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Autore: Ghevurah    29/06/2016    6 recensioni
Hai indovinato, mormora infine. Amrod è il mio nome.
Perché se erano stati uno nei corpi di due, forse potevano diventare due nel corpo di uno.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Amras, Caranthir, Figli di Fëanor, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Questa storia è stata scritta senza scopo di lucro; personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne abbia acquisito o ne eserciti i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.


NB1: Non credo di aver mai scritto nulla di più personale di questo brano, sia come scrittura in sé e per sé che come trattazione di personaggi e avvenimenti, e la mia solita preoccupazione raggiunge livelli stellari. Ho inserito l’avvertimento “what-if?” non tanto perché ci siano modificazioni salienti nella trama, ma perché ciò che profilo è un’ipotesi ardita che non sapevo come segnalare.
Quindi, ecco, sappiate che state andando incontro a un piccolo delirio.
 
NB2: in questo racconto faccio riferimento alle ultimissime modifiche di Tolkien sull’ordine di nascita dei figli di Fëanor, contenute nelle note de The Shibboleth of Fëanor (The Peoples of Middle-earth) che vedono invertito l’ordine di nascita di Amrod e Amras: Amrod diviene l’ultimogenito di Fëanor (allo stesso modo Curufin diviene più vecchio di Caranthir).
A questo proposito non è chiaro se anche i nomi paterni furono invertiti, in alcuni portali tolkieniani questo non avviene, ma a me sembra alquanto illogico che Amrod, divenuto ultimogenito, conservi il nome Pityafinwë (“piccolo Finwë”), invece di chiamarsi più coerentemente Telufinwë (“ultimo Finwë”), per cui ho deciso di invertire anche i nomi paterni. Dunque sesto figlio di Fëanor è Amras (Pityafinwë Ambarussa), settimo è Amrod (Telufinwë Ambarto/Umbarto, prima anch’egli Ambarussa).
 
Nomi Quenya con corrispondenze Sindarin:
Pityafinwë (Pityo) Ambarussa - Amras*
Tyelkormo - Celegorm
Russandol - Maedhros
Moringotto - Morgoth
Elwë Singollo - Elu Thingol
Carnistir Morifinwë (Moryo) - Caranthir
Curufinwë - Curufin
Makalaurë - Maglor
 
*So che l’ultimo Tolkien vorrebbero il nome “Amras” corretto in “Amros”, ma per evitare di creare ulteriore confusione ho optato per la prima e più accreditata sindarizzazione.








 
 
 
 
 




 
Il nome nel riflesso
 
 
 
 
 
 
In the night Fëanor, filled with malice, aroused Curufin, and with him and a few of those most close to Fëanor in obedience he went to the ships and set them all aflame[…]
In the morning the host was mustered, but of Fëanor’s seven sons only six were to be found. Then Ambarussa went pale with fear. ‘Did you not then rouse Ambarussa my brother (whom you called Ambarto)?’ he said. ‘He would not come ashore to sleep (he said) in discomfort.’ But it is thought (and no doubt Fëanor guessed this also) that it was in the mind of Ambarto to sail his ship back [?afterwards] and rejoin Nerdanel; for he had been much [?shocked] by the deed of his father.
‘That ship I destroyed first,’ said Fëanor (hiding his own dismay). ‘Then rightly you gave the name to the youngest of your children,’ said Ambarussa, ‘and Umbarto “the Fated” was its true form. Fell and fey are you become.’ And after that no one dared speak again to Fëanor of this matter.

 
 J. R. R. Tolkien, Christopher Tolkien (ed.), The Peoples of Middle-earth, The Shibboleth of Fëanor
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Forse non aveva mai voluto smettere di condividere un nome: era il loro e li univa più del sangue, più dei colori – bianco e rame e grigio fumo. Un nome che era un respiro, un’apertura ampia che andava arrotolandosi sulla lingua, ad abbassarsi di un tono, sibilava appena e infine tornava a essere aria.
Con quel nome, uno per due, erano divisi solo agli occhi di loro padre, quando li chiamava in modi diversi, in tempi diversi. Agli occhi degli altri1, quando confondersi l’uno nella pelle dell’altro diventava faticoso.
Era stata loro madre a separarli la prima volta, ma l'aveva fatto per renderli uno nei corpi di due. E così erano stati fino a che, anche lei, aveva deciso che dovessero essere semplicemente due. Due corpi, due nomi: una condanna. Per entrambi.





In punta di dita, come ali di farfalla su lastre di ghiaccio, sfiora la superficie dello specchio, lì dove il riflesso è un’esperienza vitrea fra il sonno e la veglia. Un’illusione talmente trasparente da possedere la cruda salienza della realtà. Perché è reale quel volto – quei volti –, sono reali quegli occhi che si cercano nello specchio.
E per un attimo ci sono loro soltanto. Un’unica entità nel presente ignavo, orfano di passato e disinteressato al futuro: uno squarcio d'eterno ora nel ciclo d’un tempo che forse non ha mai avuto significato.
Ma un’altra figura scivola nello specchio, ristabilendo le coordinate di un’esistenza spezzata.
Tyelkormo porta sulla pelle l’impronta del nuovo astro e altrettanto caldo sorride, sollevando arco e faretra per mostrarle attraverso lo specchio.
Verresti a caccia con me? Chiede, e il suo sguardo ferocemente sincero restituisce il riflesso di una sola persona.
Verresti, Pityo?
Pityo. Questo è il nome con cui ora si sente chiamare: i suoi fratelli temono lo spettro che l’altro nome, quello che non è stato solo suo, può evocare.
Perché Russandol è tornato, ma lui, loro no. Loro bruciano ancora, da qualche parte, sulle sponde di una mente perduta.





Nell’Estolad il caso imbastisce la prima illusione. Nasce dalle domande di un gruppo di Atani2, forse Haladin, a giudicare dal Sindarin strascicato con cui gli si rivolgono, o forse un gruppo senza appartenenze: ombre nella storia che andranno a perdersi in silenzio, con discrezione, così come sono nate e sono vissute.
Dicono di essersi spinti a sud per una lunga battuta di caccia; conoscono i Fëanárioni di fama, ma non ne sono intimiditi.
Lui non si è mai curato molto dei Secondi Nati, non possiede l’interesse dei suoi cugini, e neppure i racconti di suo fratello riguardo Haleth la Cacciatrice hanno cambiato questo fatto.
L'unico sentimento che prova nei loro confronti è invidia. Invidia per quel tempo finito, per quella memoria breve che non si riverbera in eternità di sofferenze. Perché se ne vanno sempre e comunque, gli Atani, e lo fanno da giovani. Alle spalle poche manciate di ricordi, un’agonia a scadenza.
Invita i cacciatori nel suo accampamento. Russandol ha ordinato loro di essere cordiali con chiunque si dimostri nemico di Moringotto, e per lui è più semplice esserlo con un gruppo di Atani piuttosto che con Sindar o Nandor: i Secondi Nati non hanno accuse da rivolgergli, almeno non ancora.
È davanti al fuoco, quando il più giovane del gruppo di cacciatori gli si avvicina. Talmente giovane da portarlo a domandarsi quali memorie possano conservare i suoi pensieri: istanti singhiozzanti di una vita che è meno di un bocciolo e forse mai fiorirà.
Signore, lo apostrofa il ragazzo senza nascondere una certa curiosità. Ti abbiamo riconosciuto figlio di Fëanor per la stella che porti sul petto, ma non sappiamo quale dei sette fratelli tu sia.
Sette fratelli. Un fantasma evocato dalle fiamme attraversa il tessuto notturno.
Tu quale credi che potrei essere? Domanda lui, controllando il proprio respiro.
Il giovane sorride: So che sono tre ad avere capelli color del rame, il maggiore e i due minori. Ma io conosco solo i nomi di Maedhros l’Alto e Caranthir lo Scuro.
Maedhros ha capelli ramati, pensi potrei essere lui?
L’Atan lo guarda, dubbioso, quasi stesse cercando di individuare tracce di ironia nella sua voce che invece suona piatta, simile al basso crepitare del fuoco.
Ho sentito, sussurra, che Maedhros è stato mutilato. Inoltre tu sei alto, Signore, ma non quanto mi aspetterei che egli fosse.
Lui abbassa lo sguardo, osservando le fiamme contorcersi tra le braci.
Dunque chi sono io?
Una domanda pericolosa, come attendere che il riflesso valichi lo specchio e si faccia realtà.
Il ragazzo gli rivolge un’occhiata spaesata, poi inspira l’aria notturna e decide di stare a quello che reputa essere un gioco.
Io sono un ultimogenito, ribatte quasi imbarazzato. Perciò azzarderò che tu sia il settimo figlio di Fëanor.
Ed ecco aperte le porte dell’illusione. Sotto le dita il riflesso possiede la consistenza morbida di un sogno e la sua stessa fragilità. Ha venature nostalgiche che raccontano di una storia condivisa, e lui si lascia toccare a propria volta.
Signore?
Sbatte le palpebre, le iridi vengono accese dalle fiamme. Sente il riflesso vestirsi della sua pelle e si domanda quale sarebbe il suo nome in questo presente agonizzante, quale suono avrebbe nella lingua dei Sindar. Sceglie di tradurre il meno doloroso, ricacciando le profezie di una madre in quella parte della mente in cui ha rinchiuso il passato.
Hai indovinato, mormora infine. Amrod è il mio nome.
Perché se erano stati uno nei corpi di due, forse potevano diventare due nel corpo di uno.


Quando il giovane si allontana, lui intercetta lo sguardo di Menelórë. Lo sta osservando, silenzioso come l’ombra che è diventato dopo il Fratricidio.
Probabilmente ha sentito tutto, eppure è soltanto un capitano, un capitano animato dalla fedeltà di un cane. Ha seguito i suoi Signori nell’oscurità, caricandosi sulle spalle il peso di un giuramento che non ha pronunciato: la follia gli è amica.
 
 
 


Affacciarsi alla soglia dell’illusione diviene prima un’abitudine, poi una dipendenza; l’unico modo per esorcizzare la perdita e quella solitudine che scava nell’anima.
I loro volti sono terribilmente simili: le stesse galassie di efelidi, gli stessi occhi caliginosi. I suoi capelli sono di un tono più scuri, è vero, ma basta che la luce aumenti d’intensità perché le differenze sfumino.
Così è Amrod nei pomeriggi di sole, nelle battute di caccia a Est, tra quegli Atani che hanno imparato il suo nome e cominciano a raccontare la storia dei due gemelli figli di Fëanor, Signori – insieme – dell’Estolad.
È Amras, Pityo, nei rari periodi trascorsi a nord tra i suoi fratelli. E a volte vorrebbe chiedere loro se ricordano quel fratello perduto che lui porta sopra e sotto pelle; vorrebbe chiedere loro di chiamarlo – di chiamarli – ancora Ambarussa.
Sono Ambarussa, due nel corpo di uno, nei giorni solitari davanti allo specchio, in un gioco di ombre e riflessi.
È un giorno di questi, quello in cui Menelórë si inginocchia al suo cospetto.
Mio Signore, lo chiama, e una sola persona si riverbera nel suo sguardo.
Lui non risponde. Vuole spingersi più in là, carezzare a palmi aperti la percezione di essere due. Forse è una pretesa capricciosa quella di piegare altri all’illusione che si ostina a respirare; ma il capriccio è ciò che resta ad un principe decaduto.
Menelórë corruga la fronte, ritenta, e questa volta la sua voce è ridotta a un mormorio basso, stentato, quasi stesse parlando Quenya alla corte di Elwë Singollo.
Miei Signori?
La chimera si battezza realtà sulle sue labbra e loro rispondono. Insieme.





È difficile fingere di essere uno asserragliati su Amon Ereb, fianco a fianco con Carnistir. Ma il Beleriand è la brace consunta di un rogo, un paesaggio di fumi e ceneri razziato dagli Orqui3 e ciò che conta è sopravvivere. Sopravvivere per due, sussurrano, cercandosi nei riflessi opachi che scivolano sulle piastre delle armature.
Le crepe del passato sono state livellate da una dimenticanza dolce, assuefante, e ora è come galleggiare in un universo immobile, tra le trasparenze di uno specchio che riflette se stesso.
Una sera Carnistir si lascia sfuggire quel nome che, in un tacito accordo, nessuno dei loro fratelli ha più usato.
Sono soli fra le pareti spoglie di una fortezza in costruzione. Il lento scoppiettare del fuoco regala un’atmosfera nostalgica, in cui la loro lingua natia suona piena, caldissima: un memoriale di sillabe e accenti che riprende vita nella voce di Carnistir.
E a loro sembra quasi di essere tornati a Formenos: tutt’attorno non si staglia una piana assediata dall’Ombra ma vette ancora senza nome.
Ambarussa, li chiama loro fratello. Ricordi quella volta in cui ci siamo smarriti sulle Pelóri del nord? Pioveva e la luce degli Alberi non era che un riverbero lontanissimo. Eravamo noi due e…
Carnistir inciampa sulle sue stesse parole, trattiene il fiato, rivolgendo loro uno sguardo avvilito. E quel nome che nessuno pronuncia più da secoli rimane un pensiero.
Eravamo noi, lo soccorrono loro. Sulle labbra l’ombra di un sorriso incoraggiante. Non sorridono da troppo tempo ed è strano farlo ora, così.
Il viso di loro fratello si irrigidisce appena, ma ben presto i barbagli delle fiamme tornano ad ammorbidirlo.
Ero il più vecchio, mi sentivo responsabile. Avrei dovuto ritrovare la strada, levarci da quell’impiccio. E più pensavo a questo più mi infuriavo con me stesso per non esserne in grado.
Alla fine siamo stati bene, ribattono loro. Hai trovato quella grotta e siamo rimasti ad aspettare che smettesse di piovere e la nebbia diradasse.
Carnistir sbuffa, arricciando le labbra in quel broncio che lo fa sembrare più giovane: Se non fosse stato per Russandol e Tyelkormo saremmo ancora lì. Ricordo che per quanto me ne vergognassi non feci altro che sperare, sperare che i nostri fratelli maggiori arrivassero per noi.
Poi cala il silenzio, intiepidito solo dal ricordo della sua voce. E lui non lascia che esso si spenga: torna a parlare stringendosi nelle spalle, strofinandosi le braccia con nervosismo.
Nulla è cambiato, dice. Ci ritroviamo asserragliati qui dentro, ad aspettare che l’Ombra si ritiri. E oggi come allora io spero nell’aiuto dei nostri fratelli.
Sospira, mentre il suo sguardo sembra liquefarsi alla luce del fuoco: L’unica diversità è che adesso siamo solo in due.
È in quel momento che la finzione cede e loro si lasciano andare: forse è giusto ammetterlo almeno una volta.
Si allungano in avanti, appoggiando una mano sulla spalla di Carnistir. Lo sentono rabbrividire a quel contatto, ma non si allontanano fintanto che non si volta per guardarli.
Siamo ancora noi, Moryo. Siamo qui con te, e questa volta non avremo bisogno di nessun altro.
Loro fratello sgrana gli occhi, forse anche lui si perde fra i riflessi. Gli stessi colori, lo stesso volto: una sovrapposizione inevitabile.
Non sanno se afferri completamente l’entità di quella rivelazione e non lo vogliono sapere, non davvero. Basta il suo silenzio, lo stupore che dilaga nello sguardo, mentre il fuoco continua crepitare.





Si aggrappano al loro essere due, quando la grande speranza di Endórë4 si tramuta nella più grande vittoria di Moringotto.
Ma s’impara a sopravvivere anche senza speranze, questa è la lezione impartita da Russandol: odore di zolfo e sangue sulla pelle, la morte di Findekáno ad asciugare l’animo. Il suo cordoglio però non ha voce, se non quella del Giuramento.
Forse Moringotto non può essere vinto, ma la luce dei Silmarilli può e deve tornare ad essere loro: tale è il retaggio di Fëanáro.
Atar5, lo chiamavano un tempo, ora è solo Fëanáro. Parte di ciò che li ha uniti è bruciato, cenere di un unico cadavere, e quel che è rimasto è un voto, una maledizione lunga un’eternità. Non c’è più orgoglio nel sentirsi chiamare suoi figli, solo l’eco di una rabbia tramutata in rassegnazione.
Riprenderanno i Silmarilli per loro, per essere finalmente liberi. Per questo accettano il sangue di Lestanórë6.
Ma il viso pallido di Carnistir è una morsa attorno al cuore, una sensazione che credevano di non poter più provare. Forse è vero, ci si accorge di ciò che ancora si aveva solo quando lo si aggiunge alle perdite.
Si inginocchiano dinnanzi al corpo di loro fratello, carezzandogli le guance gelide. La fronte sempre increspata è distesa, la mandibola rilassata: sembrerebbe quasi che nella morte abbia trovato un barlume di pace. Eppure loro sanno che non può essere così. L’unica pace è data dai Silmarilli. A Carnistir, come a chi cadrà prima di aver adempiuto al Giuramento, spetta solo il Vuoto.
E forse è questa la ragione per cui le lacrime che credevano di non poter più versare hanno un sapore tanto amaro. Sono poche rispetto a quelle piante da Makalaurë, troppe rispetto a quelle che Russandol non piange, ma sono tutto ciò che hanno.
Così, quando vanno avanti, lo fanno senza avere più nulla se non loro stessi.
Lestanórë non è stato ancora preso, il Silmaril è ancora là, fra mille caverne e intestini di pietra. E a un lutto che non hanno neppure il tempo di rivendicare se ne aggiungono altri.
È strano vedere Tyelkormo e Curufinwë riversi in una pozza di sangue, immobili. Nessuno pensava che sarebbero caduti, venendo meno al Giuramento, ma il cadavere di Dior ai piedi del trono sancisce l’adempimento a un voto più intimo.
Loro osservano i due corpi. La mano destra di Tyelkormo congiunta a quella di Curufinwë, sopra la ferita che gli squarcia il ventre. I volti vicini. Insieme, come sempre sono stati in vita.
Ed è così, pensano loro, che moriremo anche noi.





A volte sognano di bruciare. La carne che crepita, seccandosi fino a diventare carbone e poi cenere. Il fuoco che strappa ogni pensiero, eccetto quello di un dolore rosso, più brillante del sangue.
Quando si svegliano una sensazione di calore rimane a serpeggiare sotto pelle. È parte di loro: un passato a cui hanno rimediato, tornando a essere due sotto lo stesso nome.
Questo è ciò che credono sino alla fine.





Del Mare hanno ricordi oscuri, e anche se visto da queste sponde sembra diverso – un Mare accogliente, salvifico –, la loro maledizione continua a riverberarsi sulle sue acque.
Scacciano uno spettro di fuoco e cenere e discendono le Bocche del Sirion, mentre le onde iniziano a gonfiarsi all’orizzonte. Forse Ossë ha intuito la condanna preannunciata dal loro arrivo, da quei vessilli stellati agitati nel vento.
E come il fiume sfocia in Mare aperto, così quegli anni passati a reclamare ciò che spetta loro di diritto, sfociano in una mattanza di corpi, famigliare quanto il Giuramento.
Stavolta, però, sono pochi i guerrieri pronti ad accoglierli, pochi parlano la lingua del ferro – la loro stessa lingua.
Queste sponde sono luogo di marinai ed esuli, rincorsi da un anatema che non meritano. Vi sono persino Ñoldor, rifugiati di Ondolindë7, ed è forse per questo, forse per altro – per quei bambini nascosti sotto gli scafi delle navi ormeggiate, per quegli sguardi che già conoscono i colori dell’incubo –  che alcuni fra loro si ribellano al dogma di una fedeltà dissennata.
Ma lo spirito di fuoco continua ad ardere nella volontà di Russandol. Trovate il Silmaril. Liberatevi dei traditori.
Così fanno: ormai conoscono il prezzo per la loro pace. E quando attraversano il porto e un odore di cenere si alza nell’aria, sono troppo affannati in quella cerca per interpretare il presentimento affacciato al loro destino.
Hanno Menelórë al fianco, carnefice di altri due Fratricidi; nel primo ha impegnato la propria innocenza, nel secondo gli ultimi brandelli di una compassione già logora.
Avanzano fra i cadaveri che iniziano ad accumularsi sul ciglio delle strade, mentre una pioggia di frecce solca il cielo. Un marinaio li assale armato d’una pertica e loro lo trafiggono senza degnarlo d’uno sguardo.
Poi Makalaurë compare all’orizzonte, tra le mani una lancia bagnata di sangue scurissimo.
Scendiamo verso il palazzo, ordina indicando il viale che si snoda lungo la baia.
Loro fanno un cenno secco del capo, voltandosi per seguirlo. E la fine non si annuncia, arriva così, improvvisa come neppure la loro maledizione è stata.
La fine è la spada traditrice di Menelórë e il calore delle sue braccia che li accompagna al suolo.
La fine ha l’espressione sgomenta di Makalaurë: lacrime intrappolate fra le ciglia e un grido muto sulle labbra.
La fine ha la voce di Menelórë, un sussurro roco alle orecchie.
È tempo che tu sia libero, Signore.
Signore, li chiama, costringendoli a un singolare che increspa la superficie dello specchio.
È tempo che tu sia libero. Non dalla tua maledizione, no. Solo dal riflesso che vesti.
E loro vorrebbero pregarlo di non dividerli ancora, di lasciarli morire assieme, due nel corpo di uno, come hanno promesso a loro stessi. Ma Menelórë – il capitano fedele – non concede tregue.
Pityo, lo chiama con un’intimità che non gli ha mai dimostrato. È tempo anche per me di essere libero.
Le sue ultime parole muoiono nel gorgoglio di sangue che gli bagna le labbra. E con la lancia di Makalaurë piantata nella schiena, si accascia su di lui.
Poi c’è lo sciabordio lontano del Mare, la voce di suo fratello che intona forse una preghiera, forse la nenia con cui lo cullava da bambino.
E quel nome, Ambarussa, pronunciato solo per uno.
 
 
 
 

 
 
 




 




Note:
1 - Ne The Shibboleth of Fëanor è scritto che quando i gemelli condividevano ancora il nome Ambarussa venivano chiamati Minyarussa (“primo russa”) e Atyarussa (“secondo russa”).
2 (Quenya) - Lett. “Secondo Popolo”, termine con cui sono indicati gli Uomini del Beleriand e i loro discendenti (Edain in Sindarin).
3 (Q) - “Orchi”, plurale arcaico di orcu, probabilmente usato solo durante la Prima Era, poi sostituito da orcor (singolare orc).
4 (Q) - “Terra di Mezzo”
5 (Q) - “Padre”
6 (Q) - Lett. “terra della cintura”, traduzione di Doriath
7 (Q) - Lett. “Roccia della musica acquatica”, nome originale di Gondolin
 
Il nome del personaggio originale, Menelórë, è composto dai termini menel “firmamento”, “cielo” e órë “cuore” (inteso come “mente interiore”), ma anche “avvertimento” e “premonizione”.
 
 
L’headcanon di Amras ucciso davanti agli occhi di Maglor, lo devo a Feanoriel e alla sua (magnifica) Between Heaven and Hell.
 
 
L’ipotesi qui profilata è nata come un tentativo di armonizzazione tra la storia dei gemelli raccontata ne Il Silmarillion, in cui i due trovano la morte alle Bocche del Sirion, e quella contenuta ne The Shibboleth of Fëanor (The Peoples of Middle-earth), in cui Amrod viene bruciato vivo durante l’incendio delle navi a Losgar e il solo Amras, secoli dopo, muore alle Bocche del Sirion.
Considerando tale versione è curioso pensare che nonostante nessun abitante della Terra di Mezzo abbia avuto contatti con l’ultimogenito di Fëanor, il nome “Ambarto” sia stato comunque sindarizzato. Certo, lo stesso si potrebbe dire di “Argon”, traduzione di Arakáno (quarto figlio di Fingolfin, morto prima dell'incontro tra i Ñoldor e i popoli della Terra di Mezzo), tuttavia è anche vero che una delle versioni della storia di quest’ultimo lo vuole vittima di una morte eroica, durante la battaglia di Lammoth, e ciò potrebbe far supporre che il suo nome sia stato tradotto per tramandare racconti che ne esaltassero l’impresa. Una giustificazione, questa, che difficilmente si applicherebbe a Amrod, ucciso per sbaglio da un ordine del suo stesso padre.
Da qui l’idea di un Amras così provato dalla morte del gemello da creare una “storia parallela” che lo porta a vestire i panni dello stesso Amrod e a far conoscere la sindarizzazione del suo nome. È ovvio, però, che l’immedesimazione di Amras, causata da disturbi psichici, sia una speculazione arbitraria, nata da riflessioni del tutto personali sui brani de The Shibboleth of Fëanor.
 

Al termine di queste note infinite, vorrei indirizzare due ringraziamenti speciali a melianar e tyelemmaiwe che si sono sorbite le mie ansie e i miei dubbi in merito a questa storia.
E ovviamente un grazie a voi che avete letto.




   
 
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