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Autore: Kuri    03/05/2009    0 recensioni
"In fin dei conti è possibile descrivere la differenza tra un'esplosione nucleare piccola e una più vasta con un metodo molto semplice. La caratteristica principale di una bomba nucleare è il bagliore, che è molto più accecante di qualsiasi altra luce sulla terra – più forte anche della luce solare – ed è dalla durata di questo bagliore che riusciamo a determinare la dimensione dell'arma. Dopo l'esplosione una palla di fuoco risale verso il cielo, risucchiando sotto di sé le macerie, la polvere e tutte le cose esistenti nell'area dell'esplosione, e mentre questa sale, è presto riconoscibile il formarsi della famigliare nuvola a fungo. Come dimostrato dai test di durata dei flash, proviamo a contare i secondi di bagliore emessi da una bomba piccola, poi di una di medie dimensioni, e infine di una delle nostre bombe più potenti."
[tratto e tradotto da Breathing, di Kate Bush]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Scritta per la V Disfida de I Criticoni con il bando Invisibile, che doveva essere centrato sul prompt Sei. E direi che tutto si è incastrato meravigliosamente alla perfezione, visto che la storia l'avevo in testa da un po'. Ci ho riflettuto sopra moltissimo, l'ho iniziata più o meno un milione di volte con un milione di forme diverse e alla fine, proprio qualche giorno fa, ha assunto la sua forma definitiva, anche a causa della mia fretta che mi costringe ad adempiere alle scadenze sempre all'ultimo momento.
E di tutti i significati che aveva, e avrebbe potuto avere, forse la dimensione più piena l'ha presa solo nell'ultimo mese, in mezzo a tutti i fatti reali che la vita normale ci mette davanti.
E se dovessi dire cos'è per me Atomic Origami, direi che è la storia di qualcosa di piccolo-piccolo perso in mezzo a qualcosa di grande-grande e che alla fine, malgrado che se ne parli, si strepiti, e si mandino in onda speciali infiniti (ed infinitamente noiosi) su qualsiasi canale della tivvù, dietro una svolta, in un giorno qualsiasi, ci sarà sempre qualcosa di nuovamente piccolo-piccolo e grande-grande che spazzerà via i precedenti piccolo-piccolo e grande-grande, e allora ricordarsene non sarà più un impegno preso da tutti, ma solo un fastidio, e in un minuto di silenzio un sacco di persone si ritroveranno a pensare a cosa prendere al supermercato come spesa per la settimana.
C'est la vie!







UNO: Ricordare



Cosa rimane di noi.
Ci rimane una città.
Un lavoro sempre uguale.
Una canzone che fa sottofondo all’Indecifrabile.
[L'aeroplano, Baustelle][1]



[1945, 5 agosto]


Non aveva sopportato di vedersela comparire di fronte con quel sorriso che non chiedeva giustificazioni e la valigia stretta in mano.
Quella valigia aveva visto così tante strade che la pelle di cui era fatta si era arricciata vicino agli angoli, crepandosi e mostrando il grosso cartone che a stento la teneva ancora in forma. Eppure Shizuka, malgrado le promesse e i sospiri, non aveva mai smesso di riempirla, neppure quella volta.
Sei poteva immaginare che dentro ci fosse anche il suo vestito rosso, quello dalla gonna ampia e vaporosa in stile occidentale e il pensiero le aveva ringhiato dentro come un animale rabbioso.
Era rimasta immobile sotto quel sorriso mentre Yōko alle sue spalle terminava di impartire istruzioni alle ultime ragazze vestite di bianco che salivano sulla camionetta militare. Il chiacchiericcio rapido e secco delle donne copriva il movimento delle jeep nel piazzale frustato dalla pioggia, i rapidi addii dei soldati in partenza, il rumore assordante delle lacrime delle loro compagne che li salutavano per l'ultima volta.
Sei aveva desiderato ardentemente veder scomparire il sorriso dal viso bianco di porcellana di Shizuka sotto l'impatto della propria mano.
Così dirsi addio sarebbe stato accettabile.
«Hai proprio deciso?»
Shizuka aveva annuito con tranquillità. Le palpebre truccate erano calate sui suoi occhi intensi, e Sei per un istante aveva potuto riprendere fiato. Aveva sempre trovato incredibile la capacità della giovane donna di essere perfetta e vezzosa anche in mezzo all'orrore.
«Me lo ha chiesto il capitano Kashiwagi. È una cosa che devo al nostro paese.»
Sei non era riuscita ad impedirsi di risponderle con uno sbuffo di derisione. Il loro paese non aveva bisogno di lei, di nessuno di loro, e quella di Shizuka era consapevolmente solo una bugia. Sei ne era certa. L'unica cosa di cui a Shizuka importasse veramente qualcosa era quel viaggiare ramingo inseguendo il canto. Quando il capitano di fregata Suguru Kashiwagi le aveva chiesto di seguire il battaglione della Marina a Hiroshima per cantare i suoi enka alle truppe lontane da casa, Shizuka non aveva esitato un istante. Sentiva già la pressione del microfono nel palmo della mano, e questo bastava a farla sentire viva.
E poi fuggire le consentiva di sentirsi libera dalla prigionia di quell'isola. L'amore non era stato un legame forte a sufficienza. Almeno, non un amore che aveva perennemente lo sguardo altrove.
In uno dei rari momenti in cui era riuscita ad intercettare gli occhi di Sei li aveva guardati con attenzione e le aveva detto che partiva. Con calma, con una certa grazia compassata nel tono della voce, aveva gettato all'aria il calore degli abbracci e i baci, tutte le parole che si erano dette e ridette sotto il fragore delle bombe.
Sei le voltò le spalle e si incamminò nel piazzale.
Che se ne andasse pure. Ormai aveva perso tutto, perdere anche il conforto di lei non avrebbe potuto peggiorare l'agonia di quei giorni.



L'ospedale militare tendato era silenzioso, tanto da sembrare abbandonato. Non si udivano più i rantoli dei civili e dei militari ricoverati in quel paese quasi raso al suolo. Oppure, più semplicemente, era Sei a non sentirli più, ad essere diventata insensibile al dolore fisico degli altri. Tutto quello che accadeva tra la stoffa sporca rimaneva nascosto come in un bozzolo umido e canceroso. Solo la notte si intravedeva qualcosa, ritagliato dalla luce delle lampade a gas, come figurini neri in un macabro teatro di burattini e ombre cinesi, ma gli occhi erano ormai abituati sfuggire alla consapevolezza dell'agonia.
«Satō-san?»
La voce giunse alle sue spalle bassa e morbida.
«Mizuno-sama.» salutò voltandosi. Le rivolse un sorriso storto, senza guardarla negli occhi «Lo sai bene che non dovresti chiamarmi così. Quelli come me non meritano tanto rispetto.»
Yōko Mizuno si staccò dalla soglia di una tenda poco lontana, dove probabilmente aveva tentato di prendersi cura di uno dei suoi pazienti, e le si avvicinò. Mentre avanzava incrociò le braccia sul petto coperto dal camice bianco e Sei poté vedere una striscia scarlatta di sangue imbrattare quel candore all'altezza del gomito.
Sul viso di Yōko tuttavia aleggiava un sorrisetto di indulgenza divertita.
«Sarebbe più semplice, per te, se ti ignorassi come fanno tutti gli altri? Ti sentiresti sollevata?»
«Il disprezzo si può affrontare con sfrontatezza. La gentilezza mette nelle condizioni di essere grati ed ossequiosi.» rispose Sei con un'alzata di spalle.
Yōko continuò ad accogliere quelle parole con un sorriso, senza accennare al minimo turbamento.
Non era inusuale coglierla in quel tipo di atteggiamento e Sei si chiese come la giovane donna potesse non apparire inopportuna nel suo indulgere sardonico, malgrado la propria condizione e quella del mondo in cui stavano vivendo.
L'orrore era dispiegato sotto i loro occhi come un rotolo di pregiatissima seta cremisi, e soffocava ogni cosa con la sua impalpabile patina irreale. Ogni singolo popolo civilizzato del mondo aveva scoperto di odiare il proprio vicino e tutti erano diventati carne da macello. Non c'era più un solo buco sicuro al mondo dove potersi rifugiare.
In tutto questo, Yōko Mizuno si ostinava a comportarsi come se tutto ciò non avesse alcuna importanza, e lavorava alacremente come se fosse stato ridicolo che la vita e i suoi risvolti pratici dovessero bloccarsi per cose del genere.
Ogni giorno, da tre anni, affondava le mani candide e affusolare nelle ferite infette dei soldati dell'aeronautica della marina giapponese, ospitati in un campo tendato nei pressi di Tokyo, nel tentativo di salvarli, forte di una sicurezza che pochi avevano saputo trovare dentro di sé dopo lo scoppio del primo colpo di mitragliatrice.
Yōko era un'infermiera. In verità Yōko Mizuno era solo l'ultima figlia di un vecchio medico militare. Questo era stato sufficiente per conferirle dell'autorità quando quasi tutti i medici di Tokyo erano stati mandati al fronte per ricucire i corpi dei soldati agonizzanti e quando la devastazione delle bombe era cresciuta a tal misura da richiedere le fatiche delle poche donne che non lavoravano nei campi o nelle fabbriche. Sicuramente l'amicizia con il giovanissimo capitano Suguru Kashiwagi, a cui il padre aveva dovuto ricucire una mano dopo la sua prima mattinata di servizio nell'esercito, l'aveva aiutata ad essere presa in considerazione con maggior serietà all'interno del vasto campo della marina militare, ma non era abbastanza. Da quando i raid sulla città si erano fatti più frequenti, nove mesi prima, il campo era diventato un ospedale per tutti, l'unico luogo in cui andare a morire lontano da quella città che si era tramutata in un tumolo di macerie, sperando in un'ultima ora dignitosa.
Yōko Mizuno allora era diventata un macellaio. Terminava il lavoro che bombe e granate e pallini di piombo facevano su braccia e gambe, imbottiva i moribondi di morfina tanto da togliere loro anche l'illusione della consapevolezza, annunciava alle madri che dei loro figli e figlie non rimaneva più nulla su cui piangere.
Yōko Mizuno era riuscita però a lottare, anche dopo che il suo vecchio genitore era morto, lasciandola sola. I suoi fratelli erano al fronte e le sue sorelle fuggite. Rimaneva solo lei ad occuparsi di tutto quello scempio con ostinazione.
«Non dovresti tornartene a casa, Satō-san? Sono sedici ore che ti trovi qui al campo. Credo che per oggi sia più che sufficiente.»
Sei rispose al sorrisetto di Yōko voltandole le spalle e alzando lo sguardo verso il cielo.
I pochi ciliegi rimasti avevano avuto il coraggio di fiorire anche quella primavera e adesso le chiome sparute si muovevano verdi contro il cielo gravato di nuvole.
«Per quale motivo dovrei andare in quella baracca?» disse con indifferenza, alzando appena le spalle. La camicia kaki da uomo, che le infagottava il busto sottile, sussultò. Yōko rimase a fissarle la nuca candida lasciata scoperta dai capelli trattenuti in alto da un berretto blu.
«Potresti andare a riposare. È da quando...» si bloccò per un istante, attenta alla reazione della donna che si ostinava a non guardarla «È da quando il battaglione è partito che non sei più andata a casa a dormire.»
Sei sbuffò, una risatina amara che le piegò le labbra mentre gettava un'occhiata a Yōko al di sopra della propria spalla. Non incrociò però il suo sguardo. Detestava la capacità di Yōko di frugarle nell'animo impunemente, capendola come se fosse stata un libro per bambini, fin troppo semplice.
«Non c'è molto da riposare. Con questo caldo le pire vanno preparate in fretta e le casse inchiodate subito, altrimenti il fetore dei cadaveri potrebbe arrivare alle narici del nostro celeste imperatore.» si sistemò il berretto sulla testa, lasciando che ciocche irrigidite dalla polvere sfuggissero all'abbraccio del cotone «Per questo devo rimanere qui. Qualcuno deve pur farlo, questo lavoro.»
Una scusa, patetica nella misura in cui si appigliava alla realtà con ostinazione.
Ma a Sei non rimaneva nient'altro che quello. Scuse.
E un aspetto che le gravava addosso come una sentenza ingiusta. I capelli chiari, gli occhi tondi e brillanti, l'altezza esile e longilinea, la condannavano senza possibilità di appello.
Nelle sue vene ristagnava sangue sporco, un miscuglio di razza che si faceva la guerra allo stesso modo degli eserciti nel Pacifico. Giapponese e americana, estranea a qualsiasi luogo, l'unico schermo e alibi che aveva era un vecchio berretto militare sempre calato sul viso.
Era così che Yōko l’aveva trovata, sei mesi prima. Scarmigliata, sporca, il bel viso coperto di fuliggine, mentre rovistava tra quello che rimaneva di una fabbrica distrutta, probabilmente nella speranza di trovare qualcosa di utile da rivendere al mercato nero. Sei doveva aver pensato la stessa cosa di Yōko, perché si era limitata a sorvegliarla di sottecchi mentre la giovane donna arrancava sul cumulo di spuntoni di cemento. Poi quel cappello blu le era scivolato di lato e lunghi capelli chiari le erano caduti sulle spalle. Yōko non aveva aspettato che Sei ricoprisse quella caratteristica che la riempiva di vergogna e le era andata vicino finchè non era riuscita a chiuderle la mano ferma intorno al polso.
Si erano guardate per lunghissimi istanti, poi Sei si era messa a ridacchiare, scostandosi i capelli lerci dalla faccia.
«Vorresti un lavoro vero?»
La risatina di Sei si era interrotta, sebbene un sorriso di derisione avesse continuato ad aleggiare sulla sua bocca. Yōko si era persa ad osservare quel viso così bello e intenso, dai tratti sconosciuti.
«Che tipo di lavoro avresti per una come me?»
Yōko aveva aumentato la presa intorno al suo polso ossuto.
«Non è molto pulito, ma forse è meglio di quello che stai facendo adesso. Avrai un posto dove dormire e mangiare.»
In quel modo Sei era entrata nel campo tendato per la prima volta. Con il viso chino all'ombra della sottile visiera, seguendo Mizuno Yōko che procedeva calma e noncurante tra gli sguardi degli altri medici, delle infermiere e dei soldati rantolanti.


Si erano separate con forza appena avevano udito il ticchettio degli zoccoli leggeri e il lieve bussare sulla porta di legno semplice e squadrata.
Fortunatamente Shizuka non aveva messo il suo consueto rossetto cremisi, altrimenti le tracce su Sei sarebbero state evidenti. Sul viso, sulle mani, su ogni centimetro di pelle che poteva essere adorata.
«Avanti.» aveva detto Sei distogliendo lo sguardo da Shizuka, come se lei non fosse mai stata lì.
La porta si era aperta e Yōko era entrata con passo elastico e sicuro, fino a quando aveva notato la presenza di Shizuka, a proprio agio e sardonica all'interno dell'unica stanza spoglia della casetta di legno.
Le aveva sorriso, inclinando appena il capo.
«Gokigenyo, Kanina-san.»
Anche la cantante le aveva rivolto un saluto garbato ed impeccabile.
«Mizuno-san, buongiorno anche a te.»
Sei era sembrata indecisa su dove andare all'interno della stanza spoglia. C'erano troppi pochi oggetti per poter fingere di essere interessata da qualcosa. Si era quindi voltata verso Yōko e aveva sospirato.
«Cosa vuoi, Yōko?» nel suo tono di voce non c'era stata irritazione, solamente stanchezza.
«Sekiguchi-sensei mi ha chiesto se puoi passare al tempio, questa sera. Ha bisogno di una mano per organizzare la veglia funebre.» le aveva chiesto. Senza neppure aspettare la risposta si era voltata nuovamente verso la porta, gettando un'ultima occhiata in direzione di Shizuka, che aveva contraccambiato quell'indagine lucida e acuta.
«Vecchio testardo...» aveva sibilato Sei tra i denti.
Yōko si era bloccata sulla porta e aveva girato la testa sopra la spalla.
«Fa solo del suo meglio.»
«Con centinaia di corpi che ingombrano quel poco del cortile del tempio che è rimasto intatto, organizzare una veglia funebre è testardaggine, non
fare del proprio meglio
Yōko aveva abbassato gli occhi, ed era rimasta a fissare la propria mano chiusa sullo stipite scheggiato. Shizuka le aveva visto le nocche sbiancarsi e i nervi tendersi sotto la pelle graffiata.
«Purtroppo ci sono delle persone che hanno bisogno anche di questi piccoli gesti di conforto, per poter credere di avere ancora una vita. E Sekiguchi-sensei e gli altri monaci apprezzano moltissimo il tuo aiuto.»
Shizuka si era voltata verso Sei, aspettandosi che replicasse in qualche modo. Sei lavorava al campo solo perché Yōko era riuscita a legarla a quel luogo a forza, sperando che il senso di colpa potesse lentamente dissolversi, mentre l’unico risultato era che lei continuava a dibattersi, come un animale rabbioso tenuto al guinzaglio.
Invece Sei non aveva detto nulla.
«Dì al vecchio che ci sarò.»
Yōko aveva annuito sorridendo, ma senza contentezza. Poi se ne era andata velocemente, seguita dal fruscio della ruvida veste da infermiera.
«Povera Sei.» aveva sussurrato Shizuka appena la giovane donna si era allontanata. Sei si era girata verso di lei. Eppure sul viso di Shizuka non aveva trovato derisione o sarcasmo, quanto piuttosto un'espressione malinconica.
«Perché?»
Sei si era ritrovata inchiodata dagli occhi di Shizuka, mentre questa copriva la distanza che le separava e la avvolgeva in un abbraccio.
«Tanto amata e con così tanta paura di esserlo...» Shizuka si era sollevata appena sulla punta dei piedi e le aveva sfiorato l'angolo della bocca con le dita «Ti rassegnerai mai, Sei? Riuscirai a sentirti a casa da qualche parte, anche solo per un secondo?»
Sei era rimasta immobile. Poi si era lasciata scivolare a terra, rimanendo in ginocchio davanti a Shizuka. Aveva affondato il viso tra le pieghe soffici del suo vestito giallo e le aveva afferrato i fianchi, stringendola ancora più forte contro di sé.
«È per questo che ci sei tu, Shizuka-chan.» aveva sussurrato e Shizuka aveva avvertito il suo respiro lambirla attraverso la stoffa «Canta, ti prego. Mi piace sentire la tua pancia che si muove mentre canti. È così
viva


Il lavoro che Yōko le aveva dato allora, sei mesi prima – e il tempo scandito dalle bombe e dagli spari sembrava essere iniziato da sempre, senza speranza che finisse – ora le sembrava l'unica vera ragione del suo esistere.
Sei si occupava dei corpi dei soldati, o dei pezzi di essi, che lasciavano il campo. La composizione delle salme disintegrate dai mortai, braccia e gambe ormai inutili venivano smaltiti con meticolosità dai suoi gesti attenti. La metà di lei che si sentiva responsabile per tutto quello che le passava tra le mani veniva a patti con la metà che piangeva per ogni singolo brandello di uomo e donna.
«Immagino che tu non abbia intenzione di lasciarmi in pace finché non ti giurerò che andrò a riposare.» la voce di Sei risuonò non più forte di un sussurro tra i rumori del campo.
«Potrebbe essere.» le rispose Yōko annuendo con un sorriso.
«Perché non riesci a rassegnarti con me, Yōko?»
La donna avanzò di qualche passo verso il sentiero tracciato dalle pietre squadrate. Sei la seguì con lo sguardo mentre le passava accanto sorridendo, con quella piega sulla bocca che aveva la resistenza e l'imperturbabilità di uno scudo.
«Ti aspetto domani mattina. E forse, se stasera piove, non ci sarà neppure molto lavoro.» le disse semplicemente con voce tranquilla «Buon riposo, Sei.»
Rimase ad osservarla con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, finché non vide Yōko scomparire all'interno della baracca che ospitava la base centrale, dove erano conservati gli scarsi medicinali e da dove si tentava di organizzare quella mattanza con cui ogni minuto dovevano fare i conti.
Anche lei iniziò ad incamminarsi. Se avesse potuto, avrebbe voluto camminare fino a quando le gambe non le avrebbero più retto, e gli occhi non sarebbero più stati in grado di farle vedere la strada. Forse, da qualche parte, avrebbe trovato un buco dove nascondersi.


Le era andata quasi a sbattere addosso mentre attraversava di soppiatto il vasto spiazzo illuminato dalle scarsa lampade del campo militare.
Stava strisciando come una ladra tra jeep ammaccate e camionette quando le sue mani avevano incontrato qualcosa di soffice e caldo, la consistenza di una carne intensamente viva, avvolta da stoffa frusciante come il vento tra i ciliegi.
Le aveva afferrato gli avambracci con entrambe le mani e se l'era stretta contro, per vedere sotto la poca luce chi aveva interrotto la sua fuga dalle voci allegre che giungevano dal campo, da una tenda spaziosa al suo centro che sembrava pulsare come un cuore scintillante.
«Che ci fai tu qui?» le aveva sibilato addosso non appena aveva scorto il suo sorriso rosso fiamma.
Shizuka non le aveva risposto.
«Dovresti essere lì a cantare.» aveva concluso Sei lasciandole andare le braccia. Malgrado la rabbia nella sua voce, il movimento era stato gentile, quasi si fosse ritrovata tra le mani una bambola.
«Mi ha sostituito una ragazzina, la pupilla di Sachiko Kushiwagi, la moglie del nostro caro capitano del battaglione del Giglio. Malgrado non sia che un uccellino, la sua voce ha molta voglia di farsi udire, non trovi?» Shizuka aveva parlato appena con un sussurro e Sei aveva avvertito contro la propria guancia il calore del suo respiro.
Kanina Shizuka era la cantante più famosa di enka[2] di quel paese distrutto. Quando le bombe avevano iniziato a cadere sulla città, il novembre precedente, Shizuka stava cantando in un locale dalla parte opposta rispetto a dove erano fiorite le prime esplosioni. I colpi sordi che avevano fatto tintinnare i bicchieri degli uomini seduti ai tavolini le avevano fatto ingoiare le note all'istante, ammutolendola.
Da allora, ogni volta che un petalo di metallo cadeva giù dal cielo, la gola di Shizuka si paralizzava. La ragazza dalle labbra scarlatte aveva imparato a giocare con le bombe, come se non fossero stati altro che i balocchi di una bambina capricciosa.
Quando la sua voce perfetta si immobilizzava sotto il rintocco della devastazione, il silenzio vibrante che ne seguiva si propagava negli uomini angosciati che la circondavano come il grido di paura che loro non avevano il coraggio di emettere.
Non voglio morire.
E le parole del canto, gli enka struggenti che componeva, si dilatavano così all'infinito, impedendo che la loro eco potesse avere fine.
Era per quel motivo che, sempre più spesso, il capitano Kashiwagi aveva insistito affinché lei cantasse per le truppe e per i poveri moribondi del campo militare.
«Satō-san...»
«Non chiamarmi così.»
«Sei.» vedeva i suoi occhi che la fissavano nel buio «Perchè stavi scappando?»
Lei si era allontanata e le aveva puntato un dito addosso. Il movimento aveva spinto Shizuka contro la fiancata ferrosa di una jeep, malgrado Sei non l'avesse neppure sfiorata.
«Non è prudente che una come me se ne vada in giro quando i soldati hanno bevuto un po'. Potrebbero farsi venire la voglia di prendersi la rivincita contro...» aveva alzato la mano e indicato il cielo nero e ancora silenzioso «La protezione di Mizuno-sama e di Kashiwagi-san non può garantirmi l'immunità per questa.» l'indice si era piegato verso il suo viso appena visibile.
Shizuka aveva sollevato la mano e le aveva sfiorato la guancia.
«A me piace molto.» le aveva sussurrato vicinissima.
Il suo sguardo era stato intenso e senza equivoci.
Le stava chiedendo qualcosa di vergognoso e immorale, un gesto che nessuna donna per bene dell'intero Giappone avrebbe mai sognato di fare. Ma Satō Sei non era una persona per bene e malgrado l'aria da diva non lo era neppure Kanina Shizuka.
E Shizuka era bella e tiepida, e non aveva voglia di piangersi addosso per quello che stava accadendo. Non avrebbe mai permesso a quegli stupidi uomini che giocavano alla guerra di piegarla, neppure quando si fosse ritrovata con la faccia schiacciata in mezzo alla polvere.
Sei le aveva raccolto il viso tra le mani e l'aveva baciata sulla bocca rossa. Quando Shizuka aveva alzato le braccia per cingerle il collo, Sei aveva sentito il fruscio crepitante della stoffa e l'odore intenso ma buono della pelle sudata della donna.
La sirena dell'allarme aveva iniziato allora a gridare contro la notte.[3]



Il calore all'interno della struttura centrale dell'infermeria del campo era appiccicaticcio e afoso, come bava.
Yōko si passò il palmo aperto della mano sul collo, spazzando via i rivoli di sudore che le cadevano dall'attaccatura dei capelli. L'aria era gravida d'umidità. Forse un tifone si stava preparando oltre la linea della costa, in pieno oceano, di quei tifoni con il vento forte che piegava gli alberi e con la pioggia che percuoteva le imposte chiuse.
La radio posata accanto al suo gomito sul tavolino non ne voleva sapere di emettere un suono udibile, qualcosa che risultasse comprensibile tra il gracchiare indistinto delle frequenze. Forse era colpa del vento che fischiava forte tra i cavi. Oppure non c'era nessuno che avesse qualcosa da dire.
Fuori il campo continuava ad essere schiacciato dallo spesso strato di nubi grigie che non sembrava avere intenzione di lasciare la città.
Si ritrovava sempre più spesso così, immersa nel silenzio tra gli scaffali vuoti dei medicinali.
Ricordava che la prima volta che aveva messo piede lì dentro, le persone che ingombravano la stanzetta dell'infermeria sembravano un unico corpo deforme, contorto da spasmi violenti ed incontrollati. Tutti urlavano per farsi sentire e per impartire ordini, oppure per rendersi utili con le frasi e i gesti più stupidi.
La guerra era appena sbarcata in Giappone e aveva gettato il panico su un paese che non sapeva come reagire di fronte a quella novità mostruosa. All'inizio tutto era stato tamponato con l'industria. Il traffico di corpi e di granate che avevano preso la strada per il Pacifico avevano dato a tutti la sensazione di essere in una fortezza.
Poi era arrivata la sensazione strisciante della morte, della fame, la certezza di essere completamente soli, abbandonati al centro di un'isola da cui non si poteva fuggire.
Il conflitto nel Pacifico aveva dato il via ad una sassaiola in cui l'unica vittima era risultata essere Tokyo. Dalle zone occupate dalle industrie, la distruzione si era allargata verso il resto della città, finchè si era arrivati al punto che non c'era stata notte in cui le sirene non suonassero disperate.
Yōko era persino arrivata a pensare che prima o poi tutto sarebbe finito. Ogni cosa sarebbe stata rasa al suolo, così che gli americani si sarebbero potuti fermare. Ma non era accaduto. Dopo nove mesi la città viveva ancora.
Anche il campo, a suo modo, era vivo.
Poi c'erano momenti in cui ogni cosa sembrava perdere d'importanza. In cui tutti diventava infinitamente piccolo e solo le sciocchezze arrivavano a contare davvero, come a significare che anche una cosa tanto brutta come la guerra poteva non arrivare mai ad ingoiare gli esseri umani fino in fondo.
Era per quel motivo che aveva deciso di dover salvare Sei.
Le sembrava l'unica cosa davvero importante, l'unico motivo per cui sudare, arrotolandosi le maniche fino ai gomiti e gridare tra le esplosioni, gonfiando i polmoni fino a farli dolere.
E il tutto senza un perchè. Ogni gesto che aveva compiuto nella sua giovane vita aveva avuto la traccia di una forte motivazione. L'impronta del suo carattere, della sua volontà inflessibile.
Sei era l'unico elemento impazzito di quel reticolo perfetto. Prima di tutto perchè era una ragazza, come lei, e quello struggimento che le catturava il cuore non doveva esistere. Poi perchè era totalmente priva della volontà di ragionare, istintiva come gli animali.
Sei non voleva riflettere, forse perchè l'impatto della realtà contro la faccia le forniva una risposta molto più che valida per continuare a lottare, malgrado le sue parole.
Yōko invece non ci riusciva.
Quello che le avevano insegnato i suoi genitori, il quartiere in cui aveva abitato, quello che lei stessa era arrivata a pretendere dai propri comportamenti era solo la perfezione.
Ci aveva creduto, con la sua consueta serenità pragmatica e l'acuto spirito di osservazione. Sarebbe stata la giusta attitudine di una donna destinata ad un futuro meraviglioso, a un matrimonio conveniente e ad una vita rispettabile e ammirata da tutti.
Poi era arrivata la guerra e ogni perfezione era svanita, fuori e dentro di lei.
Il baratro e l'incertezza si erano fatti più vicini. Eppure Yōko Mizuno avrebbe potuto sopportare anche quello.
L'incontro con Sei, però, le aveva dato un'altra vigorosa spinta e Yōko si era ritrovata con le punte delle scarpe sospese sull'abisso.
E tra le mani l'unica domanda che le era rimasta.
Che senso ha ogni cosa se non si può avere quello che più si desidera, oltre ogni moralità e giustizia?


Qualcuno aveva caricato un disco su un vecchio grammofono e di tanto in tanto la musica sembrava stiracchiarsi, come un gatto che faceva le fusa brontolando.
Le poche persone rimaste al centro del cerchio di terra battuta, tuttavia, non sembravano preoccuparsi più di tanto per la qualità della musica.
All'interno della tenda bianca c'era un caldo soffocante. Era tardo aprile e il vento si portava via i fiori di ciliegio nella notte, mentre le ultime coppie strappavano ancora qualche momento a quella danza mormorante al centro della tenda. I loro movimenti a volte erano impacciati, ma senza timidezza. La goffaggine era solo la naturale conseguenza di ferite ancora non ben rimarginate che dolevano un po', e tendevano la pelle sotto le uniformi dei soldati, mentre le loro donne lottavano nel tentativo di aiutarli a rimanere in piedi. Era solo un momento, poi tutto sembrava passare.
Forse era il desiderio di normalità ad essere così forte da rendere l'atmosfera soffocante.
Yōko aveva colto con la coda dell'occhio un movimento accanto all'imboccatura della tenda, e si era voltata per controllare, in un automatismo ormai consolidato dai ritmi della guerra.
Sei aveva approfittato delle sue chiacchiere con il capitano Kashiwagi per sgattaiolare verso l'uscita, senza dover sopportare i suoi muti rimproveri, ma all'ultimo momento si era girata per gettare un'ultima occhiata alla pista quasi deserta. Il suo viso era quasi per intero nascosto dall'ombra gettata dalla visiera del cappello blu, e dei capelli chiari Yōko riusciva solo a scorgere la lanugine che le percorreva il collo.
Sei si era voltata nuovamente per farsi inghiottire dalla notte del campo, ma gli occhi di Yōko l'avevano bloccata. L'aveva vista scuotere appena le spalle e muovere le labbra, come se la stesse pregando di lasciarla in pace.
«Ehi, soldato... non è un po' troppo presto per andarsene, senza avermi invitato a ballare?»
Yōko aveva visto Sei sussultare sotto il suono di quella voce che era arrivata calda e suadente fino a lei. Dal buio oltre la tenda era comparso un sorriso vermiglio e uno sgargiante abito rosso dalla strana foggia occidentale. Poi due occhi neri avevano catturato Sei e Yōko era rimasta impotente ad osservare la ragazza bella e sicura che si era avvicinata a lei.
«Io sono Shizuka... mi fai ballare?»
Yōko conosceva la donna che aveva intrecciato le dita della mano sinistra di Sei e le aveva fatto scivolare l'altra intorno ai propri fianchi, come se sotto il berretto di tela fosse davvero nascosto il viso bellissimo di un soldato dagli occhi allungati e con i gradi belli lucidi sulle spalline.
Kanina Shizuka, la cantante di enka più famosa di Tokyo, aveva trascinato Sei sul bordo della pista e lì aveva iniziato a dondolare lentamente, chiudendo gli occhi e appoggiandole la guancia sulla spalla. Sei si muoveva rigida, ma la sua mano indugiava contro la stoffa frusciante, come fosse stato quello il suono che permetteva ai suoi piedi di muoversi.
Yōko aveva potuto solamente seguirle con lo sguardo, mentre le brutte scarpe di cuoio indurito che indossava le sembravano essere diventate di piombo e cemento.



La radio parlò. Era il consueto bollettino di guerra, la cronaca puntuale e crudele di quanto stava accadendo nell'Oceano.
Yōko strinse le mani attorno all'apparecchio. Lì dentro, nella solitudine dell'infermeria, diventava facile far scivolare a terra la maschera di perfetta efficienza e sentirsi solo una ragazzina di diciannove anni. E sentire che c'erano cose ingiuste, che non sarebbero mai dovute accadere. Come il bollettino di quel momento, in cui venivano elencati i giovani uomini dell'aeronautica della marina che avevano perso la vita, lanciando i propri caccia contro le portaerei americane. E poco le importava se tutti gli altri dicevano che era una cosa giusta e buona, e se anche lei nei momenti di esaltazione bellica aveva gridato quelle stesse parole, nel freddo di una serata invernale trascorsa nei rifugi ad accogliere chi scampava alle bombe.
Alcune cose non sarebbero mai dovute accadere, semplicemente. Ma non perchè molte persone morivano, e tutti vivendo nella miseria diventavano simili ad animali feriti.
Odiava quel luogo e quel momento perchè le avevano fatto conoscere Sei e perchè la desiderava, con un'avidità maggiore rispetto a quella con cui aveva imparato la medicina da suo padre o con cui aveva sognato il proprio brillante futuro.
Yōko lasciò andare la radio e si portò le mani alla testa.
C’erano cose che, semplicemente, non sarebbero mai dovute accadere.












[1] Questa stupenda canzone è L’aeroplano, dei Baustelle. Forse non la più geniale, forse non è la più “cervellotica” ma secondo me racconta qualcosa di assolutamente reale, che con la voce stupenda di Rachele diventa ancora più doloroso e bellissimo. È inutile dire che l’ascolto di questa canzone in loop continuo è vivamente consigliata, insieme a Breathing di Kate Bush e ad un’altra canzone stupenda che verrà nominata più avanti.
[2] Riporto quando detto da Wikipedia: “Il termine enka si riferisce a due diversi stili della musica giapponese. Il primo nacque nel periodo Meiji (1868-1912) e fu in voga fino al periodo Taisho (1912-1926). Il secondo, al quale generalmente ci si riferisce usando il termine enka oggi, è un tipo di musica popolare più melodrammatica. Nacque come forma di musica per esprimere dissenso politico, ma perse presto queste caratteristiche per diventare una forma di musica legata a temi come l'amore, la perdita (dell'amore), la solitudine, le difficoltà della vita, e anche suicidio e morte. L'enka è la prima forma musicale che unisce la scala pentatonica giapponese con le armonie occidentali.”
[3] Citazione da Ali scure, dei Subsonica.

   
 
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