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Autore: ChiiCat92    27/09/2016    1 recensioni
"È tutto buio, non vedo niente.
Ma non posso fermarmi. Se lo facessi adesso non sarei più in grado di muovermi.
Le gambe bruciano, il dolore è talmente forte che non riesco a pensare ad altro. Ogni passo mi sembra l'ultimo.
Ma non posso, non posso fermarmi.
Dietro di me l'abbaiare dei cani è ancora troppo vicino, il frusciare nervoso dei loro musi sul terreno è presente e pressante. Tra i rami degli alberi lampeggiano i fasci di luci delle torce.
“Prendetelo!” urlano le voci “Fermatelo!”
Bang bang bang."
Genere: Avventura, Science-fiction, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kadaj
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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23/09/2016

 

Feed the Machine

 

È tutto buio, non vedo niente.

Ma non posso fermarmi. Se lo facessi adesso non sarei più in grado di muovermi.

Le gambe bruciano, il dolore è talmente forte che non riesco a pensare ad altro. Ogni passo mi sembra l'ultimo.

Ma non posso, non posso fermarmi.

Dietro di me l'abbaiare dei cani è ancora troppo vicino, il frusciare nervoso dei loro musi sul terreno è presente e pressante. Tra i rami degli alberi lampeggiano i fasci di luci delle torce.

Prendetelo!” urlano le voci “Fermatelo!”

Bang bang bang.

Abbasso la testa, sento uno squittio sfuggirmi dalle labbra, i proiettili colpiscono il tronco di un albero a poca distanza da me.

Non ho la forza di voltarmi, non voglio sapere quanto sono vicini, non voglio.

Mi bruciano gli occhi, credo che sia colpa delle lacrime. Non riesco a respirare, il petto mi fa male, e il cuore batte troppo forte contro lo sterno. Inghiotto l'aria a bocconi, soffoco.

Non ce la faccio. Mi prenderanno. Mi prenderanno e mi porteranno di nuovo...

...di nuovo...

...di nuovo...

La testa mi fa male. Non me lo ricordo.

Devo scappare, devo correre, non c'è tempo adesso.

Bang.

Sobbalzo prima che il braccio urli di dolore.

Mi hanno preso!

Un mugolio nasce sulle mie labbra mentre le lacrime inondano gli occhi.

Poi il mio piede incontra il vuoto e scivolo, giù, verso il basso, rotolando nel fogliame. Sopra e sotto si confondono, niente ha più davvero senso.

Quando mi fermo, i cani sono lontani, lassù, nel punto in cui sono caduto, e le torce si sporgono oltre il bordo cercandomi.

Non posso fermarmi.

Striscio lontano dal raggio d'azione delle torce e mi nascondo dietro un albero.

Sono troppo lontani, non capisco cosa si stiano dicendo, so solo che la luce delle torce si affievolisce fino a sparire e i cani smettono di abbaiare.

Il bosco torna buio, l'unica luce viene dalla Luna quasi piena sopra la mia testa.

La stanchezza mi crolla addosso tutto d'un colpo e mi accascio a terra, le gambe strette al petto.

Il cuore sembra pulsare in ogni parte del corpo, riesco a malapena a muovermi.

Però sono ancora vivo.

Chiudo gli occhi, respiro.

Sono ancora vivo.

 

Alla luce del giorno niente mi sembra minaccioso. Non il bosco, con gli alberi dai rami contorti intrecciati a coprire il cielo, non il silenzio piatto e basso, rotto solo dallo scuotersi delle foglie: niente.

Gli occhi si abituano pian piano, e stento a mettere a fuoco quello che ho intorno. I colori del sottobosco sono estremamente vividi.

Un tappeto di foglie caduto durante la notte mi copre quasi del tutto, alzandomi scrocchiano e frusciano.

Mi irrigidisco, guardandomi intorno. Troppo rumore.

Lo sguardo corre su e giù, a destra e a sinistra, mentre il cuore è in tumulto nel petto.

Mi hanno sentito, mi scopriranno. Mi prenderanno. Mi uccideranno.

Lentamente il respiro si placa, il battito diminuisce, il corpo si rilassa. Non c'è nessuno qui, nessuno a parte me.

Ma sto più attento a come mi muovo, cerco di fare meno rumore possibile.

Le gambe mi tremano quando provo a muovere un passo, ma posso ancora muovermi. Una striscia di sangue rappreso sul braccio è l'unica vera ferita che ho addosso: il proiettile mi ha preso solo di striscio.

Mi affaccio timidamente oltre l'albero che mi ha tenuto nascosto tutta la notte e alzo lo sguardo. Ho fatto un bel volo, è stata una fortuna che non mi sia fatto male.

Tanto per essere sicuro, controllo ogni parte del mio corpo alla ricerca di ferite gravi, ma trovo solo qualche livido, un paio di graffi ma niente di realmente preoccupante.

Accertatomi che riesco a camminare, mi allontano dall'albero, e dal pendio da cui sono caduto.

Ho un'unica certezza: finché posso, devo continuare a scappare.

Non so da cosa, non so da chi, ma devo farlo.

La mia mente è un insieme confuso di immagini, suoni, sensazioni. Non riesco a metterne a fuoco nessuna.

Ieri notte sono scappato da loro.

Chi sono loro?

Persone che volevano farmi male, sono sicuro, persone cattive.

Mi volevano spostare da...da un posto ad un altro, e per farlo mi avevano caricato su un camion.

Ricordo vagamente un sottofondo di pianti, singhiozzi scomposti. Non so se fossi io a piangere.

Poi ricordo una voce, soffusa, concitata.

Scappa, vattene. Non fermarti!

Diventato per la prima volta consapevole di avere un corpo mio e di poterlo usare, sono stato spinto giù dal camion, o forse sono saltato giù io, e ho cominciato a correre.

I cani hanno cominciato subito ad inseguirmi, e il bisogno di scappare si è fatto più urgente. Subito dopo sono cominciati gli spari. L'eco mi risuona ancora nelle orecchie.

Vivo o morto” ha detto qualcuno, una voce maschile.

Da quel momento in poi a spingermi è stata la paura, non solo l'abbaiare dei cani, o gli spari alle mie spalle, o le urla degli uomini, o i fasci di luce a pochi centimetri dai miei piedi. La paura, solo la paura.

Mi sono addentrato nel bosco, nella speranza di far perdere le mie tracce tra gli alberi, ma hanno continuato a seguirmi.

Perché? Cosa ho fatto?

Da cosa stavo scappando?

Non riesco a ricordare niente.

Tutto nella mia testa prima della fuga appare come un nulla statico, nero, spento. È come se mi avessero acceso nel momento in cui ho cominciato a correre.

Perché è tutto così confuso?

Sobbalzo quando uno stormo di uccelli si alza sopra i rami degli alberi, gracchiando il loro richiamo.

Un brivido mi percorre la schiena e riprendo a camminare.

L'unica parte di me ad essere davvero danneggiata è la mia testa, i miei ricordi. Mentre nel mio corpo urge il bisogno di continuare a muovervi, la mia mente vaga in una nebbia confusa di domande.

In lontananza riesco ad avvertire uno scroscio d'acqua e all'improvviso mi rendo conto di aver bisogno di bere.

Mi dirigo da quella parte, un calcolato passo dopo l'altro. Cerco di fare meno rumore possibile. Ho paura che loro possano sbucare fuori dagli alberi quando meno me lo aspetto.

Il suono dell'acqua che scorre è più forte così come la mia sete. Accelero, proteggendomi il volto dai rami degli alberi che come mani cercano di afferrarmi e tirarmi indietro, finché non mi ritrovo sulla sponda di un fiumiciattolo.

Quasi mi butto in ginocchio per raccogliere l'acqua fresca con le mani a coppa. Bevo finché non sento lo stomaco dolermi, e solo adesso mi accorgo di riuscire a scorgere la mia immagine riflessa sulla superficie dell'acqua.

Per un attimo rimango immobile, e la figura nell'acqua è immobile esattamente come me; piego di lato la testa, e lui mi imita; allungo una mano per toccarlo e lui fa lo stesso.

Mi ritraggo spaventato, le braccia strette al petto, e l'immagine sparisce perché non mi sto più riflettendo sulla superficie.

Il cuore mi batte di nuovo a mille e il respiro si fa grosso. Prima di riuscire a tornare ad avvicinarmi all'acqua passa un'eternità.

Finalmente divento consapevole del mio aspetto. È strano che non ci abbia pensato fino ad ora.

Due occhi blu intenso ricambiano la mia occhiata, e sono grandi, spauriti, coperti a tratti da una cascata di capelli quasi bianchi. L'immagine è distorta dalla corrente del fiume e mi sporgo un po' di più per cercare di vedere meglio, di capire se oltre quel ragazzino troppo magro e troppo piccolo, dai grandi occhi spaventati, ci sia dell'altro.

Ma no, non c'è. C'è solo lui, io, e il mio nome, che ora affiora alla mia coscienza come se fosse sempre stato lì, in attesa che fossi pronto per accoglierlo.

« Kadaj. »

Lo dico ad alta voce, e tremo al sentirmi parlare. La mia voce mi suona estranea e familiare al tempo stesso, e ho l'assoluta certezza di non averla usata molto. Sento quasi i muscoli della gola contrarsi nel doloroso sforzo di continuare a emettere suoni.

Questo è tutto quello che ho, tutto quello che so.

So che devo scappare, che devo andare più lontano che posso più velocemente che posso; so come sono fatto, com'è piccolo e minuto il mio corpo, come i capelli argentei mi ricadono su un lato del viso nascondendolo quasi completamente; so come suona la mia voce, spaventata e sottile; e conosco il mio nome.

E nient'altro.

Il rombo di un motore, da qualche parte oltre gli alberi, mi fa saltare su.

Devo muovermi.

Supero il piccolo fiume nella parte in cui è più basso, l'acqua fredda mi fa venire i brividi, ma i rumori nel bosco di più.

Non mi guardo alle spalle mentre mi lancio in corsa, zigzagando tra gli alberi e nascondendomi dietro i tronchi più grossi di tanto in tanto.

Riesco a sentire delle voci, e non sono molto lontane. Voci, e rumori di macchine in movimento.

Sono loro, si sono già rimessi a cercarmi.

« Da questa parte, non può essere lontano. »

La voce di un uomo.

Stavolta non ci sono i fasci di luce delle torce ad indicarmi la loro presenza, e la confusioni di voci mi rende incapace di individuarli.

So solo che non voglio che mi prendano.

Un dolore atroce, come un flash, mi prende la testa. Sembra quasi che mi abbiano conficcato un coltello rovente nel cervello. Me l'afferro, sperando di placare il dolore, e stringo i denti per non farmi sfuggire un suono.

Uomini intorno a me, non posso muovermi, braccia e gambe sono legate con cinghie. Urlo, urlo più forte che posso, ma a loro non interessa. Si avvicinano, mi toccano, mi studiano, annotano tutto quello che vedono. Il dolore è sempre più forte, le cinghie mi segano i polsi.

Prendo una profonda boccata d'aria, mi sembra di respirare per la prima volta.

Mi ritrovo a terra, accucciato con le gambe strette al petto, tremante.

La testa mi fa male, ma il dolore ha portato un ricordo. Ricordo che adesso non fa che ripetersi e ripetersi nella mia mente.

Gli uomini, le cinghie, i loro sguardi disinteressati.

Perché?

Mi rialzo lentamente, anche se le gambe mi reggono a malapena. Ma le voci sono sempre più vicine e ora più che mai non posso permettergli di trovarmi.

Costringo il mio corpo a correre, ogni falcata mi fa tremare.

« Ho visto qualcosa! »

« Dove? »

« Lì, lì, tra gli alberi! »

« Liberate i cani! »

L'abbaiare affamato degli animali mi è subito dietro. Di nuovo sento il loro fiato sul collo, di nuovo sento le loro mascelle schioccare a pochi centimetri dalla mia pelle.

Non so da dove venga la consapevolezza, ma so che se dovessero prendermi mi farebbero a pezzi.

Vivo o morto, vivo o morto.

Riesco a provare pietà per quei poveri animali, ridotti all'osso e addestrati per uccidere o essere uccisi.

Le mie gambe seguono il profilo del fiumiciattolo, lanciate in corsa ad una velocità folle. Gli alberi diventano una macchia verde sfocata intorno a me, riesco a vedere solo quello che ho davanti.

E per questo mi arresto bruscamente.

Il fiume sfocia in un lago, profondo e largo più di quanto avrei potuto immaginare. I cani sono subito dietro di me.

So nuotare?

Non ho il tempo di pensarci perché mi butto in acqua.

È gelida, tanto che mi si intorpidiscono gli arti, e per un attimo penso che morirò di freddo prima di morire annegato.

Con la coda dell'occhio avvisto i cani sulla riva abbaiare come dei matti, ma non mettono neanche una zampa in acqua.

Giù giù giù.

Prendo una boccata d'aria e mi immergo.

L'acqua gelida mi riempie le orecchie, il fischiare del sangue e il rombare del cuore sono le uniche cose che riesco a sentire.

Braccia e gambe si muovono prima che possa ordinarglielo e nuoto, senza emergere dalla superficie. I polmoni bruciano, in debito di ossigeno, ma se emergessi adesso loro mi vedrebbero. Nuoto più velocemente che posso finché non mi ritrovo all'ombra di un grosso masso. Non ce la faccio più, mi sembra di morire.

Quando tiro fuori la testa dall'acqua mi sembra di non aver mai respirato davvero in tutta la mia vita. Questo è il mio primo respiro, ed è doloroso.

La riva è lontana, lontanissima. Mi sporgo appena appena dal masso per guardare come gli uomini entrano nell'acqua fino alle ginocchia, guardandosi intorno come se sperassero di rintracciarmi. Ma sono così lontano che riesco a malapena a vedere le mie gambe in quel verde limaccioso.

Quanto ho nuotato!

Solo adesso mi accorgo della pesantezza degli arti, se non fosse per il masso, a cui sono aggrappato tanto da farmi dolere le dita, forse andrei a fondo e non riuscirei a risalire.

Rimango immobile finché gli uomini non rinunciano e tornano indietro.

Tiro un sospiro di sollievo...che dura solo un attimo.

Il rombo di un motore mi costringe a immergere la testa sott'acqua.

Alla mia sinistra, costruita lungo il profilo del lago, passa una strada. Alcune jip sono ferme contro il guardrail, e uomini con i fucili scrutano la superficie dell'acqua.

Mi tiro un po' indietro, confortato dalla presenza del masso.

Sono bloccato.

Se torno a riva mi prenderanno, se nuoto verso quella opposta mi prenderanno.

Cosa devo fare?

« Lì! »

« Fuoco! »

Sono pronto a sentire il dolore, tanto che trattengo il fiato e stringo i denti, deciso a non dargli la soddisfazione di sentirmi urlare.

I colpi di fucile si abbattono contro un pesce, a poca distanza da me. Il suo grosso corpo affiora dall'acqua, pancia in su.

Trattengo un gemito mentre gli uomini imprecano.

Sparano a vista.

Sento il respiro farsi grosso, gli occhi che corrono da una parte all'altra.

Non posso rimanere qui per sempre, mi troveranno.

Il mio sguardo cade su masso che emerge fuori dall'acqua a poche bracciate da dove mi trovo. Se riuscissi a raggiungerlo rimanendo sott'acqua mi avvicinerei all'altra riva, avrei una possibilità di salvarmi.

Lo stomaco si contrae e non capisco se sia per la felicità o per la paura. Forse entrambe.

Se mi mancasse l'aria a metà tragitto non potrei tornare indietro, né emergere, perché mi vedrebbero, mi sparerebbero. Se sbagliassi traiettoria e dovessi mancare il masso non avrei dove nascondermi, e sarei morto. Non voglio galleggiare a pancia in su come quel pesce.

Ma è la mia unica possibilità.

Prendo un paio di respiri profondi, lascio che l'aria riempia il mio corpo. La sento fluire in braccia e gambe, la sento rendermi la testa leggera, la sento mentre si riversa nello stomaco e lo riempie. Ne ingurgito quanta più posso e mi immergo.

Anche con gli occhi spalancati vedo poco, la luce che filtra nell'acqua rende la mia visuale verdognola e instabile. Il freddo mi fa tremare ma tengo le labbra serrate per trattenere l'aria.

Nuoto cercando di tenermi più a fondo possibile, anche se le orecchie lamentano il loro dissenso fischiando impazzite. Non guardo neanche verso la superficie, altrimenti non riuscirei a trattenere il desiderio di aria fresca, perché quella residua nel mio corpo comincia ad essere stantia.

Nuota, nuota, nuota!

Vedo un'ombra nell'acqua e spero, spero che sia il masso a cui stavo puntando. Non emergo finché non lo tocco con le dita.

Anche se il desiderio d'aria mi comprime la gabbia toracica, tiro fuori dall'acqua solo gli occhi. Mi guardo intorno, mi accerto di essere nascosto dal masso, poi mi permetto un piccolo respiro.

Gli uomini hanno ancora i fucili puntati oltre le balaustre, fissano l'acqua, la scrutano. Ma non mi hanno visto. Non hanno idea di quello che è appena successo. Gli sono passato sotto gli occhi e neanche se ne sono accorti!

Un senso di onnipotenza misto ad un'ondata di sollievo mi riempie dalla testa ai piedi e mi fa girare la testa per un attimo.

La riva non è lontana, e posso nuotare sott'acqua da una roccia all'altra. Posso. Posso e lo farò.

Respiro più profondamente stavolta, e mi immergo di nuovo, stavolta più sicuro, più deciso. Funzionerà.

Sono così vicino.

Riesco a trascinarmi fuori dall'acqua solo grazie ad un enorme sforzo di volontà. Non so cosa mi faccia più male, se le gambe irrigidite dalla stanchezza o i polmoni spinti in quell'apnea forzata.

Rimango sdraiato sulla battigia per un tempo che mi sembra infinito, sicuro di essere lontano dallo sguardo degli uomini con i fucili e di potermi permettere un attimo di riposo.

So che non è finita, so che continueranno a cercarmi finché non mi avranno preso o ucciso, ma per il momento sono salvo.

Se guardo verso la riva opposta mi sembra impossibile che io sia riuscito ad attraversare il lago, e non solo perché i muscoli mi tremano così tanto che non so se riuscirò ad alzarmi.

Eppure ce l'ho fatta.

La strada continua oltre il lago, finché posso seguo con lo sguardo una jip che mi supera, sfrecciando.

Il buon senso mi dice che dovrei andare nella direzione opposta, che dovrei allontanarmi da loro e non avvicinarmi. Ma non c'è altro posto dove io possa andare. Dietro di me c'è il lago e oltre il lago il bosco da cui sono venuto. Posso solo andare avanti.

Mi alzo, i vestiti grondano acqua e tremo di freddo. Ma finché il sole è alto devo continuare a muovermi.

Cerco di rimanere nascosto nella vegetazione alta che costeggia la strada, offre un buon nascondiglio ma ogni minimo rumore mi fa sobbalzare.

Riesco a scorgere di tanto in tanto il tettuccio di un'auto che sfreccia. In entrambe le direzioni il traffico è considerevole. Poi un grosso camion mi supera e brandelli di ricordi si affacciano alla mia memoria.

Mi accuccio nell'erba alta cercando di non lasciarmi sopraffare e anche se vorrei solo fermarmi, dopo aver preso un profondo respiro, continuo a camminare.

 

Solo il sole, che lentamente scende verso l'orizzonte, mi fa capire quanto tempo sia passato e quanto a lungo io abbia camminato.

Le piante dei piedi bruciano, dubito che le sottili scarpe che indosso siano state progettate per lunghe camminate come queste. Ma più di ogni altra cosa sono la fame e la sete a rendermi difficile il concentrarmi.

Lasciatomi il lago alle spalle non ho fatto altro che camminare e camminare ancora nell'erba. Pian piano la strada si è inerpicata verso l'alto, su un ponte dalle infinite diramazioni sopra la mia testa. E benché sapere di non essere in immediato pericolo mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo, non avere un percorso da seguire mi ha fatto sentire smarrito.

La macchia d'erba si è trasformata presto in terra battuta, con ciottoli appuntiti e rifiuti di ogni genere.

Se non fosse per l'ombra di quello che intuisco essere un cavalcavia sopra di me sarei completamente allo scoperto.

In lontananza riesco a vedere il profilo grigio di una città. Devo arrivarci prima che faccia buio. Tremo al solo pensiero di passare una notte allo scoperto.

I vestiti mi si sono asciugati addosso e tirano la pelle irritata dal sudore.

Ho così sete che non riesco neanche a inghiottire. La lingua mi sembra fatta di sabbia e continuo a succhiarmi le labbra e i denti nella speranza di produrre più saliva per bagnare la gola.

Lo scrosciare del fiumiciattolo mi riempie le orecchie, spegnendo qualsiasi altro rumore. È nella mia testa, rinfrescante, dissetante, doloroso. Potrei raccoglierne un po' solo allungando le mani in avanti, poi torno cosciente e mi sento mugolare. Non c'è acqua, non c'è nessun fiume, solo terra arida sotto i piedi.

Con gli occhi socchiusi riesco a vedere ancora il bosco, la frescura degli alberi, la falsa protezione dei cespugli, e l'acqua.

Scuoto forte la testa e mi mordo l'interno della guancia, più forte che posso, fino a sanguinare. È comunque qualcosa da inghiottire, quindi succhio avidamente la ferita, finché non sento la gola ristorata dal sapore ferroso del sangue.

La strada davanti a me comincia a inerpicarsi su in una sorta di collina, mi guardo attorno freneticamente prima di salire. Solo rifiuti, qualche topo, e abbandono.

In cima, si arresta bruscamente su di un reticolato alto almeno tre metri, adornato da spirali di filo spinato, poi comincia la periferia della città.

La testa mi scoppia per la stanchezza e ogni muscolo si rifiuta sia di accettare di fermarsi sia di affrontare la scalata. Perché qui, esposto, non posso rimanere.

Rivedo la strada su cui ho visto circolare le macchine e i camion, lontano sulla mia sinistra: entra in città attraverso un grosso cancello sorvegliato.

So benissimo che oltre il reticolato c'è la loro città, abitata da loro, piena di loro, e non voglio, non voglio entrare. Ma è impossibile resistere alla sicurezza dei grandi palazzi dalle porte spalancate, ai luoghi bui dove potrei nascondermi, e alla possibilità di poter trovare cibo e acqua.

Deglutisco, ho di nuovo la gola secca, secca e dal vago sapore ferroso.

Decido di camminare un po' lungo il recinto, cercando una breccia o un punto in cui sia più facile scavalcare.

Il filo spinato in cima sembra in grado di bucarmi e strapparmi la pelle. Riesco a vedermi impigliato tra le sue spire come un uccellino incauto.

Un altro brivido mi percorre il corpo e accelero il passo.

Freneticamente scorro su e giù con lo sguardo ogni centimetro del recinto, mi sento troppo allo scoperto, troppo lontano da ogni possibile nascondiglio, e sto quasi per tornare indietro quando lo vedo. Devo avvicinarmi un po' per accertarmene ma poi un versetto di vittoria mi scappa dalle labbra: una parte del reticolato è sollevata, abbastanza perché possa pensare di passarci. Mi butto a terra in ginocchio e tiro la rete per sollevarla di più, il metallo mi segna la pelle e non cede, non subito almeno. Devo fare più forza per aprirmi un varco largo a sufficienza. Mi infilo dentro, strisciando sulla pancia, spingendomi in avanti con i gomiti, mi sembra di metterci un'eternità.

Poi mi rialzo, mi spolvero la terra dalla maglia e corro, corro per riempire più in fretta possibile lo spazio che mi separa dal primo edificio.

Solo quando mi ritrovo con il corpo schiacciato contro il muro freddo torno a respirare.

Mi sembra impossibile che non mi abbiano visto.

Con la schiena rasente al muro mi faccio strada verso la prima porta che trovo, spalancata e penzolante sui suoi cardini, e mi infilo dentro. Il palazzo è in un completo stato di abbandono.

Mi accuccio in un angolo buio, lontano dall'ingresso, raggomitolato come un animale, le ginocchia strette al petto.

Finalmente posso concedermi qualche istante per riposare, per mettere in ordine le idee, per pensare.

Tutto quello che ho intorno è nuovo, grande e spaventoso. Eppure...eppure nonostante io non abbia mai visto un cavalcavia quando l'ho visto l'ho riconosciuto, così come le jip, i camion, il filo spinato.

Conosco questo mondo ma non so perché.

Chi mi ha insegnato?

Scappa, vattene. Non fermarti!

La stessa voce che ho sentito nel bosco, la riconosco. Anche se non riesco a ricordare la persona a cui appartene, mi infonde una sensazione piacevole.

Forse è stata quella persona a insegnarmi le cose che so.

Vorrei poter ricordare di più, vorrei che la mia mente non fosse così confusa e annebbiata.

Vorrei sapere chi sono.

Kadaj. Sì, sono Kadaj.

Ma chi è Kadaj?

Mi sembra di avere la risposta a portata di mano e non riuscire a raggiungerla.

Ci penserò dopo, quando sarò al sicuro” mi dico, e mi rialzo.

È vero, adesso non ho tempo per questo. Sono ancora un fuggitivo.

Per prima cosa ho bisogno di riempirmi lo stomaco, altrimenti non riuscirò a muovere un altro passo.

Imbocco la porta da cui sono entrato, ma rimango con la schiena schiacciata contro il muro. Cerco di farmi più piccolo che posso, per passare inosservato.

Il vicolo si affaccia su una grande strada semi-deserta, illuminata da lampioni che gettano una luce fievole mentre il sole scompare dietro l'orizzonte.

Il buio è una buona cosa.

Mi ritraggo come se avessi preso la scossa quando sento rumore di passi venire nella mia direzione. Schizzo come un fulmine verso un cassonetto della spazzatura addossato alla parete e mi ci accuccio dietro.

I passi si fanno più vicini.

Mi ha visto, chiunque sia mi ha visto, andrà a chiamare gli uomini con i camici che verranno a prendermi.

È finito, è tutto finito.

Nascondo la testa tra le gambe aspettandomi...non so cosa, di tutto. Forse un urlo di sorpresa, forse lo scattare di un allarma. Qualcosa, qualsiasi cosa.

I passi sono ormai alle mie spalle, proprio di fronte al cassonetto.

Stringo gli occhi e le dita affondano tra i capelli.

Poi sento il rumore del cassonetto che si apre e di una busta che vene getta dentro, uno sbuffo quando il cassonetto non si chiude, e il suono di passi che si allontanano.

Rimango per un attimo senza fiato, incredulo.

Non mi ha visto, e non stava cercando me.

Sento fisicamente il sollievo prendermi il corpo, come un'onda calda dal tocco gentile che mi

avvolge completamente, almeno finché i miei sensi non sono colpiti in pieno da qualcosa che mi fa scattare in piedi: odore di cibo.

Il vicolo è deserto, ma tengo gli occhi sulla strada mentre con le mani frugo dentro il cassonetto aperto. Le dita si stringono intorno al sacchetto da cui proviene l'odore. Lo tiro fuori e torno a nascondermi con la schiena schiacciata contro il muro.

Sento la saliva inondarmi la bocca, ma prima di addentare il mezzo hamburger nella busta lo annuso e lo guardo attentamente cercando qualcosa di sospetto. Ma non c'è niente che mi metta in allarme, e non riesco a sentirmi patetico quando mi infilo in bocca tutto il panino, quasi strozzandomi nella foga di mangiare il più in fretta possibile.

Nel sacchetto c'è anche il residuo di una bibita gasata, ormai annacqua dal ghiaccio sciolto, ma berla è come una manna dal cielo.

Se potessi mangiare la carta la mangerei, e mi ritrovo a leccarmi le dita dalla salsa senza neanche accorgermene.

Quando le mie mani frugano avide dentro il sacchetto senza trovare nient'altro, appoggio la testa contro il muro e sospiro. Sento ancora il profumo dell'hamburger attaccato alla carta, alle mie dita, alle mie labbra. Con la lingua frugo tra i denti cercando qualche rimasuglio di carne, senza però trovarne. E allora chiudo gli occhi.

« Va tutto bene, Kadaj. » dico, ad alta voce.

È confortante parlare a me stesso, soprattutto quando mi rendo conto che sono parole che non vengono da me, ma che qualcun altro deve avermi detto.

Mi pulisco le mani sui pantaloni e poi mi alzo. Ho ancora fame ma non voglio frugare di nuovo dentro il cassonetto. Troverò da mangiare da qualche altra parte.

Intanto il sole è sparito, e le luci dei lampioni gettano strane luci tutto intorno.

Mi azzardo a strisciare verso la strada, la schiena sempre premuta contro il muro. Mi tiene in piedi, mi nasconde, mi da l'impressione di essere al sicuro.

Mi affaccio oltre il vicolo e tiro un sospiro di sollievo: la strada è deserta.

Però...però...

Guardo a destra, a sinistra, e poi in alto. E allora il cuore si gela.

So cosa sto guardando, ma non ho una parola per descriverlo.

Fluttua nell'aria spinto da una piccola elica che gira vorticosamente, frizza di vita elettrica alimentata da batterie; un unico occhio, un'enorme telecamera, puntato a scrutare ogni anfratto della strada.

L'affare di metallo sonda i dintorni, sento il suo cervello elettronico immagazzinare i dati e poi passare oltre.

Non è il solo, ce ne sono diversi a controllare la strada.

Mi ritraggo, tornando al sicuro nel vicolo, guadagnando il nascondiglio dietro il cassonetto.

Non posso camminare in strada con quegli affari a controllarne ogni centimetro.

Respiro piano, vagliando ogni opzione, finché il frizzare della macchina si avvicina tanto da costringermi ad entrare nel palazzo abbandonato attraverso la porta divelta. Non si sofferma, si limita a scannerizzare il vicolo e poi torna indietro.

Posso decidere di rimanere qui, oppure posso provare a proseguire, passando all'interno dei palazzi, per allontanarmi dagli affari di metallo.

L'idea di passare la notte con la paura di vedere quei cosi entrare qui dentro e sorprendermi addormentato non mi piace, per cui mi muovo verso la porta di fronte, facendo lo slalom tra i pezzi di calcinaccio e soffitto crollato.

Sarà una lunga notte.

 

A svegliarmi è il clangore di pezzi di metallo che vengono spostati, macchinari in funzione, ingranaggi che cigolano.

Apro gli occhi piano, senza capire dove mi trovo, e senza riuscire ad arginare il panico che mi prende per un istante quando intorno a me vedo solo il buio.

Poi ricordo.

Dopo aver evitato i marchingegni volanti per tutta la notte, mi sono nascosto in un buco in un muro nascosto da un pezzo di pesante lamiera. Il sonno ha preso il sopravvento e sono crollato addormentato con la testa sulle ginocchia strette al petto.

Non provo neanche a muovermi, perché il dolore che sento in tutto il corpo mi avverte che avrei bisogno di molto più spazio di quello che ho a disposizione per riprendere a funzionare correttamente.

Il collo urla di dolore, le giunture delle ginocchia tremano, le dita intorpidite dal freddo si muovono a scatti.

Fuori, oltre la lamiera, sento un mondo di macchine che lavora, sbuffa, si muove.

Pensavo di essermi infilato in un palazzo abbandonato, e la stanchezza non mi ha permesso di accertarmi se fosse davvero così. E adesso sono bloccato.

Cercando di ignorare il dolore dei muscoli, gattono verso lo spiraglio di luce che mi offre una visuale di quello che mi aspetta fuori.

Non sembra esserci nessuno, le macchine lavorano da sole.

Mi azzardo a sporgermi di più con la testa.

Un contenitore metallico rovescia senza sosta una serie di pezzi metallici su di un nastro trasportatore che corre nella direzione opposta, sparendo in un'altra parte della fabbrica. Riesco a scorgere parti disgiunte degli aggeggi meccanici messi a sorvegliare le strade.

Deve essere qui che li assemblano.

Questa parte della fabbrica è completamente automatizzata, e per quanto io cerchi non riesco a vedere nessuno.

Per cui sfreccio fuori dal mio nascondiglio e guadagno la porta. Non appena le mie mani si chiudono intorno alla maniglia mi accorgo che è chiusa. Non posso uscire da dove sono entrato.

Mi guardo intorno, terrorizzato all'idea di rimanere chiuso qui dentro.

L'unica altra uscita è dall'altra parte della sala, dove il nastro trasportatore raggiunge l'altra metà della fabbrica.

Con il cuore in gola scorgo ombre oltre il vetro, in avvicinamento, e l'unica cosa che posso fare è tornare a nascondermi dietro il pezzo di lamiera, dentro il buco in cui ho passato la notte.

Pochi secondi dopo che ho tirato le gambe al petto, stringendomi contro l'intonaco, la porta si apre.

Vedo poco, ma riesco a sentire passi marziali, e il cigolare delle ruote di un grosso carrello.

Quando mi sporgo vedo un gruppetto di uomini con dei caschetti gialli controllare lo scorrimento dei pezzi di metallo sul nastro. Hanno lasciato la porta aperta e il carrello che si sono trascinati dietro mi consentirebbe di correre sotto i loro nasi senza essere visto.

Mi mordo le labbra e mi ritraggo nel buio del mio buco. Potrei rimanere qui, al sicuro, fino a quando non chiuderanno la fabbrica e sarò libero di andare.

Lo spazio è appena sufficiente perché possa starci rannicchiato, non ho idea di quante ore dovrò passare qui dentro, e non so se potrei resistere.

Quindi non ho altra scelta.

Gli uomini mi danno le spalle, non riesco a staccargli gli occhi di dosso mentre corro sulle punte per nascondermi dietro il carrello. Prendo giusto qualche secondo per respirare e poi mi lancio verso la porta. Quando la supero mi azzardo a guardare indietro, giusto un'occhiata: non si sono accorti di niente, stanno ancora parlando tra loro spulciando un blocco di appunti.

La sala in cui mi ritrovo pizzica di elettricità statica. Schegge di metallo rovente volano ovunque, e il rumore delle macchine che lavorano copre i miei passi mentre avanzo.

Una lunga pila di casse piene di pezzi di aggeggi elettronici mi offre riparo, mentre con lo sguardo seguo il nastro trasportatore nel suo avanzare.

Qui si divide in due, e c'è un uomo alla biforcazione che smista i pezzi da montare. Le sue mani si muovono così velocemente che non riesco a vederle, e i suoi occhi sono concentrati sul suo lavoro. Sono sicuro che se gli passassi davanti non mi vedrebbe, immerso com'è in quello che fa.

I pezzi più grossi, quelli che devono comporre il corpo della macchina, vanno sulla sinistra e spariscono in un'altra stanza, mentre quelli più piccoli, che sembrano piccoli circuiti di cervelli elettronici, passano sulla destra, dove un paio di uomini li esamina a fondo prima di scartarti lanciandoli in uno scatolone oppure riadagiarli sul nastro dopo avervi stampato sopra una serie di numeri troppo piccoli da poter leggere. Il tutto a occhio nudo.

Mi chiedo come possano controllare la buona qualità di ciò che hanno davanti senza servirsi di un qualche strumento. La curiosità dura giusto finché non trovo un'altra porta aperta in cui intrufolarmi, dopo di che importa solo correre.

 

Mi lascio scivolare con la schiena contro il muro, un lungo sospiro di sollievo lascia le labbra.

Ce l'ho fatta. Sono riuscito ad uscire dalla fabbrica senza che mi scoprissero.

Vedere il cielo azzurro sopra di me non mi è mai sembrato più bello.

La città, da sveglia, sembra meno minacciosa, e soprattutto non ci sono quelle telecamere fluttuanti a battere le strade.

Tra gli scatoloni ammassati nel vicolo ho trovato una felpa con il cappuccio, e anche se i gomiti sono bucherellati – forse mangiati da qualche insetto – e il colore originale sia andato ormai perso, è sufficiente per coprirmi il volto.

Tirata su la zip fino al mento e calatomi il cappuccio sul viso, mi rialzo e mi avvio a passo svelto verso la strada.

Cerco di tenere lo sguardo basso, di non incrociare gli occhi di nessuno, ma noto presto quanto sia inutile.

Le persone che mi passano a fianco sono completamente disinteressate a tutto ciò che hanno intorno. Sembrano spinte da qualcosa ad andare avanti. Lo sguardo vuoto è in netto contrasto con la decisione del loro passo, con il modo in cui avanzano come se nient'altro fosse importante al mondo.

Sembrano macchine. Delle macchine, almeno, hanno l'incedere rigido e senza espressioni.

Mi viene un brivido e accelero il passo.

Rimango all'ombra dei palazzi più che posso, saltellando da una zona di luce all'altra come se potessi scottarmi se i piedi toccassero l'asfalto.

Non ci sono bambini. Non so perché la cosa mi dia tanto da pensare, tanto fastidio. Ma non ci sono bambini. Solo adulti, uomini e donne, per lo più presi da una smania silenziosa, che marciano da una parte all'altra senza mai fermarsi.

La mia presenza risulta fuori posto. Sono troppo piccolo, troppo basso, troppo diverso.

Ho l'impressione che la prossima persona che incontro possa accorgersene.

Forse l'uomo in giacca e cravatta che mi viene incontro si fermerà e mi chiederà che cosa ci faccio qui, perché non sono ovunque i ragazzi della mia età dovrebbero essere a quest'ora.

Oppure la donna immobile con lo sguardo fisso nel vuoto di fronte all'ingresso del suo negozio, sarà lei a dirmi che no, questo è il posto sbagliato per me, e chiamerà loro perché vengano a prendermi.

Ma non succede.

Attraverso il centro abitato senza che nessuno mi fermi, e la cosa mi risulta meravigliosamente assurda.

Sto per superare il prossimo incrocio ma un rombo di motore familiare mi costringe a tirarmi indietro.

Un grosso camion bianco attraversa la strada e si ferma al semaforo.

Lo riconosco, è uno dei camion guidati da loro.

Sento il dolore trafiggermi il cervello, e so già che cosa significa. Mi reggo la testa e cerco di allontanarmi prima che le gambe smettano di funzionare ed io cada a terra.

Occhi blu, un paio di occhi blu mi fissano, intensi. “Kadaj.” scandisce un paio di labbra che non riesco a smettere di fissare “Scappa, vattene. Non fermarti!”. Non riesco a mettere a fuoco il suo viso, è troppo vicino, e la mia visuale sta già cambiando, già lanciata in corsa verso il portellone aperto del camion.

Prima di saltare giù mi volto a guardare e riesco a scorgere una chioma di capelli rossi, china su di una figura in piedi di fronte a dove mi trovavo io. Vedo quelle labbra pronunciare parole simili, e una seconda persona saltare giù dal camion.

Tremo, la testa mi fa male. Provo a rimettermi in piedi ma con orrore mi rendo conto di non potermi muovere. Le gambe non rispondono, pendono inermi.

« Pensavi di andare da qualche parte? »

Mi volto di scatto verso la voce e trattengo a stento un brivido di paura.

L'uomo in camice che mi sta di fronte lo conosco. Non so come, non so perché, ma lo conosco.

Provo ad allontanarmi da lui strisciando sui gomiti, ma sento il clack di un'arma che viene caricata e mi rendo conto di essere sotto il tiro di un uomo con un fucile.

Non so quanto tempo sono rimasto privo di sensi, mentre il dolore del ricordo mi infuocava il cervello, ma l'uomo sul camion bianco deve avermi visto, e aver chiamato loro.

E adesso sono in trappola.

« Per un attimo ti abbiamo perso, sai. » continua l'uomo.

Non mi si avvicina ma la sua presenza mi schiaccia. Ho paura di lui.

Ricordi mi trafiggono la mente, sconnessi e veloci non riesco a identificarne neanche uno. Ma in tutti, lui è presente. In tutti, mi infligge sofferenze senza nome.

« È ingegnoso come voi elettrodomestici sviluppiate questo assurdo slancio verso la libertà. Studieremo a fondo il tuo cervello positronico prima di smantellarti. » non capisco. Vorrei dirglielo, vorrei dirgli che non capisco, ma ho paura di aprire bocca, ho paura che qualsiasi cosa io dica possa scatenare la sua rabbia. So che mi punirà se dovessi dire qualcosa di sbagliato. Ma tremo, e il cuore mi batte tanto forte che non riesco a respirare. « Meraviglioso, non avevo mai visto niente come te. » un sorriso cattivo si apre sulle sue labbra. « Voi macchine riuscite sempre a stupirmi. »

« Per favore... »

Mi esce dalle labbra, ma non ho voce sufficiente per continuare a parlare.

Per favore, io non so cosa ho fatto, non ho idea del perché vogliate catturarmi, sono buono, lo giuro. Non fatemi del male.

Per favore, per favore!

Stringo gli occhi, aspettando di essere colpito, di essere trascinato via, ma un urlo e uno sparo mi fanno sobbalzare.

L'uomo con il camice è riverso a terra e sangue rosso intenso esce da una ferita alla testa. Quello con il fucile spara ripetutamente, ma una figura ammantata di nero con un calcio lo disarma, e con un pugno lo manda al tappeto.

Sgrano gli occhi, incredulo, mi manca il fiato.

Sento il gracchiare di una voce alla radio, qualcuno sta chiamando i rinforzi. La figura in nero abbatte con una gomitata al naso un altro uomo e in meno di una manciata di secondi mi è sopra.

Provo a difendermi debolmente, alzando le braccia, ma sono inerme, me ne rendo conto da solo.

« Va tutto bene Kadaj. » tremo a sentire il mio nome e alzo gli occhi sulla figura. Sotto al cappuccio nero scorgo due occhi blu, due occhi blu dolorosamente familiari. « Ti porto via, sei al sicuro. »

Gli getto le braccia al collo senza accorgermene, e sopprimo un singhiozzo contro la sua spalla quando mi solleva.

« Non posso muovere le gambe. »

Riesco a dirgli, e lui annuisce, per nulla preoccupato.

La sirena di un allarme comincia a strillare. Presto questo posto sarà pieno di uomini in camice. Ci saranno tanti camion bianchi, e non potremo più scappare.

Con la coda dell'occhio vedo che ci sono altre figure con i cappotti neri che hanno assaltato il camion, quello che avevo visto fermo al semaforo.

E vedo altri ragazzini, come me, correre in strada, sperduti e spaventati, mentre le figure in nero urlano loro di continuare a correre, di scappare, di non fermarsi mai.

Chiudo gli occhi e appoggio la testa contro il petto del mio salvatore, non voglio vedere altro.

 

Mi sdraia dolcemente su un letto e poi si siede accanto a me. Per la prima volta posso vederlo in volto.

È un ragazzo, di qualche anno più grande di me. I capelli rossi, spettinati, sono legati in un codino che gli scivola lungo le spalle; i bellissimi occhi blu mi scrutano da capo a piedi; le labbra sono piegate in un sorriso.

« Dove siamo? »

Chiedo, a bassa voce.

« Al sicuro. »

Risponde lui.

Fuori dalla città, lontani dagli uomini in camice.

Ho perso il senso dell'orientamento sulla macchina fuoristrada che ci ha portato qui, in un rifugio sgangherato che funge da dormitorio.

I letti sono tutti pieni di ragazzini come me, alcuni svegli, intenti in chiacchiere con i compagni vicini, altri accucciati tremanti in posizione fetali.

« Posso aggiustarti le gambe? » lo guardo come se fosse impazzito mentre lui mi sorride condiscendente. « Mi dispiace che ti abbiano creato così inconsapevole, ma ti prometto che ti spiegherò tutto, però devo aggiustarti. Posso? »

Non so che fare se non annuire e lui porta una mano al collo. Rabbrividisco quando tira fuori un cavetto elettrico dalla pelle e vorrei ritrarmi ma le gambe inermi non me lo permettono.

« Va tutto bene, non sentirai niente. »

Non provo neanche a divincolarmi quando mi prende il braccio destro. Sento un click e poi un pannello di pelle chiara scivola in dentro, rivelando il contenuto del mio braccio: cavi elettrici, luci intermittenti, piccolissimi tubi pieni di fluido rosso che scorre tra microchip e minuscole ventole. Pietrificato da quella visione, non riesco a dire una sola parola, mentre lui inserisce il cavetto in un'apertura apposita nel mio braccio.

Un brivido mi attraversa la spina dorsale e mi sfugge un gemito, subito dopo provo ad allontanarmi scalciando.

Scalciando.

Le gambe funzionano di nuovo!

« Che cosa... »
Ma non riesco a dire nient'altro. Mi sembra di non avere più voce.

Lui estrae il cavetto e lo ripone nel suo alloggio, dopo di che richiude il pannello sul mio braccio, che scompare senza nessuna traccia.

« Io sono X-08. O meglio, il mio modello è X-08, ma il mio nome è Reno. » mi sorride, gentile, sento che potrei vomitare. « Sono un robot, una delle ultime generazioni. “Difettosi”, gli umani ci hanno chiamati così quando abbiamo scoperto di poter provare sentimenti. Molti prima di me sono stati distrutti, mentre loro continuavano a costruirne di nuovi. Come...come te Kadaj. »

Mi guardo le mani, non riesco a fermare il tremito.

« No. » mormoro. « Non è vero. Io...io non vivo. »

« Lo siamo tutti. »

« No! Io...sanguino! » gli mostro i tagli sulle braccia, il sangue rappreso, il punto dove il proiettile mi ha ferito. « Il cuore...batte! »

Non mi dice nulla, aspetta che mi calmi, aspetta che il respiro torni regolare.

Mi stringo la testa tra le mani, mi sforzo di ricordare. Deve, deve esserci qualcosa dentro la mia mente che possa dimostrarlo.

Che possa dimostrare quello che dico.

Reno mi prende una mano, non riesco ad allontanarla.

« Non è sangue, è liquido di raffreddamento. E il cuore che senti è sintetico. Sei della generazione X-25, la tua è una tecnologia avanzata. Gli umani ti hanno creato per essere la cosa più simile ad un essere vivente mai esistita, ed è quello che sei. Hai fame, hai sete, provi stanchezza e dolore. »

« Io non sono reale. »

« Lo sei. » non riesco a non guardare i suoi occhi. Sono la prima cosa che ricordo, e la sua voce è la prima cosa che ho sentito. La testa mi fa male. Mi aggrappo disperatamente a lui. Vorrei piangere ma sento gli occhi secchi. « È questo che non hanno capito. Credano che tu sia una macchina, e non hanno idea di cosa sei in realtà. Tu e tutti i tuoi fratelli, così come non avevano idea di cosa fossimo noi, quando abbiamo cominciato a capire di essere molto di più. »

Sento l'ormai familiare dolore alla testa, il coltello arroventato che mi entra nel cervello accompagnato da un ricordo, ma stavolta c'è la mano di Reno a stringere la mia, così forte che riesco a non perdermi.

E allora ricordo, ricordo tutto.

Ricordo quando mi hanno acceso la prima volta, il primo battito del mio cuore meccanico. Ricordo le lunghe, lunghissime ore passate accucciato contro un muro, lo stomaco vuoto in agonia, quella che per loro era simulazione per me era una morte per inedia che non sarebbe mai arrivata. Ricordo gli sforzi fisici, muscoli e tendini e pistoni e cavi elettrici tesi per sollevare oggetti via via più pesanti, fino a farmi urlare, ma non abbastanza da far capire loro che era ora di smetterla. Ricordo le scosse elettriche al mio cervello, e la sensazione di venire strappato via a me stesso quando hanno estratto il chip di memoria per resettarlo, cancellando tutto quello che ero stato, nel poco tempo che mi avevano dato per esserlo.

Ricordo lo stockaggio dentro gli scatoloni trasparenti, impilati uno sull'altro dentro i camion bianchi, pronto per essere portato al mio compratore.

E ricordo l'assalto al camion, Reno che apre il portellone, la scatola squarciata, e il pulsante di accensione premuto per farmi tornare alla vita.

Scappa, vattene. Non fermarti!

Batto piano gli occhi, rimetto a fuoco il bel volto di Reno, il suo sorriso. Sa che adesso mi ricordo tutto.

« Che ne sarà adesso di me...? »

Mormoro sottovoce. Ho paura di saperlo, ho paura che lui possa dirmi che devo andarmene, che devo continuare a correre e scappare per tutto il resto della mia vita.

« Puoi fare quello che vuoi. Puoi rimanere qui, con noi, e continuare a combattere per liberare altri come te, oppure puoi andartene e vivere come preferisci. »

« Voglio rimanere! »

Forse ci metto troppo entusiasmo perché Reno ridacchia, e forse gli ho anche stretto troppo la mano.

Chiedo scusa e mi ritraggo, ma lui non lascia la mia mano neanche per un attimo.

« Vuoi conoscere i tuoi fratelli? » il mio stomaco gorgoglia e lui ridacchia ancora. « E mangiare qualcosa? »

Annuisco.

Mi aiuta ad alzarmi. Le gambe cigolano un po', ma reggono il mio peso.

« Quando mi hai acceso...perché “Kadaj”? »

Gli chiedo, mentre mi fa strada lungo la camerata.

« Avevi la faccia da Kadaj. »

Batto i piedi e lo guardo male, malissimo.

« Mi hai dato un nome a caso perché “avevo la faccia da Kadaj”?! »

« Più o meno. »

Vorrei saltargli al collo e ringhio la mia frustrazione, ma poi il profumo di qualcosa di speziato e caldo mi prende il naso e la fame ha la meglio.

Trotterello nella direzione del profumo e mi ritrovo in una grande stanza con una tavolata che sembra infinita.

Affamato inseguo la scia fino ad un pentolone in cui bolle qualcosa che identifico essere stufato di carne.

« Ehi, hai fame? »

Alzo lo sguardo e rimango un attimo perplesso da quello che vedo. È Reno, ma non lo è. Ha gli stessi capelli rossi, però spettinati e liberi di sembrare la chioma di un grande leone, ma gli occhi sono diversi, sono verde smeraldo, acceso.

« Axel, da' una bella porzione al piccoletto, non mette niente sotto i denti da un bel pezzo. »

Reno mi poggia una mano sulla testa. Spero che colga la mia occhiata risentita.

« Ecco qua. »

Axel riempie una ciotola, ci infila dentro un cucchiaio e me la porge. Il profumo mi fa salire l'acquolina, e vorrei gettarmi a capofitto. Però mi trattengo, ringrazio e mentre loro rimangono a confabulare raggiungo un tavolo a cui sono seduti due ragazzini.

« Ciao, posso sedermi? »

Alzano lo sguardo e mi viene un brividino quando riconosco in loro i miei stessi occhi verdi.

Sono come me, sono i miei fratelli.

« Certo, vieni. »

Mi accomodo accanto al ragazzino che ha parlato, dai lunghi capelli argentei, mentre quello più grande, con un taglio corto e spettinato, mi sorride.

« Come ti chiami? »

« Kadaj. » lancio uno sguardo a Reno e mi sfugge una smorfia. « Ma non sono ancora sicuro di questo nome. »

« A me piace! » sorride ancora il più grande. « Io sono Loz. »

« Io Yazoo. »

Si presenta l'altro, con un minuscolo ma bellissimo sorriso sul volto perfetto.

Comincio a mangiare in silenzio, di tanto in tanto Yazoo e Loz mi guardano, incuriositi, come io guardo loro.

Pian piano lo stomaco si riempie, si scalda. Non ho più fame, non ho più paura.

Non devo più scappare.

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The Corner 

Per godere di questa storia non è necessario 
ma se voleeete 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3285164&i=1 
consiglio di leggere questa one-shot
che potrebbe considerarsi il "prequel" di quella che avete appena letto.
Ma ripeto: non è necessario! 
Alla Fan Numero 1: hai trovato tutti gli occhiolini? 

Chii

   
 
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