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Autore: Flam92    19/09/2016    0 recensioni
Anja, 27 anni, tedesca tutta d'un pezzo e ligia al dovere, ex agente dell'Interpol con alle spalle un passato torbido e sofferto.
Emilie, 25 anni, esponente di spicco delle nuove leve dello S.H.I.E.L.D., con grossi problemi di disciplina e un passato colmo di segreti.
Per un bizzarro scherzo del destino, si ritrovano catapultate l'una nella vita dell'altra, costrette dalle circostanze ad una convivenza forzata. Riusciranno a mettere da parte le loro differenze e i loro rancori, quando la situazione precipiterà e ci sarà bisogno di loro?
Genere: Azione, Demenziale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Nuovo personaggio, Sorpresa, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 3
 
Lost my love, lost my life, in this garden of fear
I have seen many things, in a lifetime alone
Mother love is no more […]

What you see is not real, those who know will not tell
All is lost sold your souls to this brave new world […]

Where is salvation now
Lost my life lost my dreams, rip the bones from my flesh
Silent screams laughing here, dying to tell you the truth
You are planned and you are damned in this brave new world

Brave New World - Iron Maiden
 
- Anja –
 
Triskelion – 8/9 Febbraio 2014
 
            La mattina dopo mi svegliai fresca e riposata come non mi capitava da molto tempo a questa parte. Dopo una corroborante doccia bollente, che rilassò mente e corpo, mi vestii in modo semplice – maglione, jeans e stivali - poi trotterellai in sala mensa, dove vidi Steve con in mano una tazza di caffè. E le ciambelle. Tante ciambelle. Il mio stomaco brontolò e ne afferrai una al volo, sedendomi di fronte all’uomo.
Dopo i convenevoli di rito, gli domandai se potesse farmi avere la lista dei colleghi con cui Emilie aveva lavorato per almeno due settimane: le missioni saltuarie non erano significative per i miei fini.
 
            “Signorina Blackwood, ecco quello che mi aveva chiesto”, esordì, posando l’elenco sul tavolo accanto alla mia tazza di caffè, circa venti minuti dopo la nostra conversazione.
“Caspita, che velocità! La ringrazio molto, Capitano, ma mi chiami pure Anja”, risposi con un sorriso, per poi alzarmi e rimettere in ordine dove avevo mangiato.
“C’è un qualche posto in cui potrei tenere i colloqui? Magari con una saletta in cui far accomodare questi agenti? Ho bisogno di riservatezza, anche perché non voglio che Emilie venga a saperlo.”
“Naturalmente, Anja. Prego, da questa parte”, replicò, facendomi strada con un cenno del braccio, “Se vuole, mi chiami pure Steve.”
“Sono di nuovo in debito con lei, Steve. È veramente molto gentile da parte sua provvedere ad ogni cosa.”
“Nessun problema, davvero”, ribadì usando la mia stessa espressione del giorno prima, al che non potei trattenere un sorriso divertito. Il vecchio ragazzone si stava sciogliendo un po’, finalmente.
 
            Tra gli incontri della mattina e quelli del pomeriggio mi ci vollero quasi sei ore per spuntare ogni nome della lista –che contava circa una quindicina di nomi; l’orologio a parete segnava le sette e quarantacinque, quando congedai l’ultimo agente. Gott im Himmel! Non ne potevo più, ero davvero sfinita. Non ricordavo che potesse essere così stancante fare dei colloqui, che fosse tanto difficile ottenere risposte precise a domande parimenti specifiche, ma alla fine avevo raggiunto il mio scopo e avevo la valutazione obiettiva che Nick pretendeva.
Tornando nella mia stanza mi venne spontaneo ripensare al primo colloquio che avevo tenuto dopo mangiato, quello con il compagno di allenamenti di Emilie. Mi era sembrato, tra tutti, quello che la conoscesse meglio e che sapesse come arginare gli scatti d’ira che la coglievano spesso…
 
            - “Prego, si accomodi. Può fornirmi nome e cognome, per favore?”
“Agente Mark Green, Signora”, aveva risposto lui, prendendo posto davanti a me.
“Mi dica, agente Green, da quanto tempo lavora con l’agente Barton? La prego di essere preciso e sintetico nelle risposte e di mantenere il più stretto riserbo, su questa conversazione.”
“Sì, Signora, non mancherò di farlo. Allora… lavoro con Emil… con l’agente Barton da circa tre anni. All’inizio erano missioni saltuarie, non duravano più di qualche giorno, poi abbiamo cominciato a fare squadra fissa.”
            L’aveva chiamata per nome, prima di correggersi e riferirsi a lei col suo grado… Interessante: implicava un rapporto non solo professionale, ma personale, più intimo.
“Capisco”, lo interruppi con un cenno della mano, “E mi dica: ha notato qualche differenza lampante tra l’agente Barton di tre anni fa e quella di oggi? Mi sembra di capire che lei sia quello che la conosce meglio.”
“Beh, sì, è così. All’inizio era precisa, equilibrata, sapeva valutare i rischi, i pro e i contro di decidere per conto suo. Non avrebbe mai messo in pericolo il suo partner o la sua squadra. Ma… ma quando ha scoperto che ha sempre avuto i genitori, che credeva morti, accanto a lei, è andata fuori di testa, se mi passa l’espressione.”
            Annuii comprensiva: “Quindi secondo lei è questa la causa scatenante del suo comportamento odierno? E… non sa se qualcuno ha provato ad aiutarla a superare il trauma?”
Lui si agitò sulla sedia, poi rispose: “Sì, signora, ne sono convinto. Prima di ricevere quella notizia era tutta un’altra persona. Inoltre”, proseguì dopo aver riflettuto un attimo, “Credo che il direttore l’avesse affidata ad una persona esterna per cercare di rimetterla in carreggiata. A parte questo, non so altro.”
            Andai avanti ancora per un po’ con altre domande più generali, come per esempio il suo stile di lotta, se ne avesse imparati di diversi, come si comportava durante le sedute di addestramento e le esercitazioni.
Green fu sempre puntuale nelle risposte, perciò dopo circa mezz’ora lo congedai.
“Basta così, agente Green, la ringrazio”, gli dissi alzandomi e stringendogli la mano, “Quello che mi ha detto è abbastanza. Può mandarmi dentro il prossimo collega, quando esce, per favore?”
“Sarà fatto, Signora.” –
 
            Passai una buona parte della serata –saltando persino la cena- a mettere tutto in bell’ordine, pronto per essere consegnato a Nick l’indomani mattina. Ero talmente concentrata su ciò che stavo facendo che persi del tutto la cognizione del tempo. Mi fermai solamente quando cominciai a risentire di un fastidioso mal di collo: erano quasi le dieci e trenta. Decisi perciò che potevo concedermi una libera uscita serale, visto che non era poi così tardi.  Quella mattina avevo notato un locale poco distante dal mastodontico edificio in cui mi trovavo, un pub irlandese che avrei potuto raggiungere con una passeggiata a piedi.
            Recuperai cellulare, portafogli e documenti, li infilai in una tracolla e uscii così com’ero: jeans blu aderenti, maglione nero a pois bianchi, stivali alti di cuoio color pece e giubbotto da aviatore grigio fumo, i capelli per una volta sciolti. Non sarò stata una visione celeste, ma che cavolo, ero stanca e faceva pure freddo.
 
            La mattina seguente, nonostante avessi dormito poco la notte precedente, ero pronta e attiva a tempo di record. Alle nove e trenta bussai alla porta dell’ufficio di Nick; non attesi la sua risposta, sgusciai dentro e richiusi l’uscio alle mie spalle.
            “Primo aggiornamento, e se lavorassi per te, questo sarebbe il momento in cui chiederei un aumento. Comunque… Tutti gli agenti mi hanno dato la stessa versione dei fatti, che è concorde con quanto ho letto nel suo dossier e con quello di cui abbiamo parlato venendo qui. Detto ciò, su questa pen-drive ho registrato tutti i colloqui che ho sostenuto. Ora dimmi tu cosa vuoi farci.”
“Sono impressionato, Blackwood. Hai battuto ogni record”, commentò asciutto Nick, elargendomi però un’occhiata ammirata, quindi proseguì: “Per adesso mi limiterò a guardare le registrazioni e leggere il profilo che hai stilato, ma non la convocherò, non ancora. Oggi pomeriggio, ore due in punto, te la mando in palestra. Fatti trovare già là. Hill vi porterà qui ad allenamento finito, così mi dirai cosa ne pensi della Barton anche sotto il profilo pratico.”
“D’accordo, Nick, anche se, ad essere onesti, quello che ho visto ieri in palestra non mi è piaciuto affatto.” Incrociai le braccia al petto ed espirai rumorosamente, mentre scuotevo la testa: “È un difetto che ho riscontrato anche nel partner della Barton e in altri agenti: sono tutti troppo prevedibili. Se posso farti un appunto, Nick, voi gli date solo le basi del corpo a corpo, ma non gli insegnate né la tecnica, né diversi stili. Dopo solo cinque minuti, avevo già capito il modo di combattere di quei due.”
            “Lo terrò a mente. La Barton fungerà da esempio: plasmala come meglio credi. Se mi riterrò soddisfatto, estenderemo il tuo metodo anche agli altri. Ora va’ pure, se non c’è altro.”
“Al momento non ho niente da aggiungere. Ci vediamo oggi pomeriggio, Nick.”
 
            Trascorsi il resto della mia mattinata libera leggendo, per forse la decimilionesima volta, “Il Ritratto di Dorian Gray”. Non potevo farci nulla: quello era il mio libro preferito e mi attirava come una calamita attirava il ferro. L’avevo letto per caso quand’ero una quindicenne fissata coi libri e da allora non ero mai più riuscita a smettere. Era l’unico romanzo che avevo portato con me in ogni viaggio che avevo fatto, che fosse stato di lavoro o di piacere non aveva mai avuto importanza. A dodici anni di distanza, esercitava su di me ancora lo stesso fascino.
Dopo un po’ abbandonai la lettura e mi strofinai gli occhi stanchi, un gesto che avevo fatto anche la sera precedente al pub, il che mi rimandò l’immagine di Emilie in compagnia di un grosso tizio barbuto…
 
            Non appena avevo messo piede lì dentro, le teste di tutti si erano voltate verso di me. Se c’era una cosa che davvero odiavo con tutta me stessa, era proprio essere al centro dell’attenzione. Siccome non potevo farci nulla, oltre a pestarli tutti, ovviamente, mi diressi verso il bancone, intanto che mi toglievo la giacca.
            Quel pub non era enorme: un bancone a ferro di cavallo a destra dell’ingresso, tavoli sull’altro lato, e la parete dietro questi era un’unica vetrata. Il soffitto era di legno con le travi a vista e dietro il bancone le mensole erano colme di alcolici, mentre la birra veniva servita solo alla spina.
            Mi accomodai nell’angolo tra muro e bancone, così da avere una perfetta visuale della sala; abbastanza vicino all’ingresso notai la capigliatura rosso fuoco di Emilie, e le spalle alquanto ampie e ben messe del suo accompagnatore. Mentre ordinavo un whisky doppio –rigorosamente scozzese- sentii un certo trambusto e mi voltai, un’espressione abbastanza scazzata dipinta in faccia. Possibile che in una sera infrasettimanale ci sia così tant- oh, momento, che ridere! L’amico della rossa mi fissa molto antisgamo e lei ce l’ha a morte! Per la foga di farlo girare, Emilie si era stravaccata sul tavolo a mo’ di balena spiaggiata. Naturalmente, ogni singolo individuo nel locale li stava fissando, chi sogghignando, chi scrollando la testa.
            Nonostante sperassi di potermene stare nel mio cantuccio a bere whisky tranquilla e felice –diamine, anche una ragazza vuole i suoi momenti di calma!- la processione di tizi assolutamente anonimi verso il mio sgabello mi disse che, sì, ero l’attrazione della serata. Oh, verdammt!
Tutti quegli omuncoli con la bava alla bocca smaniavano, chi più, chi meno, per avere le mie attenzioni. Risultato? Avevo bevuto tra i sette e i dieci whisky doppi, circa metà dei quali gentilmente offerti dai miei “nuovi amici”. Ribadisco: verdammt!
            Poco dopo la fastidiosa muta di mastini sbavanti –che c’è, ragazzi, mai vista una donna in un pub a bere whisky?- mi lasciò in pace, così che fui libera di concentrarmi sul bicchiere e di curiosare qui e là per la sala, scoccando qualche occhiata curiosa verso il tavolo di Emilie. Cavoli, tra tutti e due avrebbero fatto la fortuna delle distillerie di mezza Europa, oltre al fatto che i loro fegati meritavano una medaglia d’encomio e una menzione d’onore per l’eccezionale sforzo. Passasse il tipo –il gran bel tipo- che era con lei, ma non avrei mai immaginato che Emilie avesse una tale resistenza all’alcol, men che meno che avesse un buco nero al posto dello stomaco.
            Quando sentii il mio fondoschiena protestare vivacemente per il troppo tempo trascorso su uno scomodo sgabello, decisi che era ora di tornare al Triskelion Afferrai il giubbotto e la borsa, andai a pagare le -poche- consumazioni che non mi erano state offerte e mi diressi in tutta calma verso la porta; mi fermai circa all’altezza del tavolo di Emilie per indossare la giacca, e già che c’ero scoccai un’occhiata plateale in quella direzione: sì, il compagno di bevute della mia futura pupilla era davvero un gran bell’uomo.
            Non feci tempo a fare mezzo passo che il più insistente dei tizi che avevano cercato di abbordarmi quasi incespicò e cadde, pur di arrivare prima di me alla porta e tenermela aperta. D’accordo, tre hurrà per la cavalleria, ma… sul serio?!
            Scrollai la testa e me ne andai impensierita. Sono davvero curiosa di vedere come sarà Emilie domattina… chissà quanto ci mette a smaltire questa colossale sbronza…
Ridacchiai tra me e me, ma fu per non piangere, visto in che razza di situazione m’ero cacciata.
 
            Andai a mangiare un boccone verso mezzogiorno, così da avere tutto il tempo per digerire prima del grande scontro. Non ci tenevo minimamente a vomitare l’anima per un colpo ben assestato al plesso solare. Durante il tragitto ripensai a quanto accaduto al pub, e di nuovo mi misi a ridere tra me e me.
Fortunatamente la mensa era vuota: meglio un po’ di sana solitudine, non ero in vena di chiacchiere, né di vedere gente che mi avrebbe tagliato i panni addosso senza sapere un accidente della sottoscritta.
            Ritornai in camera subito dopo aver pranzato, e non appena varcai la soglia diedi un’occhiata alla sveglia sul comodino: segnava l’una meno un quarto. Con tutta calma recuperai dal borsone un paio di pantaloni neri da ginnastica, abbastanza aderenti da non svolazzare in giro, ma non troppo stretti da impacciarmi nei movimenti. Levai la T-Shirt che avevo indossato quella mattina e mi infilai una canottiera pescata a caso dal mucchio: la sorte volle che fosse quella con la stampa della cover di “Dance of Death”, uno tra gli album che preferivo degli Iron Maiden. Il mio gemello burlone mi aveva regalato CD e canotta un paio d’anni prima, al mio – nostro - compleanno. Infine, calzai un paio di vecchie Converse sformate e mi diressi senza indugio in palestra, ripassando, durante il tragitto, le mosse di Emilie.
 
            Mi piazzai al centro dei tatami con ben trenta minuti di anticipo sull’orario previsto, perciò sfruttai quel tempo per fare qualche esercizio di yoga e un po’ di stretching.
Intanto, nella mia mente continuavo a vedere e rivedere come un film tutto il combattimento del giorno prima, focalizzandomi solo sui movimenti di Emilie. Ripetei ancora una volta a mezza voce la sequenza che avevo imparato: “Sbilanciare, fintare, attacco, attacco, finta, parata, attacco e via di seguito.”
            All’una e cinquantacinque potevo dirmi pronta e soddisfatta della strategia che avevo messo a punto: mi serviva solo come linea guida, in realtà, perché molto di ciò che facevo in un corpo a corpo lo lasciavo all’istinto. Era una questione di elasticità, sia fisica che mentale, una lezione che mi era costata sudore, sangue e fatica, ma di cui alla fine avevo colto i frutti, come il mio sensei aveva promesso.
Rifeci lo chignon, assicurandomi di stringerlo bene, e mi voltai verso la porta.
Non dovetti attendere a lungo.
 
- Emilie -
 
9 Febbraio 2014
 
            Entrai con quello che voleva essere un passo deciso in palestra, la chioma rossa che ondeggiava ovunque mentre camminavo, finendomi davanti agli occhi. Purtroppo non sapevo se fossi riuscita ad ottenere il risultato che avevo sperato: mi ero alzata tardissimo, coi postumi della sbronza della sera precedente, e il mondo che mi girava attorno. Mi fermai di colpo a pochi metri di distanza da una donna che non avevo mai visto: capelli castano scuro raccolti, occhi grigi addirittura più glaciali dei miei, con un’espressione severa e lo sguardo granitico, quasi incazzato. Se ne stava lì, a fissarmi austera, dritta come un fuso, quasi volesse sembrare più alta e minacciosa. Cos’è, non le bastava il suo metro e ottanta? Ad ogni modo, mi superava di soli cinque centimetri.
            Si avvicinò senza smettere di fissarmi negli occhi, che ridussi a due fessure mentre ricambiavo squadrandola con altrettanta attenzione. Si muoveva flessuosa e fluida, e ci misi davvero poco a intuire che quella doveva per forza essere la risorsa di cui parlava Fury. Dunque era una donna, e non doveva essere molto più grande di me: poteva avere al massimo trent’anni a giudicare dalla pelle liscia del volto e dalla tonicità dei muscoli che si intravvedevano sotto quella canottiera di un concerto. Iron Maiden ad un combattimento, sul serio?! Quasi quasi vado a mettermi quella degli AC/DC…
            Mi riscossi dalle elucubrazioni mentali su quella tizia quando aprì bocca per dire con tono piatto: “Capitano Anja Blackwood. Il tuo capo mi ha incaricato del tuo riaddestramento.”
“Ah-ha”, sbuffai con fare strafottente, “Scommetto che scapperai a gambe levate prima di sera, Capitano Anja Blackwood.”
“Credimi, ragazzina, non hai la minima idea di quanto possa essere dannatamente testarda la sottoscritta. Sono tedesca, bastardaggine e ostinazione le ho nel DNA. Ora, Anna dai Capelli Rossi, vogliamo cominciare?” Ma chi diavolo si credeva di essere?!
            Prendemmo posizione e cominciammo a girare in cerchio; buttai una rapida occhiata attorno e notai che si era radunata una piccola folla.
            Dal nulla, Anja si slanciò in avanti, così balzai indietro leggermente presa alla sprovvista, ma sufficientemente all’erta, schivandola. Purtroppo la mia testa mi voleva davvero male quel giorno, e quasi persi l’equilibrio. Decisamente non era il pomeriggio migliore per uno scontro. Strizzai gli occhi per rimettere a fuoco l’avversaria e mi ci lanciai addosso con l’intento di atterrarla. Peccato che quella si spostò all’ultimo, piantandomi pure il suo gomito appuntito in mezzo alle scapole.
            Caddi. Di faccia. Sulla rigida superficie del tatami. Imprecai da quella posizione, il naso faceva un male porco, ma almeno avevo acquistato una certa lucidità. E non poca rabbia nel vedere l’espressione soddisfatta da gatto sornione dipinta sul volto della Blackwood.
            Riprendemmo la posizione e di nuovo girammo in cerchio. Caricai il colpo per sferrarle un montante al plesso solare in modo da farle cambiare espressione, e di nuovo schivò, ma riuscii a sfiorarle il costato. Mi spinse via il braccio, ruotò spostandosi dietro di me e mi beccai un calcio dritto sui reni. Mi voltai di scatto, ma quella aveva deciso di non darmi tregua: si era già slanciata in avanti e non riuscii a parare la ginocchiata al torace, poi mi spinse malamente a terra. Di nuovo.
            “Dannata bastarda figlia di puttana!” sbottai rialzandomi, decisamente incazzata.
“Non potrei essere più d’accordo, in effetti”, replicò serafica, “Hai dato una descrizione davvero esauriente della sottoscritta.”
             Ripartii alla carica con l’intento di spaccarle almeno un osso: finsi un gancio destro per assestarle una gambata al fianco, ma la parò. Quindi provai a farle perdere l’equilibrio, mirando al ginocchio, ma quella donna era più sfuggente di una biscia e schivò; senza darmi per vinta presi a colpirla come fosse un sacco da boxe, e finalmente feci breccia nelle sue difese: un pugno alla spalla destra e uno al torace, poco sopra al diaframma, che le tolse il fiato. A quel punto aveva fatto un passo indietro, ma l’avevo caricata a testa bassa e sbattuta a terra, come avevo visto fare solo ai wrestler. Soddisfatta, la degnai dello stesso sguardo che mi aveva riservato appena pochi minuti prima. Potevo vedere il fuoco bruciare in quegli occhi grigi.
            Quando si tirò su, non le diedi il tempo di reagire: la presi per un braccio, la sbilanciai lanciandomela alle spalle e, ruotando, la rispedii a terra facendole la vecchietta. Anja però fece una capriola, sfruttando lo slancio, e si rimise in piedi prontamente, alzando la guardia e invitandomi ad attaccarla di nuovo, con sguardo di sfida.
            Colsi al volo l’occasione per fintare un colpo al fianco per poi sferrarle un destro micidiale, ma lei si abbassò di scatto, facendomi lo sgambetto con la gamba tesa, e al contempo tirandomi una testata sullo sterno. Caddi con ancora gli occhi sgranati per lo stupore, ma non era finita: la Blackwood stringeva ora le mie gambe in una morsa e mi teneva i polsi oltre la testa.
            La incenerii con uno sguardo e provai a divincolarmi con un colpo di reni, dato che non riuscivo a raggiungere la sua schiena con una pedata, ma nessuno dei tentativi che feci diede frutto. Quando tentai di rotolare per invertire le posizioni e rialzarmi, mi beccai una testata poco sopra il naso.
“Lurida troia!” urlai, sia per il dolore che per la rabbia.
            Notai subito che si era alzata – non sentivo più il suo peso - e portai le mani alla testa dolorante. Mi alzai barcollando e di nuovo la placcai come un rugbista; perdemmo entrambe l’equilibrio, e la sentii espirare tutto il fiato che aveva in corpo. Doveva aver battuto per bene la parte alta della schiena, all’incirca dove ci sono i polmoni. Quando ci rialzammo, partì lei all’attacco: una manata di taglio al collo, che schivai per un soffio; un altro colpo diretto al plesso solare, che non vidi arrivare in tempo, ma che attutii stringendo gli addominali. Quindi iniziò a tempestarmi di colpi, sembrava quasi stesse utilizzando lo Stile della Gru da come teneva e muoveva le mani e il corpo. Non potevo pararli tutti, così mi sottrassi a quella raffica con un salto indietro e una capovolta. Quest’ultima me la sarei potuta risparmiare, dato che erano apparsi dei puntini luminosi nel mio campo visivo e mi aveva mandato lo stomaco in leggero subbuglio. Tuttavia sortì l’effetto desiderato: avevo guadagnato la distanza di sicurezza.
            Partimmo insieme all’attacco, fintammo entrambe e ci colpimmo a vicenda: sentii le mie nocche impattare contro sue costole, e seppi di averle fatto discretamente male, ma anche lei mi aveva centrata con un colpo allo sterno, appena sotto la gola. Un poco più sopra e addio trachea.
            Sentii la donna tossire, soffocando un’imprecazione nella sua lingua madre. Quando mi voltai, vidi che anche lei si stava girando, asciugandosi le mani sui pantaloni scuri.
“Direi che per oggi abbiamo finito” disse tra uno sbuffo e l’altro.
“Proprio ora che iniziavo a divertirmi…” commentai, ansimante quanto lei.
Nell’esatto momento in cui stava cercando di ribattere, sicuramente con una qualche frecciatina, apparve di fianco a noi la Hill, quasi fosse spuntata da sotto il pavimento o apparsa dal nulla.
“Se non ho capito male, avete finito, giusto, Anja?” attese un cenno d’assenso da parte sua prima di continuare: “Bene, il direttore vi aspetta di sopra.”
“D’accordo, Maria. Dacci un attimo per sistemarci e arriviamo”, rispose la Blackwood.
Mi attaccai alla bottiglia dell’acqua come se ne andasse della mia vita: morivo di sete, davvero. E com’era che quelle due si chiamavano per nome?
            Una volta tornate vagamente presentabili – lividi a parte, ci eravamo tamponate quel po’ di sudore che eravamo riuscite ad asciugare - seguimmo Maria per quel maledetto dedalo di corridoi che era il Triskelion, prima verso l’ascensore e poi dritte all’ufficio di Fury.
            Mentre uscivamo dalla palestra avevo sentito diverse voci e commenti, fra cui svariati complimenti per le capacità del CapitanoAnjaBlackwood. Feci una smorfia e la osservai con la coda dell’occhio: stava davvero gongolando? Alzai gli occhi al cielo. Facesse pure a meno di vantarsi e inorgoglirsi: la sera prima, al pub con Zio Logan, mi ero presa una bella sbronza dovuta alla quantità di alcol ingerito e alla varietà di bevande che mi ero tracannata, quindi non si può certo dire che mi fossi battuta al massimo delle mie forze, capacità e concentrazione. Per questo era riuscita ad anticipare così tanto le mie mosse.
            Fu solo quando si sciolse i capelli per riavviarseli che capii di averla già vista: era la tipa del bar!
 
- Anja –
 
          Quando sciolsi lo chignon per ravviarmi i capelli e raccoglierli in una coda un po’ meno tirata, sentii Emilie trattenere un mezzo respiro: quasi certamente doveva aver realizzato che la donna al pub, la sera prima, ero proprio io. Soffocai un risolino, quando con la coda dell’occhio notai la sua espressio-ne stupita, che si accigliò poco dopo. Probabilmente, riflettei, sentire commenti lusinghieri nei miei con-fronti l’ha infastidita non poco. Oh, sarà un calvario lungo e doloroso, poco ma sicuro.
            Mi strinsi il costato con entrambe le mani, massaggiando il punto in cui Emilie mi aveva colpito: avevo sperato di non vedere più quelle goccioline di sangue che invece m’ero ritrovata sulla mano, dopo aver tossito per la botta presa. Cazzo, devo starci attenta, visto che succede ancora… E dire che credevo fosse definitivamente passato.
            Maria ci disse di aspettare fuori dall’ufficio della malefica cornacchia; la donna sgusciò dentro, sentimmo qualche borbottio sommesso e poi uscì, dicendoci che potevamo entrare.
“Prego”, feci cenno ad Emilie di entrare prima di me. La ragazza mi guardò storto, ma mi precedette senza aprire bocca. Notai che si era irrigidita di punto in bianco e questo poteva voler dire due cose: o aveva una paura dannata dell’uomo che ci fissava da dietro l’enorme scrivania, oppure era incazzata a livelli inimmaginabili. Molto presto, in ogni caso, avrei scoperto qual era l’ipotesi corretta.
             “Accomodatevi, signore”, esordì Nick, facendoci cenno di prendere posto sulle sedie davanti a lui.
Emilie sedette, mentre io preferii restare in piedi, le mani dietro la schiena, appoggiandomi appena all’angolo della scrivania.
“E adesso che c’è di nuovo?!”, sbottò Emilie seccata. Buona la seconda ipotesi, Anja…
Nick le scoccò un’occhiataccia da incenerire Smaug il drago seduta stante. Tuttavia, quando le rispose, il tono era ingannevolmente calmo: “Il capitano Blackwood ieri s’è data da fare e ha sostenuto dei colloqui con i suoi colleghi, agente Barton. Colloqui che, ho avuto modo di appurare personalmente, hanno dato un esito -”
“Desolatamente deprimente. E non poco preoccupante, aggiungerei”, conclusi io per Nick.
“E allora?”, replicò la Barton inviperita, ma Nick provvide subito a zittire quella lingua lunga.
“E allora, agente Barton, se non vuole che le cuciamo letteralmente la bocca – e sa che lo faremmo- le consiglio caldamente di starsene zitta e buona. O mi vedrò costretto a legarla alla sedia.”
          Emilie avvampò e si morse le labbra, chiaramente in imbarazzo, ma perlomeno ebbe la decenza di sigillare quella boccaccia, pur scoccandoci occhiate di fuoco.
“Nick, faresti partire i video, per favore?”. Mi feci dare il telecomando del grande schermo che scese di lì a poco; mandai avanti, cercando il colloquio con Green.
“Ora, ascolta con attenzione”, mi rivolsi a Emilie, “questo è solo il primo di una lunga serie di commenti molto poco lusinghieri.”. Feci quindi partire la parte che mi interessava.
 
- “E mi dica: ha notato qualche differenza lampante tra l’agente Barton di tre anni fa e quella di oggi? Mi sembra di capire che lei sia quello che la conosce meglio.”
“Beh, sì, è così. All’inizio era precisa, equilibrata, sapeva valutare i rischi, i pro e i contro di decidere per conto suo. Non avrebbe mai messo in pericolo il suo partner o la sua squadra. Ma… ma quando ha scoperto che ha sempre avuto i genitori, che credeva morti, accanto a lei, è andata fuori di testa, se mi passa l’espressione.” –
 
         Mentre la conversazione nel filmato procedeva, vidi stupore, rabbia e fastidio susseguirsi sul viso di Emilie: non credo si aspettasse una risposta così secca da quello che probabilmente reputava un amico, là dentro.
“E non è tutto. Un altro parere che mi ha dato da pensare è stato quello dell’agente O’Neill”. A sentire quel nome, la ragazza borbottò una serie di insulti diretti alla malcapitata collega. Di nuovo, cercai e feci partire la parte che mi interessava.
 
- “Mi, dica, agente O’Neill, ha riscontrato cambiamenti significativi nel comportamento dell’agente Barton?”
“Ci può giurare! È ammattita tutta d’un colpo. Ha preso a comportarsi come se fosse superiore alle regole, ha messo in pericolo chiunque lavorasse con lei. Per colpa sua mi hanno sparato! Il proiettile mi ha quasi reciso un’arteria…”
“Perché siete arrivate a questo punto?”
“Perché quell’idiota ha ben pensato di caricare un gruppo di mercenari, armati fino ai denti, come se fosse un ariete. E io, per coprirla ed evitare di morire in due, c’ho quasi rimesso le penne.” –
 
      “Tutti gli altri colloqui hanno dato lo stesso esito. Qualcosa da obiettare, agente Barton?” domandò Nick tranquillo, mentre io spegnevo lo schermo e posavo il telecomando dietro di me.
“Ho lavorato con un branco di polli cagasotto”, fu il quanto mai pittoresco e asciutto commento della ragazza, che proseguì imperterrita: “Senza contare che Sheila O’Neill è una bugiarda patentata.”
       A questo punto, intervenni io: “Il braccio al collo e la scapola tenuta insieme da due placche di titanio sembravano alquanto realistici, a detta dei vostri medici. In più, ho passato al vaglio i rapporti di ogni singola missione che hai effettuato negli ultimi due anni… Sei una mina vagante e un pericolo per chiunque, te inclusa. Manchi di buon senso, non hai il benché minimo rispetto per l’autorità, non c’è alcuna considerazione nei confronti dei tuoi colleghi, né hai un minimo di amor proprio e umiltà. Persino il Capitano Rogers è d’accordo con loro. Come dicevo prima, un panorama davvero desolante.”, conclusi asciutta.
        Avvampò di nuovo, ma questa volta era rabbia al calor bianco quella che dardeggiava nei suoi occhi. Oh, sì, tolleranza zero per le critiche. Di bene in meglio, direi.
Nick tuttavia intervenne prima che la Barton potesse replicare in qualunque modo: “Non provare a fiatare finchè questa conversazione non sarà conclusa, agente Barton. Blackwood, per quanto riguarda il profilo pratico, qual è la tua opinione?”. Nonostante la domanda fosse rivolta a me, era Emilie quella che il suo occhio buono fissava con fare inquisitorio, una muta sfida a contrastare apertamente la sua autorità. Emilie aprì la bocca, ma la richiuse di scatto quasi subito.
     “L’aspetto pratico è un po’ il tallone d’Achille di tutti i vostri agenti, ma tu”, dissi con enfasi, rivolgendomi direttamente a lei, “sei un caso disperato. In un manuale dovrebbero mettere il modo in cui combatti e scriverci sotto  ‘Cosa non fare in uno scontro corpo a corpo.’ Sei la prevedibilità fatta perso-na, pur avendo una buona tecnica di base, questo te lo riconosco. Ma per il resto…”
“Ma sentila, la gran donna!”, m’interruppe la Barton, incazzata nera, “Chi cazzo sei per dirmi come sono e come combatto? Eh?! Pretendi di sapere tutto di me e te la tiri come se fossi l’unica competente qui dentro! Mi fai schifo, brutta troia maledetta!”
      Mentre sbraitava come un’ossessa mi appoggiai più comodamente alla scrivania e scrollai lieve-mente la testa alla volta di Nick, invitandolo a non intervenire e a lasciarla fare. Incrociai le braccia al petto e inarcai un sopracciglio, aspettando che le passassero i cinque minuti.
Una volta che tacque, mi limitai a commentare: “Hai finito? E, suggerimento per gli insulti prossimi fu-turi alla sottoscritta: sii più creativa, me ne hanno detti di peggiori all’Interpol. Puoi fare di meglio, ne sono certa.”. Vedere l’espressione da pesce rosso boccheggiante stampata sul viso di Emilie fu davvero divertente. Presumibilmente si aspettava che incominciassi ad insultarla a mia volta, ma ancora non aveva capito che con me cose di questo genere non funzionavano. Ci voleva ben altro per farmi arrabbiare sul serio. Nick mi scoccò un’occhiata di approvazione.
“Sarebbe possibile avere un confronto tra il combattimento di ieri di Emilie con il suo collega e quello di oggi?”, domandai alla malefica cornacchia, che annuì e borbottò una serie di ordini al proprio computer. Poco dopo, i due filmati partirono in contemporanea.
     “Come potete notare”, commentai mentre il video procedeva, “C’è sempre lo stesso schema di base, nei combattimenti dell’agente Barton.”
“Vorresti spiegarti meglio, Blackwood?”
“Naturalmente”, replicai con un sorriso alla domanda di Nick. “Parte sempre con una mossa atta a sbilanciare l’avversario -”
“Stronzate!”, m’interruppe Emilie seccata, “Sarà capitato forse un paio di volte.”
“Sì, e il resto mancia”, commentai sarcastica, quindi proseguii con la mia analisi. Mi stavo divertendo, davvero. Beh, d’accordo, quasi. “Dopo che ha sbilanciato l’avversario, eccola che parte con una finta e un attacco. La prima è mediocre, il secondo punta troppo sulla forza e poco sulla precisione. Il secondo attacco spesso è speculare al primo, assolutamente prevedibile.”
Emilie alzò gli occhi al cielo e borbottò qualcosa di offensivo al mio indirizzo, al che Nick la zittì con l’ennesima occhiataccia.
“Lascia che parli, Nick”, gli dissi invece io.
“Se non erro, la mia finta mediocre e i miei attacchi prevedibili e poco precisi ti hanno mandato al tappeto, no?”. Gongolò soddisfatta, ma ancora non aveva capito con chi aveva a che fare. Le risposi per le ri-me: “Ah-ha, e quante volte, invece, io ho mandato te al tappeto?”. Emilie avvampò e chiuse la bocca di scatto.
“Bene, riprendendo da dove eravamo”, proseguii imperterrita, “Tenta di nuovo una finta, spesso dallo stesso lato della prima, para l’attacco, che la coglie regolarmente con la guardia abbassata, e attacca di nuovo. E poi si riparte con la stessa solfa. Nemmeno ci provi a impostare una seppur minima parvenza di tattica, né lo fanno i tuoi colleghi. Un disastro su tutta la linea.”, conclusi lapidaria.
Le proteste, alquanto colorite, di Emilie, non tardarono a fioccare. Risi tra me e me, alcuni insulti era-no… piuttosto pittoreschi.
      Quando l’attacco isterico passò, Nick, placido e serafico come un iceberg alla deriva, riprese la parola: “Allora, cosa proponi di fare, Anja?”
“Per ora, Nick, vedremo di correggere il tiro sul fronte combattimento. Il che significa, fare tabula rasa di quello che sai e ricominciare da zero, Emilie. Imparerai le tecniche che io ti indicherò e non tollererò insubordinazioni o atteggiamenti strafottenti di sorta, come quello di poco fa. Chiaro?”
Piantai i miei occhi nei suoi, tanto per essere certa che avesse ben compreso l’antifona; mentalmente, ridacchiai per la scelta di Nick di chiamarmi per nome, un invito implicito a fare lo stesso. Presumevo l’avesse fatto per sottolineare il fatto che, se lui si fidava di me e io avevo il suo rispetto, la sua sottoposta avrebbe dovuto agire di conseguenza. Senza contare che questo aveva messo me e la cornacchia sullo stesso piano.
     “Per cui, Nick”, proseguii poco dopo, “Direi che le mie prime impressioni sono state tutte confermate -purtroppo. Come già avevo preventivato, ci vorrà molto lavoro e il riaddestramento avrà luogo in separata sede.”
“Barton, qualcosa da dire?”
“Sì, Colonnello”, ribattè lei, calcando caustica sul grado di Fury, “La sue risorsa dice un mucchio di stronzate ed è evidente che tutti i miei ex colleghi si sono messi d’accordo per dare le stesse risposte alle sue domande. Tutta questa storia è una pagliacciata.”, concluse soddisfatta, rivolgendomi apertamente un ghigno di trionfo. Smontare le sue brillanti deduzioni mi richiese davvero poco sforzo.
“Punto numero uno, è difficile che sbagli a inquadrare qualcuno, visto che era il mio lavoro. Secondo, nessuno dei tuoi colleghi sapeva il motivo dei colloqui, né lo hanno detto a quelli che ho sentito dopo. Terzo,”, e qui mi concessi un sorriso diabolico, “Dimentichi che ho letto tutti i rapporti che tu hai scritto di tuo pugno, e che mi hanno dato gran parte delle informazioni su di te. C’è altro che devo chiarire?”. Se Emilie ne avesse avuta la possibilità, mi avrebbe ucciso in quel momento. Su due piedi. A mani nude.
      “Ho sentito abbastanza”, esordì Nick, alzandosi dalla poltrona e girando attorno alla scrivania, piazzandosi quindi tra noi e la porta. “Agente Barton, come da accordi il capitano Blackwood è incaricata del tuo riaddestramento. Risponderai solo ed esclusivamente a lei –o a me, se lo riterrà opportuno. Verrai distaccata dal resto degli agenti e lavorerete voi due da sole, alle condizioni del capitano. Sei so-spesa da ogni missione finchè Blackwood non mi dirà il contrario. Tutto chiaro?”
“Non avrei saputo essere più precisa di così, Nick, ma ti ricordo l’unica condizione tassativamente da rispettare: niente interferenze, né da te, né dagli altri agenti, né dai suoi parenti. Comando io e quello che dico è legge.”
“Direttore, non può davvero -”, fece per protestare la Barton, ma Nick la zittì.
“Questo è quanto, agente Barton. Da adesso, il suo superiore è il capitano Blackwood e mi aspetto che faccia esattamente quello che le dirà quando glielo dirà. Potete andare.”
      Mi congedai da Nick con un cenno del capo e con un secco scatto del polso invitai la Barton a precedermi. Non appena fummo fuori dall’ufficio e la porta fu chiusa, mi piazzai davanti a lei.
“Domani mattina, alle sei e quindici in punto, ti voglio nella stessa palestra di oggi. Cominceremo col vedere quali sono le tue reali capacità. Seconda cosa, niente più alcolici dopo le ventuno finchè non avremo finito, e se ti presenterai di nuovo coi postumi di una sbronza, parola mia, userò la tua pelle per farci un tappeto.” Mi guardò basita, con gli occhi fissi per lo stupore.
“Come hai capito che stavo smaltendo la sbronza?”, domandò guardinga. Sogghignai.
“Me lo hai appena confermato. E quand’anche non l’avessi così stupidamente ammesso per tuo conto, alcuni tuoi movimenti erano scoordinati, e dopo capriole e giravolte eri visibilmente disorientata. Risse di ubriachi ne ho viste abbastanza da accorgermi quando uno è sbronzo.”, commentai tranquilla.
“Hai il resto della giornata per riprenderti, ma guai a te se non sarai puntuale domani mattina. Se hai bisogno di me, chiedi al Capitano Rogers. Lui sa dove trovarmi.”
       Alzai i tacchi e me ne andai tranquilla, ben decisa a farmi una bella doccia e magari dormire un po’ prima di cena. Per tutto il tragitto, tuttavia, continuai a sentire gli occhi di Emilie fissi su di me.
  
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