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Autore: Scriverodite    14/07/2016    1 recensioni
Era bello, insolito per i canoni di Melanie. La sua pelle ambrata risplendeva alla luce della luna, i capelli neri erano assai disordinati.
Il suo naso, un po’ grande rispetto al resto del viso, gli conferiva un’aria tenera e infantile, così come le carnose labbra a cuore.
I suoi occhi color cioccolato, che ricordavano tanto quelli di un orientale, erano così grandi e profondi che per un attimo Melanie dimenticò di aver appena vomitato l’anima.
Il misterioso tipo indossava una canotta nera, che metteva in bella mostra i suoi tatuaggi e i suoi bicipiti scolpiti. Un paio di jeans dello stesso colore gli fasciava le gambe lunghe.
Sorrise timidamente, mettendo in mostra denti dritti e bianchissimi.
Melanie lo osservò per qualche istante. Era ubriaca, certo, ma la bellezza di quel ragazzo andava ben oltre l’alcool.
Avrebbe potuto dirgli tante cose, ma «portami via di qui» si limitò a sussurrare.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Calum Hood
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo uno - Drunk





 


Seduta al bancone di quel locale fatiscente, Melanie sorseggiò il suo secondo drink, poi strizzò gli occhi verdi per meglio abituarsi alle luci psichedeliche della discoteca.
Come ci era finita lì? Aveva così tanto alcool in corpo che a malapena riusciva a ricordare il suo nome. La testa le doleva, ma di tornare a casa non ne aveva proprio voglia. Era così stanca di quella vita noiosa e monotona, perciò continuava a frequentare squallidi locali da quattro soldi pur di stare lontana dalla realtà.
La vodka che aveva bevuto le bruciava in gola come non mai, e avrebbe voluto chiudere gli occhi per frenare il dolore lancinante alle tempie.
Non era stata una buona idea rintanarsi in quella discoteca, non dopo l’ennesimo litigio con sua madre, ma lasciare che quel tornado di emozioni si impossessasse di lei non lo sarebbe stato altrettanto.
Perché non riusciva a scappare, mollare tutto e lasciarsi quella vita alle spalle?
Una codarda, ecco cos’era.
Si lasciava trapassare da tutto, ma niente riusciva davvero a scalfirla.
Niente riusciva a spezzarla per davvero, come fosse stata di ferro.
O forse, pensò, era stata spezzata così tante volte da averne fatto un’abitudine. 
«Ehi bellezza» la chiamò qualcuno alle sue spalle, distogliendola dal flusso – assai distorto, a dire il vero – dei suoi pensieri.
In risposta, Melanie alzò gli occhi al cielo, maledicendosi ancora una volta per quell’insulsa serata. Spesso si ritrovava a dover liquidare ragazzi in una discoteca, altre volte invece si svegliava in letti del tutto sconosciuti, di fianco a persone che non ricordava nemmeno di aver mai visto.
Si voltò, scocciata da quella situazione.
«Ascolta, dolcezza» affermò, la voce impastata per via dell’alcool, «a quel paese ti ci devo mandare io o ci vai da solo? »
Il ragazzo, i cui occhi azzurri erano vitrei, segno che neanche lui era poi del tutto lucido, la guardò interrogativo, per poi dileguarsi tra la folla, quasi dispiaciuto.
«Tanto domani non ricorderà più niente» si ritrovò a pensare Melanie, poi scosse la testa e «forse nemmeno io» sussurrò.
 
 
 
 
Due ore e tre gin dopo, Melanie decise di uscire a prendere una boccata d’aria. Il caldo del locale era ormai diventato asfissiante, e una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco cominciava a farsi sentire. Imboccò la prima uscita, e, lentamente, inspirò a pieni polmoni la tiepida aria primaverile.
Perché continuava a ridursi così? Le faceva male tutto, come se un immenso camion le fosse passato addosso.
Si appoggiò all’angusta parete del retro di quel locale, gli occhi chiusi, il petto dolorante.
Doveva smetterla. Definitivamente.
«Come se fosse possibile» sorrise. Era diventata un automa, un piccolo robot nelle infime mani dell’alcool. Un giocattolo malfunzionante, una stupida marionetta.
Esattamente come sua madre.
Nulla riusciva più a distrarla, se non la piacevole sensazione di stordimento dettata dalla vodka che le scorreva nelle vene. Si stava facendo del male, e questo Melanie lo sapeva, ma tutto era preferibile a quell’inferno che lei chiamava vita.
Cominciava a girarle la testa, dopo tutto quello che aveva bevuto, e uno strano malessere le attanagliava lo stomaco. Si piegò, e in quel vicolo buio vomitò se stessa, con i suoi rimpianti e le sue stupide paure.
Si sedette, la testa tra le mani, gli occhi lucidi, e cercò di respirare quanto bastava per tornare alla regolarità. Cercò di convincersi che stesse meglio, ma sapeva bene che quella sarebbe stata l’ennesima cazzata raccontata a se stessa. Avrebbe tanto voluto piangere, urlare che non era questo ciò che lei chiedeva per la sua vita.
Felicità. Non desiderava altro.
Persa nelle tante elucubrazioni, quasi non si accorse del ragazzo che le si avvicinava.
«Ehi, hai bisogno di una mano?» le domandò preoccupato.
Era bello, insolito per i canoni di Melanie. La sua pelle ambrata risplendeva alla luce della luna, i capelli neri erano assai disordinati.
Il suo naso, un po’ grande rispetto al resto del viso, gli conferiva un’aria tenera e infantile, così come le carnose labbra a cuore.
I suoi occhi color cioccolato, che ricordavano tanto quelli di un orientale, erano così grandi e profondi che per un attimo Melanie dimenticò di aver appena vomitato l’anima.
Il misterioso tipo indossava una canotta nera, che metteva in bella mostra i suoi tatuaggi e i suoi bicipiti scolpiti. Un paio di jeans dello stesso colore gli fasciava le gambe lunghe.
Sorrise timidamente, mettendo in mostra denti dritti e bianchissimi.
Melanie lo osservò per qualche istante. Era ubriaca, certo, ma la bellezza di quel ragazzo andava ben oltre l’alcool.
Avrebbe potuto dirgli tante cose, ma «portami via di qui» si limitò a sussurrare.
L’altro si chinò per guardarla meglio.
«Dove vuoi che ti porti?» le chiese, sfiorandole un braccio con le dita.
«A casa. Voglio andare a casa» rispose Melanie.
La testa le doleva così tanto che non riusciva a tenere gli occhi aperti.
Non le piaceva lasciarsi abbordare in posti del genere, nonostante avesse spesso ottemperato a qualche debolezza, eppure il ragazzo che aveva di fronte le trasmetteva quasi normalità. Era sobrio, tra l’altro, probabilmente perché giunto lì da poco.
Chissà cosa ci faceva in quel vicolo, sul retro di una discoteca.
«N-non so dove abiti» farfugliò lui.
“Non a casa mia. Non voglio tornare in quell’inferno» affermò lei sicura, per quanto la sbornia potesse concederglielo, «portami a casa tua».
Cosa le era saltato in mente? Stava davvero implorando un tizio del quale non conosceva nemmeno il nome di portarla a casa sua?
Certo, non era la prima volta, ma di solito le sue sbronze superavano di gran lunga i cinque bicchieri. Era giustificata, in un certo qual modo.
Ma ora, perché mai aveva lasciato che la sua bocca parlasse per lei?
“Come se avessi un cervello” pensò, alzando gli occhi al cielo per l’irritazione.
«Vieni dai, prima che cominci a vomitare di nuovo» assentì il misterioso tizio, osservandola con un moto di preoccupazione sul volto. La afferrò di peso, portandosi il suo braccio sulle spalle, e ne inspirò il dolce profumo.
«Almeno profumi di buono» le disse semplicemente, suscitando una risata ilare da parte di Melanie.
La caricò in macchina, e per tutto il tragitto nessuno dei due osò proferire parola. La ragazza, dal canto suo, teneva la testa rivolta verso il finestrino, e si lasciava accarezzare dal vento leggero tipico della stagione lì a Sydney.
D’un tratto, il ragazzo finalmente parcheggiò e «siamo arrivati» annunciò.
«Non so nemmeno il tuo nome» protestò Melanie, volgendo lo sguardo nella sua direzione per la prima volta da quando erano partiti.
Lui sorrise, e lei si ritrovò a pensare di non aver mai visto denti così perfetti.
Gli sarebbe saltata addosso, ne era certa.
«Calum. Calum Hood. E il tuo qual è?» la interrogò lui di rimando, slacciandosi la cintura.
«Melanie Brown» rispose lei, ripetendo in maniera meccanica i suoi stessi gesti.
Il tipo, che finalmente aveva un nome, incrociò per un attimo il suo sguardo, poi, come ridestato da un sonno profondo, aprì lo sportello e scese dall’auto.
Provò ad aiutarla a camminare in modo più stabile, ma poiché Melanie continuava a barcollare decise che sarebbe stato più pratico prenderla in braccio.
«Sei molto bello Calum» affermò lei sul suo collo, per poi ridere apertamente.
«Oh, grazie. Anche tu non sei male» le rispose il moro divertito.
La sua abitazione – solo ora Melanie riusciva a notarlo – si trovava in un quartiere piuttosto benestante della città, in una strada abbastanza frequentata.
Calum trafficò per un bel po’ con le tasche posteriori dei pantaloni, dalle quali estrasse un mazzo di chiavi. Adagiò Melanie sulla soglia, permettendole però di appoggiarsi a lui, e la scortò nel suo appartamento.
Il locale, doveva ammetterlo, non era per niente piccolo. Anzi, tutt’altro.
Il salotto era arredato in maniera molto semplice. Un divano beige di pelle giaceva sulla parete opposta alla porta, e sul pavimento la moquette richiamava l’ocra delle pareti. Sugli scaffali, alla destra dell’ingresso, erano accuratamente stipati dischi in vinile di qualsiasi artista, da Michael Jackson ai Beatles. Alcune foto, sui medesimi scaffali, ritraevano il moro insieme ad una ragazza di qualche anno più grande, che, vista la somiglianza, Melanie etichettò come sua sorella.
Quest’ultimo la riprese di peso sulle spalle, senza nemmeno lasciarle il tempo di mettere del tutto a fuoco l’ambiente in cui si trovava, e la condusse al piano superiore, dove la ragazza immaginò ci fosse la camera da letto. Di fatto, percorse un breve corridoio ed entrò in una stanza interamente dipinta di verde, con solo un letto e un comodino ad arredarla.
«Bene, questa è la stanza degli ospiti. Tu dormirai qui. Se hai bisogno di qualcosa mi trovi nella camera accanto» affermò lui, posandola dolcemente sulle lenzuola bianche.
La salutò con un sorriso, poi si voltò.
Stava per chiudersi la porta alle spalle, quando udì la flebile voce di Melanie.
«Calum… posso dormire con te?» chiese, e lui proprio non se la sentì di rifiutare. Dopotutto, era ancora sbronza.
Così, senza neanche pensarci su, si ritrovò a rispondere «Su, vieni».
La portò in quella che doveva essere la sua, di stanza, poi si diresse in bagno.
Dal grande letto ad una piazza sul quale si trovava, la ragazza osservò ogni dettaglio di quella camera. Anch’essa, arredata come solo un ragazzo avrebbe potuto fare, era interamente dipinta di giallo, così come il salotto. L’armadio occupava buona parte della parete opposta al letto, vicino al quale giacevano un comodino e un basso bianco e nero. Melanie osservò lo strumento per un po’, chiedendosi se Calum fosse un musicista. Il suddetto ragazzo, tornò qualche minuto dopo, con addosso soltanto un paio di boxer, e Melanie non riuscì a evitare di mordersi il labbro inferiore, per la straordinaria imponenza e perfezione dei suoi addominali. Scosse la testa, per via dei pensieri poco casti che ormai le occupavano la mente.
Il moro si distese al suo fianco e spense la luce, augurandole nuovamente la buonanotte.
Ne osservò il profilo, alla debole luce della luna che filtrava dalla finestra e constatò che, dannazione, era dannatamente sexy. Ne inspirò il profumo, ancora e ancora, e quella notte lasciò che fosse l’alcool ad agire per lei.
Gli accarezzò piano i pettorali, sorridendo per l’incredibile sfrontatezza che la caratterizzava, poi, lentamente, iniziò a baciargli il collo.
Avvertì un leggero fremito e fu quasi felice di essere stata lei a provocarlo.
«C-Che stai facendo Melanie?» sussurrò Calum, la voce incrinata.
«Sei fastidiosamente bello» affermò lei ridendo, proprio come qualche minuto prima.
Seguì con le dita la linea dei suoi occhi a mandorla, del suo naso un po’ grande e delle sue labbra carnose, per poi fermarsi sui possenti muscoli delle spalle.
Poi, guidata dal misto di vodka e gin che le scorreva nelle vene, salì a cavalcioni su di lui. Il ragazzo sospirò nervoso, incapace di sottrarsi a quella tortura.
E prima che potesse dire o fare qualcosa, lo baciò.
Finalmente sentì i suoi muscoli rilassarsi, forse per la prima volta da quando si erano conosciuti.
Gli morse il labbro inferiore con dolcezza, mentre con le mani continuava ad esplorare il suo corpo.
Era bello sentire le sue mani sulla schiena, bearsi di lui senza preoccuparsi di nulla e abbandonarsi a quella sensazione.
Si assaporarono per un tempo indefinito, per poi staccarsi pian piano.
Melanie lo guardò negli occhi, così gentili sotto quella pallida luce, e lui le scostò una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio.
«Melanie, tu sei bellissima» mormorò controvoglia, mentre col pollice le accarezzava piano le labbra, ma sei completamente andata, ed io non andrò a letto con una ragazza ubriaca che domani potrebbe aver dimenticato il mio nome. Se cercavi qualcuno che si approfittasse di te stanotte, hai sbagliato persona. Mi dispiace».
Continuò ad esplorarle il viso con le dita, ma lei scostò bruscamente la sua mano e «vaffanculo Calum» esclamò soltanto.
Si distese nuovamente al suo fianco, questa volta però dandogli le spalle.
L’aveva rifiutata. Non sapeva se sentirsi offesa o lusingata da tale atteggiamento. Nessuno aveva mai osato negarle qualcosa, anche se lei ben sapeva di essere, per la maggior parte dei ragazzi con i quali interagiva, solo e unicamente il divertimento di una notte.
Eppure, la risposta del moro l’aveva destabilizzata, e non poco.
Non le piaceva essere respinta, tantomeno sentirsi così umiliata.
Perché non riusciva a piacere davvero a nessuno? Che fosse guasta? Certo che no, si disse. Semplicemente, se avesse avuto meno alcool in corpo, forse qualcuno l’avrebbe apprezzata per le sue reali qualità, e non solo riguardanti la sfera sessuale.
Ma lei, troppo testarda e casinista, non avrebbe mai detto di no a una bottiglia, per nessuna ragione al mondo.
Lei, così simile a sua madre. Così dannatamente triste.
Affondò le unghie laccate di rosa nella pelle, per evitare di urlare e strapparsi i capelli.
Non sarebbe cambiata mai.
Con questa consapevolezza, e con gli occhi lucidi per la rabbia, si addormentò piano, a pochi centimetri da Calum, che, al contrario, quella notte non riuscì a chiudere occhio.
 

 
 
 
   
 
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