Serie TV > The 100
Segui la storia  |       
Autore: Fannie Fiffi    18/07/2016    4 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A





Is It Any Wonder?



 
Un anno dopo
 
 



« Bell? »

Il maggiore dei Blake accennò un vago sorriso, chinando il capo, e si voltò per un istante verso la cucina e le voci che da questa provenivano.

« Ehi, Atom. Come stai? »

« Mai stato più pronto. È tutto come lo abbiamo previsto? » La voce del suo migliore amico, dall’altra parte del telefono, si fece per un attimo più esitante, incerta, come se all’improvviso temesse ciò che aveva tanto desiderato.

« Sì, lo è. I biglietti sono timbrati, l’automobile piena di benzina e le valige impacchettate. »

« Non posso ancora crederci. » Sussurrò il giovane Ward.

« Credici, invece. Stai tornando a casa. »

« Adesso devo andare, ma è vero. Sto finalmente tornando a casa. Ci vediamo presto, amico mio. » E attaccò.

Era sembrato impossibile, un lasso di tempo troppo lungo da poter sopportare, un peso giornaliero tenuto quotidianamente nel petto per più di dieci mesi, ma era reale.

L’indagine su Thelonious Jaha non si era di certo esaurita al suo arresto, anzi, non aveva fatto altro che svelare una serie ancor più profonda e impensabile di illeciti: i ricatti ai giovani privi di speranza per costringerli a lavorare per lui – ciò che, nel dettaglio, era avvenuto ad Atom e Dax – il riciclaggio di denaro sporco, lo sporadico ma consistente traffico clandestino di droghe.

In particolare, una nuova sostanza psicolettica denominata Chip, talmente potente da distorcere la realtà e far credere a chiunque ne facesse utilizzo di poter fuggire dal proprio dolore e rintanarsi in un mondo parallelo e fittizio, nient’altro che un violento e a tratti letale mix di barbiturici e analgesici di cui lui stesso aveva abusato per anni.

Quando Atom, rivelatosi nient’altro che l’ennesima vittima di un delirante e dissociativo folle e finalmente cosciente dell’arresto del suo persecutore, aveva potuto confessare tutto senza il terribile timore di perdere la propria famiglia, il Procuratore aveva umanamente compreso il motivo dei suoi gesti e ne aveva promosso una riduzione di pena per i capi d’imputazione di frode informatica e complicità in rapimento.

Ora, dopo quindici mesi di reclusione, stava finalmente per rivedere sua madre. Per implorare l’ assoluzione di suo padre. Per abbracciare nuovamente il suo migliore amico, che l’aveva perdonato l’istante esatto in cui aveva saputo del motivo per cui aveva fatto ciò che aveva fatto, per cui gli aveva mentito.

Il maggiore dei Blake si era voltato verso sua sorella e aveva provato a immaginare come si sarebbe sentito se qualcuno ne avesse minacciato la sicurezza. Poi, era salito in macchina e si era diretto senza esitazione al Dipartimento.

Lo aveva abbracciato. Mi dispiace così tanto, gli aveva sussurrato.

Atom era stato portato via con un sorriso stanco ma soddisfatto dipinto sul volto e la promessa di ricevere una visita ogni volta che fosse stato possibile.

E i mesi erano passati.

Uno dopo l’altro, stagione sopra stagione, nuovi pensieri e nuove preoccupazioni avevano assediato la mente di Bellamy, forse per la prima volta cosciente del proprio desiderio di voler vivere. Fare. Costruire.

Anche nei giorni peggiori, anche quando non voleva alzarsi dal letto e riposarsi un po’, e andarsene per un attimo, nascondersi nella sua mente, lui aveva continuato. Si era impegnato, aveva lottato in nome della convinzione di non essere solo.

Non siamo soli, aveva detto un anno prima, nel suo letto, accarezzando dei capelli dorati che alla fine erano scivolati troppo presto e troppo velocemente via dalle sue dita. Dobbiamo crederci. Dobbiamo sforzarci di farlo, o trascorreremo il resto delle nostre vite a scappare.

Lui, perlomeno, aveva smesso. Aveva smesso di scappare, o di essere solo, per quanto ne valeva.

« Bells, sbrigati! Il pranzo è pronto. » Lo chiamò all’improvviso Gina, distogliendolo dalle riflessioni in cui era ricaduto quasi senza rendersene conto.

« Arrivo! »






 
*




 
 
 
« Ehi, sto arrivando, okay? »

Wells fissò il tabellone con espressione preoccupata e ansiosa, gettando l’ennesimo sguardo al proprio orologio da polso.

« Non possiamo perdere questo volo, lo sai, non è vero? » Minacciò, sbuffando fra sé e sé e sollevando gli occhi in aria.

« Posso assicurarti con estrema sicurezza e fiducia che non perderemo questo volo. » Disse la voce dall’altro lato del telefono.

« Ah, e a cosa devo questa garanzia? » Rispose il giovane Jaha, sarcastico come solo da poco tempo era pian piano tornato a essere.

« Girati. »

Senza attendere oltre, fece come suggerito, sfiorando distrattamente con lo sguardo il traffico perennemente incessante e martellante della folla dell’aeroporto di New York.

All’improvviso, quando i suoi occhi incontrarono l’oggetto della sua ricerca, lasciò cadere a terra la valigia che stringeva per i manici, e si aprì in un luminoso, ampio e gioioso sorriso.

« Clarke! »

Camminarono velocemente uno verso l’altra per la breve distanza che li separava, poi si strinsero in un abbraccio serrato e travolgente; Wells le accarezzò piano i capelli, mentre Clarke gli sfiorava le spalle.

« Ehi, fratellone. » Sussurrò la giovane Griffin, ancora incapace di staccarsi da lui.

Era trascorso un mese dall’ultima volta in cui si erano visti – in cui Wells, che ora viveva da solo in un tranquillo monolocale in Pennsylvania, era volato nella Grande Mela per passare una settimana con Clarke ed Abby – e, come ogni momento che trascorrevano lontani, non era stato del tutto facile.

Stavano ancora lottando ogni giorno con quello che avevano, quello che avevano perso e ciò che desideravano. Elaboravano ed elaboravano e a volte era stancante, altre erano solo in grado di piangere fino ad addormentarsi, ma altre ancora superavano intere giornate riuscendo a mettere quei pensieri da parte, il che era la cosa a cui si aggrappavano di più.

Ricominciare da capo era un processo impervio ed estenuante, ma loro non si erano arresi. Forse la vita era proprio questo: sapere quando riposarsi e quando, invece, continuare a scalare. Dimenticare e semplicemente lasciar andare.

« Saliamo su quell’aereo prima che cambi idea. » Disse all’improvviso il giovane Jaha, serrando di poco la mascella e abbassando per un istante lo sguardo.

« Andrà tutto bene. » Rispose con convinzione Clarke, prendendolo sotto braccio e dirigendosi verso il loro gate.


 
 
 

 
« Allora, parlami di Abby. Com’è il nuovo impiego? Ha fatto qualche amicizia? » Wells si voltò verso la giovane Griffin, sul sedile di fianco al suo, mentre l’aereo decollava.

« Va bene. Non è più il primario di Chirurgia, ma le piace così. Lavora meno ore, si dedica alla casa, ogni tanto segue corsi di cucina. Lei… si scambia lettere con Kane. Sai, da quando l’Ark Corporation è crollata e lui si è finalmente potuto licenziare. Credo siano, mh… Credo siano amici. »

A quel punto il suo fratellastro abbassò lo sguardo, perché tutto quello che riguardava la loro vecchia vita era ancora un complesso e intricato tabù da superare, e c’erano ancora parole del loro passato che risvegliavano ferite non del tutto rimarginate. Lungi dall’esserlo, anzi.

« Mi fa piacere. Se lo merita. Spero… Spero che stia bene. Sai, non come dice lei quando siamo noi a chiederlo. Bene davvero. »

« Lo sarà. Con il tempo, con un po’ di impegno. Lo saremo tutti. » Lo rassicurò, sorridendogli gentilmente e posando per un istante le punte delle dita sul suo avambraccio.

« Sai, sono davvero contenta che tu abbia voluto fare tutto questo. Sono contenta di essere su questo volo, con te, e che stiamo provando ad andare avanti. Ti prometto che, dopo aver concluso anche quest’affare, sarà finalmente finita. »

« Non credo che potrà mai finire, Clarke. » Sussurrò Wells, osservando fuori dal finestrino e ricadendo in un breve e carico silenzio. « Ma avremmo dovuto fare questo viaggio, prima o poi. Meglio tirare via il dente e chiuderla qui. »

« Ehi, Wells- »

« Come sta la tua gamba? » Domandò improvvisamente lui, interrompendola. Non era pronto a parlarne. Né in quel momento, né in quel contesto, su un aeroplano, circondati da estranei, senza una via di fuga per scampare a ciò da cui, lo sapeva bene, non poteva fuggire del tutto.

La giovane Griffin comprese istantaneamente quello che stava cercando di fare e lo assecondò. Non voleva essere respinta proprio ora che il loro rapporto era riuscito a rimettersi perlomeno in piedi.

Annuì, dedicando uno sguardo distratto al leggero tutore che portava sotto i vestiti, e abbozzò un’espressione soddisfatta.

« Va meglio. Ho messo in valigia il bastone, perché la pressione e i cambiamenti climatici mi infastidiscono ancora, ma va tutto bene. Quasi non sento il tutore. » Lasciò andare una breve e velatamente isterica risata.

« Ne sono davvero felice. » Fu l’unica risposta che ricevette, e finse di non notare il triste e desolato sorriso dipinto sul volto di Wells.






 
*



 
 
« Quindi, se ho capito bene, mi stai dicendo che Halsey non ti piace. » Pronunciò Lincoln con tono inquisitorio, portando entrambi i palmi aperti davanti a sé e sollevando un sopracciglio.

« Non è che non mi piaccia », rispose Gina con tono diplomatico, « è solo che… Andiamo, quella voce e quel corpo... Non può essere vera! È semplicemente ingiusto. Io ho lavorato sodo per migliorare la simpatia! » Esclamò, stringendosi nelle spalle con fare disinvolto.

A quel punto Lincoln si abbandonò a una controllata e lieve risata, perché era comunque una persona composta e non particolarmente prona ad esternare i propri sentimenti, sebbene la giovane Martin lo sfidasse più che spesso a fare esattamente il contrario.

« Ehi, nerd! Il pranzo è pronto anche per voi. Non vi aspetteremo mica. » Li richiamò dalla cucina Octavia.

« È meglio andare, o i Blake mangeranno davvero tutto ciò che è in tavola. » Sussurrò Gina, portandosi teatralmente una mano a lato della bocca per non farsi sentire.

« Non sai quanto hai ragione. » Concordò lui, ed entrambi si diressero immediatamente verso la cucina di O e Bellamy. Quest’ultimo li raggiunse un istante dopo, regalando a Lincoln e Gina un sorriso rilassato.

« Raven non viene? »

« Arriva più tardi. Qualcosa riguardo radiatori e valvole. » Rispose Gina, sollevando di poco gli occhi al cielo in un’espressione confusa.

 « Beh, peggio per lei », incalzò la brunetta, alzando il mento con aria di finta superiorità, « non troverà una porzione di lasagne calde ad aspettarla. »
 
 
 
 


 
*







« Raven? »

La giovane Reyes non sapeva di aver desiderato sentire quella voce finché non era salita in automobile e aveva guidato per più di due ore per raggiungerla.

Ma ora lo capiva. Nonostante la rabbia, il rancore, gli errori commessi, le parole dette e, soprattutto quelle non dette, ne aveva semplicemente bisogno.

Si era sempre vista come un’avventurosa viaggiatrice, pronta a scoprire nuove terre e conquistare nuovi tesori fino a diventarne regina, fino ad essere l’unica in grado di ricacciare indietro il dolore e salvarsi da sola.

Quello che aveva tanto tentato di ignorare, però, era che anche le regine, di tanto in tanto, bramavano ritrovare le loro radici.

« Ehi, Finn. » Disse alla fine, portandosi una mano dietro il collo.

Ricordò all’improvviso quando, poco più di un anno prima, si era ripresentata la stessa scena: lei davanti alla sua porta e la sorpresa di lui nel vederla lì. Il pensiero fu quasi ironico, se non fosse per tutte le cose che erano cambiate nel frattempo.

« Stai… Stai bene? È successo qualcosa? » La preoccupazione nella sua voce aumentava sempre di più, così come la confusione sul suo volto, e Raven scosse la testa con veemenza e sicurezza, abbozzando un lieve sorriso.

« Non è successo niente, sto bene. Volevo solo… Vederti. »

A quel punto il giovane Collins sospirò, passandosi una mano fra i capelli, e ricambiò quasi timidamente il sorriso.

« Sono felice che tu sia venuta. »

Raven abbassò lo sguardo, come indecisa, e poi lo riportò in quegli occhi che conosceva come i propri. In quegli occhi che l’avevano amata quando nessun altro l’aveva fatto e che l’avevano ferita più di quanto avesse mai creduto possibile.

Quegli occhi che, senza nemmeno accorgersene, aveva silenziosamente perdonato molto tempo fa.

« Potremmo andare a fare una passeggiata. Che ne pensi? »

Finn non disse niente, ma si richiuse la porta alle spalle e sorrise.



 
 
Camminarono per un lungo tempo, chiacchierando dei loro lavori e delle nuove persone che avevano conosciuto, di modelli di macchine e film al cinema e quale birra artigianale avesse il sapore migliore, e ogni attimo fu al contempo nuovo e antico, semplice come la prima abitudine acquisita durante l’infanzia, un fiume di parole che si accavallavano l’una sull’altra per la fretta di raccontarsi il più possibile.

Passeggiarono senza accorgersi delle persone che gli passavano di fianco o della direzione che stessero seguendo. Anzi, forse non c’era una vera e propria direzione.

I passi si sostituivano e continuavano ad alternarsi di propria iniziativa, senza che nessuno dei due riuscisse a dargli una qualche razionale indicazione.

Finn e Raven lasciarono che tutto quello che era trascorso fra di loro – tempo, parole, sensazioni, rimpianti – li sommergesse e li ripulisse, consegnandogli solo un fresco e tenero inizio, e si permisero di perdonarsi e amarsi in un modo così simile a prima ma mai più diverso da spaventarli, per un attimo o due.

« Non è mai stata mia intenzione ferirti. » Confessò all’improvviso il giovane Collins, incapace di guardarla negli occhi, colpevole sotto il peso delle sue stesse parole.

Lei si fermò, involontariamente permettendogli di fare qualche passo avanti senza di sé, e, quando Finn se ne accorse, si voltò verso di lei, dubbioso.

« Noi saremo sempre una famiglia. » Sussurrò Raven, piena di sorpresa, come se avesse appena compiuto una scoperta in grado di rivoluzionare per sempre ogni cosa.

« Sempre. » Bisbigliò di rimando lui, tornando indietro e prendendole delicatamente una mano.

Era vero: forse non potevano più amarsi come un tempo, nel modo in cui entrambi, per un periodo, avevano tanto creduto di poter fare. Non si sarebbero mai sposati, come invece avevano promesso da piccoli più d’una volta. Niente sarebbe stato più lo stesso.

Ma erano loro a non essere più gli stessi, e andava bene così. Non si conoscevano più, ma si erano conosciuti, e si sarebbero conosciuti di nuovo.

Avrebbero iniziato di nuovo. Non come amici, né come amanti, ma come una famiglia, che era l’unica cosa a non essere cambiata.

« Almeno per oggi smettiamo di essere dispiaciuti, okay? » Propose la giovane Reyes, poggiando la guancia contro la sua spalla mentre camminavano. Finn, al suo fianco, annuì.
 
 
 
 
 


 
*






Cinque ore dopo, dopo aver attraversato gli Stati Uniti e aver consumato più patatine di bordo di quante le hostess potessero offrire in omaggio, Clarke e Wells si ritrovarono nuovamente seduti, questa volta in un taxi.

« Come ti senti? » Domandò la giovane Griffin, ispezionando senza farsi notare il volto del suo fratellastro.

« Credo di aver fatto scorta di cibo spazzatura per i prossimi vent’anni e, a dirla tutta, non ne sono nemmeno dispiaciuto. »
« Intendevo come ti senti emotivamente, qui, in questo contesto. Ma effettivamente le patatine sono un ottimo argomento di intrattenimento. »

Provò a scherzare lei, e anche Wells si abbandonò a una breve e controllata risata.

« Sto bene. Sono solo affari. Prima la sbrighiamo, prima potremo tornare a casa. »

« Già. » Mormorò Clarke fra sé e sé, guardando fuori dal finestrino. « Solo affari. »







 
*




 
 
 
 
Non sapevano come, ma Gina e Octavia erano rimaste sole in casa.

Lincoln e Bellamy erano usciti qualche ora prima omettendo qualsiasi indicazioni, probabilmente troppo indaffarati dai loro soliti discorsi per spiegare loro dove stessero andando di domenica pomeriggio.

Il maggiore dei Blake aveva seguito l’amico senza fare obiezioni, fidandosi completamente e ciecamente del suo giudizio, e aveva lanciato solo un’occhiata veloce alla casa abbandonata alla sua sinistra, rimasta vuota e buia per l’ultimo anno.

Non le aveva prestato attenzione, come aveva imparato a fare ogni giorno dopo l’altro.

Ovviamente, le ragazze non li avevano assecondati, troppo occupate in una partita di scacchi divenuta un duello all’ultimo sangue, in cui la vincitrice avrebbe potuto imporre alla perdente qualsiasi tipo di penitenza.

Le solite sfide settimanali di Gina e Octavia, quindi; nulla di particolarmente strano o inusuale.

Almeno finché il campanello non suonò, ed entrambe si guardarono con un’appena accennata espressione di confusione.

« Stai aspettando qualcuno? » Domandò la giovane Martin, sollevando un sopracciglio.

« Raven ha le chiavi. E poi credi che inviterei qualcuno proprio mentre ti sto facendo il culo? » Rispose retorica la più piccola dei Blake.

« Un semplice no sarebbe stato più che sufficiente. » La schernì l’altra, alzandosi dal divano e rovesciando gli occhi indietro.
« Oh, sì, fai pure. Sei la padrona di casa. »

« Come se ti andasse di alzarti. » Esclamò a gran voce per farsi sentire, appena prima di aprire la porta.

Il sorriso sul suo volto si affievolì, sostituito da un’espressione di stupore e sorpresa, e l’infermiera sbarrò di poco gli occhi.

« Clarke? » Domandò, confusa e attonita.

La sua espressione e il suo tono di voce erano degno ritratto di quelle dell’altra ragazza, mentre la giovane Griffin la guardava con le sopracciglia unite in una linea dritta. « …Gina?  Che cosa- »

« Clarke? » Ripeté un’altra voce, più forte e veemente.

All’improvviso, Octavia apparve alle spalle di Gina, che si voltò per un istante verso di lei e le lasciò spazio.

« Che ci fai qui? » Se non fosse stato per il tono ostile, Clarke avrebbe comunque capito di essere un ospite sgradevolmente inatteso dalla sua posizione difensiva, con le braccia incrociate al petto e le gambe divaricate. Era così simile a suo fratello da far paura.

« Affari. » Sussurrò, d’improvviso priva di qualsiasi coraggio l’avesse spinta a presentarsi a casa Blake. « Io e Wells stiamo vendendo la casa di mia madre. » 

« Mi fa piacere sapere che stiate bene », per un istante la più giovane sembrò addolcirsi di una sincerità che la bionda non poteva mettere in discussione, tuttavia tornò a richiudersi subito dopo, « ma non puoi restare. Devi andartene. »

« Speravo di poter parlare con- »

« Bellamy non è qui. » La interruppe, serrando la mascella. « E credo che sia meglio per tutti che tu non l’abbia trovato. » Abbassò lo sguardo, lasciando trapelare una sottile e affilata tristezza.

« Mi dispiace tanto per ciò che è successo, Octavia. Non è mai stata mia intenzione ferirlo. » Si sentiva esposta, incredibilmente e fastidiosamente esposta, ma non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di spiegare – o perlomeno provarci – perché avesse preso la decisione di andarsene.

Non a Octavia, che si era sicuramente presa cura di suo fratello quando nessun altro era stato in grado di farlo. Nemmeno lei.

E a quanto pare non era stata l’unica. Clarke spostò per un istante gli occhi sul volto di Gina, la miglior infermiera del Mount Weather Hospital, che non vedeva da un anno e che mai si sarebbe aspettata di incontrare in un contesto del genere.

« Lo so. » Assentì la minore dei Blake, sollevando lo sguardo con espressione desolata, come a voler nascondere la commozione. « Ma lo hai fatto. »

Eccola, la triste e cruda verità. Sbattuta davanti ai suoi occhi senza pietà o esitazione, così come malsanamente aveva desiderato fin dall’inizio, quando era solo in grado di schivare e sotterrare.

Aveva voluto qualcuno che le dicesse come stavano le cose perché lei non era mai riuscita ad accettarle, e ora che ci pensava nessuno sarebbe mai stato più brutalmente onesto di Octavia Blake.

Lo meritava.

Perciò: « Mi dispiace per il disturbo. » Fu tutto ciò che riuscì a dire, colpevole e responsabile di aver distrutto l’unica cosa che fosse veramente riuscita a desiderare dopo anni di apatia e rabbia e dolore inarrestabili e impossibili da colmare.

« Prenditi cura di te, Clarke. »

E richiuse la porta.
 
 
 


Ora che era tornata a Los Angeles, nel suo vecchio quartiere, fra le sue vecchie abitudini, e il suo cuore aveva appena ricevuto l’ultima di molte altre piccole ma indimenticabili incrinature, Clarke Griffin non poteva di certo tirarsi indietro da un ultimo ricordo.

Fu per quel motivo, quindi, che per la prima volta senza esitazione o timore si diresse al The 100.

« Non. Ci. Credo! » Non appena la vide, Jasper gridò e abbandonò uno dei tavoli per correrle incontro.

Clarke scoppiò a ridere, ma allargò le braccia per accoglierlo contro di sé e lo abbracciò con tutto l’impeto e l’energia che rivedere il suo migliore amico di infanzia dopo tre mesi poteva infonderle.

Voleva dimenticare ad ogni costo cosa fosse appena successo, cosa credeva che ci fosse tra Bellamy e Gina – che era piuttosto palese, ma ignorò anche questo – e ciò che le aveva detto Octavia.

« Comprerò un biglietto per New York », affermò lui fra i suoi capelli, « lo comprerò oggi. Ma che dico, lo comprerò non appena avrò finito di abbracciarti. Devo vederti. »

« Jasper, mi stai vedendo adesso! »

« Devo vederti anche dopo. Anzi, facciamo che comprerò il biglietto uguale al tuo, così torneremo a New York insieme e potrò dormire per una settimana sul tuo divano. »

« Ti avrei sicuramente lasciato il letto. » Esclamò fiera, staccandosi da lui e guardandolo negli occhi.

« Bugiarda. » Rispose, ma la prese per mano e la condusse verso il tavolo più vicino.

« Non mi avevi detto che avessi iniziato a lavorare qui. » Fece Clarke con tono interrogativo, indicando con un cenno del mento la sua uniforme.

Il giovane Jordan agitò la mano con fare riduttivo. « È solo un impiego estivo. E poi, è come se ci lavorassi già. Trascorro tutto il mio tempo qui. »

« A proposito », iniziò con malizia la bionda, voltando di poco il capo, « esci ancora con quella ragazza? »

« Maya. Oh, sì. La amo da impazzire. » Sospirò. Poi, un po’ meno entusiasticamente, abbassò lo sguardo. « Anche se non gliel’ho ancora detto. »

« Dovresti. » Sussurrò la giovane Griffin, uno strano tono nella sua voce. Come se sapesse esattamente di cosa stava parlando. E, in realtà, lo sapeva bene.

« Sono un codardo. Se… Se lei non provasse lo stesso? Se facessi la figura del completo idiota e lei mi lasciasse per un palestrato superfigo e interessante?»

La bionda sollevò gli occhi al cielo. « Dovresti dirglielo non appena la vedi. »

Sospirò, fermandosi a fissare le proprie mani. Attese un istante, non sapeva esattamente cosa, e poi prese un respiro profondo.

« Dovresti prenderle la mano e farle sapere che non c’è nessun altro che sia stato in grado di farti sentire come ti fa sentire lei. Che quando siete insieme non hai più paura e che ti fa credere in qualcosa di… più. Più di tutto quello che hai mai pensato di poter avere. Più di quanto meriti.

Ma cerchi di farlo, di meritarla, perché non sai se incontrerai mai nessun altro capace di vedere in te quello che vede lei. Oltre la tua rabbia, il tuo dolore, che sono tutto ciò che credi di avere. Ma lei ti ha dimostrato che non è così. Che non sei solo questo. Che non sei solo e basta. Che sei speciale, e puoi essere amato. »

« Woah, Clarke. » Esclamò Jasper, gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa. « Sei sicura che medicina sia la facoltà adatta per te? »

La giovane Griffin abbozzò una risata, internamente incredula di aver appena lasciato trapelare più di quanto fosse pronta, e abbassò lo sguardo, imbarazzata.

Tuttavia, non riuscì a scrollarsi la sensazione di quanto fosse stato facile. Non l’aveva mai creduto possibile prima d’ora, perché ognuno dei suoi sentimenti si era sempre ripiegato dentro al suo cuore in una silenziosa melodia di segreti inconfessabili, ma era stata la cosa più semplice che avesse mai fatto.

Le parole volevano uscire. Volevano accavallarsi e mescolarsi ed essere finalmente libere, così come lei non gli aveva mai permesso di fare.

Poi scosse la testa e un sorriso distratto si distese sulle sue labbra. « Il punto è che dovresti dirglielo. Lei merita di saperlo e tu meriti di lasciarlo uscire. »

« Lo farò. » Acconsentì con sicurezza e convinzione l’amico, ricambiando dolcemente il suo sorriso.

« Ho così tante cose da chiederti. Dov’è Wells? Come sta? E Abby? L’università? La tua vita amorosa? »

La giovane Griffin si portò teatralmente una mano al petto, fingendosi sconvolta per la vivace sequela di domande. « Wells è nella nostra camera d’albergo, giù in centro. Sta… meglio. Non vede l’ora che venga domani per firmare il contratto di vendita e andarcene dalla California.

È, mh, molto difficile per lui stare qui. Ma sta meglio. Ho visto la sua casa, è molto carina. Il suo stile. Ci vediamo una volta al mese, più o meno. »

Il giovane Jordan sorrise, felice di avere buone notizie su uno dei suoi primi amici. Nessuno di loro si aspettava che la prendesse meglio di come aveva fatto, ma sicuramente alcuni di loro avevano previsto molto di peggio.

Perciò era stato bello sapere che il sempre vincente e primo della classe Wells Jaha avesse per l’ennesima volta calciato nel culo chiunque lo ritenesse qualcosa di meno che tenacemente coraggioso.

« Anche mia madre sta meglio. Ha molte più possibilità di restare a casa a riposarsi di quante ne avesse qui. Si dedica ad alcuni hobby, cerca di tenersi attiva, frequenta dei corsi, quando ne ha voglia. Mi chiama ogni giorno. E io le rispondo, adesso. » Scherzò, riferendosi al loro burrascoso e difficile passato.

Non ne era stata capace per molto tempo, e tutt’ora nei giorni peggiori odiava parlarne, ma evidentemente oggi non era uno di questi.

« E tu? » Domandò Jasper.

« Io cosa? »

« Come stai tu? »

« Io… Me la cavo. » Balbettò. « Mi sto impegnando. La mia… La mia gamba sta meglio. Il tutore è sempre qui, ma è molto leggero e a volte mi dimentico perfino di indossarlo. Quando piove uso il bastone, perché il tempo influisce più di quanto vorrei. La cicatrice migliora un po’ ogni giorno. »

Il suo migliore amico si sporse oltre il tavolo e le afferrò la mano, guardandola con sguardo tenue e premuroso. « Non devi per forza parlare della cosa peggiore che ti sia successa. Non era questo che intendevo chiederti. »

Clarke rimase attonita per qualche istante, muta e sorpresa mentre cercava di comprendere le parole di Jasper, e sbarrò di poco gli occhi.

Poi, molto delicatamente, sbatté le palpebre e accennò un nuovo sorriso privo di espressione e convinzione.

Non aveva nulla da dire. Sì, aveva ripreso l’università e questa era stata una fonte di gioia e soddisfazione maggiore di quanto potesse aspettarsi. Sì, era andata a letto con qualche ragazzo, con qualche ragazza, ma solo di questo si era trattato: una notte, un letto, numeri che non aveva intenzione di richiamare.

Queste piccole o grandi gioie l’avevano resa consapevole, e l’essere consapevole di provarle l’aveva portata ad analizzarle, a segmentarle in piccolissimi pezzettini, sezionandole e decontestualizzandole, e tutto questo non aveva fatto altro che farle dissolvere.

Si erano dissipate e disciolte finché non ne era rimasta solamente una nostalgia totalizzante e dolceamara.

La felicità – o le uniche forme che ne avesse conosciuto durante l’ultimo anno – le era scivolata fra le dita un granello alla volta, e lei l’aveva placidamente osservata andarsene, lasciarla con una mancanza inesplicabile, incontenibile e insaziabile.

Perciò era facile rispondere alle domande su Wells o sua madre; gli voleva bene, li amava quale propria famiglia e punto fermo, ma non poteva provarne i sentimenti, e questo era egoisticamente più facile che tentare di spiegare che tutto ciò che riusciva a provare lei, invece, era solo un enorme senso di colpa.

Un enorme rimpianto, quello di aver lasciato andare la sola cosa che le avesse fatto battere il cuore tanto velocemente quando, in realtà, lei voleva solo che si fermasse.

Era per questo che Jasper non poteva lasciar andare Maya, per questo che doveva dirle tutto, regalarle ogni parola e permetterle di amarlo, che, al contrario di quanti molti potessero credere, era in realtà la cosa più ardua da fare. E, paradossalmente, allo stesso momento, anche la più semplice.

Quindi Clarke rispose: « Io? Io sto bene. » E cambiò discorso, chiedendo di Monty, Miller e il resto dei Delinquenti.




 
 

Le passeggiate notturne per le strade della sua adolescenza erano un’altra delle abitudini che non credeva di aver conservato così bene finché non si ritrovò a percorrere il tragitto che conosceva a memoria.

Era rimasta al club fino a notte fonda, ballando con Jasper un’ultima volta come ai vecchi tempi, chiacchierando con gli amici che non aveva più sentito ma con cui era stato altrettanto facile tornare in confidenza e semplicemente onorando, chissà dopo quanto tempo, antiche azioni che sembravano appartenere ad un’ancor più antica vita.

Ora, alticcia per qualche cocktail in più e stanca per il lungo viaggio, camminava semplicemente, lasciando che la lieve brezza della notte le scivolasse fra i capelli, sotto al collo.

Non sapeva dove stava andando, anche se lo sapeva. Tuttavia, non voleva pensarci finché non sarebbe arrivata.

Voleva sentirsi così, leggera e inconsistente ancora per qualche attimo, prima di trovarsi catapultata davanti alla tangibilità e alla crudeltà del suo passato, della sua storia.

Quando svoltò per la via nota e familiare, d’improvviso un brivido la colpì, facendola sussultare e toccarsi distrattamente la coscia sinistra. Ma Clarke continuò a camminare, stringendo le labbra e sollevando di poco le spalle, e si costrinse a non fermarsi mai se non nel punto della sua destinazione.

Quest’ultimo, però, arrivò prima di quanto pensasse, e per un istante lo guardò con estrema attenzione, lo scrutò da lontano, e non fu terribile come aveva immaginato.

Poi spostò lo sguardo verso casa Blake; le luci erano spente. Sapeva che Octavia le aveva detto di non tornare, che era meglio se Bellamy – solo ora si permetteva di pensare il suo nome – non avesse mai saputo che era stata lì, ma lei aveva solo bisogno di sedersi sul suo vecchio portico. Solo per qualche minuto.

Non avrebbe fatto rumore, non si sarebbe fatta vedere, si sarebbe solo seduta sul suo vecchio portico e gli avrebbe detto finalmente addio, l’avrebbe lasciato andare, così come ognuno dei ricordi legati a quella casa.

Perciò continuò a camminare, un passo dopo l’altro nel vialetto buio, e arrivò davanti all’abitazione.

Come sempre, il lampione davanti al suo vecchio giardino era fulminato, e questo le permetteva di nascondersi quasi furtivamente nell’ombra.

Era tutto esattamente come lo ricordava. Ed era vero che era passato solo un anno, ma non per lei.

Per lei, quei dodici mesi erano stati anni, secoli, eoni. Erano pesati giorno dopo giorno, una lenta stagione dopo l’altra, in una ripetitiva e distratta routine sempre uguale a se stessa, in cui ogni giorno si svegliava senza le cose che desiderava di più – che, per essere chiari, non erano affatto cose –.

Rimase a fissare quel portico, immobile sul marciapiede, per qualche istante. Respirò profondamente per scacciare ognuno dei terribili sentimenti che le avevano crepitato sulle gambe e si erano arrampicati fino alla sua gola.

Poi, qualcuno parlò. Sussurrò, anzi, ma lei lo sentì fin dentro le ossa.

« Credevo non saresti più tornata. »

E un piccolo, piccolissimo e minuscolo pezzetto di pace che era sfuggito agli occhi di Clarke fra i tanti frammenti nella sua testa si agganciò ad un altro, e, in quel preciso momento, lei respirò un pochino meglio.

« Bellamy… » Sussurrò al vento, disperata e insieme beata, e solo dopo averlo chiamato si voltò.

Non poteva vederlo bene, perché anche lui era avvolto dal buio, ma al tempo stesso non l’aveva mai visto meglio.

Solo quando fu apparentemente sicuro di aver attirato la sua attenzione, il maggiore dei Blake si sporse e accese la luce della sua veranda.

Era seduto nello stesso modo in cui, più di un anno prima, l’aveva visto per la prima volta. Una sigaretta stretta fra le dita e una coperta poco vicina.

I suoi capelli erano più lunghi di quanto fossero quando lei gli aveva detto che se ne sarebbe andata, ma i suoi occhi e le labbra erano esattamente gli stessi.

Desiderava ancora disegnarli come se fossero un’opera d’arte imperfetta e incompresa, come aveva voluto fare quando gli aveva confessato la propria storia, e lui le aveva raccontato la sua.

Stranamente e incomprensibilmente, non aveva mai sentito la sua mancanza così acutamente come ora che l’aveva davanti e poteva finalmente guardarlo.

Lui si alzò con lentezza, in un movimento calcolato, e la scrutò di rimando. Cosa vedeva? Avrebbe voluto chiederglielo.

« Mia sorella mi ha detto che sei passata, prima. » Il suo tono era indecifrabile, un misterioso enigma, così come la sua espressione.

« Non pensavo l’avrebbe fatto. » Bisbigliò Clarke, non del tutto ripresasi dalla sorpresa di vederlo.

« Sapeva che non saperlo mi avrebbe fatto più male del contrario. »

« Ho visto Gina. » Disse all’improvviso. Quando lui rimase in silenzio, la giovane Griffin si pentì immediatamente di aver sollevato la questione. « Lei è in gamba, divertente, brillante. » Provò a sistemare la situazione.

« Non stiamo più insieme. » Esclamò con impeto Bellamy, che sembrava tanto impacciato quanto lei. Era davvero questo che erano diventati? Due… Estranei imbarazzati l’uno attorno all’altra?

Non sapeva dire se avrebbe preferito la rabbia o il rancore, a questo punto delle cose.

« Ci siamo frequentati per un paio di mesi. All’inizio era semplice, piacevole. Poi sono arrivate le complicazioni, e ci siamo resi conto che eravamo di gran lunga meglio come amici. Siamo molto legati. »

« Mi fa piacere. » Abbozzò un sorriso. « Sono… Sono qui per vendere la casa. » Indicò con il pollice l’abitazione alle sue spalle.

« Oh. »

« Wells è con me. Eravamo pronti, così l’abbiamo messa in vendita. Voleva starmi vicino, siamo venuti insieme. »

« È una buona cosa che siate pronti a liberarvene. »

« Sì. »

« Avete già un acquirente? »

« Già. »

« Ottimo. »

« Domani firmiamo il contratto. Poi… Torniamo a casa. »

« Bene. »

« Bene. »

Silenzio. Lui scalciò contro l’erba sottile del suo giardino, ammirando la punta delle proprie scarpe; lei si strinse le braccia sotto al petto e chinò il capo.

« Bellamy? » Lo chiamò dopo qualche istante, concentrandosi nuovamente sul suo viso. Se questa era la loro ultima notte prima di non rivedersi più, non poteva lasciare che finisse così.

Il maggiore dei Blake scattò con il capo verso la sua direzione, le labbra socchiuse e una strana espressione sul volto.

Fece due passi avanti con esitazione e lentezza, ma non trovò la forza di pentirsene. Non seppe per quale forza della natura o regalo divino fosse possibile, ma lui la imitò, e si trovarono improvvisamente più vicini di quanto entrambi avrebbero sperato anche quella stessa mattina.

« Potrai mai perdonarmi per quello che ho fatto? » Domandò con un filo di voce, come se alzandola avrebbe osato troppo e peccato di altezzosa presunzione, correndo con gli occhi lungo ogni centimetro del suo volto, sforzandosi di memorizzare i dettagli che non poteva permettersi di perdere di nuovo.

« Clarke… » Rispose lui, sollevando con frustrazione le sopracciglia e serrando la mascella. Poi, dopo aver sbuffato dalle narici, si avvicinò con estrema e straordinaria lentezza, senza staccare gli occhi dai suoi, fino a posare la bocca contro i suoi capelli, sopra l’orecchio.

« Ti ho perdonata nell’istante in cui sono uscito da quella stanza d’ospedale », bisbigliò con voce roca, « e ti ho aspettata da quel momento fino ad adesso. Ecco perché non ha funzionato con Gina. Ecco perché non funzionerà con nessun’ altra. »

La giovane Griffin si lasciò andare ad un lamento basso, forse addolorato, forse sollevato, forse entrambi, e oscillò contro il suo petto, abbandonandosi ad esso senza nemmeno alzare le braccia dai fianchi.

« Mi dispiace averci messo così tanto. » Confessò contro il suo collo, e lo baciò lì, nel primo punto in cui riuscì a toccarlo, e sprofondò nella sua pelle, nel suo profumo, in tutto quello di cui per così tanto tempo si era privata.

Ma forse era questo l’insegnamento che i sentimenti che provavano l’uno per l’altra volevano donargli: sapere quando smettere di privarsi di ciò che gli serviva per restare vivi. E forse, questa volta, avrebbero fatto più che solamente sopravvivere.




 

È finita. È finita, non riesco a crederci. Il percorso durato due anni e accidentato da grandi difficoltà si è appena concluso. Un percorso non sempre facile, frutto di ore e ore e ore di lavoro, a cui ho dedicato giorni interi del mio tempo e dei miei pensieri.

Un percorso in cui ho nascosto i miei sentimenti più profondi, le mie segrete insicurezze, i miei sogni più irraggiungibili.
Un percorso a cui sono grata con tutta me stessa, che mi ha dato immense soddisfazioni.

E qui entrate in gioco voi.

Che abbiate iniziato a leggere dall'inizio, che abbiate iniziato a metà, o addirittura da questo capitolo, e anche voi che avete interrotto, perché so che due anni sono lunghi e non tutti hanno la mia stessa pazienza.

Grazie lo stesso a ogni singola persona che abbia letto, che mi abbia scritto una o moltissime recensioni, che abbia, anche solo per un attimo, trovato conforto o compagnia nelle mie parole. Grazie anche a chi non sono piaciute, perché vuol dire che è stato reale.

Sì, questo percorso è stato più reale di molte altre esperienze, e per questo gli sarò grata per tutta la vita.


La finisco qui e smetto di fare la melodrammatica. Voglio solo comunicarvi che non ho per niente finito, ma che anzi ho già iniziato a scrivere una nuova Long che pubblicherò molto, molto a breve. Se volete, potrete trovarla sul mio profilo.

Ancora grazie.


Edit: Ve lo avevo detto che sarei tornata a breve. Walking With Spiders è la mia nuova follia. Sapete dove trovarmi!


 


 
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The 100 / Vai alla pagina dell'autore: Fannie Fiffi