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Autore: Niglia    09/08/2016    2 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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11
An Unfortunate and Deserted Creature
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Ero buono: la miseria ha fatto di me un demone.
Rendimi felice, ed io sarò di nuovo virtuoso.
[Mary Shelley, Frankenstein]


Il suono sordo dello sparo rimbombò nella radura come un tuono, provocando l’abbaiare bramoso e furioso dei cani. Ad esso seguì il rapido e brusco clangore metallico del fucile che veniva svuotato dalla cartuccia ormai inutile e ricaricato con una nuova, dopodiché l’arma venne sollevata fino a riposare morbidamente contro la spalla del suo proprietario.
«Ottima mira, milord», complimentò una voce dal ruvido accento scozzese.
Caledon si limitò ad annuire, lo sguardo perso verso un punto indefinito del paesaggio laddove gli animali erano accorsi per recuperare le prede colpite. Con un lieve aggrottare della fronte, l’uomo realizzò che la caccia non aveva più su di lui l’effetto liberatorio e rilassante che aveva un tempo: non riusciva ad avvertire quel piacevole spossamento dovuto a una lunga giornata trascorsa in campagna tra amici, cani e cavalli, ma solo il fastidio derivante da un’apatica indolenza che non gli apparteneva.
Solo l’anno prima la stagione di caccia aveva occupato interamente la sua mente e le sue forze, i pensieri completamente rivolti all’eccitazione e alla sensazione di potere che procurava il possedere e utilizzare un’arma così elegante e letale davanti alla quale nessuna preda era al sicuro; adesso, invece, tutto sembrava avvolto da un velo cupo di ansia e preoccupazione che non lo lasciava riposare in pace.
Principale colpevole del suo attuale stato d’animo era l’incomprensibile silenzio da parte di Emma. Le aveva già inviato tre lettere, nessuna delle quali aveva ricevuto risposta – cosa che trovava oltremodo curiosa, considerando il caloroso benvenuto che aveva ricevuto da parte sua quando era andato a trovarla a Pemberley. Era forse rimasta offesa in qualche modo? Si era comportato male, magari, aveva oltrepassato i limiti quando era stato costretto a rimanere a dormire al castello?
Forse il servizio di posta del villaggio era semplicemente poco affidabile, ma qualcosa gli diceva che l’assenza di notizie da parte della sua fidanzata aveva ben altre radici. Dopotutto, malgrado fossero trascorsi già dieci giorni, non era la prima volta che Emma faceva passare tutto quel tempo da una missiva all’altra; per quanto amasse leggere, infatti, non si poteva dire che nutrisse altrettanta passione per la scrittura. Certo però, che non le sarebbe costato nulla rispondere almeno a una di esse; a questo punto si sarebbe accontentato persino di poche righe, in cui lo assicurava che tutto andava bene…
«Milord? Stanno per liberare il secondo stormo di fagiani», lo avvisò la medesima voce di prima, interrompendo i suoi sciocchi sogni ad occhi aperti.
Caledon si riscosse, voltandosi verso il cacciatore scozzese che gli faceva da accompagnatore nei terreni sconosciuti delle Highlands.
«Credo che tornerò in paese, signor Fraser. Oggi la mia mente non è abbastanza concentrata sulla caccia», ammise con un tono di scusa, levandosi il fucile dalla spalla e porgendolo al cacciatore dopo averlo scaricato. «Potete avvisare voi gli altri, quando raggiungete il luogo d’incontro?»
L’uomo annuì, grattandosi pensieroso un lato della barba. «Aye, milord. Ricordate la strada per tornare a Inverness? O preferite che vi accompagni uno dei ragazzi?» Aggiunse, indicando i due adolescenti del villaggio incaricati di portare scorte e provviste.
«Grazie, ma non sarà necessario», rifiutò Caledon raggiungendo la propria cavalcatura. «Potrei voler fare qualche piccola deviazione. In bocca al lupo per il resto della caccia, signor Fraser», lo salutò, salendo in sella e lanciando l’animale al galoppo. Forse una lunga cavalcata in solitaria era ciò di cui aveva bisogno per schiarirsi la mente.

Quella sera, una volta che gli ospiti londinesi della locanda si furono ritirati nel salotto dopo cena, tutti ancora piuttosto euforici per la giornata di caccia, Caledon venne avvicinato dal figlio cadetto del defunto conte di Granville, Bradley Levenson-Gower, uno dei suoi più cari amici dai tempi di Cambridge, rientrato in patria da pochi mesi a seguito della conclusione del suo soggiorno su una fregata in mezzo all’Oceano.
«Sei tremendamente poetico seduto da solo accanto al camino, Caledon, amico mio», esordì con un mezzo sorriso il giovane tenente della Marina Britannica, prendendo posto sulla poltrona al lato opposto del focolare. Qualcuno iniziò a suonare una ballata locale al pianoforte lì accanto, e Bradley approfittò del sottofondo per intavolare una conversazione più o meno seria con il suo vecchio amico. «Potrei capire se ci fossero delle fanciulle da conquistare, ma tra uomini… Via, qual è il tuo problema?»
Caledon sospirò, strofinandosi le tempie con due dita. «Non c’è nessun problema, Bradley, ti assicuro.»
L’amico aggrottò la fronte, per nulla convinto. «Stai girando e rigirando quel brandy da dieci minuti e non hai ancora bevuto un sorso, e sei rientrato alla locanda a metà caccia senza aspettare che finissimo tutti. E hai quest’aria irritata da quando siamo arrivati…»
«L’aria di mare deve averti dato alla testa, marinaio», lo interruppe l’altro con uno sbuffo, mandando giù un sorso del liquore quasi per dispetto. «E un inglese che si rispetti non parla dei propri problemi dopo cena. Mi hai preso per un francese?»
La risata brusca e ruvida di Bradley rasserenò appena l’atmosfera. «Dio ci salvi dai francesi», replicò con prontezza, lieto in cuor suo di notare finalmente una certa leggerezza nell’atteggiamento dell’amico. In silenzio, infilò una mano dentro la propria giacca e ne tirò fuori una scatolina con fregi preziosi, aprendola con uno schiocco e mostrandogliene generosamente il contenuto. «Sigaretta? No?» Bradley scrollò le spalle al cenno negativo di Caledon, limitandosi a sfilarne solo una dall’elegante contenitore argentato e facendolo sparire nuovamente all’interno di una tasca. «Avanti, confidati pure. Ti puoi fidare della discrezione di un uomo di mare.»
Caledon sbuffò, la fronte ancor più aggrottata. «Non c’è nulla da confidare», mentì seccamente. Difatti, il tenente sapeva come ogni mattina egli attendesse impaziente l’arrivo della posta, per poi ritirarsi come un cane bastonato nella sua stanza quando il corriere non gli consegnava nulla.
«Certo che c’è», fu la laconica risposta di Bradley. «Ma non voglio farti pressione: inizia pure a parlare quando te la senti.»
Un ceppo si spaccò a metà all’interno del camino, facendo volare scintille rosse e gialle in varie direzioni senza fortunatamente raggiungere il tappeto. Cal seguì con gli occhi il percorso di una di esse, racimolando idee e parole, e solo quando essa cadde a morire sulla pietra grezza del focolare, spegnendosi delicatamente, si decise a degnare l’invito dell’amico di una risposta. Dopotutto, la cavalcata non gli era stata di alcun conforto: forse chiacchierare con un suo pari lo avrebbe aiutato a portare pace e ordine tra i suoi pensieri.
«Sembra di essere di nuovo a Cambridge», mormorò con un mezzo sospiro, facendo scorrere uno sguardo distratto sugli altri compagni che si divertivano in vari punti del salotto, tra giochi di carte e amichevoli scommesse. Bradley si limitò a inspirare una boccata dalla sigaretta, attendendo paziente che il suo amico trovasse la forza di sfogarsi.
«Allora, la nostra unica preoccupazione era sfidare i ragazzi di Oxford e vedere in quanti guai potevamo cacciarci prima che lo venissero a scoprire i nostri genitori e decidessero di prendere provvedimenti. Ricordi quando facemmo circolare quei pamphlet anti-imperialisti? I professori minacciarono l’espulsione… Dio», sospirò serrando gli occhi, e premendosi una mano sulle palpebre doloranti. «Ero così stupido, eppure avevo già seppellito una fidanzata ed ero stato promesso a un’altra.»
Bradley lo osservò attentamente, le orecchie tese al minimo accenno di tremore nella voce altrimenti quieta del suo compagno; l’amicizia che vi era tra loro non si metteva in discussione, la confidenza pure – e ciò nonostante pareva che Cal non si volesse esprimere più di tanto su qualsiasi cosa lo turbasse, come se parlarne avrebbe significato riconoscere che ci fosse effettivamente qualcosa che non andava, e avrebbe così dato forma e peso a un problema che in caso contrario avrebbe potuto nascondere, ignorare, persino fingere che non esistesse.
Tuttavia, non era nell’interesse di nessuno nascondere la testa nella sabbia, e certo non si addiceva a un futuro lord con un nome rispettabile.
«Sai, ricordo un tempo», esordì Bradley con affettata noncuranza, le dita abbronzate che giocherellavano con un accendino. «Un tempo in cui non eri per nulla felice di questo fidanzamento. Ti lamentavi della troppa differenza di età, piangevi la dipartita della tua precedente promessa, rifuggivi ogni tentativo dei tuoi genitori di farti conoscere la giovanissima lady Moore. E ora metti il muso se la povera donna non risponde alle tue lettere? Di cosa ti lamenti, amico mio? Cos’è che le rimproveri di preciso?»
Il futuro lord Suffolk lanciò un’occhiata severa e particolarmente infastidita in direzione dell’amico, ben conscio di quali fossero i propri sentimenti all’epoca del college e per nulla desideroso di rievocarli.
«Non le rimprovero niente», sibilò a denti stretti, afferrando con malcelata rabbia il bracciolo della poltrona e facendosi sbiancare le nocche. «Tu parli delle lamentele di un ragazzino, e quel ragazzino adesso è cresciuto.»
Bradley scrollò scompostamente le spalle, per nulla colpito. «Menti pure a te stesso se la cosa ti aggrada, mio caro Cal, ma abbi la cortesia di darmi più credito. Io ti conoscevo allora e ti conosco adesso, e anche se avremo poche occasioni di frequentarci ti conoscerò ancora fra dieci anni.»
Caledon si arrese a sopportare il tono irrispettoso del suo amico, e si limitò ad assecondarlo con un sospiro mediamente costernato. «E con questo che cosa vorresti dire?»
«Ti vorrei dire di smetterla di struggerti per una donna che apparentemente non ti desidera quanto tu pensi di desiderare lei», ribatté senza remore il giovane, rilasciando un acre filo di fumo dalle narici. «Che senso ha? Non siamo in uno di quei romanzetti d’appendice di miss Austen, amico mio: non conquisterai la ragazza con danze e passeggiate nel parco. Non ne hai bisogno! È praticamente già tua, che differenza vuoi che faccia se lei arde d’amore per te o no?»
Uno scocciato rotear d’occhi espresse ciò che l’uomo pensava davvero del parere dell’amico. «Adesso parli come mio padre», l’ammonì a mezza voce, non gradendo particolarmente la piega presa dal discorso.
L’altro lo fissò di sbieco. «Mi chiedo perché non l’abbia ereditata tu quella parte del suo carattere, in effetti. Di sicuro ti avrebbe reso la vita più facile.»
«Dici così perché non la conosci, probabilmente neanche l’hai mai vista», fu la secca risposta di Caledon, che si sentiva in dovere di difendere la fidanzata anche quando quest’ultima lo stava facendo dannare.
«Non certo per colpa mia: è mio fratello quello che viene invitato agli eventi pubblici, io sono soltanto lo scomodo secondogenito con la fama di avere un’amante in ogni porto. Ah, se solo fosse vero», sospirò Bradley con l’accenno di un sorriso, per nulla intimidito dal severo cipiglio che continuava a rivolgergli l’amico e, anzi, da esso divertito. «Continua a guardarmi così, Cal, e non riuscirai più a spianare la fronte.»
Finalmente infastidito dall’atteggiamento di Bradley, Caledon si sporse bruscamente verso di lui e gli strappò la sigaretta di bocca, gettandola senza riguardi nel caminetto acceso. «Possiamo evitare di discutere della mia vita privata in pubblico?» Sibilò, prima di tornare alla sua posizione.
Bradley si limitò a scoppiare in una risata onestamente divertita. «In pubblico? Cal, non ti sta ascoltando nessuno. E anche se fosse», continuò con une breve scrollata di spalle. «Nessuno ha una coscienza così pulita e abbastanza irreprensibile da essere nella posizione ottimale per giudicare il prossimo. Neanche gli uomini di chiesa.»
«Non temo certo il giudizio altrui. Non ho fatto niente di cui vergognarmi, dopotutto», ribatté Caledon, volgendo lo sguardo verso le fiamme e fissandole con insistenza. «E se anche tu pensi che sia ridicolo essere irritato nel non ricevere una sola parola dalla propria futura moglie in una decina di giorni, allora questa conversazione è finita, e puoi andare a esaminare la vita di qualcun altro.»
«Dio, questa donna ti sta distruggendo. E non l’hai ancora neppure sposata», mormorò l’amico, incapace di trattenere un sorrisetto. Poi sospirò, scrollando le spalle in un cenno di resa. «Andiamo, non arrabbiarti con me, ti sto solo offrendo l’occasione di sfogarti. Suppongo che il suo comportamento non sia perfettamente ortodosso, ma d’altronde la situazione non è delle migliori. È in lutto, Cal – la madre è morta da neanche due mesi e suo padre l’ha spedita in campagna con la sua istitutrice. Non credo che abbia molta voglia di impiegare tempo in lettere d’amore.»
«Ebbene, è questo il problema, no?» Sibilò, mascherando con rabbia la propria miseria. «Lei non mi ama; dubito persino che mi voglia. E non la biasimo, davvero – voglio dire, neppure io ero molto entusiasta di questa unione all’inizio, ma sono passati anni! E quello che provo per lei non l’ho mai provato neanche per sua sorella. E credevo… credevo che il mio sentimento sarebbe bastato, che mi avrebbe reso amabile ai suoi occhi, ma tutto ciò che ottengo da lei è venir considerato come una transazione d’affari da cui non può scappare.»
Bradley lo osservò attentamente, gli occhi stretti, senza più tanta voglia di scherzare. «Allora perché non sciogli il fidanzamento? Sei ancora in tempo. E ti risparmieresti una vita infelice.»
«No», fece subito Caledon, scuotendo il capo. «No. Mio padre non me lo permetterebbe, e sarei infelice in ogni caso… Sposandola, almeno, l’avrei al mio fianco; e sono certo che prima o poi arriverà a tenere a me. Se così non fosse, saremo infelici entrambi, ma lo saremmo insieme.»
«Una ben triste prospettiva, se vuoi il mio parere», mormorò pacato Bradley, i cui occhi non mancavano di scrutare attentamente l’amico. «Non ti facevo così egoista, amico mio.»
«Neanche io credevo di esserlo», ribatté l’altro, distogliendo lo sguardo. «Ma Emma… Dio, è come se mi avesse trasformato in un uomo che stento a riconoscere io stesso. Sono pazzo a desiderarla così tanto?»
«Forse», ammise Bradley senza mezzi termini. «È solo una donna, Cal», aggiunse poi, con un tono appena più conciliatorio.
Eppure Caledon non poteva trovarsi d’accordo. Definire Emma ‘solo una donna’ sarebbe stato come dire che l’oceano non è che una pozzanghera d’acqua più profonda; ma spiegare una cosa del genere a qualcuno che non la conosceva – che non aveva mai desiderato possederla in ogni singolo modo in cui è possibile possedere una donna, che non aveva provato la sua passione, la sua brama, la sua disperazione – era, in ogni caso, impossibile. Bradley avrebbe potuto comprendere parte della sua ossessione solo se l’avesse provata lui stesso, sulla sua pelle; e, conoscendo il suo amico, ciò non era mai accaduto.
Per cui decise di lasciar cadere l’argomento, e con un lieve scrollare delle spalle e un sorriso di interna autocommiserazione, Caledon sollevò in brindisi il bicchiere di brandy e lo trangugiò tutto d’un sorso. Avrebbe pensato a Emma in un altro momento, decise.

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Negli ultimi giorni le stava capitando spesso di sognare a occhi aperti.
A volte, quando Adam era impegnato a suonare o giocherellare con Aramis – che, curiosamente, pareva essersi affezionato al padrone di Pemberley più di quanto le circostanze non avessero lasciato presagire – e lei sedeva con un qualche libro in grembo, le dita tra le pagine a tenere il segno, Emma si ritrovava a seguire treni di pensieri con la medesima assorta attenzione di una bambina intenta a immaginare il suo primo ballo.
Pensava soprattutto a suo padre, solo ad Hambleton Abbey o nella loro vuota casa di Londra, che forse dopo settimane di silenzio da parte sua iniziava a realizzare l’incoscienza dell’aver spedito la sua unica figlia a vivere in una lontana tenuta in mezzo al nulla; pensava, con la gola chiusa dal dolore e dalla nostalgia, agli ultimi mesi di sofferenza che era stata la vita di sua madre; pensava a Caledon, a seconda di dove vergevano i suoi pensieri, e pensava soprattutto ad Adam – a quell’uomo che parlava e si comportava in maniera distinta e che malgrado tutto la teneva rinchiusa, che discuteva con lei di libri e filosofi benché avesse l’aria di non essersi mai allontanato dal castello, che la intratteneva con il pianoforte e facendole visitare Pemberley, ma che raramente rispondeva alle sue domande se vertevano su se’ stesso.
Ma, principalmente, lady Moore pensava alla sua povera sorella maggiore, ed esaminava come sarebbe stata la sua – la loro – vita se quell’incidente non ci fosse mai stato, e se invece di morire per quella caduta la sua infanzia e la sua adolescenza non avessero proseguito come sarebbe stato giusto che facessero. Tanto per cominciare, Lizzie sarebbe stata ancora fidanzata – se non forse persino già sposa – di Caledon; sarebbe stata sua la spalla su cui Emma avrebbe pianto al funerale della loro madre, e probabilmente la sorella l’avrebbe accolta in casa sua – sua e di Caledon – durante il periodo di lutto. Non ci sarebbe stato nessun maniero nel cuore della brughiera, nessuno l’avrebbe costretta ad andarci a vivere da sola, e soprattutto non vi sarebbe stata tenuta prigioniera da un uomo dalle dubbie origini, che ancora non le aveva detto con sincerità che cosa desiderasse da lei. Aveva un modo di guardarla che la faceva rabbrividire – i suoi occhi la seguivano ovunque, famelici, se ne rendeva conto malgrado la maschera…
Anche se faceva di tutto per nasconderglielo, comportandosi come se si fosse trovata tra persone del tutto comuni e civili, egli la terrorizzava; e questo terrore che non poteva fare a meno di provare la faceva sentire in colpa, perché l’uomo le aveva salvato la vita, e tutto sommato la trattava con un riguardo in cui Emma non trovava difetti.
Emma aveva inoltre ripreso a dormire nella sua vecchia camera da letto, nell’ala Est del maniero. Con il passare dei giorni Adam sembrava iniziare a fidarsi sempre di più di lei e del fatto che non avrebbe più tentato di fare una cosa tanto sconsiderata come scappare nel cuore della notte, e dopo parecchie raccomandazioni da parte sua che le avevano rammentato quelle di Mrs. Duncan – non uscire dalla stanza dopo mezzanotte ed evitare di gironzolare per i corridoi nelle scure ore del primo mattino – Emma si era finalmente riappropriata dei suoi oggetti personali e del letto che aveva ormai preso a definire suo.
La biblioteca era, inoltre, diventata il suo unico santuario nell’intero castello. Per qualche motivo a lei sconosciuto, Adam si rifiutava di entrarvi senza esservi invitato da lei, ed Emma, dal canto suo, gli faceva la cortesia di non trascorrervi le intere giornate privandolo di quella compagnia ch’egli le aveva tanto supplicato. Quando non era con lei, il padrone si teneva impegnato nell’ala Ovest – facendo Dio solo sapeva cosa – zona in cui la giovane aveva deciso e infine promesso di non mettere più piede da quando aveva ripreso possesso della propria camera da letto. Salvo i pranzi e le colazioni, che consistevano in occasioni brevi e sobrie che non richiedevano neppure l’allestimento trionfale della sala da pranzo, Emma e Adam mangiavano insieme – o era forse meglio dire che lui le faceva compagnia durante la cena, poiché per via della sua maschera egli si rifiutava tuttora di mangiare di fronte a lei.
Malgrado ciò che il suo carceriere poteva pensare, e nonostante la strana aria di pacata tolleranza che si era creata tra loro, Emma non era del tutto certa di potersi fidare come egli avrebbe desiderato.
Certi atteggiamenti e modi di fare la lasciavano perplessa, e la costringevano a rimanere all’erta – piccoli scatti delle mani, come se di punto in bianco volesse allungarle verso di lei e ghermirla, e che venivano immediatamente celati e repressi nel vano tentativo di nasconderglieli; i suoi occhi chiari che ogni tanto, quando parlava con lei o semplicemente le sedeva accanto, in amichevole silenzio, parevano diventare neri per pochi secondi, come se un’ombra temibile si posasse su di essi, e che parevano trasformarlo in una persona del tutto differente; e quella maschera, buon Dio, quella maledetta maschera che era a suo avviso il più palese indizio della malafede dell’uomo, perché che senso aveva insistere nell’indossarla anche dopo i giorni che avevano trascorso civilmente, le promesse fatte, la fiducia offerta?
Non poteva fidarsi di lui fintantoché Adam continuava a nascondere le sue fattezze e la sua identità: Emma avrebbe supposto il peggio da parte sua fino a quando egli non avesse avuto il coraggio e la delicatezza di toglierla e farsi vedere, poiché lei non osava allungare la mano e strappargliela – ancora rabbrividiva quando rammentava qual era stata la sua reazione la prima volta che aveva tentato.
Inoltre, il mistero che lo avvolgeva – tutto quel non sapere – non faceva che incrementare la sua paura; Emma era infine giunta alla conclusione che qualsiasi cosa egli si stesse ostinando a celare non poteva essere di certo peggiore di tutto quello che lei era arrivata a immaginarsi pur di sopperire alla mancanza. Ormai non escludeva neppure l’ipotesi di un orrendo incidente – qualcosa che lo aveva, forse, lasciato sfigurato, costringendolo a rifuggire il resto del mondo e trovare rifugio in un luogo desolato come Pemberley. E pur tuttavia ciò non spiegava perché i domestici gli fossero così fedeli – al punto da tradire lei stessa, che era sulla carta la legittima proprietaria della magione – e c’era sempre la faccenda di quella lapide, nel vecchio cimitero abbandonato, con il suo nome inciso e delle date che, ad ogni modo, non corrispondevano.
Con l’occhio arguto ed esercitato dell’aristocratica, Emma non aveva mancato di notare alcuni piccoli dettagli riguardo la sua persona che le avevano rivelato molto più di quanto non avesse fatto lui stesso. Per esempio, non poteva che ammirare la foggia precisa ed elegante degli abiti che indossava, curati al dettaglio con una cura quasi maniacale – ma non sfuggì alla sua attenzione che lo stile di questi ultimi era sorpassato, fuori moda, e che gli orli e le cuciture erano consumate, appena lise; le sue scarpe, benché di foggia artigianale, erano logore. Ovviamente, il tutto era pulito e rammendato alla perfezione – lady Moore suppose si trattasse del lavoro instancabile della signora Duncan – ma nell’insieme dava l’apparenza di qualcuno che doveva aver trascorso gran parte, per non dire l’interezza, della sua vita rinchiuso tra le mura di Pemberley Manor.
Il pensiero non poté che provocarle un’enorme pena per quell’esistenza terribilmente solitaria.
Non aveva neanche più il conforto di parlare con Mrs. Duncan, o persino Noah – era evidente che i domestici obbedivano alle leggi di Adam, e lui doveva aver ordinato che nessuno le rivolgesse la parola, forse nel timore che qualche oscuro segreto venisse rivelato? Solamente a Lydia era permesso avvicinarla, poiché Emma aveva bisogno dell’aiuto di una cameriera per vestirsi e pettinarsi, ma la povera ragazza era muta e non si sforzava neppure di fingere di ascoltarla, limitandosi a fare il suo lavoro e scappare poi via, tremante, come un topolino spaurito.
Seduta su una poltrona di fianco al letto della sua istitutrice, Emma tirò discretamente su con il naso e si asciugò le lacrime con un lembo del vestito, abbassando poi gli occhi sulla donna per vedere se qualcosa fosse cambiato nella sua condizione. Aveva letto per lei per quasi tutta la mattina, alternando capitoli su capitoli a momenti di pianto silenzioso, e fino a quel momento la sua voce non aveva ottenuto nessuna reazione sulla malata; ma Emma era intenzionata a non arrendersi: miss Radcliffe l’aveva praticamente cresciuta, e lei l’aveva già trascurata troppo.
Con un sospiro rassegnato voltò pagina e riabbassò lo sguardo sul libro, riprendendo la lettura di uno dei romanzi favoriti della donna. «Che cosa strana sono mai i presentimenti, le simpatie e anche i presagi! Tutti insieme formano un mistero di cui l'uomo non ha peranco trovata la chiave. Non ho mai riso dei presentimenti in vita mia, perché ne ho avuto certuni stranissimi...[1]»
Nel corridoio, nascosto appena dietro lo stipite della porta, Adam la ascoltava in religioso silenzio. Non aveva più osato chiederle di leggere per lui da quella prima sera, così adesso approfittava delle volte in cui la ragazza lo faceva per la sua istitutrice; si domandò che cosa avrebbe pensato di lui se avesse scoperto che la spiava dalle ombre come un cucciolo bisognoso di attenzioni – forse l’avrebbe disgustata, o magari avrebbe avuto compassione di lui e gli avrebbe chiesto di avvicinarlesi senza timore?
Udì dei passi avvicinarsi alla camera e sollevò lo sguardo sull’intruso, aggrottando la fronte nel vedere la sguattera, Lydia, giungere tremante come un topolino con un vassoio tra le mani. Gli occhi della ragazza si posarono su di lui, sgranati, e la poveretta si affrettò ad accennare un inchino senza rovesciare il portavivande. Fece scorrere lo sguardo da lui alla porta della stanza, cercando probabilmente di trovare un modo di entrare senza passargli troppo vicino, ma fu Adam infine a toglierla da quell’impiccio. Posò il dito indice sulla propria maschera in direzione della bocca, invitandola al silenzio, e poi più rapido e silenzioso di un’ombra le diede le spalle e sparì dietro qualche passaggio nascosto nella parete.
Lydia deglutì, atterrita – il padrone le faceva sempre quell’effetto – e dopo aver preso un profondo respiro si decise a raggiungere milady. Davvero non invidiava la povera donna.

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I domestici di Pemberley Manor sembravano essersi abituati senza troppa fanfara alla nuova routine che riguardava il padrone e la sua ospite, benché né Mrs. Duncan né suo marito comprendessero ancora che cosa Adam sperava di ottenere nell’ostinarsi al voler approfondire la conoscenza di lady Moore. Non sarebbe stato più cauto continuare a celare la propria presenza, finché la ragazza e la sua istitutrice non si fossero stancate della solitaria vita di campagna e fossero tornate a Londra? Malgrado tutto, la signora Duncan era preoccupata per il suo padrone – lo aveva protetto da che era fanciullo, eternamente leale, con tutto ciò che ne era derivato.
E adesso, egli rischiava la propria incolumità per cosa – un’infatuazione?
Il terrore che avevano provato quando avevano avvertito Adam che la giovane viscontessa non si trovava nella sua stanza, che era scappata, poi, era stato indescrivibile. Il padrone aveva capovolto sedie, fracassato suppellettili, soffiato e ringhiato come una bestia feroce contro di loro e contro la ragazza, fino a quando non erano riusciti a placarlo il tanto sufficiente per spiegarsi. Avevano cercato di convincerlo un po’ con le buone e un po’ con le cattive di non essere per nulla responsabili di quella fuga, di non avere idea di dove lady Moore potesse essere né di come avesse fatto a fuggire da sola, e alla fine solo le lacrime e le suppliche della signora Duncan avevano sortito l’effetto sperato – placare il padrone.
Egli aveva lasciato la loro stanza con minacce e imprecazioni, e i poveri Duncan avevano trascorso le ore successive a pregare che nulla fosse accaduto alla ragazza e che Adam riuscisse a trovarla prima che ella fosse troppo lontana, o peggio.
Il padrone era infine tornato al castello poche ore prima dell’alba, completamente infangato e fradicio, incurante dell’acqua sporca che grondava su tappeti e pavimento, e per grazia divina tra le braccia reggeva l’esanime fanciulla.
Margareth Duncan lo comprese non appena ebbe posato gli occhi su di lui – Adam era livido. La rabbia che emanava pareva quasi tangibile e lo avvolgeva a mo’ di mantello, rendendolo ancora più minaccioso e inavvicinabile di quanto già non fosse normalmente. Non aveva parlato, se non per ordinare con fare secco e brusco al signor Duncan di accendere il camino nel suo salotto privato e a lei di preparare un bagno caldo per la ragazza. Quei momenti erano passati in un lampo, confusi e burrascosi come un incubo, e solo alla fine, quando lady Moore riposava al caldo nel suo letto e Adam si fu rinchiuso nel suo studio a placarsi, i poveri domestici poterono tirare un sospiro di sollievo.
Per quanto potessero compatire la giovane e inconsapevole ragazza, non era nulla davanti al timore che provavano nei confronti del padrone: avevano convissuto con i suoi attacchi d’ira, gli scatti violenti, i bruschi balzi d’umore per troppi anni per riuscire a mettere da parte le loro paure e aiutare lady Emma.

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Quando scese a colazione accompagnata da uno scodinzolante Aramis, Emma trovò Adam ad attenderla nella sala da pranzo. Per un attimo rimase interdetta, ferma immobile sulla porta, lo sguardo che saettava da una parte all’altra della stanza come se si aspettasse – come se sperasse – che Mrs. Duncan sbucasse fuori da qualche angolo e la rassicurasse con la sua presenza. Tuttavia ciò non accadde, e ospite e padrone si trovavano soli; egli si alzò non appena la giovane ebbe varcato la soglia, avvicinandosi a scostarle la sedia dal tavolo alla destra rispetto a dov’era seduto lui, e cercò poi di passare inosservato mentre offriva della pancetta al cucciolo che pareva ormai averlo preso in simpatia.
«Avete dormito bene nella vostra stanza?» Le chiese quando si fu riaccomodato, offrendosi di versarle una tazza di tè.
Emma gli rivolse una breve occhiata perplessa e suo malgrado incuriosita – per quale motivo si ostinava a farle compagnia durante i pasti se quella maschera gli impediva di mangiare come un normale cristiano? – e poi scrollò il pensiero con un lieve cenno affermativo del capo. «Sì, grazie. Ho dormito meglio sapendo di avervi restituito il vostro letto», rispose gentilmente dopo una breve esitazione, iniziando a piluccare dei toast con burro e marmellata e fingendo come al solito che l’essere osservata mentre mangiava non le desse fastidio.
Adam parve imbarazzato a quell’accenno – come se preferisse non indugiare sul fatto che Emma avesse dormito per diverse notti nella sua stanza e tra le sue coperte – e borbottò qualcosa che suonava come una rassicurazione e una richiesta di non preoccuparsi inutilmente per lui.
«Vi siete affacciata alla finestra? Ha nevicato, la notte scorsa», la informò quietamente, passando ad Aramis un’altra fettina di pancetta. «Se l’idea vi ispira, potrei accompagnarvi per una passeggiata nel parco. Mostrarvi i terreni della tenuta.»
La giovane sollevò subito lo sguardo su di lui, sorprendendolo con il luccichio chiaramente eccitato che danzava nei suoi occhi. «Dite davvero? Sì, se non vi è di alcun disturbo mi piacerebbe molto», lo rassicurò in fretta, quasi temendo che la proposta potesse venire ritirata. Onestamente, l’idea di mettere finalmente il naso fuori dopo lunghi giorni passati segregata dentro il maniero le aveva portato una piacevole ondata di sollievo.
«Perfetto, andremo subito dopo colazione», annuì Adam, posando le mani intrecciate sul tavolo. «Vi consiglio di indossare abiti pesanti, perché fuori fa freddo e voi siete appena guarita.»
«Posso portare anche Aramis?» Domandò; il cucciolo, sentendo pronunciare il proprio nome, si voltò verso di lei con le orecchie tese e la coda che ondeggiava rapida sul marmo del pavimento, le fauci spalancate in una sorta di strano sorriso.
Adam piegò il capo di lato in un gesto stranamente canino. «Se siete sicura che non scapperà via…»
«Oh, no», si affrettò ad assicurare lei. «Aramis è addestrato.»
«Allora suppongo non ci sia nulla di male», acconsentì il padrone.
Emma annuì, riabbassando gli occhi sulla propria colazione con una piccola ruga tra le sopracciglia. Per quale motivo gli stava offrendo tutta quella confidenza? Perché accettava la sua presenza con tanta serenità? Non poteva dimenticare che l’uomo era ancora un estraneo, uno sconosciuto che le celava la propria identità e che, malgrado l’apparenza da gentiluomo e i modi men che affabili, la teneva comunque prigioniera.
Si domandò fino a quando sarebbe riuscita ad assecondarlo – e, insieme a quella riflessione, ne giunse subito un’altra: chissà se sarebbe riuscita a far arrivare a suo padre la notizia di ciò che le era successo? Non aveva più scritto una lettera dalla visita di Caledon, né a lui né a lord Graham, ma d’altronde non ne aveva neppure ricevuto da parte loro. Dunque, poiché dubitava che i due uomini si fossero dimenticati di lei, Emma poteva solo pensare che le loro lettere fossero state intercettate da Adam o dai domestici, e per qualche ragione le fosse stato impedito di entrarne in possesso.
Se la sua relazione con il padrone, sempre se di tale si potesse parlare, si fosse mantenuta su dei toni civili e cordiali, Emma suppose che avrebbe potuto domandare spiegazioni. Alzandosi dal tavolo e scusandosi per andare a cambiarsi, la giovane decise che avrebbe sollevato l’argomento più tardi, durante la passeggiata.

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Le suole dei loro stivali scricchiolavano sulla neve fresca, lasciando lievi impronte lungo il sentiero. Mentre Aramis li precedeva, annusando e marcando con invidiabile entusiasmo ogni albero e cespuglio e chiazza di terreno priva di neve, Emma aveva dovuto accettare il braccio di Adam per evitare di scivolare sul terreno ghiacciato, ma stranamente quel tocco non le dispiaceva più di tanto; il suo anfitrione era solido sotto la sua mano, ed emanava un piacevole calore che rendeva meno sgradita l’aria fredda del mattino che li circondava.
Ascoltava con attenzione ciò che lui le raccontava – in quell’angolo vi era l’accesso a una sorta di labirinto che era stato costruito con pietre e siepi più di un secolo prima dagli allora conti di Rochester, e che sarebbe stato meglio accessibile con il sopraggiungere della primavera; dall’altra parte, malgrado la vegetazione selvaggia e incolta le nascondesse alla vista, c’erano le fontane; più giù, nella piccola vallata oltre quel pendio, c’era un piccolo fiume artificiale che andava poi a tuffarsi tramite delle gallerie sotterranee al lago che lei stessa aveva già avuto modo di vedere; e, seguendo la stradina che si diramava dai giardini intorno al castello fino a quel fiume, si poteva godere di una visione pressoché completa della tenuta, con i suoi boschetti, le pagode, i piccoli tempietti in marmo e pietra che dovevano un tempo essere stati protagonisti di splendide giornate estive di caccia o che magari avevano ospitato i picnic della contessa e le sue ospiti, circondate da fiori e musiche e risate.
Tutto ciò che Emma vedeva adesso era una distesa infinita e desolata di neve, alberi con rami nudi e nodosi, erba incolta che spuntava saltuariamente dal sottile manto bianco che ricopriva la terra, e ovunque il segno inconfondibile dell’abbandono che aveva inselvatichito ogni cosa; eppure, se si lasciava incantare dai racconti di Adam – come faceva a sapere tutte quelle cose, ad ogni modo? Le aveva forse vissute? Quanti anni aveva, e chi era, per essere così informato? – se stringeva gli occhi e lasciava che la fantasia e l’immaginazione prendessero il sopravvento, non le veniva difficile figurarsi come doveva essere stata, in un tempo distante e più sereno, la vita a Pemberley.
L’intera proprietà era così grande, aveva poi continuato a spiegarle Adam, che conteneva persino tre piccoli palazzi, la cui funzione era stata quella di ospitare i visitatori più illustri che gradivano giungere con il proprio seguito di domestici; ciò accadeva tuttavia di rado, così essi venivano utilizzati come punti di ristoro durante le battute di caccia, giacché il castello risultava troppo distante e per rientrarvi occorreva del tempo.
«Mi piacerebbe visitarli», ammise Emma sinceramente, mentre attraversavano uno dei ponticelli in pietra del fiume. «Ad Hambleton non ne abbiamo, suppongo che il motivo risieda nell’epoca di costruzione della tenuta.»
«È probabile», convenne Adam, dirigendo la passeggiata lungo la riva del fiume. «Credo che i palazzi risalgano alla metà del diciassettesimo secolo, ma potrei sbagliarmi: in biblioteca devono esserci di sicuro i registri con le date. Quanto al visitarli, forse prima è meglio mandare i domestici a sistemarli; dubito che siano in condizioni ottimali per essere esaminati.»
Egli non lo diceva tanto per dire: conosceva perfettamente le condizioni in cui versavano i vari padiglioni. Talvolta, quando Faust era in pieno controllo e lasciava il castello, vagava per giorni a piedi nella tenuta o a cavallo nella brughiera, sfogando le sue frustrazioni uccidendo armato o a mani nude la selvaggina che ancora si trovava nei dintorni. E in quelle occasioni prendeva a rifugiarsi in uno dei palazzi – grandi all’incirca quanto un dignitoso appartamento londinese, con due piani e ogni confort che si poteva desiderare malgrado lo stato di abbandono in cui versavano; ma stare fermo non gli si addiceva, lo faceva impazzire, così capitava che vi portasse qualcuna delle ragazze che vendevano sé stesse giù a Heatherfield – bendate, affinché non comprendessero dove si trovavano e fosse per loro impossibile ritrovare la strada – e vi trascorreva una o più notti. Poi, quando si stancava anche di loro, le riportava al villaggio senza che esse avessero mai conosciuto il suo aspetto, e si apprestava a distruggere tutto ciò che gli capitava tra le mani; ormai quegli edifici avevano una notevole carenza di suppellettili integre, e Adam non desiderava particolarmente mostrarli a Emma.
Avrebbe soltanto innescato una serie di domande scomode a cui non avrebbe saputo cosa rispondere.
«Laggiù», proseguì quindi il padrone, prendendo particolarmente sul serio il suo ruolo di anfitrione, «c’è un roseto. Ora è secco, ma in primavera sboccia meravigliosamente; apparteneva alla figlia dei conti, lady Eleanore, e la signora Duncan se ne occupa in sua memoria…»
«Siete molto ben informato sulla famiglia che possedeva il castello», lo interruppe Emma senza pensare, lasciando scorrere lo sguardo sul parco deserto.
Adam esitò un momento, l’incertezza pungente quanto il gelo della brezza. «Ho vissuto a lungo a Pemberley, milady», fu la sua esitante risposta, mormorata senza che i loro occhi si incrociassero. «E i Rochester erano una famiglia molto conosciuta. Credo di conoscere ogni loro segreto, oramai.»
Lady Moore aggrottò le sopracciglia, desiderosa di saperne di più – sembrava che ogni parola fuggita dalla bocca di Adam non facesse che scatenare la fantasia della ragazza e provocare la sua sete insaziabile di conoscenza. Ciò a cui i libri della biblioteca non erano riusciti a sopperire, ella sperava lo avrebbe fatto lui; una vana illusione, a quanto pareva, giacché Adam sembrava conservare i propri segreti con la stessa cura e gelosa attenzione con cui si preservano fiori delicati tra le pagine di un libro. E, anche se di tanto in tanto egli si lasciava scappare qualche dettaglio – minuscole briciole di pane su un sentiero che non portava da nessuna parte, visto che sparivano ancor prima di toccare il suolo – poi immediatamente tornava sui suoi passi, pentito del lapsus involontario, e riportava il discorso su terreni meno scabrosi.
Anche adesso, Emma avrebbe voluto approfondire quell’argomento – che cosa voleva dire con la sua ammissione di conoscere i vecchi padroni del castello, e cosa intendeva con il fatto di averci vissuto a lungo? Era, forse, qualche figlio bastardo del conte, tenuto a Pemberley per celare la sua esistenza ed evitare che si venisse a sapere delle scappatelle di Lord Rochester? – ma stavolta non fu Adam a distogliere la sua attenzione dalle numerose domande che giacevano in bilico sulla punta della sua lingua.
Fu qualcos’altro – una strana sensazione, un impercettibile cambio del vento, un vago senso di vertigine come se la terra stessa si fosse improvvisamente spostata dal suo asse; e così si arrestò quasi bruscamente in mezzo al sentiero, lo sguardo rivolto verso la sommità della collina. Dovette aggrottare la fronte e stringere gli occhi per mettere a fuoco la figura: era scura, e pareva femminile – non poteva dirlo con certezza, ma il vento stava facendo svolazzare quello che sembrava un lungo abito, e nell’insieme la figura era troppo minuta e delicata per poter essere maschile – e, anche se da quella lontananza era impossibile decretarlo con precisione, avrebbe giurato che la stesse fissando. Rabbrividì sotto quello sguardo, e non fu per il freddo.
La figura sollevò poi un braccio, lentamente, come se il peso delle proprie membra fosse troppo da sopportare – se in un gesto di saluto o invito a raggiungerla Emma non avrebbe saputo dirlo – dopodiché in un turbinio di gonne e mantello parve ruotare su se’ stessa per poi scomparire come se la neve l’avesse inghiottita, oltre il declivio celato alla sua vista.
Si riscosse dalla visione solo quando sentì una mano prenderle gentilmente il gomito, e si voltò appena il tanto sufficiente da vedere il luccichio della maschera bianca di Adam nella grigia luce del mattino.
«Lady Emma?» La chiamò lui, con quella voce bassa e pacata che di tanto in tanto mancava di terrorizzarla come avrebbe invece fatto giorni prima. Quel fatto in realtà la inquietava non poco – non voleva abituarsi così tanto a lui da fare la sciocchezza di non temerlo – ma per il momento decise di non farci caso.
Sbatté le palpebre e aggrottò le sopracciglia, tornando a fissare il punto ove la figura era sparita. «Mmh?»
L’uomo riprese a parlare, il tono ammantato di preoccupazione. «Tutto bene?»
«Sì, solo… Mi è sembrato di vedere qualcuno», rispose lei, sforzandosi inutilmente di aguzzare la vista e sentendosi incredibilmente sciocca subito dopo. «Lassù, vedete? Sulla collina.»
Adam non si curò di volgere lo sguardo verso il punto che lei aveva indicato, limitandosi a scrollare le spalle. «Forse un animale», offrì brevemente. «Vogliamo proseguire?»
Numerose proteste erano già pronte a prendere fiato sulla punta della sua lingua, ma Emma si sforzò di metterle a tacere quando notò l’irrigidirsi del suo compagno e l’inquietante ombra cupa che per un istante parve tramutare i suoi occhi da azzurro a pece.
«Sì», mormorò, d’un tratto più circospetta. «Fate strada.»
Stavolta gli camminò accanto senza accettare l’offerta del suo braccio, e se anche egli ne rimase offeso, non lo diede a vedere. Benché la conversazione si fosse raffreddata – la giovane lady non era più tanto in vena di ascoltare chiacchiere vuote, non dopo aver visto quella strana figura che non aveva fatto a meno di ricordarle l’orribile notte di due settimane prima, notte di cui ancora non sapeva nulla poiché l’unico che poteva illuminarla sulla faccenda si rifiutava di farlo – i due passeggiarono ancora per una buona mezz’ora.
Con enorme sgomento e un accenno di disperazione, Emma realizzò che avrebbe potuto galoppare a vuoto per giorni interi senza riuscire a trovare i confini di Pemberley – e, con questi, una via d’uscita. Il pensiero fu talmente sconfortante che dimenticò persino di affrontare Adam riguardo la faccenda delle lettere; alla fine, adducendo il freddo e la stanchezza come scuse, si fece riaccompagnare al maniero senza aver visto neppure la metà della tenuta.

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1882


Le ruote di una carrozza che si allontanava rapidamente cigolarono sulle pietre del vialetto.
La figura scura che vi era appena discesa, lungo mantello nero e cappello ben calato sul viso per proteggersi dal freddo pungente, si guardò intorno con composta curiosità, facendo scorrere lo sguardo sulla facciata di Pemberley Manor alla ricerca di qualche dettaglio che lo rassicurasse del fatto che gli anni fossero trascorsi anche lì. Non ne trovò: come sempre, l’antica magione pareva sospesa nel tempo, maestosa e imponente, e lo fece suo malgrado rabbrividire: solo la sua ferrea volontà gli impedì di segnarsi per scaramanzia. Si domandò cosa mai potesse aver spinto il conte a chiamarlo dopo dieci anni passati a ignorare le sue suppliche e le sue richieste di ottenere un colloquio; suppose che per saperlo avrebbe dovuto racimolare il coraggio di avanzare verso il portone e sollevare la mano per bussare.
Gli aprì quasi subito il maggiordomo, Mr. Weber, ed egli fu sorpreso nel notare il volto stanco e provato dell’uomo. Non aveva mai udito lamentele da parte dei domestici che lavoravano al castello, e vedere in prima persona che invece essi parevano andare avanti a fatica lo lasciò per un attimo perplesso. L’uomo si fece da parte con un breve cenno del capo, invitandolo ad entrare, e sempre silenziosamente gli fece cenno di seguirlo.
Parlò solo una volta che ebbero imboccato il corridoio che conduceva dabbasso, verso i piani riservati al personale. «Suppongo siate qui sotto richiesta di Mrs. Duncan», fece, con un tono basso e greve.
L’ospite aggrottò la fronte, interdetto. «Veramente, ero convinto di essere stato convocato dal conte.»
«Milord non ne è al corrente», venne interrotto subito. «E gradirei poter contare sulla vostra discrezione riguardo ciò che apprenderete nelle ore successive, padre Randall: è nell’interesse di tutti evitare uno scandalo.»
Il reverendo annuì piano, sempre più confuso. «Naturalmente», mormorò soltanto. Che cosa stava accadendo tra le mura di Pemberley?
Quando giunsero nell’enorme cucina, tutti i domestici là presenti – la cuoca, le sue aiutanti, alcuni camerieri e persino il valletto personale di lord Rochester – interruppero ciò che stavano facendo in favore di salutare rispettosamente l’uomo di chiesa. Egli ricambiò il benvenuto e mormorò una breve benedizione, che tuttavia non servì ad alleggerire le espressioni tetre e stanche della servitù. Sempre più perplesso, il reverendo volse nuovamente lo sguardo al maggiordomo, ma già egli gli stava facendo cenno di seguirlo attraverso un altro corridoio, e senza più parlare si fermò davanti a una porta per poi bussarvi gentilmente.
Fu proprio Mrs. Duncan ad apparire sulla soglia, e quando i suoi occhi si posarono sul prete il suo volto parve illuminarsi di sollievo. «Grazie, signor Weber», disse rivolta al maggiordomo, che sapeva riconoscere un congedo quando ne udiva uno. La donna tornò a dedicare la sua attenzione al reverendo una volta che il suo collega li ebbe lasciati soli. «Prego, padre, entrate.»
«Devo ammettere di aver trovato sospetto l’invito del conte, ma adesso si chiariscono molte cose», esordì l’uomo quando la porta dell’ufficio della governante si chiuse dietro di loro. Osservò placidamente la piccola ma elegante stanza prendendo nota della cura con cui ogni oggetto aveva trovato il suo incastro, e attese con pazienza che la donna gli indicasse una sedia su cui prendere posto.
«Prego, padre», ripeté quest’ultima, facendo un cenno verso una delle poltroncine. «Gradite qualcosa da bere? Un tè, brandy magari?»
Il reverendo acconsentì con un breve cenno del capo, accettando per il momento il rinvio della discussione. «Un tè andrà benissimo, grazie Mrs. Duncan», rispose, cortese. Aveva come la vaga impressione che sarebbe servito porre la donna a suo agio se avesse voluto scoprire qualcosa di utile riguardo ciò che accadeva in quel castello.
Attese in silenzio durante l’intera preparazione del tè, approfittandone per riflettere su ciò che sapeva per sentito dire e su ciò che aveva avuto modo di osservare fino a quel momento – non molto, doveva ammettere – in modo da prepararsi a qualsiasi evenienza. La famiglia dei Rochester non era neppure cattolica, poiché seguivano il credo protestante come i loro antenati; dunque che cosa potevano mai volere da lui?
Quando entrambe le tazze di fine porcellana furono riempite con il tè fumante, e latte e limone vennero aggiunti secondo le loro personali preferenze, padre Randall decise di spezzare il silenzio.
«Dunque», fece, roteando il cucchiaino per sciogliere lo zucchero. «Che cosa posso fare per voi?»
«Ah, padre», sospirò la donna. «È un’enorme richiesta quella che vi sto per fare, e richiede un notevole impiego di misericordia e discrezione, e voi siete l’unico che mi sia venuto in mente cui rivolgermi. Il conte mi ha imposto di non farne parola ad anima viva, ma non posso più tacere sull’argomento… Sento che se mantenessi il segreto per soltanto un altro giorno impazzirei dalla disperazione e dal rimorso.»
«Mia cara, mi state preoccupando. Che cosa vi angustia?»
La governante si guardò rapidamente intorno come se temesse che qualcuno la spiasse attraverso le pareti, e poi emise un altro sospiro. «Dovete promettere, padre», mormorò, guardandolo con aria quasi disperata. «Promettetemi che non direte ad anima viva ciò che udirete o vedrete qui oggi.»
«Sapete bene che ciò che mi viene detto in confessione non verrà divulgato», ribatté il prete leggermente offeso. «Conoscete i miei voti e ciò che la mia carica comporta.»
Mrs. Duncan annuì e prese un sorso del suo tè, e padre Randall notò il lieve tremore delle sue dita. «Bene», disse lei, sforzandosi di recuperare il controllo sui propri nervi. «Bene.»
Notando che la governante non sembrava riuscire ad aggiungere altro, il prete riprese, stavolta con fare più gentile e comprensivo. «Forse questo non è l’ambiente più adatto per una confessione, mia cara: è chiaro come il giorno che non siete a vostro agio. Perché non siete venuta in chiesa per parlare con me?»
«No, no! Ho bisogno che vediate, padre, oltre che udire… Non ho bisogno soltanto di liberare la mia anima da un peso, ma anche e soprattutto del vostro aiuto. Siete un uomo istruito, paziente, caritatevole, e vi conosco sin da quando siete giunto a Heatherfield per la prima volta. Posso fidarmi solo di voi in questo frangente.»
A questo punto il reverendo dovette ammettere di peccare di curiosità. «Tutti questi misteri non vi si addicono, Mrs. Duncan», l’ammonì il prete. «Parlate chiaramente e liberatevi di questo fardello.»
La donna prese un breve sorso di tè come a volersi dare coraggio; i suoi occhi, larghi e castani, fissavano un punto imprecisato sul tavolo, e le sue dita tamburellavano nervose su di esso. Padre Randall recitò a mente due Pater Noster e un Ave Maria nel tempo che occorse alla governante per raccogliere i pensieri e decidere di parlare.
Infine la tazzina venne posata, e Mrs. Duncan prese un profondo sospiro. «Voi sapete che lady Rochester è morta di parto», esordì bruscamente, sollevando gli occhi per incontrare quelli del reverendo. «Dopo tre figli e nessuna complicazione, l’ha portata via una comune febbre puerperale… Non voglio scendere in dettagli inutili, ma sappiate che quell’ultima gravidanza non fu come le altre.»
Racimolando ogni briciolo di pazienza rimastogli, padre Randall tacque e la invitò a continuare il suo racconto con un comprensivo silenzio e un breve cenno del capo.
«Vedete, malgrado ciò che è stato detto al riguardo, il bambino non nacque morto. Anzi, non morì neppure in seguito… Egli vive, ed è anzi in salute, nonostante tutto, e abita qui, al castello.» Vedendo l’espressione sgomenta dell’uomo che le sedeva di fronte, la signora Duncan sollevò una mano per invitare ulteriore indulgenza. «Per via di certe… circostanze… il conte non l’ha riconosciuto», spiegò. «Forse il dolore per la scomparsa della moglie l’ha svuotato da ogni sentimento, chi siamo noi per giudicare e pretendere di sapere che cosa passa nel cuore e nella mente di un uomo posto di fronte al lutto? Ad ogni modo, egli ha permesso che il bambino vivesse nella casa della sua famiglia, e me ne sono presa cura io fino a questo momento.»
«Un momento solo, Mrs. Duncan», la interruppe il reverendo a quel punto, incapace di trattenersi e tacere oltre. «Mi state dicendo che questo bambino, che dovrebbe avere ora una decina d’anni, ha vissuto nascosto tra queste mura? Come avete fatto a mantenere un simile segreto per così tanto tempo? E perché io ne vengo a conoscenza solo ora? Sono il confessore di questa famiglia!»
«Voi non capite», sibilò la donna, allarmata dal tono di voce di padre Randall e desiderosa di maggior riserbo. «L’abbiamo fatto per proteggerlo!»
Padre Randall era indignato. «È per proteggerlo che l’avete tenuto prigioniero, lontano dal mondo? È questo crimine il motivo di tanta segretezza?»
«Non capite», ripeté la donna, notevolmente pallida. «Dovrete vedere, per poter comprendere… per non giudicare con tanta durezza! Ma qualsiasi cosa vediate, qualsiasi cosa pensiate, vi supplico, padre: non una sola parola dovrà lasciare le mura di Pemberley, o l’ira del conte non conoscerà eguali.»
«Temete più la rabbia di un uomo che il giudizio di Nostro Signore?» Ribatté il prete, sbattendo il palmo della mano contro la superficie del tavolo. «Come osate! Non posso farvi una simile promessa, signora, checché ne diciate. A costo di portar via il bambino da questo castello…!»
«Portarlo via! Cosa dite! E abbassate la voce, per l’amor di Dio…»
«Non invocate il Suo nome in questa circostanza, Mrs. Duncan, vi avverto!»
«E voi non dite simili sciocchezze!» Replicò lei prontamente, bianca come un cencio. «Ascoltatemi, padre, vi scongiuro: aspettate di vederlo prima di prendere una decisione. È facile condannare senza sapere, e io non vi ho chiesto di venire fin qui per litigare con voi: ho bisogno che siate mio amico e alleato, non vi voglio come nemico.»
«Allora, cosa state aspettando? Portatemi da lui», decretò l’uomo con fare definitivo, alzandosi in piedi e torreggiando sulla povera governante.
Con un sospiro rassegnato, la donna si alzò a sua volta. «Molto bene. Seguitemi», fu tutto ciò che disse.
Il reverendo non aveva mai avuto modo di visitare a fondo un maniero dalla simile struttura: seguì la signora Duncan su per strette rampe di scale, attraverso angusti corridoi, lungo passaggi debolmente illuminati da candele tremolanti o da piccole finestrelle strette che parevano feritoie, e che lasciando entrare sottili fili di luce a rischiarare un’oscurità altrimenti perenne. Brevemente e quasi sussurrando, la governante gli spiegò che i domestici utilizzavano quei passaggi per raggiungere ogni stanza del castello, a partire dalle camere da letto – e così dicendo gli indicava sagome di porte che si affacciavano sui corridoi ogni venti o trenta metri – per proseguire con il foyer, la sala da pranzo, i salottini privati, la biblioteca, lo studio. In questo modo, la servitù poteva svolgere i propri compiti indisturbata, facendo avanti e indietro da mattina a sera e senza intralciare la vita quotidiana dei conti e dei loro ospiti, qualora si fossero degnati ad aprire la casa ad amici e conoscenti.
Padre Randall avrebbe mentito se avesse detto di non essere malgrado tutto affascinato nell’apprendere la routine di un castello di quelle dimensioni.
D’un tratto, Mrs. Duncan si fermò. La sua mano si sollevò ad afferrare il mazzo di grosse chiavi che le pendeva da un cinturino che portava intorno alla vita, e iniziò a scorrerle con un improvviso tremore. «Solo io ho le chiavi di questa stanza», spiegò a mezza voce, mentre le sue dita passavano il mazzo in rassegna. Infine trovò ciò che cercava: isolò il piccolo oggetto di ferro dal resto delle chiavi e lo sollevò alla luce per far sì che l’uomo lo vedesse, in un cenno dall’aria solenne che lo mise onestamente a disagio.
Osservò poi la chiave che veniva abbassata e infilata lentamente nella toppa, e udì il rumore secco delle tre mandate che fecero scattare la serratura; il reverendo, non senza una certa apprensione, si ritrovò a domandarsi che genere di creatura si trovasse oltre quella soglia per necessitare simili misure di sicurezza e circospezione. La governante gli aveva parlato di un bambino: ma chi meritava un simile trattamento a un’età così giovane e innocente?
Finalmente la porta si aprì, ruotando sui propri cardini e lanciando un sottile filo di luce nel loro corridoio segreto. Mrs. Duncan prese un profondo respiro, lanciò una breve occhiata al prete al suo fianco per intimargli silenziosamente di seguirla, e avanzò rapida all’interno della stanza.
Il bambino era seduto per terra, presso il caminetto, la testa china mentre si dilettava con dei giocattoli di strana fattura – come se fossero stati messi insieme da pezzi di balocchi vecchi e per creare qualcosa di nuovo. Il delicato mormorio che accompagnava i suoi giochi era una qualche nenia che il piccolo stava canticchiando a mezza voce, e che per qualche strano motivo provocò uno spasmo di compassione nel cuore del prete.
La signora Duncan chiuse delicatamente la porta dietro di sé e si schiarì la voce. «Padroncino Adam?» Lo chiamò gentilmente, mettendo in quel titolo la stessa deferenza che avrebbe riservato a qualsiasi altro erede del conte, e senza il minimo accenno di derisione.
Nell’udire il proprio nome venir chiamato all’improvviso, il bambino rizzò la schiena e posò i giochi sul tappeto, smettendo di canticchiare. Padre Randall lo osservò attentamente mentre, con strane movenze lente e deliberate, si voltava per fronteggiare i suoi ospiti…
Il suo cuore saltò un battito, e per un attimo fu incapace persino di respirare. La mano si strinse intorno al crocifisso d’argento che portava intorno al collo, finché i lati taglienti del Cristo non gli ferirono i palmi, e solo il dolore riuscì a fargli riprendere fiato. D’un tratto, le suppliche di Mrs. Duncan acquistavano un senso.
«Il Signore abbia pietà», sussurrò debolmente.

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Dopo cena, come di consueto, Adam accompagnò Emma a controllare le condizioni di Miss Radcliffe prima di scortarla nei suoi appartamenti. Non si erano detti molto altro al rientro dalla loro passeggiata mattutina; i due si erano separati nel foyer, il padrone intuendo probabilmente lo stato d’animo poco propenso alla compagnia della sua ospite. La signora Duncan, che era lì presente ad accoglierli, aveva di certo notato la strana atmosfera che aleggiava tra loro, ma saggiamente non ne fece parola – Emma non avrebbe saputo dire se ciò fosse dovuto a una certa delicatezza o al timore dell’ira di Adam in caso ella avesse superato qualche limite.
Avendo trovato la sua istitutrice in condizioni né migliori né peggiori rispetto al pomeriggio – benché il suo sonno sembrasse più riposato, e Mrs. Duncan le avesse assicurato di essere riuscita a farle ingerire del brodo caldo insieme alle medicine prescritte dal dottor Carew – Emma lasciò che Adam la condusse nella sua stanza. I corridoi erano bui, poiché prima di coricarsi i domestici si accertavano di spegnere il gas che alimentava le luci, così era Adam a illuminare il tragitto con un antico candelabro a tre braccia.
Avevano appena raggiunto il pianerottolo del secondo piano, dove si trovava la stanza di Emma, quando Aramis si bloccò all’improvviso e voltò il muso verso l’oscurità alle loro spalle, emettendo un ringhio basso e minaccioso. La giovane rischiò di inciampare su di lui, e fece per riprenderlo quando un’improvvisa ondata di gelo proveniente dalla tromba delle scale le ghiacciò il sangue nelle vene. Adam, poco più avanti, non sembrava essersi accorto di nulla.
Ma lei avvertì un fruscio – qualcosa che raschiava sui gradini, a fatica, dei tonfi sordi come di passi attutiti dal tappeto – poi un debole sospiro, e la sensazione di essere fissata con insistenza che aveva provato nel parco il giorno prima tornò più acuta che mai, terrorizzandola. Subito si fermò, voltandosi di scatto con il respiro bloccato in gola, per scrutare inutilmente l’oscurità alla ricerca di qualsiasi cosa – adesso ne era sicura! – la stesse seguendo.
Adam dovette essersi accorto che lei era rimasta indietro, perché tornò subito sui suoi passi, portando misericordiosamente con sé la quieta luce del candelabro.
«Avete visto?» Mormorò lei senza voltarsi, gli occhi sgranati e indirizzati verso un punto in ombra del corridoio. D’istinto, allungò una mano davanti a sé – tanto il buio pareva solido, tangibile – ma fu il suo compagno a prendergliela tra le sue in una stretta gentile: persino il tiepido cuoio dei suoi guanti le fu di conforto, se paragonato all’alito gelido che aveva avvertito alle sue spalle, che le aveva fatto accapponare la pelle e rizzare i capelli sulla nuca.
Come se dita gelide l’avessero accarezzata.
«Che cosa dite, Emma? Non c’è niente qui, eccetto noi», fu la pacata risposta di Adam, che echeggiò con sconcertante risolutezza nel silenzio dell’andito.
Lei scosse appena il capo e fece un passo in avanti, prima che la presa dell’uomo la trattenesse al suo fianco. «No, no, ho visto qualcosa… Come un’ombra, proprio dietro di me», insisté. «L’aria si è fatta gelida! Com’è possibile che non abbiate sentito nulla?»
«Perché non c’è nulla da sentire», fu la secca risposta dell’uomo, sibilata con tanta severità da fargli guadagnare un’occhiata stupita e intimidita. «Siete stanca, milady, e questo maniero è antico. E come ogni vecchio edificio, esso geme, scricchiola e sospira a ogni alito di vento – non vi è nulla da temere.»
La menzogna era così palese da poterla quasi assaporare sulla punta della lingua, e il timore di Emma iniziò a tramutarsi in gelido disdegno –
«Forse risentite ancora della febbre di pochi giorni fa?»
– che, a quelle parole, infiammò a un tratto l’ira che aveva severamente represso per tutto il giorno.
«Non osate!» Sbottò dunque, strappando bruscamente il proprio polso dalla stretta del padrone e facendo due prudenti passi indietro. «Come potete sperare che io vi creda? Voi, che non mi avete mai rivelato neanche cos’è accaduto davvero la notte che mi avete trovata!»
Adam si irrigidì – la sua postura assunse una certa severità che sfuggì tuttavia all’occhio distratto di Emma – e per un attimo le due entità dentro di lui lottarono per la supremazia. Rispondere alla sfida, alimentare quella furia e tramutarla in sacro terrore o placare la donna? Fu di nuovo Adam, per fortuna, ad avere la meglio. «Vi ho detto tutto ciò che vi serve sapere», la ammonì a mezza voce, un tremito appena soppresso l’unico indizio di quel travaglio interiore.
Emma gli rivolse uno sguardo duro, colmo di risentimento e irritazione – poiché durante i giorni trascorsi ella aveva creduto che un certo grado di prudente fiducia si fosse instaurata tra loro, e solitamente Adam rispondeva con garbo e sincerità alle domande che lei gli poneva – e strinse le mani con furia sulla stoffa del proprio abito, le dita artigliate come se avesse voluto invece stringergliele intorno al collo. «Non mi avete detto niente, invece», lo contraddisse subito, sollevando il mento. «Mi tenete occupata e distratta giorno dopo giorno con la speranza che io dimentichi ciò che ho visto, che dimentichi la situazione in cui mi trovo, ma mi credete davvero tanto sciocca? Pensate che non mi sia accorta che i domestici si rifiutano di parlarmi, che le lettere di mio padre e del mio fidanzato hanno smesso di arrivare, che la mia istitutrice continua a giacere a letto senza alcuna speranza di ripresa? Non vorrei insinuare cose non vere, signore, ma anche voi dovrete convenire con me sul fatto che si tratti di circostanze oltremodo sospette.»
Malgrado la luce delle fiamme danzasse sul profilo della sua maschera, la penombra del corridoio aveva celato alla sua vista l’istintiva reazione del padrone – un istantaneo irrigidirsi, le mani serrate in pugni nervosi, gli occhi d’un tratto scuri, quasi neri – ma non aveva fatto nulla per attenuare la freddezza della sua risposta. «Credevo che aveste imparato a trovare piacevole la mia compagnia.»
Emma sbuffò assai inelegantemente, dimentica per un attimo del proprio status. «Credetemi, troverei spiacevole persino la compagnia del re in simili circostanze. E vi prego di non deviare la discussione dall’argomento principale», disse, in un tono che non ammetteva repliche. «Desidero sapere che cosa sta accadendo a Pemberley, signore, e desidero saperlo adesso
«Non capisco che cosa intendete», fu la rapida risposta dell’uomo, pronunciata a denti stretti.
«Intendo dire che al di là del fatto che mi stiate tenendo prigioniera tra queste mura, cosa che vi ho finora permesso perché tengo alla mia istitutrice e al momento lei è impossibilitata a muoversi, voi mi state nascondendo qualcosa, e non ho intenzione di aggiungere la sprovvedutezza alla lista dei mie difetti!» Si fermò un attimo per riprendere fiato – a sua volta scioccata dal fervore dimostrato e dallo scoprire quanta rabbia avesse in effetti accumulato – dopodiché raddrizzò la schiena e fissò severamente l’uomo negli occhi, ignorando come al solito la strana angoscia che evocava la presenza della sua maschera. «Per cui ve lo chiederò un ultima volta, signore – che cosa mi state nascondendo? Sono in un qualche pericolo?»
Nei lunghi secondi che seguirono le sue parole, Emma ritornò con la mente agli ultimi giorni; alla fatica che faceva ogni notte ad addormentarsi, e a come la sua mente veniva invasa da vorticanti immagini di spettri non appena scivolava in un sonno senza riposo, maledetto da fiamme che le lambivano le carni, acque nere profonde come l’inferno che l’attiravano nel loro mortale abbraccio, e poi sangue, sangue che colava dalle pareti, che macchiava il pavimento, che sgorgava dalle pagine dei libri della biblioteca e che gocciolava da ferite aperte e bocche spalancate, e urla, pianti, singhiozzi – e quelle visioni erano così macabre, oscene, da svegliarla di soprassalto, costringendola a rigettare quel poco che aveva nello stomaco nella tazza da notte che ormai teneva accanto al letto per quelle evenienze. Non aveva detto a nessuno dei suoi sonni turbati – forse solo Lydia ne era al corrente, dato che era lei che la svegliava ogni mattina e si occupava di mettere in ordine e ripulire la stanza. Ma ella era muta, ed Emma le aveva domandato di non raccontarlo a nessuno – solo perché non poteva parlare non significava che non avesse altri modi di comunicare, per quanto si ostinasse a non farlo con lei – e poteva solo sperare di aver riposto la sua fiducia nelle mani giuste.
Ma le notti insonni la rendevano nervosa, andando ad aggiungersi al malessere causato dalle sue attuali circostanze; e anche se durante il giorno fingeva che nulla fosse fuori posto – a partire dal suo aspetto, che curava celando il pallore e le ombre sotto agli occhi con del maquillage recuperato chissà come da Lydia – ciò non significava che dentro non stesse tremando, e che non temesse la notte come si teme il diavolo.
«Non avete nulla di cui avere paura, milady», disse Adam, portando la mano libera dietro la schiena per evitare di cedere all’impulso di allungarsi e afferrarla. «Fintanto che rimarrete mia ospite, vi garantisco che–»
«Mi garantite?» Lo interruppe, troppo scioccata per considerare la propria maleducazione. «Buon Dio! Continuate a evadere le mie domande anche ora che vi accuso!»
«Cosa volete che vi dica? Che avete ragione?» Sbottò l’uomo, avanzando minacciosamente d’un passo. «Che risposta gradireste sentire per poter dormire serenamente la notte, milady?»
«La verità!» Esclamò lei inviperita, sforzandosi di non indietreggiare. «Voglio che siate onesto con me, e che mi diciate che cosa sta accadendo nella mia casa! Non fraintendete la mia disponibilità e la mia educazione per ignoranza o ingenuità, signore – posso assecondarvi, sì, ma ciò non influisce sulla mia capacità di raziocinio e libero pensiero, e i misteri che celate non mi aiutano a essere a mio agio in vostra presenza!»
Sconvolto dal brusco sfogo, Adam si immobilizzò in mezzo al corridoio, e agli occhi furiosi di Emma parve che diventasse appena più piccolo, appena più fragile, come se le sue parole – bastava davvero così poco? – lo avessero colpito, o avessero perlomeno toccato un nervo scoperto.
Come poteva aver paura di lui? Si ritrovò a pensare, scioccata. Sembra un cucciolo bastonato. Che fine aveva fatto l’uomo che aveva reagito con quella furia terribile quando lei aveva provato ad attaccarlo, appena conosciuti? Quando le sue dita gelide le si erano strette intorno al collo, e nei suoi occhi non aveva visto che promesse di orrori?
Si rese conto che era da tanto – da quando le aveva salvato la vita, quella notte, sul lago – che non pensava a lui sotto quella luce, come un mostro da cui non avrebbe potuto aspettarsi che violenza e minacce. E adesso che le stava di fronte, incurvato, gli occhi supplicanti, Emma realizzò non senza una buona dose di sgomento che no, non era di lui che aveva paura.
Cosa potete saperne, voi, di solitudine, era stata una delle prime cose che le aveva detto. Non vi chiedo molto – desidero soltanto la vostra compagnia…
Per quanto provasse una fastidiosa fitta al petto quando ci ripensava, quando rifletteva sul genere di vita che Adam aveva condotto prima del suo arrivo, e per quanto potesse provare pena per lui, ciò non le toglieva il diritto di domandare spiegazioni e pretendere delle risposte, non rendeva meno legittimi i suoi desideri.
E, a giudicare dal silenzio di Adam, Emma comprese che non avrebbe ottenuto niente di tutto ciò per quella sera; per cui socchiuse gli occhi, prese un profondo respiro e rilassò le spalle.
«Vedete bene che non posso obbligarvi a parlare, ed è nel vostro diritto mantenere quali che siano i vostri segreti», disse, con un tono di voce improvvisamente calmo, gelido ma non meno gentile. «Ma sappiate che tutto questo mistero non mi fa sentire a mio agio, e che pertanto gradirei trascorrere da sola le mie giornate fin quando non mi riterrete degna di fiducia.»
Vide la mano di Adam che reggeva il candelabro tremare davanti alla fermezza di quella dichiarazione, e il modo in cui sollevò appena il mento le fece intuire che volesse ribattere qualche cosa; ma lo interruppe con un cenno di diniego del capo, al quale lui obbedì prontamente. «Per favore, sono stanca. Accompagnatemi nella mia stanza se volete, dopodiché desidero stare da sola», rettificò, distogliendo lo sguardo.
Reso muto dall’improvvisa svolta degli eventi, Adam si limitò ad annuire, dandole le spalle e riprendendo il tragitto lungo il corridoio. Persino Faust rimase in uno stordito silenzio, rannicchiato in un angolo scuro della sua mente.


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Doveva domandare il suo perdono.
Era questo il pensiero fisso che aveva accompagnato Adam per tutto il giorno. Non erano trascorse neppure ventiquattr’ore da quando aveva discusso con la sua ospite – ore passate in solitudine, suo malgrado, poiché la giovane donna lo aveva evitato sin da quando si era svegliata, trovando rifugio nella camera da letto della sua istitutrice o, peggio, nelle stalle, dove egli preferiva non mettere piede per evitare di incontrare il figlio dalla mente delicata dei signori Duncan – eppure, già sentiva la sua mancanza. Si era abituato alle loro conversazioni, benché non fosse tanto sciocco da non accorgersi della circospezione e talvolta del disagio con cui Emma si rapportava a lui, e tornare al silenzio dopo giorni – settimane – di compagnia era stato terribile.
E la colpa era da far ricadere esclusivamente su di lui. Su di lui, e su quel morbo osceno che appestava ogni suo pensiero sia da sveglio che da addormentato, e che lo minacciava costantemente con la sua presenza e la promessa di saltare fuori da un momento all’altro, senza neppure dargli il tempo di accorgersene: Faust. L’essere che possedeva la sua mente e talvolta il suo corpo non aveva smesso un solo istante di sibilargli all’orecchio ciò che pensava della situazione – dipingendo e offrendogli immagini tanto turpi e lascive da lasciarlo scosso e tremante, ad annegare nella vergogna causata dal fatto che sì, , malgrado tutto le trovava persino invitanti, sensuali.
Ma no, non avrebbe mai permesso a Faust di fare ciò che voleva di Emma – a costo di strapparsi gli occhi con le proprie unghie e mordersi dita e labbra per non mugolare dall’eccitazione a stento repressa, pur di non vedere in lei, nel suo viso diafano, innocente, nei suoi occhi caldi e morbidi, il terrore o il disgusto.
Faust poteva ringhiare e soffiare quanto voleva nella prigione che era la mente di Adam – lui non l’avrebbe liberato, non in presenza di Emma, non con il rischio di farle del male; non sarebbe più stato schiavo di quell’essere, non avrebbe più perso il controllo… e, se tutto ciò che avrebbe dovuto fare sarebbe stato parlare con lei, spiegare la situazione, dissipare misteri e segreti… Ebbene, che fosse! Sarebbe stato sincero. E, fin tanto che lei si fosse tenuta lontana dalla sua maschera, fin tanto che non avesse fatto altre domande scomode, fin tanto che si fosse fidata, almeno un poco, di lui – cosa poteva mai accadere di male?
Fu per questo motivo che la raggiunse dopo cena, certo di trovarla rinchiusa nella biblioteca – solo perché non aveva condiviso fisicamente la giornata insieme a lei, difatti, non voleva dire che l’avesse lasciata al di fuori del proprio campo visivo. Non l’aveva spiata – il termine era troppo maligno – no; semplicemente, l’aveva tenuta sotto controllo, al sicuro, per evitare che loro… gli altri… le si avvicinassero troppo.
Adam entrò dunque quietamente nella biblioteca silenziosa, richiudendo piano la porta alle sue spalle avendo cura di non farla sbattere. Le luci erano state diminuite dalla solerte signora Duncan prima che quest’ultima si congedasse, di modo che la giovane non trovasse difficoltà nello spegnerle tutte una volta che si fosse ritirata per la notte. Era dunque il camino che forniva la maggior parte dell’illuminazione, insieme alla lampada accanto al divano dove di certo Emma giaceva immersa, come suo solito, in qualche libro.
Con un mezzo sorriso su labbra che nessuno poteva vedere, Adam attraversò la stanza – il rumore dei suoi passi attutito dai tappeti – per poi fermarsi bruscamente a pochi metri dal divano, gli occhi sgranati sotto la maschera e le mani contorte in rigidi pugni, dinnanzi all’inaspettata visione che lo accolse.
Emma doveva essersi appisolata, il libro che le giaceva dimenticato in grembo e il capo volto verso il calore del fuoco, ignara di ciò che le accadeva intorno. Poggiato a braccia conserte sopra la spalliera del divano sul quale la giovane riposava, un pallido gentiluomo ne osservava il profilo con espressione incuriosita e scaltra; folti capelli biondi riflettevano la luce delle fiamme e circondavano un volto mascolino e vagamente emaciato, labbra rosee erano piegate in una smorfia divertita e occhi scuri come la notte si sollevarono pigramente su di lui, per nulla scomposti dal suo arrivo.
«È molto bella», fu il suo pacato e in certo senso sarcastico commento, blandamente offerto prima di tornare ad osservare la giovane.
Adam s’irrigidì, furioso, ma disposto alla cautela. Non voleva pensare a che reazione avrebbe avuto Emma se si fosse svegliata e avesse visto lui che la fissava. «Che cosa stai facendo, Evan? Non ti sei già divertito abbastanza con lei?»
Il gentiluomo – Evan – sbatté con aria perplessa le palpebre, prima di assumere un’espressione consapevole e scrollare le spalle con aria disinteressata. «Ah, parli della notte degli orrori», sorrise appena. «Non è stata una mia idea – non ho nulla contro la tua ospite. Anzi, la trovo affascinante: che motivo potrei avere per scacciarla via?»
Seguendo un impulso e approfittandone di certo per infastidire Adam, Evan allungò un braccio verso la ragazza addormentata, sistemandole con due dita alcune ciocche di capelli sfuggiti alla modesta acconciatura. Ignorando la precedente proposizione di fare silenzio per non svegliarla, Adam emise un verso che somigliava discretamente a un ringhio.
«Non toccarla», sibilò, avanzando di un passo.
L’altro lo fissò per una lunga manciata di secondi, prima di sbuffare e ritrarre lentamente la mano. «Come sei fastidioso, fratello mio», lo apostrofò sbeffeggiante, mantenendo un tono di voce quieto. «Potrò averla almeno quando avrai finito con lei? Certo il tuo doppio si stancherà presto e non saprai più che fartene.»
Raggelato, Adam sentì quella presenza dentro di lui sollevare il capo e rizzare le orecchie, d’un tratto attenta, non più sorniona, come se quel disinvolto accenno ne avesse attirato l’interesse.
La voce gli tremò solo appena quando replicò. «Se sei venuto con lo scopo di irritarmi, ti avverto: ci stai riuscendo.»
«Oh? Beh, è un cambiamento. Di solito è difficile penetrare le tue difese», commentò Evan con affettato disinteresse, osservandolo con la coda dell’occhio. «Dì un po’, da fratello a fratello. Sei davvero affezionato a lei o progetti di lasciarla alle amorevoli cure del tuo doppio, come le altre prima di lei? Ho visto come la guardi, la libertà di movimento che le permetti, il desiderio che hai di toccarla. Sono curioso; per favore, assecondami un momento. È una tale noia, questo castello…»
«Se devi parlare, spirito, fallo subito e poi sparisci. Sono stufo di sentire la tua voce.»
Gli occhi cupi del fantasma si riempirono di un’emozione feroce, e la sua fronte aggrottata perse in un attimo l’atteggiamento sarcastico e rilassato. «Dovresti davvero mostrare più rispetto nei miei confronti, fratello», lo ammonì, utilizzando quel flebile legame che li univa a mo’ di insulto. «Non vuoi che ti renda la vita più difficile di quanto già non sia.»
Adam si limitò a fissarlo in silenzio, invitandolo a continuare senza pronunciare una sola parola.
Evan roteò gli occhi, per poi tornare a posarli sulla ragazza addormentata. «Dunque, dicevo: sono curioso. Il tuo comportamento sospettosamente galante è forse segno del fatto che desideri che lei ricambi qualsiasi sia il sentimento che provi per lei? Pensi che sia così sciocca, o disperata, da caderti tra le braccia come in un qualche ridicolo romanzetto da donnette? Forse dovresti ricordarti chi sei, cosa sei, prima di indugiare troppo nelle tue utopie. Ah, ma è per questo che sei qui, non è vero? Per riparare a chissà quale torto – ho visto che oggi non vi siete rivolti la parola, evitandovi come la peste. Sta iniziando a sfoderare gli artigli la nostra piccola ospite, e questo non va bene. Fa domande, è curiosa, la sua testolina si riempie di strane idee… Come mai non l’hai ancora messa a tacere, mi chiedo? È indubbiamente bella, sì, ma vale davvero tanti sforzi?»
«La cosa non ti riguarda», scattò l’altro, tremante. Sentiva di essere prossimo a perdere il controllo, e non voleva, non a pochi passi da Emma, non quando ogni muscolo del suo corpo era teso come la corda di un violino e non aspettava che la più piccola occasione per scattare… Deglutì, il respiro improvvisamente affannato, e continuò: «Ciò che faccio o non faccio con lei è affar mio, Evan, e mio soltanto. E tu non ti devi avvicinare, né tu né gli altri, sono stato chiaro?»
Un lampo di comprensione attraversò lo sguardo del fantasma, ed esso si aprì in un ghigno. «Oh, ma sembri dimenticare che non sono io ciò che lei dovrebbe temere, mio caro. Che male possono mai fare i morti? Ma i vivi… I vivi bisogna temerli, e tu, fratello, sei sfortunatamente ancora in vita.»
Fu sufficiente: non servì altro per far scattare in modo definitivo la bestia dentro di lui, e con un grugnito sofferente il padrone del castello si piegò su se’ stesso, premendosi i palmi delle mani contro il cranio – come se volesse impedire a qualsiasi male vi fosse rinchiuso di venire fuori. Inutilmente.
Evan si ritrovò a osservare affascinato il processo. Il nero inondò gli occhi azzurri di Adam, come se la pupilla si fosse allargata inghiottendo l’iride in un mare di oscurità; parve cambiare la sua stessa conformazione fisica, ma ciò doveva essere una semplice illusione, poiché bastò che egli raddrizzasse la schiena da una postura inconsciamente curva per renderlo d’un tratto più alto e imponente, minaccioso; qualcosa si modificò anche nel suo atteggiamento, nel modo in cui si portava, trasformandolo in una persona completamente diversa.
E il povero e patetico Adam lasciò infine spazio allo scaltro e feroce Faust.
«Mi chiedevo quando avresti rifatto la tua comparsa», fu il saluto sornione del fantasma.
Faust tuttavia non rispose alla provocazione. «Sai bene che i tuoi giochetti non funzionano con me», ribatté pacato, un tono mellifluo che fu capace di far rabbrividire persino lo spirito.
Evan roteò gli occhi, senza però staccarli dalla nuova presenza; sapeva che, con Emma lì, Faust non avrebbe osato alzare né la voce né le mani, ma era sempre meglio usare prudenza quando ci si approcciava a lui. «Noioso, noioso… E dire che un tempo ti preferivo all’altro.» Accennò poi un sorriso, piegando il capo di lato e notando con la coda dell’occhio le mani del mostro che si flettevano con movimenti calcolati, facendo scricchiolare il cuoio dei guanti.
«Perché sei ancora qui, spirito?» Riuscì a domandare Faust senza mostrarsi troppo infastidito, facendo scivolare lo sguardo sulla giovane donna addormentata a pochi passi da lui. Una ruga gli incrinò la fronte: era la prima volta che le si trovava vicino di persona, dopo quasi due settimane, e tale incontro era rovinato da quel maledetto essere… Forse era per questo che Adam aveva allentato le redini al suo controllo, rifletté amaramente: sapeva che non avrebbe potuto alzare un dito su di lei davanti all’apparizione.
In ogni caso, ella era addormentata: e lui voleva che fosse ben sveglia e lucida la prossima volta che si fosse trovata in sua presenza. E sarebbe accaduto molto presto, se fosse riuscito a convincere Adam a tenere la bocca chiusa su faccende che non sarebbero dovute essere divulgate.
«Come già stavo dicendo», riprese Evan, che non si era perso la lenta valutazione ch’egli aveva fatto di lady Moore, «voglio sapere quali sono le tue intenzioni nei confronti della ragazza. Gli altri sono giustamente preoccupati, e mi hanno mandato in avanscoperta, per così dire… Questa casa è nostra tanto quanto tua, malgrado quello che tu possa pensare, ed è nel nostro pieno diritto pretendere di sapere che cosa vuoi fare con un’estranea.»
«Cosa mi stai chiedendo, Evan?» Fu il sibilo di Faust, tutto a un tratto minaccioso. «Se ho intenzione di ucciderla come uccisi voialtri?»
Fu con estrema soddisfazione che vide il volto già diafano del fantasma impallidire ulteriormente, e le sue mani stritolare lo schienale del divano. Peccato che la maschera celava quello che sarebbe stato un terrificante sorriso.
«Parole tue, non mie», mormorò Evan con eccessiva cautela.
Faust emise una bassa e secca risata che somigliò di più a un ringhio. «Sei sempre stato un codardo, fin da bambino… quando sgattaiolavi nell’ala Ovest per prenderti gioco del mostro. Sciocco da parte mia credere che la morte ti avrebbe fatto dono di una spina dorsale.»
Avanzò di un passo e il fantasma tremò dallo sforzo di non indietreggiare. «Non ti conviene minacciarmi, fratello», continuò, imitando il tono derisorio con cui Evan si era rivolto ad Adam pochi minuti prima. «Lo sai che la vostra esistenza risiede nelle mie mani, così come sai che avermi come nemico non sarebbe una scelta saggia. Ma oggi mi sento particolarmente benevolo, per cui ti dirò questo: milady non ha nulla da temere da me per il momento, la sua sicurezza e benessere rientrano anzi tra le mie priorità – sentiti libero di riferirlo anche agli altri.»
Distolse infine lo sguardo da lui in un chiaro cenno di congedo, posandolo sulla più interessante e preziosa figura di Emma, aggiungendo solo un ultimo monito. «Oh, ed Evan… Non osare avvicinarti mai più a lei, sono stato chiaro?»
Per un lungo istante l’unico rumore che si poté udire nella biblioteca fu il crepitio delle fiamme nel camino, e quello del vento che ululava contro le vetrate. Faust credette di essere rimasto solo, quando lo spirito parlò nuovamente – un sussurro che sovrastò appena il rumore del vento.
«Non riuscirai mai ad averla, mostro
Quando riportò gli occhi sul punto oltre il divano, un ringhio feroce tra i denti, Evan era già sparito.






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An unfortunate and deserted creature. Il titolo del capitolo deriva da una citazione di Frankenstein di Mary Shelley: “I am an unfortunate and deserted creature, I look around and I have no relation or friend upon earth.(Cap. 15)
“La notte degli orrori” di cui parla Evan alla fine si trova nel capitolo 7, Stranger than you dreamt it.
[1] Charlotte Brontë, Jane Eyre, Parte II, Capitolo I.
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Angolo Autrice.
Cosa vedono le vostre fosche pupille? Un aggiornamento? Sul serio? Dopo più di un anno? Siamo morti e non ce ne siamo accorti?!
No, no, siamo tutti piuttosto vivi, e non state sognando – questo è un aggiornamento vero e proprio, giuro. Siccome non so da che parte iniziare per chiedervi scusa per questo hiatus imprevisto – anche se chi mi conosce sa che c’è da aspettarselo tra un capitolo e l’altro, altro che le stagioni di Sherlock – farò finta di niente e scriverò queste brevi note stando inginocchiata sui ceci. Spero comunque di essermi fatta perdonare, almeno in parte, consegnandovi un capitolo discretamente panciuto, con personaggi e dinamiche nuove e forse qualche risposta a vecchi misteri e nuove domande a cui rispondere.
L’unica cosa che vi posso dire è questa: se, anche malgrado sia trascorso un anno, siete di nuovo qui a leggere le vicende di Emma e Adam, a dare una chance a questa storia – e alla sua terribile autrice – e non vi siete arrese, beh, grazie. Grazie mille, grazie di tutto cuore, grazie per aver continuato a leggere! Significa davvero tanto per me, e come al solito voglio ribadire che questa storia, in un modo o nell’altro, non rimarrà incompiuta e avrà la sua fine. Il tempo per arrivarci, purtroppo, potrebbe essere semplicemente più lungo del previsto!
Come al solito, per domande o altro, mi trovate su facebook o in qualsiasi altro social network praticamente – i link li trovate nel mio profilo. Di nuovo un immenso grazie di essere qui, sono tanto felice di essere tornata!
Un bacio e un abbraccio dalla vostra
Niglia.

   
 
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