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Autore: AliceInWonderbook    08/10/2016    2 recensioni
Storia scritta per il contest It's too cliché indetto da rhys98 sul forum di EFP.
[PERCICO]
Dal testo: “Amico, non è uno schianto?” chiese Leo, indicando una ragazza con i capelli dello stesso colore del guscio delle mandorle e gli occhi da cerbiatta.
Se non fosse stato per il vestitino succinto e il palo intorno al quale si stava strusciando, si sarebbe potuto dire che aveva un’aria dolce.
Frank scosse la testa, incredulo.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Percy/Nico, Quasi tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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In vodka figuriamocis
By AliceInWonderbook

 
Alla fantastica Eris,
che ha sopportato i miei scleri,
che mi ha incoraggiata a partecipare e che ha creduto i me.

 
 
Jason sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
Tipico, pensò mentre scuoteva Percy per un braccio, cercando di svegliarlo e di farlo sciogliere dall’abbraccio – quanto mai sensuale – che l’amico si stava scambiando con la tazza del gabinetto.
“Ancora cinque minuti, mamma” biascicò Percy, la bocca impastata dal sonno e dai postumi della sbornia.
Scocciato, Jason diede uno strattone più violento, che ebbe l’effetto desiderato: il moro aprì gli occhi e si sedette con la schiena appoggiata contro le piastrelle color indaco del bagno.
“Buongiorno, principessa” fu il laconico commento di Jason, che lo guardava con aria di disapprovazione.
“Dove siamo?” chiese Percy, che sembrava spaesato.
Gli occhi verdi erano contornati da due cerchi vistosamente neri, che mettevano in risalto l’inusuale pallore del ragazzo.
La maglietta blu era stropicciata e i capelli, solitamente soffici, gli stavano appiccicati alla fronte, conferendogli un’aria febbricitante e malaticcia.
“Nel bagno di casa mia” rispose il biondo, allargando le braccia con aria vagamente disperata.
Percy annuì, stropicciandosi gli occhi e profondendosi in uno sbadiglio degno di un ippopotamo.
Tentò di alzarsi, facendo leva su entrambe le braccia, ma Jason dovette aiutarlo a tirarsi su e sorreggerlo, perché i giramenti di testa stavano intaccando non poco il senso di equilibrio del moro.
“Almeno ti ricordi qualcosa?” domandò Jason, dopo averlo accompagnato in cucina e avergli offerto un bicchiere d’acqua.
Uno scuotimento di testa gli bastò per capire che, la sera prima, l’amico doveva essersi ubriacato a tal punto da non avere memoria dei numerosi eventi che si erano susseguiti, uno dopo l’altro.
Di certo non sarebbe stato lui a spiegargli cosa aveva combinato, nossignore. Non era la sua balia e non aveva nessuna intenzione di metterlo al corrente del possibile disastro che aveva causato.
“Devo andare al lavoro. Non fare guai” si raccomandò il biondo, mentre rimboccava le coperte all’amico. Ok, forse era la sua balia, ma comunque...
Percy scivolò nel mondo dei sogni non appena sentì il suono delle mandate nel chiavistello e iniziò ad agitarsi nel sonno.
 
Le luci violacee dell’ambiente in cui si trovavano si muovevano fulminee, illuminando a turno i vari angoli della sala.
Le pareti, almeno così sembrava, erano nere e argentate, decorate con dei rombi glitterati, decisamente molto kitsch.
I tavolini, anch’essi argentati e kitsch, erano disposti intorno a una passerella di assi lucide, su cui, in quel momento, puntavano tutte le luci.
Un DJ se ne stava in un angolo, seminascosto da un enorme pannello bianco su cui campeggiava la scritta ‘Auguri, Jason!”, contornata da svariati disegni più o meno osceni.

 
Percy si svegliò di soprassalto, madido di sudore, chiedendosi da dove fosse arrivato quel sogno.
Si alzò e si diresse verso il bagno, lo stesso in cui si era svegliato quella mattina, completamente ignaro delle motivazioni che lo avevano portato lì.
Si spruzzò la faccia con un po’ di acqua fresca, poi ciabattò verso il frigorifero di Jason ed tirò fuori una mela.
Aveva letto da qualche parte che la mattina dopo una sbornia – almeno quello l’aveva capito, i postumi erano abbastanza evidenti – era consigliabile fare una colazione a base di frutta, per non stuzzicare il fegato, o qualcosa del genere...
Stava spiluccando la sua mela, quando il telefono di casa iniziò a squillare con insistenza, acuendo il già fastidioso mal di testa di Percy.
“Pronto?”
“Pronto, Jason?” la voce dall’altro capo sembrava esitante, ma soprattutto familiare.
Se solo Percy fosse riuscito a collegarla ad un volto o per lo meno ad un nome, sarebbe stato più semplice.
“No, sono Percy. Jason è andato al lavoro, ma chi è?” rispose, massaggiandosi una tempia, mentre con l’altra mano reggeva il telefono.
Il ragazzo dall’altra parte non disse nulla e attaccò in fretta e furia.
Certo che la gente è strana, pensò Percy, tornandosene verso la camera da letto di Jason e rimettendosi a dormire.
Fu un sonno privo di sogni di alcun tipo e, quando si risvegliò, si sentiva molto meglio. Guardò la sveglia sul comodino e strabuzzò gli occhi: erano le sei di pomeriggio.
“Buongiorno, principessa” disse Jason, per la seconda volta in quella giornata, evitando la cuscinata tiratagli dall’amico.
“Non chiamarmi principessa” sibilò Percy, fulminandolo con lo sguardo.
Jason ricambiò l’occhiataccia, per poi lasciarsi andare in una risata divertita.
“Prima che me lo dimentichi! – esclamò il moro, come colpito da un’illuminazione divina – Ha chiamato qualcuno, mentre non c’eri, ma ha attaccato prima che potessi capire chi fosse”.
Jason si sdraiò a pancia sotto e annuì.
“Era Nico, mi ha richiamato” spiegò, cercando di notare eventuali cambiamenti nell’espressione di Percy, che si limitò ad annuire a sua volta e a chiudere gli occhi.
“Ma davvero non ricordi niente?” chiese il biondo, dopo un po’, per rompere il silenzio.
L’amico scosse la testa, ma proprio mentre faceva quel gesto, qualche immagine confusa della sera prima gli balenò davanti agli occhi.
 
Leo rideva, indicando qualcosa sulla passerella. Il fumo rendeva difficile vedere, quindi Percy si chinò verso l’orecchio dell’amico e, cercando di sovrastare il suono della musica che rimbombava nella sala, gli chiese cosa ci fosse di tanto divertente.
“Aspetta e vedrai, non voglio rovinarti lo spettacolo” fu tutto quello che ricevette in risposta.
Percy sbuffò, sprofondando nella poltroncina nera su cui era seduto. Si sentiva a disagio, non era sicuro di voler scoprire con i propri occhi il motivo dell’ilarità di Leo. Conoscendolo, avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, quella che suscitava quelle risatine isteriche.

 
“Ehi, amico” disse Percy, cercando di richiamare l’attenzione di Jason, che si era messo a giocare con il telefono.
Il biondo alzò lo sguardo e lo fissò con aria interrogativa.
“Per caso, ieri sera, eravamo in uno strip club?”
La domanda suonava strana alle sue stesse orecchie, quindi rimase molto sorpreso quando ricevette una risposta affermativa.
“E, di grazia, potresti spiegarmi il motivo?” chiese, con una vena sarcastica nella voce.
Jason lo guardò inarcando il sopracciglio.
“Perché avete lasciato che fosse Leo ad occuparsi del mio addio al celibato, brutto idiota”.
Alcuni tasselli del puzzle iniziavano ad andare al loro posto, ma il quadro generale era ancora al di fuori delle corde di Percy, che si sforzava di ricordare quanto più possibile. Sentiva di aver fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa che voleva fare da tempo, ma che rimaneva comunque un errore.
Già, ma cosa?
Quell’interrogativo continuò a frullargli in testa anche mentre tornava verso casa sua.
L’autobus era semivuoto e il moro dovette ricorrere a tutta la sua forza d’animo per impedirsi di crollare addormentato contro il finestrino.
Entrò in casa e si accasciò sul divano, dopo aver recuperato una confezione di taboulet dal frigorifero.
Accese la TV e iniziò a fare zapping, prima di rinunciare e fiondarsi su Netflix a guardare How I Met Your Mother.
Stripper Lily* era intenta a fare il suo numero, davanti a degli stupitissimi Barney e Marshall, quando un flash improvviso si fece largo tra i pensieri di Percy.
 
“Amico, non è uno schianto?” chiese Leo, indicando una ragazza con i capelli dello stesso colore del guscio delle mandorle e gli occhi da cerbiatta.
Se non fosse stato per il vestitino succinto e il palo intorno al quale si stava strusciando, si sarebbe potuto dire che aveva un’aria dolce.
Frank scosse la testa, incredulo.
Leo non sembrava intenzionato a demordere, così rivolse la stessa domanda anche a Percy, che si limitò ad annuire, mandando giù il contenuto verdastro e non meglio identificato del suo bicchiere.
Approfittando della distrazione momentanea (che sembrava rispondere al nome di Calypso) dell’amico ispanico, Percy gli sottrasse il bicchierino e  scolò il liquido al suo interno.
“Ehi, Percy” disse Frank ad alta voce, per richiamare la sua attenzione.
Il ragazzo mugolò in risposta.
“Vacci piano, lo sai che non reggi bene l’alcol”.

 
L’episodio era ormai giunto ai titoli di coda, quando Percy si riscosse dallo stato di trance in cui si era trovato a galleggiare, insieme a una parte dei ricordi della sera prima.
Si rigirò i capelli tra le dita, pensieroso.
Se avesse continuato a ricordare in quel modo, a spizzichi e bocconi, non era sicuro di riuscire a ricostruire lo scenario completo e questo lo metteva molto a disagio.
Il sentore di aver combinato un pasticcio non lo aveva ancora abbandonato e l’eventualità che questo pasticcio fosse irrimediabile, lo tormentava.
Lanciò uno sguardo verso il muro e i suoi genitori gli restituirono uno sguardo comprensivo.
Sapeva che, se i suoi genitori fossero stati ancora vivi, non gli avrebbe di certo raccontato delle sbronze serali con gli amici, ma il fatto di non avere quell’opzione non era una cosa a cui si sarebbe abituato facilmente.
Con un sospiro si alzò, sbattendo ripetutamente le palpebre per ricacciare indietro le lacrime che spingevano per uscire.
Le strade erano piene di persone che si affrettavano a tornare a casa per cena o che si infilavano velocemente nei ristoranti e nei locali, per evitare il temporale che sembrava in arrivo.
Percy si strinse nella felpa blu che aveva indossato in fretta e furia ed entrò nel primo McDonald’s che si trovò davanti, mettendosi in fila per ordinare.
Pagò e ringraziò la commessa alla cassa, che gli porgeva sorridente il suo vassoio, poi si guardò intorno alla ricerca di un tavolo libero.
Molte persone dovevano aver avuto la sua stessa idea, perché il locale era gremito degli individui più disparati, ma uno di loro saltò subito agli occhi di Percy, come se fino a quel momento non avesse fatto altro che cercare proprio lui.
“Nico” disse, facendo un cenno di saluto con la testa.
Il ragazzo alzò la testa dal suo Happy Meal e guardò Percy con un’espressione di preoccupazione che rasentava il terrore dipinta sul viso pallido.
“J-Jackson” rispose, dopo una piccola esitazione.
Nico Di Angelo aveva il brutto vizio di chiamare le persone per cognome, soprattutto quando era agitato o nervoso per qualche motivo.
“Posso sedermi con te?” chiese Percy, guardandolo come se stesse cercando di ricordarsi qualcosa.
Nico annuì, una ciocca di capelli scurissimi che andava a offuscargli la visuale. Soffiò debolmente, per sistemarsela.
L’amico trovò quel gesto dolcissimo, ma non disse una parola, mentre iniziava a spiluccare le sue patatine. Dire al più piccolo qualcosa del genere, avrebbe causato braccia spezzate, probabilmente.
“Allora…” disse ad un certo punto Nico, piegando la carta del panino in modo quasi maniacale.
Di solito non era lui a rompere i silenzi imbarazzanti che – immancabilmente – si creavano, ma in quel caso aveva bisogno di sapere, altrimenti avrebbe rischiato di esplodere.
“Ti sei divertito, ieri?” domandò, chiaramente alludendo all’addio al celibato di Jason.
Percy gli rivolse un sorriso stanco.
“Se mi ricordassi qualcosa, a parte Leo che sbavava dietro a quella stripper, potrei risponderti”.
“Oh”.
Un misto di tante emozioni si accalcò nella testa di Nico, combattendo per avere il sopravvento sulle altre. Alla fine vinse il sollievo.
Era meglio così, si disse il ragazzo, accennando un mezzo sorriso in direzione dell’amico smemorato.
 
“Quanto hai bevuto, Percy?” la voce ovattata di Nico raggiunse le orecchie del diretto interessato, che si limitò a scuotere la testa.
Il movimento gli provocò una sensazione di nausea talmente forte, che fu costretto ad appoggiarsi sul suo amico, che gli scoccò un’occhiata carica di disapprovazione.
Percy sapeva che a Nico non andava che lui si ubriacasse in quel modo, ma non voleva pensarci. Non voleva pensare a nulla, voleva semplicemente sentirsi meglio per quel poco tempo che l’alcool gli concedeva.
“Sei carino, Nico” disse con la voce impastata, fissando gli occhi scuri dell’altro.
Il più piccolo arrossì violentemente, spingendolo su una sedia vuota e intimandogli di rimanere là, se non voleva crollare a terra come un cretino.
Poi corse via.

 
“Percy” la voce di Nico lo riportò velocemente con i piedi per terra.
Il più grande addentò il panino, annuendo come per spronarlo a continuare la frase lasciata in sospeso.
No, niente…” borbottò Nico, in italiano.
Percy, che a furia di sentire l’amico biascicare frasi in italiano, aveva iniziato a capire qualche parola, decise che era arrivato il momento di insistere.
Posò il cheeseburger nella sua scatola, alzando lo sguardo per fissare i suoi occhi in quelli scuri di Nico.
“Adesso me lo dici” intimò, senza giri di parole.
Cominciarono a battibeccare, nessuno dei due intenzionato a cedere per primo.
Uno sbuffo, seguito da un mezzo sorriso e Percy capì di aver vinto.
“Sei stressante, Jackson” comunicò solennemente Nico.
“Dimmi qualcosa che non so, tipo quello che volevi dire poco fa”.
“Volevo semplicemente chiederti se avessi da fare, o se ti andasse di venire da me a vedere un film”.
Il più grande si lasciò andare in una risata liberatoria, che ben presto sfociò in un attacco di ridarella.
Aveva decisamente bisogno di ridere, soprattutto quella sera e ringraziò il piccolo e perplesso Nico, che lo guardava senza capire il motivo di tanta ilarità.
“Sei ancora ubriaco?” chiese, infatti.
La domanda provocò un ulteriore singulto, poi Percy si ricompose.
“Tutte queste sceneggiate e poi volevi solo chiedermi di vedere un film insieme. Certo che mi va!”
Quando ebbero entrambi finito di mangiare ed ebbero riposto i vassoi, uscirono lanciandosi a capofitto nella pioggia che scrosciava prepotentemente, inzuppandoli dalla testa ai piedi.
Salirono le scale, lasciandosi alle spalle una scia d’acqua considerevole, e si fermarono davanti alla porta dell’appartamento di Nico, che aprì la porta e – facendosi da parte – invitò l’amico ad entrare.
“Prima le signore” disse, con un ghigno divertito.
Percy decise che ribattere sarebbe stato inutile e si limitò a varcare la soglia, fermandosi all’ingresso, sbattendo più volte le palpebre, per abituarsi alla penombra dell’ambiente, in netto contrasto con l’illuminazione a neon del pianerottolo.
Non era la prima volta che Percy entrava in quella casa, ma – anche dopo tutte le serate passate lì insieme all’allegra comitiva, a giocare a Tabù – non si capacitava di come Nico potesse vivere perennemente al buio.
«Non mi dà fastidio – si era premurato di spiegare – E poi il proprietario me l’ha venduta ad un prezzo stracciato a causa di questo piccolo difetto, perché nessun’altro sembrava intenzionato a comprarla».
Effettivamente, quella casa sembrava essere stata fatta per Nico, che quasi si mimetizzava nell’oscurità, tutto vestito di nero e con i capelli scuri che gli ricadevano sul viso.
“Vuoi qualcosa di asciutto?” la voce del padrone di casa riscosse Percy dai suoi ragionamenti.
“No, grazie. Preferisco rimanere con i vestiti fradici addosso e prendermi una broncopolmonite” fu la risposta di quest’ultimo, che si premurò di imprimere un tono esageratamente sarcastico alle sue parole.
Nico sbuffò, per poi sparire nella sua camera e uscirne poco dopo con dei vestiti e un asciugamano, che scaricò tra le braccia del suo amico, spintonandolo verso il bagno degli ospiti.
“Lì c’è il phon” gli disse indicandolo.
Senza aggiungere altro, uscì e si chiuse la porta alle spalle.
Dopo essersi asciugato e cambiato a sua volta, il ragazzo si diresse verso il salotto e si sedette a terra, con una pila di dvd accanto, indeciso su quale scegliere.
“Allora, hai già trovato cosa vedere?” chiese Percy, entrando nella stanza proprio in quel momento.
Nico alzò lo sguardo dalle custodie di plastica e non poté trattenersi dal sorridere.
La maglietta che gli aveva prestato era decisamente piccola per Percy e vederlo con indosso una t-shirt nera con un teschio stampato sopra sarebbe bastato, in quanto a comicità. Se ci si aggiungeva il fatto che la maglietta tirava in vari punti, la situazione diventava ancora più divertente. E sexy, doveva ammettere Nico.
“Che c’è?” chiese Percy.
“Sei buffo” commentò il ragazzo, anche se quello che avrebbe voluto dire era leggermente diverso.
“Sei tu che sei microscopico, non è colpa mia” disse l’altro, con una risata, sedendosi a terra accanto a lui.
Iniziò a guardare le copertine dei film, ammaliato dai colori.
“Cos’è questo?”
Posò il dvd sulle ginocchia di Nico, in attesa di una risposta.
La finestra di fronte, è un film italiano” spiegò lui.
“Voglio vederlo” disse Percy, come preso da un’urgenza improvvisa.
Nico tentò di persuaderlo che non era una buona idea, anche perché era in lingua originale e – anche con i sottotitoli – non avrebbe capito niente.
Non ci fu verso e alla fine dovette cedere, non senza imprecare sottovoce in italiano, per l’appunto.
Di tutti i film del suo archivio, Percy era andato a pescare proprio uno di quelli di Özpetek.
‘Complimenti, Jackson. Se volevi rendere la serata imbarazzantissima per me, ci sei riuscito in pieno’ pensò Nico, mentre inseriva il dvd nel lettore e lo faceva partire.
Si sedette sul divano, subito imitato da Percy che sembrava un bambino pronto a scartare i regali di Natale.
Nico sprofondò tra i cuscini, ma – nemmeno il tempo di mettersi comodo – le mani dell’amico si posarono sulle sue spalle, tirandolo verso di lui.
“Mi dispiace per te” sussurrò Percy mentre lo faceva sistemare accoccolato su di lui, per poi portare la sua attenzione verso lo schermo.
‘A me non dispiace per niente, caro mio’.
Una sensazione di calma invase Nico, che sorrise e rivolse lo sguardo verso la tv, dove una Giovanna Mezzogiorno quasi agli inizi della sua carriera, decideva di prendersi cura di un Massimo Girotti omosessuale e ormai agli sgoccioli della sua.
Aveva visto quel film centinaia di volte, eppure non se ne stancava mai.
Per un attimo si chiese come avrebbe potuto reagire Percy ad un film del genere, ma poi mise da parte il pensiero, concentrandosi sulla scena del ballo, scena che secondo lui era una delle migliori di tutta la pellicola.
“Quindi? Che ne pensi?” domandò, quasi ansioso, una volta terminato il film.
Percy si stiracchiò e gli rivolse un sorriso.
“E tu che non volevi farmelo vedere – disse in tono di rimprovero – È uno dei film più belli che abbia mai visto e non ho capito nemmeno tutto quello che hanno detto”.
Ci mancò poco che Nico si mettesse a saltellare in giro per la stanza.
Non sapeva nemmeno perché fosse così importante per lui che a Percy piacesse quel film, del resto era – per l’appunto – solo un film.
“Insegnami l’italiano!” esclamò Percy poco dopo.
“Sei serio?”
“Mai stato più serio in vita mia, Di Angelo”.
Seppur con una certa riluttanza, Nico acconsentì a quella stramba richiesta e dovette persino ammettere che era spassoso.
Percy sbagliava la pronuncia di tutte le parole e sfidarlo a pronunciare cose come ‘precipitosamente’ per tre volte di fila, sembrava divertire il piccolo italiano, che se la rideva beatamente.
“Te amo” disse di punto in bianco Percy.
Nico dovette ricorrere a tutto l’autocontrollo di cui era dotato per mantenere la calma. Era consapevole del fatto che il più grande avesse detto quelle due parole solo perché credeva che fossero in italiano, ma sentirgliele pronunciare aveva comunque una certa influenza sul suo povero cuore, che si premurò di accelerare a dovere, caso mai Nico avesse voluto dimenticarsi la sua mostruosa cotta.
“Magari dillo a Leo o a Reyna. In casa mia si dice ti amo, Jackson” corresse Nico, complimentandosi con se stesso. Non solo era riuscito a sembrare distaccato, ma aveva dato alla frase un tono sarcastico, degno di un qualsiasi Percy Jackson.
L’amico non rispose, lo sguardo fisso nel vuoto.
 
“Hai visto Nico?” biascicò Percy, aggrappandosi al braccio di Frank, che lo guardava con aria schifata, mista a pena e disapprovazione.
“Puzzi di vodka, amico” gli fece notare quest’ultimo, senza rispondere alla sua domanda.
Percy gli rivolse un sorriso ebete e gliela ripeté.
“Di là” cedette in fine il ragazzo, spintonandolo nella direzione giusta.
Caracollando, Percy raggiunse un angolo buio, dove se ne stava rintanato il tenebroso ragazzo italiano, che adesso stringeva a sua volta un bicchiere tra le mani. Lo svuotò tutto d’un fiato e lo aggiunse alla piramide di vetro che stava evidentemente costruendo.
Scivolando con la schiena lungo la parete, il ragazzo si accasciò a terra vicino all’aspirante architetto e posò la testa sulla sua spalla.
“Non dovresti bere così tanto, Nico”.
“Sei l’ultima persona al mondo che possa farmi la predica, guarda co-” fu la risposta, interrotta da un singhiozzo, seguito da una risatina.
Percy rise, per poi tornare serio un attimo dopo.
“Devo dirti una cosa”.
“Prima io, Jackson – disse Nico con un sospiro – Ti amo”.
Ubriaco com’era, impiegò un po’ a capire che l’ammasso di suoni che Nico aveva pronunciato era in realtà una confessione in italiano.
Alzò lo sguardo verso di lui e sorrise, per un attimo lucido, poi si avvicinò al suo viso. Lo fissò con gli occhi appannati dall’alcool, chinandosi quel tanto che bastava per posare le labbra su quelle dell’italiano.
Dopo un iniziale indecisione, Percy baciò Nico con foga e lui ricambiò, lasciandosi trascinare.
Quando si staccarono, rimasero entrambi fermi a fissare il vuoto davanti a loro, come in trance, senza dire una sola parola.
 

 “Terra chiama Percy Jackson” stava dicendo Nico, agitando una mano davanti alla faccia del sopracitato Percy Jackson, che si riscosse all’improvviso.
“Io… Devo andare” balbettò, precipitandosi verso l’ingresso e dandosi alla fuga giù per le scale.
Una volta arrivato davanti al portone, si rese conto di essersi dimenticato la giacca al piano superiore, ma era troppo agitato perché gli importasse qualcosa.
Si lanciò a capofitto nella pioggia, correndo fino a casa.
Si fermò con il fiatone, le mani poggiate sulle ginocchia e gli occhi vagamente iniettati di sangue.
Finalmente a casa, si spogliò, tenendosi addosso solo la maglietta di Nico e si buttò sul letto. Rimase a fissare il soffitto, i pensieri che si inseguivano rumorosamente nella sua testa.
Era un ricordo della sera prima o semplicemente una fantasia, un brutto scherzo giocatogli dalla sua mente confusa? E se era davvero un ricordo, anche Nico aveva memoria di ciò che era successo, o – offuscato com’era dalla vodka – aveva dimenticato tutto? Sarebbe stato meglio o peggio?
Nico era serio quando gli aveva confessato di amarlo? E lui, cosa provava?
Quel bacio… Da dove era nato quell’impulso? Era stato un semplice riflesso dell’alcool, unito a quella confessione inaspettata, o lo avrebbe fatto comunque? Voleva farlo? Lo avrebbe baciato da sobrio?
“Basta!” disse a voce alta Percy, ciabattando stancamente verso la cucina, alla ricerca di una valeriana. Aveva bisogno di dormire e sapeva che l’unico modo era quello di ingerire una pastiglia.
Tornò in camera e spense la luce, infilandosi sotto le coperte.
Si svegliò direttamente la mattina dopo, disturbato dal trillo insistente del campanello, intontito e con la bocca impastata dal sonno.
“Chi è?” chiese, una volta raggiunta la porta.
“Nico. Aprimi, ti prego” disse con voce supplichevole l’amico, come intuendo che Percy era tentato di non farlo.
Il tono, però, bastò a far cadere ogni possibile resistenza che questi avrebbe potuto opporre, infatti la porta si aprì, lasciandolo entrare.
“Uhm… Percy” disse Nico, schiarendosi la voce imbarazzato.
“Sì?”
“Sei in mutande e hai ancora la mia maglietta addosso” borbottò arrossendo, senza riuscire a guardarlo in faccia.
Percy abbassò lo sguardo, come a volersi assicurare della veridicità delle parole di Nico.
Accertatosi di essere effettivamente in mutande, si lasciò sfuggire una risatina che fece trasparire per qualche istante la sensazione di disagio che lo attanagliava, poi riacquistò il suo solito fare ironico.
“Beh, è un bello spettacolo, no?”
Nico si guardò bene dal rispondere a quella domanda, allungandogli invece un sacchetto di carta che emanava un ottimo profumo.
“Ho portato le brioche”.
Percy sorrise e, senza fare niente per rimediare alla sua parziale nudità, scartò l’involto contenente la colazione, poi fece per prendere la macchina del caffè, ma Nico si precipitò a fermarlo.
In tutta sincerità, gli diede uno schiaffo sulla mano prima che potesse fare qualsiasi cosa.
“E questo perché?”
“Perché voi americani e il caffè non siete fatti l’uno per l’altro. Lascia fare a me e vai a vestirti,ti prego” disse il ragazzo italoamericano, stringendo la caffettiera per il manico con aria protettiva.
Percy annuì e si diresse verso la propria stanza e indossò il primo paio di pantaloni che trovò, i rumori provenienti dalla cucina attutiti dalla porta chiusa.
Si guardò allo specchio e si scompigliò ancora di più i capelli già in disordine.
Dopo essersi lavato in fretta viso e denti tornò in cucina, dove lo aspettavano un Nico pensieroso e una tazza di cappuccino fumante.
“Come hai…” cominciò incuriosito, zittito subito dalle parole dell’amico.
“Sono italiano”.
“Sì, ma…” tentò di ribattere Percy.
“Non si rivelano i segreti e i trucchi del mestiere” sentenziò Nico, con un tono che non ammetteva repliche.
Si sedettero, ognuno con una tazza e una brioche davanti, il silenzio intorno a loro che diventava sempre più opprimente ogni secondo che passava.
Percy cominciò a tormentarsi le dita delle mani, cercando un modo per iniziare una conversazione che non sapeva come iniziare. Né tantomeno come continuare o finire. Era confuso, aveva paura, ma – allo stesso tempo – aveva bisogno di liberarsi del peso che gli gravava sulle spalle da un po’ di tempo a quella parte.
“Nico…” mormorò, non senza una certa esitazione.
Sapeva di dover dire qualcosa, ormai aveva iniziato, ma riordinare le idee diventava più difficile ad ogni occhiata che il più piccolo gli lanciava.
“Sì?” chiese questi, vedendo che Percy non andava avanti.
Con un sospiro, il ragazzo fissò gli occhi verdissimi in quelli dell’italiano e raccolse tutto il coraggio che aveva in corpo.
“Io… Mi sono ricordato di una cosa che è successa allo strip club. Sì, sai… All’addio al celibato di Jason. È una cosa che riguarda anche te, ma non so se tu l’abbia dimenticata. Da una parte sarebbe meglio, ma…” si interruppe, osservando la reazione di Nico.
L’aria pensierosa di poco prima era stata sostituita da una faccia sconvolta, accompagnata da un rossore diffuso sulle guance, che raggiungeva anche le orecchie, che sembravano sul punto di prendere fuoco.
Prima che potesse dire qualsiasi cosa, però, l’altro riprese il suo discorso, terrorizzato dall’idea di perdere il coraggio raccolto.
“Ci ho pensato, dèi se ci ho pensato, e a furia di pensarci sono giunto alla conclusione che non ci capisco più niente” abbassò lo sguardo sulla tazza ormai semivuota, facendo scorrere le dita sui bordi di ceramica arrotondati.
“Conosco la sensazione”.
“Il punto è che non so come fare. Nel senso, come si fa a capire se si è innamorati di una persona? Sono gay? Non so più nulla, ormai”.
Nico gli rivolse un sorriso che voleva essere un sorriso di conforto e trascinò la sedia più vicina a Percy.
“Io ho capito di essere innamorato di te quando mi sono reso conto che la tua presenza mi faceva bene. O anche solo pensare a te, mi fa venire le cosiddette farfalle nello stomaco. E sogno di baciarti da anni” sputò fuori tutto d’un fiato, sorprendendosi della sua stessa audacia.
Non pensava che avrebbe mai pronunciato ad alta voce quelle parole e si ritrovò inaspettatamente a sorridere.
Tornarono a guardarsi in silenzio, Percy impegnato ad elaborare le informazioni.
“Posso chiederti un favore? Puoi dirmi di no”.
“So che posso dirti di no, Jackson” disse Nico, sarcastico.
“Lasciamo perdere…”
“Ho un’idea, ma devi lasciarmi fare, ok?” chiese all’improvviso il più piccolo.
Percy annuì ed eseguì l’ordine di chiudere gli occhi che gli arrivò poco dopo da Nico.
Sentì il ragazzo spostarsi, poi le sue labbra posarsi piano sulle sue.
Erano screpolate, ma non gli dava fastidio.
Con una delicatezza che non credeva possibile, la mano di Nico gli accarezzò i capelli, mentre dischiudeva lentamente le labbra.
Percy fece lo stesso, in un gesto che gli sembrò così naturale che si chiese per quale assurdo motivo non lo avesse fatto prima.
Il sapore amaro del caffè, misto allo zucchero della brioche e a qualcosa che non riusciva ad identificare, lo inebriarono a tal punto, che quasi non si accorse di essersi alzato in piedi, trascinando Nico con sé, e di averlo spinto verso il muro della cucina.
Aprì gli occhi per qualche secondo, staccandosi leggermente dal più piccolo per osservarlo.
Sembrava così felice e in pace col mondo, non lo aveva mai visto così rilassato.
Si concesse di sorridere, prima di avventarsi di nuovo su quelle labbra screpolate che parevano chiamarlo, stregandolo con il loro incantesimo.
“Credo di aver capito” commentò Percy, quel giorno qualche ora più tardi, seduto sul divano, con la testolina di Nico poggiata sulle gambe.
Gli stava accarezzando i capelli, osservandone i lineamenti distesi e gli occhi chiusi.
“Capito cosa?” domandò il ragazzo, aprendo gli occhi scuri.
“Lo sai benissimo, idiota”.
“Magari voglio sentire la tua voce che pronuncia quello che nel profondo del mio cuore so già” disse Nico, divertito.
“Credo di aver capito cosa significhi avere le farfalle nello stomaco. È quella sensazione che mi assale ogni volta che mi guardi, piccolo perfido italiano” rispose Percy.
“Ce ne hai messo di tempo per arrivarci, eh?”
“Non infierire, sto aprendo il mio cuore!” esclamò il più grande, stando al gioco.
“E non è l’unica cosa che aprirai” commentò con aria maliziosa Nico, lasciando Percy per un attimo senza parole.
“Chi sei tu e cosa ne hai fatto del timidissimo Nico Di Angelo che si vergognava anche solo di chiedermi di andare a casa sua per vedere un film?”
Nico fece spallucce, tirandosi a sedere.
“L’ho rapito e l’ho rinchiuso in cantina – spiegò, facendo una smorfia che lo fece sembrare quasi folle per un attimo – Ma posso farlo tornare in libertà quando vuoi, se ti piace il genere”.
“Mi piacciono entrambe le versioni, ad essere sincero” disse Percy, tornando improvvisamente serio.
“Davvero? Non è che siano poi un granché…”
In tutta risposta, il più grande avvicinò il proprio viso al suo e mormorò: “Sai, caro il mio Di Angelo, a volte dovresti utilizzare la bocca per fare qualcosa di più utile che sparare idiozie. Ad esempio, potresti usarla per baciarmi. Oppure preferisci che ti tappi io la bocca?”
Senza dargli il tempo di ribattere, lo baciò dolcemente.
Da quando le sue labbra si erano posate per la prima volta su quelle di Nico, sentiva il bisogno di quel contatto, come se fosse preoccupato che il ragazzo potesse decidere di andarsene e lasciarlo solo da un momento all’altro.
“Sì, credo si possa fare” disse Nico, scostandosi un poco, per poi spingere piano Percy contro i cuscini del divano e mettendosi a cavalcioni su di lui, con un sorriso.
“Si può decisamente fare” aggiunse.
 

*In How I Met Your Mother, nell’episodio Double Date, Barney e Marshall trovano una stripper che somiglia a Lily, fidanzata di Marshall, e la soprannominano, appunto, Stripper Lily.

NdA: Non sono particolarmente soddisfatta della riuscita di questa storia, ma sono molto contenta di essere riuscita a finirla prima della scadenza del concorso. Non ero mai riuscita a portare a termine un lavoro prima della scadenza, quindi sono fiera di me.
Un bacio e un biscotto della fortuna,
Alice In Wonderbook

 
 
  
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