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Autore: mormic    05/09/2016    2 recensioni
Effie ha estratto decine di nomi da quella boccia di vetro, ma i suoi unici vincitori, nonostante stiano partecipando alla loro seconda arena, sono stati estratti solo una volta dalle sue dita affusolate. Sono volontari. E questo dovrà pur fare la differenza. Una differenza che Effie dovrà affrontare come non avrebbe mai nemmeno sospettato.
E dalla sera dell'intervista di lei non si sa più nulla, fino alla fine, quando riappare provata e fragile.
Questa è la sua storia, mentre in tutta Panem è il caos della rivoluzione.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Effie Trinket, Haymitch Abernathy, Plutarch Heavensbee
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Grigio e Oro'
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...dopo tanto tempo... per chi ogni tanto ancora controlla se aggiorno...

questo è un capitolo che da lungo tempo giace nel mio computer, un capitolo che avevo scritto per il concorso indetto dalle Socie (Vale&Vale dell'Atlante delle Nuvole ndr) dei missing moments. Ovviamente non potevo evitare di raccontare la "pre"storia così come l'ho sempre avuta nella testa e alla fine ne è uscito un crossover tra Atlante e IUA!
Quindi qualcuna di voi magari avrà già letto questo capitolo... altre no...
Per chi non lo avesse letto, ma legge l'Atlante, ci sarà una sorpresa, per chi non fa parte del folle gruppo invece, scriverò una nota in fondo al capitolo!!

BUONA LETTURA!




Il turbinare dei motori romba dentro la carlinga dell’overcraft e il fucile che imbraccio mi vibra tra le mani.
Non sono teso.
Non sono nervoso.
Non sono agitato.
Solo non vedo l’ora di arrivare a destinazione.
Le ore di volo saranno un paio. La tecnologia raggiunta dal 13 è spaventosamente avanzata.
Arriveremo a Capitol City e ci avvicineremo al Centro di Addestramento.
E non vedo l’ora di muovere le gambe.
 
I corridoi del centro di addestramento non li avevo mai percorsi, neanche con la mente.
Katniss non mi ha mai raccontato nulla dei momenti prima delle arene.
Questo posto mi è tanto sconosciuto come lo era il 13 appena arrivati.
Ma so dove devo andare.
Seguire il nostro contatto qui e aspettare che faccia il segno di procedere non è difficile.
Indossa l’uniforme da pacificatore.
E nei dintorni c’è solo lui.
Il che vuol dire che è una spia.
E per un attimo spero che non sia un doppiogiochista.
No.
Non ho affatto paura, ma non mi piacerebbe sparargli nella schiena.
 
Superiamo l’enorme atrio e ci infiliamo correndo giù per le scale che si snodano in un susseguirsi di rampe e pianerottoli fino ai piani sotterranei.
È li che si trovano i prigionieri.
 
La porta delle scale si apre su un nuovo atrio, più piccolo, impolverato e senza finestre.
Il pacificatore ci fa cenno di seguirlo e, dopo aver attraversato un corto corridoio, irrompiamo in una sala più grande, dove ci sono disposte sedie in modo disordinato, un tavolo lungo su un lato.
Le alte finestre hanno sbarre laser e vetri scuri che si notano, anche se fuori è completamente buio.
Non c’è l’ombra di un pacificatore se non il nostro contatto. Ed in realtà è questo l’unico elemento che mi mette ansia. Mi aspettavo più movimento.
La rete di informatori e uomini di Plutarch deve essere più vasta e più efficiente di quanto potessi immaginare.
 
Dopo la stanza, che al buio non ho avuto modo di guardare attentamente, ci aspetta un altro corridoio.
È stretto, ma non abbastanza da dover ruotare il busto per passare.
Il fucile è ancora serrato tra le mie mani guantate.
Sulla porta della cella alla mia sinistra c’è scritto “sala massaggi D1”.
Non è un carcere.
La porta successiva ha la scritta mezza cancellata da una sostanza unta e gelatinosa che qualcuno ha spalmato malamente.
Provo ribrezzo.
Qualsiasi cosa sia non è invitante.
Due porte più giù a destra ricompare una scritta leggibile. Dice: “sala massaggi D4 – uomini”.
Ma che diamine…
All’improvviso il nostro uomo si ferma di colpo e alza il braccio.
Segno che qualcosa non va.
Fa un cenno alzando due dita e capiamo che ci sono due pacificatori nella svolta successiva del corridoio.
Così, in fila indiana, è già incredibile che riusciamo a camminare senza inciampare l’uno sull’altro, e ancora più incredibile è che i gesti siano visibili, nell’oscurità, anche se indossiamo i visori ad infrarossi e i caschi antigas.
Il deserto di questo posto mi faceva pensare ad un’imboscata, sono quasi felice che ci siano due pacificatori non previsti.
Boggs, il primo della fila subito dopo il nostro uomo e subito prima di me, che non mi staccherei da lui e dalla prima linea neanche se mi sparassero ad entrambe le gambe, afferra dalla cintola una delle bombolette di vetro dall’interno violaceo e con sicurezza la lancia sopra la testa del nostro infiltrato.
Pochi secondi più tardi, giusto una manciata, due tonfi sordi ci fanno capire che le guardie sono svenute sotto la pressione assordante del fischio nelle loro orecchie, mentre noi siamo rimasti protetti dai nostri auricolari.
Il cenno è quello di andare.
Un ampio stanzone si apre di fronte a noi.
Scavalchiamo i due corpi privi di sensi e proseguiamo.
 
Seguo Boggs per altri cinquanta passi prima che lui si fermi di nuovo, dopo aver visto bloccarsi il nostro pacificatore.
Una porta blindata chiusa, al centro di un’immensa parete alta e larga ci blocca la via.
Vista l’assenza totale di guardie, Boggs si azzarda a parlare.
“Ok, Hawthorne, alla mia destra. Viktor a sinistra. Walsh, Ribs, Stacey, Donovan, pronti ad entrare”.
La squadra si sposta.
Mi allineo rapidamente in posizione e il pacificatore apre la porta.
Rapidamente Boggs fa cenno di entrare e io sono il primo in assoluto.
Il corridoio che si estende oltre la porta scorre longitudinalmente, allungandosi a destra e sinistra.
Mi infilo subito a sinistra, esattamente dove Boggs mi ha detto di essere.
La cortina di gas narcotizzante è ancora pesante nell’aria e ostruisce la gran parte della visuale. Colgo solo i dettagli vicini.
Una serie di porte sono distribuite tutte alla stessa distanza, una accanto all’altra, sulla parete opposta della porta blindata.
Tubi di acciaio a vista scorrono sospesi a pochi centimetri dal soffitto percorrendo ogni lunghezza.
Le porte sono di metallo pesante, probabilmente blindate come la precedente, e aperte solo in una finestrella chiusa da un vetro infrangibile di sicurezza a doppio strato.
So quello che devo fare.
Guardo rapidamente il pacificatore ribelle e aspetto il mio segnale.
Alza una mano e apre tutte e cinque le dita, poi altre due.
Cella numero 7.
Avanzo alla mia destra e devo avvicinarmi alle porte per leggere i numeri.
Ho davanti la 5. Mi affaccio al vetro e dentro una figura esile giace svenuta in un angolo, le braccia abbandonate sopra la testa, le gambe piegate in un’angolazione naturale, come si fosse appena addormentata dopo una lunga giornata.
So che è l’effetto del gas, che se fosse sveglia non sembrerebbe così… “serena”.
Chi potrebbe esserlo qui dentro?
Non so perché mi sto fermando così tanto a guardare attraverso questo vetro. Forse perché non riconosco la persona.
Ma poi un dettaglio m’inchioda, il casco premuto contro la finestra: la forma delle mani.
Quelle mani erano l’incubo di ogni anno, nel mio caso almeno in sei modi diversi.
Effie Trinket.
Decido rapidamente se entrare e spararle o tornare lucido e passare oltre per cercare la cella numero 7 e seguire il  mio compito.
Opto per la seconda scelta. La lascio lì a marcire e morirà da sola, prima o poi.
La cella seguente è la numero 7.
Apro la porta con un calcio e la guardo spalancarsi.
Ad un soffio dal suo raggio di apertura c’è sdraiata una figura dalla testa completamente rasata.
Espiro con forza: per un pelo non l’ho colpita dritta in testa.
Un pacificatore è nella stessa cella, svenuto anche lui.
Gli sferro un calcio nello stomaco, appena sento il dolore delle frustate sulla schiena riaffiorare in un lampo.
Così, giusto per vendetta impersonale.
Sento la voce di Boggs negli auricolari.
“Entrati tutti?” domanda secco.
“Affermativo” rispondo. E dietro di me altre cinque voci ripetono lo stesso.
Mi abbasso spostando il fucile sulla spalla e giro il corpo in modo da guardare il viso di chi sto salvando.
È Johanna Mason.
Con i capelli rasati non sembra neanche lei. Indossa una leggera tunica bianca sudicia e strappata. Sul corpo innumerevoli lividi e cicatrici appena rimarginate. Una mano ancora immersa in un secchio d’acqua sporca.
Solo allora vedo che il pacificatore ha ancora tra le mani un elettrodo e capisco che abbiamo interrotto la tortura stordendoli con il gas.
Fottuto bastardo.
Mi alzo di scatto e lo colpisco di nuovo con un calcio, questa volta sul viso. L’impatto gli fa scivolare di mano quell’arma micidiale.
Johanna è molto più magra di come l’ho vista l’ultima volta nell’arena. Non sarà difficile sollevarla e portarla fuori di qui.
La isso sulla spalla e la sento gemere.
È un fascio di ossa.
Scricchiola come una fascina di legna.
Le sue anche si puntano sulla mia clavicola.
Geme ancora.
“Fuori, ora”.
L’ordine di Boggs irrompe negli auricolari.
Eseguo come un automa i comandi impartiti.
L’effetto del gas durerà finche saremo fuori, di nuovo sul tetto.
Ripercorriamo la strada a ritroso, superando di nuovo gli unici due pacificatori incontrati, ancora stesi a terra, con il naso sanguinante. Non sono sicuro che siano solo svenuti.
Johanna quasi non pesa sulle mie spalle.
Poi tutto accade velocemente.
Appena ci infiliamo nel corridoio stretto qualcosa non va.
La corrente, che Beete aveva fatto andar via, dal 13, Dio solo sa come, ritorna.
Ed improvvisamente è tutto illuminato.
Una decina di pacificatori ci sbarra la strada, iniziando a sparare.
Siamo costretti ad indietreggiare.
Donovan, che ci precedeva tutti, essendo uno dei due senza prigioniero sulle spalle, cade per primo sotto il fuoco nemico.
Siamo di nuovo nell’enorme stanzone prima delle celle.
Sotto la luce adesso posso vedere che una fila di sedie è disposta a sinistra dietro un lungo tavolo.
Un banco da consolle è alla mia destra, abbastanza alto per potercisi nascondere.
Corro a ripararmi lì dietro, con Johanna sulle spalle, e la adagio sperando di non essere troppo brusco, imbracciando di nuovo il fucile.
Boggs e Viktor sono dietro il lungo tavolo, Peeta e Annie Cresta distesi dietro di loro.
Ribs corre verso di me e adagia il suo prigioniero accanto a Johanna. Di nuovo Effie Trinket.
Non è il momento giusto per chiedere perché diavolo la stiamo salvando e non so davvero se lei e la Mason sono sufficientemente fuori tiro.
 
Dobbiamo uscire vivi di qui, altrimenti sarà stato tutto inutile.
Sapevo dal primo istante che sarebbe potuta essere una missione suicida. E per quanto mi riguardava, non avevo grandi aspettative. Anzi, credevo fosse andato tutto troppo liscio fino a quel momento.
La voce di Boggs si fa sentire di nuovo.
“Walsh, Stacey. È possibile liberare il campo con cimici nane?” domanda.
“Negativo signore, i pacificatori indossano i caschi” sento rispondere Walsh.
“Lanciare fumogeni” ordina allora.
Guardo Stacey lanciare tre bombolette in sequenza nel corridoio, nascondendosi dietro l’angolo.
“Silho” sento chiamare Boggs.
“Sì, signore”.
Poi, negli auricolari, sento un’interferenza e subito dopo altre voci.
“Si sono nascosti nella sala degli interrogatori”
“Sono senza uscita, dov’è la squadra 3? Non si vede niente!”
“Siamo qui, dietro di voi”. La voce di Boggs.
Mi serve qualche secondo per capire che ci siamo appena inseriti nella loro frequenza di comunicazione.
E so che non c’è nessuna altra squadra di pacificatori in arrivo, perché saranno tutti alla sede distaccata del governo, dove Beete è riuscito a far saltare le macchine dell’aria, poste ad intervalli regolari per tutta l’altezza del grattacielo.
“Era ora, qui è un gran casino”
“Siamo in arrivo”
“Prigionieri in fuga. Intrusi nel livello di detenzione. Nessun segno di effrazione. Qualcuno li aiuta da dentro. Il corridoio è pieno di fumo, non riusciamo più a vederli”.
“Fatevi da parte. Ci pensiamo noi” sento Boggs dire.
“Non se ne parla, siamo sul posto. Gli blocchiamo le vie di fuga” reagisce l’altro.
Io blocco anche il respiro, per paura che mi sentano.
“Oppure gliela facilitate” dice Boggs.
“Ehi, ma che diavolo…”
“Ripeto l’ordine. Abbandonate il campo”.
La voce di Boggs è indiscutibile.
“Senti amico, non so chi tu sia…”
“No. Sono io a non sapere chi tu sia. E per quello che mi riguarda potresti essere lì sotto a dare man forte ai fuggitivi. Mi hai appena detto che si sono introdotti con l’aiuto di qualcuno dei nostri. Potresti essere tu. Toglietevi di mezzo. Stiamo lanciando delle granate nel corridoio”.
L’avvertimento sembra funzionare.
Il pacificatore non risponde neppure, ma sentiamo i loro passi allontanarsi rapidamente. Per poi sparire del tutto repentinamente.
Probabilmente hanno sfruttato un passaggio sicuro che non conosciamo.
Non riesco a credere che se la siano bevuta.
 
Ribs ha già in spalla Effie Trinket.
Indossa una canottiera e un paio di coulotte. È talmente svestita che sembra nuda.
Ma non ha lividi.
E io la odio ancora di più.
Per evitare di ucciderla seduta stante, mi volto.
Johanna si sta muovendo, lamentandosi.
Non è possibile che si stia svegliando, ma apre gli occhi e mi guarda.
Mi guarda e rimane di sasso, paralizzata.
Si guarda attorno.
Non è più nella sua cella.
E io non ho la divisa da pacificatore.
Gli occhi sono terrorizzati e dalle pupille dilatate.
Di nuovo nelle orecchie il gracchiare del cambio di frequenza.
“Amici. Usciamo di qui” le spiego tendendole la mano.
Lei non parla, i suoi occhi non si muovono dai miei, nascosti dietro il visore, ma tende una mano.
La isso sulle spalle e ricomincio a correre dietro agli altri.
 
La fuga verso il tetto è fin troppo facile.
I prigionieri svenuti sobbalzano sulle nostre spalle mentre ci muoviamo rapidamente.
Johanna è un peso morto.
Boggs lascia Peeta su una barella e Viktor deposita Annie Cresta su un’altra.
Ribs invece sta lasciando Effie Trinket ad un altro overcraft.
Meglio. Meglio non averla a bordo.
Il pacificatore amico sale con lei.
Spero che la stia mandando a farla torturare da qualche altra parte. Stupida gallina.
Mi avvicino con Johanna sulle spalle e la mano di Walsh mi issa a bordo.
Subito dietro di me Ribs.
“Nove sopra. Donovan perso. Possiamo andare” ordina Boggs.
Io poso delicatamente Johanna sulla barella accanto a Peeta e finalmente mi tolgo il casco.
Lei giace svenuta, gli occhi lividi chiusi, la pelle grigia ed emaciata.
 
“È stato troppo facile” dico a Walsh, grattandomi la testa e sfilando gli auricolari.
Poso il casco a terra.
Tolgo i guanti.
Lascio scivolare il fucile giù dalla spalla.
Scollego il sensore delle mie funzioni vitali.
“Ehi amico! Che ti importa? Siamo a due ore dal 13, dovresti essere contento! Ce l’abbiamo fatta!” esclama.
È un omone dai capelli rossi, con un paio di spalle talmente larghe che forse sono il doppio delle mie.
Ha un sorriso amichevole, e due grandi occhi trasparenti.
“Donovan è rimasto indietro” dico.
Non lo dico con tristezza. È un senso di sconfitta quello che sento.
“Donovan ha fatto il suo lavoro. E meglio morto che in mano a Capitol City. Non ci si lascia prendere prigionieri in questa guerra, Hawthorne” spiega battendomi un paio di pesanti pacche sulle spalle.
“Sì, sì. Lo so” dico.
Ovvio: meglio morti che prigionieri.
Guardo Peeta e Johanna, uno accanto all’altra e vorrei solo vomitare.
 
Quando Katniss lo vedrà dal vivo andrà fuori di testa.
 
Peeta è ancora sotto l’effetto del gas e dorme immobile sulla barella.
Johanna ricomincia a muoversi.
Non so perché me ne sto qui con loro, invece di tornare con gli altri al mio strapuntino.
È come se non volessi lasciare il bottino incustodito.
Cerco di rilassare il collo, ruotando la testa.
Mi massaggio la nuca.
Mi scompiglio i capelli.
Stendo le gambe.
Allungo le braccia e stiro le spalle.
“Non pensavo di essere così pesante, ormai”.
La voce di Johanna mi fa saltare.
“Ehm, no. Effettivamente non lo sei” rispondo, un po’ spaesato.
“Sembra ti sia caricato un bisonte sulla schiena, da come ti stiracchi” mi fa notare.
“Bè, sai, un sacchetto di ossa come te è facile da trasportare, ma piuttosto spigoloso” rispondo.
Lei sorride.
Sorride.
È tumefatta, cinerea, rasata a zero, ricoperta di cicatrici.
E sorride.
L’elettroshock deve averle fuso completamente il cervello.
“Bè, con tutta quella roba addosso neanche tu eri un granché comodo, amico - mi risponde – credo tu mi abbia tatuato la tracolla del tuo fucile sullo stomaco”.
Cazzo.
“Mi dispiace, davvero… io…” farfuglio.
“Ma guarda quanto sei carino quando arrossisci” mi dice.
E sorride di nuovo.
Non so davvero cosa risponderle.
Vorrei trovare qualcosa di sarcastico, qualcosa di spiritoso, qualcosa di intelligente da dire. Credo sia il minimo, cercare quanto meno di alleggerire la situazione.
Invece rimango zitto, incapace di trovare le parole giuste.
Lei mi guarda un altro paio di secondi, seduta sulla sua barella, poi si sdraia di nuovo.
"Sì, sei proprio carino" sussurra.
E ricade nel sonno.
 
È stata l’unica a svegliarsi.
E io ho capito che neanche il gas narcotizzante può far stare zitta Johanna Mason.


note dell'Autrice
ECCOCI!! Per la prima volta in IUA, un pov GALE! Come spiegavo nelle note di inizio capitolo, questo pezzo è nato da una richiesta specifica, ma era un episodio che da sempre avevo in testa per IUA, ovviamente anche se non pensavo l'avrei scritto da questo punto di vista!
Non aggiorno da una vita, lo so, ma sto seguendo un progetto molto ambizioso, che mi porta via la maggior parte del tempo e sebbene IUA abbia uno sviluppo ben definito, non sempre trovo il tempo ed il coraggio di scrivere, correggere e pubblicare. Chiedo perdono.
E ringrazio chi di voi ha continuato a seguirmi e ad incoraggiarmi nonostante il mio lungo silenzio, ma soprattutto ringrazio Vale e Vale, che da SEMPRE mi stimolano e pungolano, nella speranza che io sia meno testona!
Spero vi sia piaciuto e come sempre... lasciate una recensione!
a presto (spero molto prima)
Mor



 
   
 
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