mondo magico, legandosi a una famiglia così ricca e potente.

    “Va tutto bene, Sirius?”

Alzai di nuovo gli occhi su di lei, sorpreso, mi aspettavo una delle sue solite battute acide nei miei confronti, non certo quella nota apprensiva nella sua voce.

    “Direi che è tutto normale, tutto come sempre, da quando sono qui…”

Volevo rimarcare che era lei a comportarsi in modo diverso, quel giorno, non io: in quasi due mesi mi aveva sempre ignorato, persino quando ero finito in infermeria, malridotto, non mi era venuta a trovare. Troppo importante salvare l’onore della famiglia, mostrandosi scostante verso quello scherzo della natura in cui mi ero trasformato agli occhi degli Slytherins. Molto più importante sottolineare il distacco, che assicurarsi che a suo cugino, quello che aveva il suo stesso sacro sangue, non fosse accaduto qualcosa di grave.

    “Perché sei qui?”
    “Voglio parlare con Rigel Sherton.”

Mi voltai appena vidi l’aula di Pozioni aprirsi, volevo finirla con quel siparietto il prima possibile, non mi ero mai reso conto di quanto mi graffiasse dentro pensare che fosse quel gelo, d’ora in poi, ciò che mi avrebbe aspettato a casa… In fondo ero abituato, non dovevo pensarci. Non c’era nulla di diverso.

    “Sirius…”

Mi voltai nuovamente verso di lei, guardai la bella mano di mia cugina arpionarmi con grazia mista a urgenza la manica della giacca, gli occhi non erano gelidi come al solito, c’era qualcosa che… Forse poteva essere preoccupazione, di sicuro non era rimprovero né disprezzo.

    “… Stai lontano dai sotterranei nei prossimi giorni… E stai alla larga dai Serpeverde, da qualsiasi Serpeverde che non conosci più che bene, d’accordo?”
    “Temi che qualcuno provi di nuovo a spezzarmi il naso, cugina?”

Ormai, col passare delle settimane, pur non avendo ricordi più nitidi, mi ero convinto di non essere caduto accidentalmente, ma di aver subito un agguato. E anche molti altri, persino tra i Serpeverde, lo credevano.

    “Io ti ho avvertito Sirius… altro non posso fare…”
    “Ah no?”

La guardai quasi sfidandola, lei si morse un labbro. Che strano, avevo sempre visto Cissa sicura di sé. Ora, invece… Forse avermi lì, vicino a lei, simile a lei, la faceva dubitare che i suoi comportamenti nei miei confronti, dovuti al colore di un cravattino, fossero poi così giusti. Non sembrava più molto convinta che stesse facendo tutto ciò che era possibile e giusto per suo cugino. Vidi uscire Rigel e mi fiondai da lui ma, prima di andarmene, le strappai un altro sguardo strano: non se l’aspettava di certo che io, un pestifero ragazzino, quello che spesso agiva in modo inadeguato, e aveva fatto vergognare tutti, sapessi comportarmi meglio di lei. Sì, era proprio meraviglia quella che si era stampata sul bel viso di Narcissa Black.

    “Salutami gli zii e le cugine, quando scrivi a casa, buona giornata, Cissa…”

*
   
    “Sei proprio un pazzo, Sirius Black! Dopo quello che ti è successo, torni nei sotterranei da solo?”

Rigel mi aveva accolto sorridente e scherzoso, mi aveva dedicato subito la sua attenzione, liquidando con un paio di cenni e due battute i suoi compagni, poi mi aveva messo la sua mano protettiva sulla spalla e, raccontandomi qualche sciocchezza divertente sul professor Pascal, mi aveva accompagnato fuori dai sotterranei. Ora stavamo al riparo sotto i portici del cortile d’ingresso, intabarrati nei nostri mantelli, in un posto coperto eppure battuto dal vento carico di pioggia che saliva dal Lago Oscuro: io, col freddo, al solito mi sentivo a disagio, Sherton, come suo padre, sembrava trovare il suo ambiente preferito in mezzo alle intemperie.

    “Avevo bisogno di parlarti e di farti vedere una cosa…”

L’avevo tracciata quella notte stessa, su un pezzo di pergamena scartata, rapidamente, prima che il sonno e la confusione me la strappassero dai ricordi. Rigel da curioso si fece serio quando prese il foglio scarabocchiato che gli tendevo e vide la runa che avevo tracciato.

    “Ho sognato un vecchio con queste rune sulle dita, dai libri di mio padre so che quei segni si pronunciano “Fear”, ma non so quale sia il significato…”

Capii subito dal colorito improvvisamente pallido che l’avevo colto alla sprovvista e che la storia che stavo tirando fuori aveva qualche connotazione poco allegra. Estrasse la bacchetta dalla manica e per prima cosa incenerì la pergamena, poi mi fissò addosso, serio, i suoi occhi d’acciaio.

    “Prima regola… non tracciare mai e dico mai le rune del Nord su fogli che estranei potrebbero trovarti addosso… Mio padre ti avrà detto che non devi far capire a nessuno che hai intenzione di unirti a noi…”
    “Scusami… io…”

Sorrise, tornando a guardare lontano: la Foresta Proibita sembrava emergere dal respiro ovattato di un drago addormentato, la nebbia si sollevava dalla terra e si staccava leggera, in piccole colonne labili che scivolavano via dalla cima degli alberi.

    “Non ti sto rimproverando, Sirius, te lo sto solo ricordando, perché finché siamo qui, sta a me tenerti al sicuro… D’accordo?”
    “Sì… ma… il sogno… dovevo parlartene: cercavo di salire sulla torre di Herrengton e poi appariva questo vecchio…”
    “Stai tranquillo, Dumbledore ha esteso su Hogwarts degli incantesimi potentissimi, nessuno da fuori può influenzare e mettere a rischio in alcun modo, la salute fisica e mentale di tutti noi. Alcuni dicono che qui, al contrario che nel resto delle Terre del Nord, questa protezione ci impedisca persino di fare sogni premonitori… E comunque… Questo sogno di sicuro non potrebbe avverarsi…”
    “Perché? Chi era quel vecchio?”

Mi puntò di nuovo addosso i suoi occhi, ora il pallore aveva lasciato il posto a un lieve rossore soffuso, e la classica luce giocosa era tornata nel suo sguardo.

    “Non lo so, ma quella è la runa della famiglia MacPherson, probabilmente il vecchio era il leggendario Reginald MacPherson… sarebbe stato più credibile però se l’avessi sognato a Herrengton, alcuni dicono che il suo fantasma dimori ancora nei nostri sotterranei dal lontano XIII secolo. Quei maghi si sono estinti molto prima della nostra nascita, Sirius, per questo difficilmente i tuoi possono essere sogni premonitori…”
    “Oh… E perché il suo fantasma dimorerebbe proprio nei vostri sotterranei?”
    “Perché era un prigioniero di guerra degli Sherton ed è morto nelle segrete di Herrengton… Probabilmente hai visto le rune su qualche arazzo a casa nostra, quest’estate... Ora è meglio andare, però, o ti prenderai un raffreddore e perderai la partita di sabato… Fossi in te, inviterei una certa persona ad andarci insieme: per far pace, le partite di Quidditch sono l’ideale…”

Mi fece l’occhietto e scoppiò in una sonora risata, mentre diventavo porpora fino alla punta delle orecchie; al tempo stesso, una nota dolorosa mi punzecchiava dal fondo dello stomaco.

    “Rigel… prima hai detto che i sogni che si fanno a Herrengton possono essere sogni premonitori…”
    “La maggior parte, in effetti, si avvera… Per questo nostro padre ci dice sempre “Occhio a cosa sognate!” come saluto della buonanotte, ma lo fa per prenderci in giro, non ti preoccupare… Perché?”
    “No… niente…”

Mi puntò addosso due occhi enigmatici: assomigliava tantissimo ad Alshain in momenti come quello, con in più, però, quell’aria maliziosa e pestifera che gli erano propri.

    “Dai… Andiamo… E ricordati, non far vedere in giro questi colori nei sotterranei nei prossimi giorni, o rischi di nuovo di rovinarti questo bel naso Black! Poi chi la sente tua madre?”

Rise e di corsa raggiunse i suoi amici che iniziavano a uscire sul cortile per cercarlo. Io ormai non badavo più a lui… Se tutti i sogni fatti a Herrengton si avveravano… Una smorfia mi accompagnò per tutto il resto della giornata.

*

    “Snape… Evans…”

Li avevo attesi per tutta la lezione…  Avevo trovato una scusa per liberarmi degli altri e fare quello che mi sembrava la cosa giusta. Di certo James me l’avrebbe fatta pagare a lungo prendendomi in giro per mesi, appena l’avesse saputo. Non avevo seguito nemmeno una parola del professor Pascal e avevo rischiato l’ennesimo rimprovero, ma la mia mente fibrillava d’impazienza dalla mattina, quando avevo parlato con Rigel… Dovevo affrontarli e farla finita. Mi ero preparato il discorso, l’avrei detto parola per parola, non m’importava dei loro sguardi carichi di odio e disprezzo. Una voce nella mia mente mi diceva che stavo facendo una cavolata. Eppure mi rendevo conto che forse Peter aveva ragione. Intercettai gli occhi di Meissa, preoccupata e incuriosita al tempo stesso, ancora ferma al suo posto, aveva mosso un passo, poi un altro, pronta a difendere i suoi amici. Non sarebbe stato necessario.

    “Volevo scusarmi per lunedì scorso… dico davvero… Potter non c’entra nulla, sono stato io a fare tutto… e… nemmeno volevo colpire uno di voi due, a dire il vero… E’ stato… E’ stato tutto uno stupido errore… Scusatemi…”
    “Sei proprio un idiota Black, su questo non c’erano dubbi… e puoi star sicuro che non te la caverai con queste due paroline e la faccia da cane bastonato…”

Nemmeno udii la voce nasale e pomposa dell’unticcio, nemmeno notai il suo ghigno prima sorpreso e poi abitualmente caustico, tanto meno m’interessai alle parole cariche di malcelato disgusto della Evans: l’unica di cui m’importava era lei. Meissa sembrava colpita e disorientata. Se tutti i sogni fatti a Herrengton erano destinati a trasformarsi in realtà, Severus era colui che rischiava di farmi cadere: ero pronto a tutto per lei, l’avevo detto al Cappello… Se potevo affrontare la mia famiglia, potevo affrontare anche un idiota come quello. Bastava volerlo. Me li lasciai alle spalle, incurante che potesse lanciarmi una fattura alla schiena e mi rivolsi a lei… Era quasi una settimana che non ci parlavamo.

    “Mei… Ascoltami…”

Non ci misi molto a convincerla, anzi… Fu lei che mi prese la mano, fece un gesto di saluto ai suoi amici e mi ritrovai fuori dall’aula come sospeso tra le nuvole. Che cosa stava succedendo? Mi ero preparato un lungo discorso in cui le parole “pentito” e “scusa” e “idiota”, si sarebbero ripetute come una litania per ore… E invece?

    “Mei…”
    “Pensi di riuscire a convincere i tuoi amici a seguire la partita dagli spalti dei Tassorosso? Emily e le altre hanno detto che sarebbero contente di ospitarci… E’ una buona soluzione per seguire la partita tutti insieme senza incorrere nelle fatture dei Grifoni o delle Serpi…”

La guardai, non era uno scherzo, diceva proprio sul serio. Ma continuavo a non capire. C’eravamo trascinati fino ai corridoi che portavano al cortile di trasfigurazione, era quasi ora di rientrare e prepararsi per la cena quindi c’erano pochissime persone e tutte andavano di fretta, ci fermammo vicino al ritratto di un mago sonnolento, nella sua veste ottocentesca, le antiche vetrate erano rigate dalle prime scie di pioggia, che lente e pigre scivolavano a terra. La luce delle fiaccole dava alle persone, alle pietre e ai quadri un aspetto intimo e segreto.

    “Io… Vuoi davvero invitare anche Remus, James e Peter?”
    “Sì… Naturalmente prima voglio scusarmi con loro…”
    “Non ti capisco…”
    “Tu hai mirato a Yaxley e James ha impedito che la tua fattura andasse a segno… poi si è preso la punizione e i pugni al posto tuo… Dico bene?”

Merlino… Sapeva tutto, non immaginavo come, ma sapeva tutto: probabilmente mi aveva portato lì, perché non era nei suoi modi mandarmi al diavolo in mezzo alla gente. Deglutii, rapidamente pensai a quanto fosse lontano da lì un qualsiasi bagno: forse se fossi stato abbastanza veloce, l’avrei raggiunto prima di scoppiare a piangere.

    “Quindi hai invitato loro… non me… Ora è di me che pensi tutte quelle cose che hai detto di James…”

La guardai, smarrito. Era quindi l’ultima volta che la tenevo per mano e sentivo da vicino il suo profumo e riuscivo a vedere quella luce strana che a volte emergeva dal profondo dei suoi occhi verdi?

    “No, nemmeno tu sei un idiota, bastardo e immorale… come non lo è Potter… Io… Mi sono limitata all’apparenza, come tutti… Anche se ormai dovrei conoscerti meglio degli altri… Sono io che devo chiederti scusa…”

Accadde in un attimo. Si sollevò appena sulle punte e mi baciò delicata sulla guancia, in segno di pace, ma io l’afferrai quasi con prepotenza, stampandole un bacio sulle labbra e stringendola talmente forte a me da non darle alcuna possibilità di fuga. Quando la sentii forzare la mia presa e riuscire a sfuggirmi via, muta e rossa in viso, io non capivo più niente. Rimasi come uno stupido appoggiato alla colonna dietro di me, scivolando a sedere a terra, osservando in preda a un tremore strano quella figura che correva via nel corridoio, il suo profumo di fiori che ancora mi circolava nelle vene insieme al sangue. Non potevo crederci.
Ero riuscito a dare un bacio vero a Meissa Sherton.



*continua*


NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc, hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP
(maggio 2010). L'immagine a inizio capitolo è di Interlude-four.
Valeria



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