Pairing: Daichi x Suga
|Asahi x Noya |(in più piccola parte anche Iwaizumi x Oikawa | Kageyama x Hinata).
Parte: 1/3 (sebbene
la storia nasca e si sviluppi come unica e sia divisa solo per comodità).
Avvertimento: Soulmates!AU
in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno.
| Angst | Molto angst | Sebbene siano vicende nuove, la
storia nel suo continuum e contesto è legata alla prima soulmate
di questa raccolta, che può essere letta qui.
Note d’Autore: (e maledizioni) a fine storia.
Ringraziamenti e dedica: Un immenso grazie, come sempre, alla
mia Arianna che legge in anteprima, vigila, consiglia e beta tutto quello che
scrivo.
Just a little late
(you found me).
Nempe tenens quo amo[…]
per freta longa ferar:
nihil illum amplexa verebor
aut, siquid metuam, metuam de coniuge solo.
Daichi
riusciva a trovare rilassante l’andare in bicicletta, anche se si trattava di
farlo per tornare a casa dopo gli allenamenti di pallavolo: in qualche modo
scaricava, pedalando, l’adrenalina che inevitabilmente accumulava agli
allenamenti o durante le partite di prova, quindi lo faceva volentieri, soprattutto
se i tramonti erano caldi e poteva andarsene con calma, guardando magari quello
che lo circondava.
«Daichi! Hey, Daichi!».
Il capitano della Karasuno
accostò sentendosi chiamare: voltandosi, notò che poco dietro di lui era
comparsa la sagoma di Nishinoya, anche lui in
bicicletta, che si sbracciava, tenendo il manubrio con una sola mano. Il Libero
lo raggiunse velocemente e si fermò riprendendo fiato per quell’accelerata.
«Non dovresti guidare con una sola mano», lo
rimproverò quello bonariamente il Capitano, mentre con un cenno della mano lo
salutava. Noya si grattò la nuca in imbarazzo: Daichi sapeva essere spaventoso quando si arrabbiava, ma
era solitamente calmo e protettivo in una maniera che faceva stare tutti bene,
silenziosa e onnipresente. Era facile considerarlo un fratello maggiore: si
faceva volere bene con la sua semplice presenza.
«Volevo raggiungerti quanto prima», si
giustificò «E non ti fermavi, quindi dovevo farmi vedere».
Daichi
scosse appena la testa: aveva perso ormai da tempo la speranza di mettere un
po’ di buonsenso in quella testa vuota e ormai il modo di fare spericolato di Noya era diventato anche per lui abituale – in fondo, era
parte della sua indole da Libero e, si rendeva conto, non avrebbe voluto che
cambiasse.
«Facciamo la strada assieme?», gli aveva intanto
chiesto il ragazzo, montando di nuovo in sella e dando l’impressione di non
riuscire a star fermo per un attimo – Daichi non
poteva fare a meno di notare che era anche per questo che Noya
pareva andare tanto d’accordo con Hinata, sebbene non
si conoscessero da molto.
«Perché no?». Montò anche lui nuovamente in
sella e presero a pedalare con calma, Noya che
provava a star tranquillo e al passo del capitano e Daichi
fiero del suo ruolo di leader.
Stavano discutendo del più e del meno quando
successe; col senno di poi nessuno dei due si sarebbe ricordato di quegli
istanti, tanto fu improvviso ciò che accadde. Non lo videro, non se ne resero
conto. Daichi aveva l’abitudine, quando non era solo,
di camminare o pedalare all’esterno, in una sorta di posizione protettiva rispetto
a chi gli era accanto, ma quella volta era Noya a
frapporsi fra lui e la strada. Forse fu per questo che non se ne accorse – la
guardia bassa, la stanchezza degli allenamenti, la visuale per metà bloccata
dal Libero. Guardava avanti mentre parlava, Daichi,
quando all’improvviso Noya gli fu addosso. Non capì,
davvero non ebbe tempo di realizzare che cosa stesse succedendo. Un attimo
prima pedalavano tranquillamente insieme, quello dopo erano entrambi finiti in
una scarpata – che costeggiava la carreggiata lungo cui stavano camminando –
perché una macchina andando ad alta velocità non li aveva visti ed aveva
tagliato loro la strada.
Sentirono solo il peso dei loro corpi che si
colpivano, la sensazione di non avere più terra sotto i piedi. Poi lo schianto
ed il buio. Non ci fu tempo neanche per il dolore. Forse fu un bene.
***
Hinata aveva
insistito per allenarsi ancora, sebbene ormai fosse quasi sera: non era una
novità, la sua, e ormai il professor Takeda si fidava
abbastanza da lasciare a qualcuno del terzo anno – se partecipava a quegli
straordinari – o a Kageyama le chiavi della palestra
quando non poteva aspettare che la giovane Esca finisse. Solitamente, Sugawara era felice di restare con loro anche solo per
guardarli allenarsi: gli piaceva vederli tanto affiatati, recuperare il tempo
che non avevano passato insieme. Di tanto in tanto partecipava anche lui: stava
diventando bravo a capire Hinata ed essere in campo
con Kageyama si sarebbe potuto rivelare più utile di
quanto potessero pensare in futuro, quindi un po’ di allenamento extra non
avrebbe fatto male neanche a lui.
Quella volta osservava. Aveva alzato un paio di
volte ad Hinata e eccezionalmente anche Kageyama aveva voluto provare a schiacciare, mentre adesso
era il turno della loro personale veloce.
Era sempre uno spettacolo vedere quanto potevano essere precisi e rapidi
nell’esecuzione: Suga già immaginava che, una volta che Hinata
fosse stato in grado di direzionare il colpo a suo piacimento, quella sarebbe
stata la loro arma segreta, imprendibile ed invincibile. La Karasuno
stava rinascendo ed era così fiero di poter vedere i corvi spiccare di nuovo il
volo.
L’alzatore, ancora a bordo campo, portò
istintivamente una mano al petto – un paio di battiti erano come saltati,
accavallandosi, spezzandogli il fiato. Suga trasse il respiro a vuoto più di
una volta prima di riuscirci davvero e mantenendo gli occhi spalancati vide il
cambiamento in atto in tutte le sue fasi. Fu come una lampadina tremula che ad
intermittenza annuncia la sua prossima fine, se non fosse stato che in lui era
completamente il contrario: ad intermittenza, nei suoi occhi, i colori
annunciavano la nascita del legame e il ragazzo avrebbe potuto scommettere la
propria vita che era con Daichi.
Quando finalmente tutto si stabilizzò, quando
Suga riuscì a distinguere le sfumature chiassose che aveva intorno, si accasciò
sulle ginocchia per lo shock improvviso.
«Suga!». Hinata corse
verso il ragazzo, mentre Kageyama gelava sul posto
prima di seguire il compagno. Shouyou gli si inginocchiò accanto, spaventato, chiamandolo
ma senza sapere bene che cosa fare finché non fu il più grande a rassicurarlo,
mettendogli una mano sulla spalla ed usando il suo aiuto per alzarsi.
«Va tutto bene, Hinata,
va tutto bene», sussurrò – tremava, tremava per tutto quello che ogni
gradazione nella stanza significava. «Io… li vedo. Vedo i colori». Le parole
soffocarono in gola e gli occhi si riempirono di lacrime che lentamente
scivolarono sul suo viso appena pallido. Suga non riusciva ancora a realizzare del
tutto quello che stava accadendo: era vero, era finalmente vero! Il suo legame,
il legame con Daichi… lui aveva un legame con Daichi ora! Un legame come gli altri, un legame che li
avrebbe riconosciuti come coppia, che avrebbe finalmente tolto la tristezza e
le incomprensioni e la malinconia e…
In tutta quella gioia, nonostante tutta quella
gioia, Suga lo avvertì. Distante, appena percettibile, uno strano dolore.
Cos’era? La possibilità di perdere qualcosa che finalmente esisteva? La
possibilità che tutto tornasse come era stato prima – o peggio – proprio ora
che le cose erano cambiate? No… era qualcosa di più profondo di quell’istinto,
qualcosa che il ragazzo faticava ad identificare, che a dirla tutta non aveva
voglia di comprendere. Era felice, felice
davvero dopo anni. La meritava quella felicità, la meritava con tutto se
stesso e la voleva più di qualunque altra cosa. Ignorò la sensazione distante,
i pensieri negativi, l’istinto: si concentrò solo sul bene che sentiva, sui
colori che vedeva.
Gli occhi brillanti di Hinata,
appena velati delle sue stesse lacrime, furono una visione bellissima. Suga lo
strinse a sé con tutta la forza che aveva, con tutta la gioia che provava e che
anche il più piccolo sentiva: s’erano legati così tanto in quei mesi che gioivano
e soffrivano delle stesse cose; Hinata sapeva fin
troppo bene che cosa significava e tratteneva a stento la contentezza – neanche
la sua situazione a metà sporcò quel momento. Kageyama,
di natura meno espansivo, sorrideva quasi incantato, con una mano a stringere
la spalla di Suga e godendo della gioia comune.
Forse, in fin dei conti, le cose potevano andare
bene per tutti. Forse, bastava non perdere la speranza.
***
Asahi aveva da poco messo piede in casa. Aveva
salutato i suoi, rubato qualcosa dalla cucina facendo attenzione che sua madre
non lo vedesse, ed era salito in camera sua: era distrutto dagli allenamenti e
dalle lezioni, dalla pesantezza dell’intera settimana e non sarebbe riuscito a
tenere la testa dritta a tavola neanche volendo. S’era messo a letto, avendo
giusto la forza di togliersi pantaloni e camicia e, mangiucchiando qualcosa,
aveva preso a fissare il soffitto, perso nei più diversi pensieri.
Con le eliminatorie del Torneo Primaverile che
si avvicinavano, le cose tornavano a farsi serie per la Karasuno:
era il momento della rivincita e avrebbero dovuto impegnarsi a fondo per mettere
a punto nuovi colpi e nuove tattiche si volevano riscattarsi della sconfitta
all’Inter High. Il ragazzo sospirò:
non era il capitano, ma come Asso anche lui aveva una grossa responsabilità
verso la squadra e doveva tenere alto il loro morale, essere in grado di
segnare, sempre, di portarli alla vittoria. Suga e Daichi
sembravano nati per quel ruolo: il capitano era una tacita sicurezza di avere
le spalle coperte, mentre l’esperienza dell’alzatore gli permetteva di essere
accurato negli schemi di gioco e prevedere le reazioni degli avversari per
poter così fare subito punto.
E lui? Era diventato Asso quasi in maniera
implicita, per convenzione, come un meccanismo avviato da sé, e per quanto
ormai sentisse suo quel ruolo e lo volesse davvero, non riusciva a scrollarsi
di dosso la sensazione di dover fare di più. Forse era per via di Kageyama ed Hinata, due primini
che non facevano altro che migliorarsi; alle volte temeva che sarebbe caduto
nella facile tentazione di nascondersi dietro le veloci, fingendo che andasse bene così, che la squadra avesse già
tutto. Sapeva invece che doveva farsi valere – la squadra sarebbe stata forte
solo se avessero combinato tutte le loro armi e i loro colpi migliori.
Asahi si chiese come facesse Suga a gestire
quella situazione, dal momento, poi, che non era più titolare. Lo ammirava:
insieme a Noya, lui era quello a cui guardava di più
in squadra, quello da cui avrebbe voluto imparare più cose.
Tutto cominciò con un lontano fastidio
all’altezza dello stomaco, qualcosa a cui Asahi cercò di non fare caso, dando
la colpa all’aver mangiato stando sdraiato. Non ebbe, però, che qualche istante
per illudersi che non fosse nulla: il fastidio si trasformò in dolore e il
dolore salì fino all’altezza del petto. Asahi smise di respirare e spalancò gli
occhi – il male era così forte che questi si velarono di lacrime, ma il ragazzo
non fu in grado di gridare tanto era lo shock.
Cosa… cosa gli stava succedendo? Stava avendo un
infarto, stava morendo, doveva chiamare aiuto? Come… come si chiamava aiuto?
Come si muovevano i muscoli…? Il ragazzo sentiva di non poter fare nulla, di
non essere in grado neanche di respirare. Il dolore era lancinante, era
ovunque, gli occupava ogni pensiero come ogni fibra del corpo, tanto che Asahi
non aveva più coscienza di quello che lo circondava. Non pensava, non poteva,
gli era impossibile.
Eppure, in quel assoluto nulla fatto solo della
percezione del dolore, Asahi seppe che non dipendeva da lui: non si trattava di
ragionare ma di istinto, di una verità semplice ed assoluta come la gravità –
non era davvero lui a stare male.
«YUU!».
Fu il primo pensiero che la sua mente riuscì di
nuovo a formulare, la prima cosa che la sua bocca riuscì a gridare. Ne fu
consapevole nell’istante in cui si sentì gridare: Noya
stava male, era suo quel dolore, suo quel pericolo. Bloccato in quel letto, con
le lacrime che ormai gli rigavano il viso, Asahi sentì l’opprimente sensazione
che lo avrebbe perso, che era successo qualcosa di tremendo, di potenzialmente
irreparabile.
Ed io
non sono con lui.
I compagni
morivano. Era il ciclo della vita, la morte non risparmiava neanche loro –
perché avrebbe dovuto? I compagni
morivano e quando accadeva non c’era sensazione peggiore che chi era loro
legato potesse provare. Accadeva una sola volta nella vita ed era un po’ come
la morte stessa, un suo anticipato saggio, uno spegnersi a metà. Asahi lo
sapeva, aveva visto com’erano gli occhi delle persone che avevano perso i
propri compagni – qualcuno andava avanti per inerzia, come vivono le piante,
aspettando il nuovo giorno senza pretese, un po’ sperando di non vederlo di
nuovo; altri ci provavano ad avere una nuova vita, qualcuno accanto, ma non funzionava
mai davvero. Era drammatico il destino.
Asahi era sempre stato il tipo di persona che
pensa al peggio. Si diceva che fosse per preparasi:
abituarsi al peggio per gioire nel caso, invece, andasse bene. La realtà era
che forse aveva paura: di soffrire, di restare deluso, di non riuscire a
dormirci la notte. Aveva paura di tutto Asahi perché aveva paura di fare
costantemente la mossa sbagliata e perdere, di far soffrire chi gli era accanto
– non l’avrebbe sopportato; per questo alle volte rinunciava, per questo aveva
smesso di giocare a pallavolo.
C’aveva pensato, la prima volta, pochi giorni
dopo aver stretto il legame con Noya. Erano usciti
insieme, semplicemente per fare una passeggiata e Yuu
aveva riso tanto, facendolo ridere a sua volta. Erano stati bene, così
dannatamente bene che Asahi avrebbe voluto che non finisse mai; quando s’erano
salutati, Noya lo aveva tirato a sé, cogliendolo di
sorpresa e sfiorandogli appena le labbra, prima di augurargli la buonanotte e
rientrare con una certa velocità. Asahi era rimasto senza parole a fissare la
porta di casa dietro cui era scomparso, imbambolato forse anche per qualche
minuto prima di realizzare che magari sarebbe stato meglio andare via. In quel
preciso istante aveva pensato che stava bene, troppo bene. Che se fosse
successo qualcosa a Noya lui sarebbe stato
semplicemente perduto.
Ma era stato un pensiero occasionale, nulla di
concreto. Yuu era così pieno di vita e di energie,
così instancabilmente attivo come persona e come Libero che davvero Asahi non
s’era mai preoccupato realmente per lui. Stava troppo bene e così anche la sua
naturale paura spariva quando gli era accanto. Lo rendeva forte come lui stesso
non aveva mai creduto di essere.
Ma ora stava succedendo davvero, ora Noya stava talmente male che Asahi lo sentiva, come se gli
stessero aprendo il petto per strappargli il cuore dall’interno e nello stesso
tempo gli tenessero una mano bloccata sulla gola per impedirgli di respirare.
Ora l’istinto, il legame che aveva col suo compagno
reagiva di contrappeso all’immobilità dello shock e del dolore e il ragazzo
lottava per riprendere possesso dei suoi sensi e del suo corpo, per alzarsi,
per fare una qualunque cosa che potesse fargli capire cosa stava succedendo a Noya.
«Ti prego… ti prego… ti prego», sussurrava,
mentre riacquistava coscienza dei suoi arti e cercava di slanciarsi dal letto
«Ti prego, non puoi… non puoi lasciarmi… Non così, non adesso, non tu… Ti
prego…». La pressante sensazione che sarebbe stato troppo tardi martellava
nella sua testa. Che avrebbe fatto se fosse successo? Se all’improvviso anche
quel dolore immenso fosse sparito lasciando un vuoto enorme, sancendo la fine
di ogni cosa? No, no, no, lui quel dolore lo voleva! Lo voleva sentire tutto,
se sentirlo significava che aveva ancora una speranza di capire che cosa stava
succedendo e magari rimediare. Lo avrebbe raggiunto, magari salvato, avrebbe
fatto qualcosa di davvero buono per una volta.
Si gettò dal letto con non seppe quale forza. Il
resto fu inutile: il male oscurò ogni altra cosa, portandolo all’incoscienza.
***
I corridoi degli ospedali, agli occhi di Hinata, erano sempre parsi tutti uguali: bianchi, pieni di
porte, pieni di camici e di tanto in tanto pieni di gente che andava e veniva,
più o meno tutta con la stessa faccia smorta o sconsolata. Erano anonimi quelli
che gli passavano davanti, anche in quel momento: il ragazzo non riusciva a
fissare nella sua testa le loro facce, pur guardandoli attentamente, al limite
della sfacciataggine. Non sapeva che fare, Hinata,
che dire, in che modo porsi in quell’ambiente. Se ne sentiva estraneo, eppure
era stato risucchiato da esso con una velocità che gli faceva paura, che lo
destabilizzava. Come un muro troppo alto. Ora non riusciva a vedere dall’altro
lato.
Kageyama era
accanto a lui, dritto, con la testa appena appoggiata al muro che avevano alle
spalle. Non aveva detto nulla, non era riuscito a parlare da quando avevano
saputo. Nessuno aveva parlato in realtà: Suga aveva appena balbettato qualcosa.
Poi erano corsi: Kageyama ricordava vagamente il
percorso che avevano fatto, come erano arrivati davanti all’ospedale; da quando
s’erano seduti, in attesa, ogni istante s’era susseguito uguale a quello
precedente, in un’immobilità che lo disorientava. Che si faceva in questi casi?
Che si diceva? Tobio non poteva fare a meno di
pensare, egoisticamente, a come avrebbe reagito se una cosa del genere fosse
successa a lui, se mai Hinata…
Io non
l’avrei sentito.
Quel pensiero, da nulla, gli rimbombò nella
mente vuota e ancora sotto shock e fu assordante per l’eco che si lasciò
dietro. Kageyama abbassò la testa, sgranando gli
occhi. Era così. Era davvero così. Loro… lui… se fosse successo qualcosa ad Hinata non lo avrebbe mai saputo. Persino Suga, in cui il
legame s’era creato da pochissimo, aveva capito che qualcosa non andava. Ma
lui… lui, in fondo, quel legame con Hinata non lo aveva
affatto. Tobio non sapeva dare un nome alla
sensazione che provava, ma non la voleva. L’avrebbe cancellata dal suo petto se
avesse potuto, se solo fosse stato in grado di spazzare via tutto quanto…
La giovane Esca della Karasuno
gli prese la mano. Kageama sussultò guardandolo di
scatto: s’era accorto che stava male? Hinata pareva
avere gli occhi ancora più grandi perché brillavano per un velo di lacrime che
li copriva e Tobio non sapeva che cosa dirgli, come
consolarlo – era evidente che anche lui stesse male. Le parole però non
uscirono: restarono a guardarsi, le mano che si stringevano fra loro per darsi
forza.
Suga invece era solo. Lo aveva fatto in
automatico: aveva lasciato un posto vuoto fra sé e i due primini quando s’erano
seduti in corridoio. Non li voleva accanto. Non perché ce l’avesse con loro in
qualche modo, anzi, ma sentiva di dover stare da solo, di doversi isolare per
capire che cosa stava effettivamente succedendo. Suga aveva smesso di vivere
nel momento in cui una voce a lui del tutto sconosciuta aveva risposto al
telefono di Daichi.
Lo aveva chiamato. Aveva insistito diverse
volte, imputando la mancata risposta alle più stupide ragioni: doveva sentire
la sua voce, gridargli che vedeva i colori, che finalmente era successo! Doveva
dirgli di correre da lui, ovunque fosse o che magari sarebbe corso lui, ma che
dovevano assolutamente vedersi, perché dovevano guardarsi negli occhi e
scoprire le sfumature dei loro corpi e di tutto quello che stava loro intorno:
il mondo finalmente li aveva accettati, perché Daichi
non rispondeva?
Quando finalmente il lungo rumore ad
intermittenza aveva smesso, segnando che la chiamata aveva avuto risposta, Suga
era stato un fiume in piena di “Daichi, li vedo! Daichi vediamo i colori! Daichi!”.
Il freddo non era mai stato tanto forte come nel momento in cui una voce
inaspettata, adulta, seria gli aveva risposto.
«Lei è un amico o un parente?».
Così aveva saputo tutto. E nell’istante in cui
aveva capito, gli era stato chiaro anche perché il legame aveva fatto male sin
da subito: Daichi era stato in pericolo forse
nell’istante stesso in cui s’era creato il legame, forse lui aveva visto i
colori proprio per questo, perché gli annunciassero il pericolo. Koushi aveva ignorato quella sensazione perdendosi nel
nuovo mondo che gli si era aperto davanti ed ora ne stava pagando le
conseguenze.
Dal momento in cui aveva capito come stavano
davvero le cose, aveva smesso di vivere. S’era guardato da fuori balbettare
qualcosa ad Hinata e Kageyama
che, di certo a causa dell’espressione del suo viso – forse stava piangendo? –,
parevano davvero preoccupati; poi s’era visto correre, accompagnato dai due
amici, fino all’ospedale dove l’uomo al telefono aveva detto che erano stati portati ed aspettare lì.
Ah, sì, Daichi non era
il solo ad essere stato portato in ospedale. Con lui c’era anche Nishinoya.
La mente di Suga percepì vagamente l’arrivo di
altre persone, ad un certo punto della serata. S’accorse che accanto a lui
s’era seduta la madre di Daichi, che forse gli aveva
parlato per un po’, prima di accorgersi che lui davvero non aveva la forza di
ascoltarla; più in là gli pareva di aver sentito anche altre voci: le
riconosceva, gli erano parse quelle dei ragazzi, ma gli occhi non ce la
facevano a mettere a fuoco, la mente non aveva alcuna voglia di registrarli
perché poi avrebbe dovuto parlare con loro e sforzarsi di essere qualcuno che,
in quel momento, non c’era, non esisteva, che aveva smesso di vivere. Suga si
sentiva così: completamente estraneo a se stesso, inesistenze.
I colori brillavano forti nei suoi occhi e lui
non sapeva che farsene.
«…Suga».
Koushi non
seppe perché, ma a quella voce si riscosse. Girò di poco il capo verso destra e
Asahi era lì. La mente riprese ad accumulare dati, come una macchina: il
ragazzo era pallido in viso e i capelli sciolti che scendevano senz’ordine gli
davano un aspetto sciatto e trascurato; le labbra erano smorte e gli occhi
arrossati come se avessero pianto tanto; aveva addosso il pantalone di una tuta
ed una maglietta larga e se ne stava con la testa infossata nelle spalle e
l’aria più angosciata che potesse avere. Il ragazzo si chiese se anche lui
avesse un aspetto simile.
Sospirò e senza rendersene conto, poggiò la
propria testa contro la spalla dell’amico. D’improvviso tutto ciò che non era
riuscito a provare da quando era arrivato gli stava piombando addosso, come una
frana che travolge ogni cosa al suo crollo.
«Che cosa sta succedendo, Asahi?». Il sussurro
era flebile e rassegnato.
«Staranno bene. Devono stare bene. Non possono…
loro non posso-».
La voce di Asahi era spezzata e pareva ripetere
quelle parole come una cantilena senza senso. Suga non sapeva che il ragazzo
aveva continuato a soffrire anche quando era caduto nell’incoscienza e che
quando i suoi genitori lo avevano trovato in quello stato ed erano riusciti a
farlo rinvenire, lui aveva gridato di dover andare in ospedale, perché sapeva
che Noya sarebbe stato lì. Per tutto il tragitto aveva
tremato dal dolore ed aveva continuato a ripetere che Yuu
stava bene, che era solo una reazione esagerata dovuta alla sua paura di
perderlo. Quando però avevano scoperto che anche Daichi
era rimasto coinvolto nell’incidente e che stavano operando entrambi, qualcosa
dentro di lui s’era spezzato: non era riuscito a fare altro che sussurrare che
sarebbero stati bene, come una nenia senza più significato. Andava avanti da
allora.
«Da quanto tempo…?».
Suga lo guardò sperando che capisse il resto: da quanto tempo sono dentro? Da quanto tempo
non abbiamo loro notizie? Da quanto tempo fa male? Da quanto tempo…? Asahi
lo guardò interdetto, non per la domanda ma perché avesse bisogno di chiederlo.
«Scusami, io…».
Gli occhi dell’alzatore si riempirono di
lacrime: non aveva prestato attenzione perché farlo faceva troppo male, perché
realizzare che Daichi sarebbe potuto morire proprio
mentre avevano visto i colori era qualcosa che lo lasciava senza fiato, che
prendeva al petto, che lo rendeva folle. Il Destino, il Fato, la Sorte o chi
per essi non poteva accanirsi tanto contro di loro, non poteva essere tanto
sadico.
All’Asso bastò quello sguardo per capire che era
successo. E capire gli diede accesso al dolore di Suga, un dolore diverso da
suo e allo stesso tempo tristemente simile. Il dolore dei compagni. Se avesse potuto sentire più male di così lo avrebbe
fatto, per il modo in cui Suga soffriva, per la storia che aveva con Daichi, per il modo in cui aveva scoperto che cosa voleva
dire essere legato per tutta la vita a qualcuno.
«Io ci ho messo tempo ad arrivare, ma mi hanno
detto che li hanno portati qui più di un’ora fa», rispose.
Poi allungò un braccio a stringere le spalle
dell’amico. Cercava di fargli forza? O forse di far forza a se stesso
attraverso quel contatto? Nessuno dei due se lo chiese perché entrambi ne
avevano bisogno e le ragioni del gesto non avevano alcuna importanza.
«Sai», sussurrò ad un tratto Asahi «Io non
ricordo… io non ricordo quali siano state le ultime parole che gli ho detto».
Suga chiuse gli occhi, respirando appena. Se ne
avesse avuto la forza, lo avrebbe rassicurato: lui ricordava perfettamente le
ultime parole che aveva detto a Daichi, ma questo non
cambiava assolutamente nulla.
Passò ancora un po’ prima che i medici uscissero
dalla Terapia Intensiva. Erano in due, in camice e mascherina e gli occhi, si
trovò a pensare Suga, non erano affatto rassicuranti. Mentre li guardava
avvicinarsi, il ragazzo si rese conto di quanta gente effettivamente c’era
attorno a lui: i genitori di Daichi e quelli di Noya ovviamente, poi il padre di Asahi che doveva averlo
accompagnato e praticamente tutti i membri della Karasuno.
I medici si avvicinarono ai genitori dei ragazzi
feriti e parlarono sommessamente ma con fermezza. Suga e gli altri cercarono di
prestare attenzione a quello che dicevano, sebbene non avrebbero dovuto: fortunatamente
c’era silenzio nel corridoio e le parole erano comprensibili, anche così.
«Il più grande», stava dicendo uno dei due,
rivolto ai genitori di Daichi «Aveva un paio di
costole incrinate, diversi lividi ed abrasioni ed una commozione celebrale. Lo
terremo in coma farmacologico ed aspetteremo ventiquattro ore sperando che il
trauma si riassorba da solo; in caso contrario, dovremo operare».
«L’altro ragazzo invece ha riportato ferite meno
serie: ha un braccio rotto, lividi ed abrasioni. Abbiamo dovuto anestetizzarlo
per suturare alcuni tagli più grandi all’addome, ma lo porteremo in camera a
breve. Dovrà fare riabilitazione, ma sono fiducioso che possa avere una
completa guarigione», concluse il secondo chirurgo, rivolgendosi all’altra
coppia di genitori.
Quando questi si allontanarono, i genitori di Daichi si strinsero l’un l’altro per farsi forza, mentre
quelli di Nishinoya s’avvicinarono alla porte della
Terapia Intensiva, in attesa che il ragazzo uscisse – non sembrava esserci
nulla di più importante, in quel momento, che poterlo di nuovo vedere, avere un
contatto che fosse fisico con lui: quella separazione era stata straziante.
Nessun compagno, nessun legame avrebbe
potuto eguagliare quello che i genitori hanno con i figli, nessuna sofferenza
sarebbe potuta essere grande come la loro, in quel momento.
Asahi non si mosse. Con ancora il corpo di Suga appoggiato
al suo, non raggiunse la porta della Terapia Intensiva, non provò neanche ad
andare con i genitori del suo compagno.
Suga era troppo stanco, troppo ferito e stravolto per rendersi conto di quanto,
al di là della sofferenza, Asahi fosse nervoso: si torturava le mani e teneva
le testa bassa. Se non fosse stato male anche lui, Koushi
avrebbe immediatamente realizzato quello che stava per succedere. Invece, non
lo vide affatto.
***
«Avresti dovuto dirmelo ieri sera».
Oikawa
camminava con passo veloce mezzo metro avanti Iwaizumi,
per quanto quella posizione gli costasse, per sottolineare quanto fosse
arrabbiato. Hajime cercava di stargli dietro come
poteva, mentre continuava a minimizzare l’accaduto.
«Non era così forte ieri sera! È peggiorato
durante la notte… Non c’era motivo per chiamarti, non avremmo potuto comunque
far nulla fino a questa mattina».
«E questo chi lo dice? Saremmo venuti
immediatamente in ospedale, sarebbe bastata una tua parola!».
Tooru
trattenne il fiato: dirlo ad alta voce gli costava davvero tanto e conosceva Iwaizumi abbastanza da sapere che ne era consapevole anche
lui; eppure, sottolinearlo era un modo per fargli capire quanto avesse
sbagliato a non parlargli del male che stava sentendo dalla sera precedente e
che, ovviamente, era legato a Kageyama Tobio. No, Oikawa non odiava quel ragazzo, probabilmente non lo aveva
mai fatto, e da tempo aveva accettato quella situazione: avrebbe sempre fatto
parte della vita di Iwaizumi e non sarebbe stato lui
ad impedirlo. Ma non poteva farci nulla: sapere che il suo ragazzo stava male a causa di un altro lo irritava, soprattutto
perché Hajime era ancora più silenzioso di quanto non
fosse di solito quando si trattava di Tobio.
«Vuoi fermarti un secondo, per favore?».
Oikawa
scattò – Iwaizumi era quasi senza fiato. Si
guardarono negli occhi e Hajime provò a sorridere: durante
la notte aveva sentito chiaramente che qualcosa non andava, Tobio
aveva avuto paura, stava affrontando qualcosa che lo preoccupava molto e quelle
sensazioni negative si erano riflettute su di lui, togliendogli il fiato; ma
ora stava meglio – Kageyama s’era calmato almeno un
po’ e sentire la sua voce che lo rassicurava in qualche modo era servito a far
dissipare almeno in parte il macigno che sentiva sul petto.
«Sto bene», disse – Oikawa
si prese qualche istante per guardare quelle labbra tirate su come a volerne
registrare ogni singolo frammento. Era un sorriso tutto suo quello ed era uno
dei migliori di Iwaizumi, proprio perché appena
accennato ed estremamente sincero.
«Tu capisci che se non me lo dici, io non ho
modo di saperlo davvero?». Oikawa era serio come poche altre volte. Il tono era stato
basso e fermo.
Hajime
annuì. Non voleva tagliarlo fuori, non era mai stata sua intenzione: credeva
davvero che fosse qualcosa di minimo, che poteva attendere, che sarebbe stato
inopportuno allarmare Oikawa durante la notte. E
forse… forse per una volta avrebbe voluto risparmiargli una nuova conversazione
riguardante, in qualche modo, Tobio. Non perché
volesse tenerlo al di fuori, ma perché, checché ne dicesse Tooru,
quando Hajime parlava di lui qualcosa s’offuscava nei
suoi occhi. Non poteva farci nulla, nessuno poteva, e allora, per una volta, Iwaizumi voleva risparmiarlo ad entrambi quel velo di
malinconia. A quanto pareva, aveva finito per far peggio.
Appena entrati in ospedale, Iwaizumi
si mosse con la stessa sicurezza che lo aveva condotto da Kageyama
la prima volta che s’erano visti, nella palestra in cui si stava disputando l’Inter High. Attraverso corridoi che
vedeva per la prima volta, cercò il suo compagno,
mosso praticamente dall’istinto, ma consapevole della presenza di Oikawa alle sue spalle.
Quest’ultimo lo seguiva senza parlare, finché
non gli parve di notare, in un corridoio laterale, una figura che conosceva. Si
fermò per qualche istante, guardando senza essere visto e si accorse di avere
ragione: Ushijima Wakatoshi,
accompagnato da alcuni ragazzi della Shiratorizawa,
aveva appena svoltato nel suo stesso corridoio, ma andando nella direzione
opposta non lo aveva notato. Pensò che fosse strano trovarseli lì e l’astio che
solitamente provava per il Capitano stavolta si sostituì ad un vago senso di
allarme, come se ci fosse qualcosa fuoriposto in
quella scena ma non fosse in grado di stabilire cosa.
Iwaizumi,
intanto, s’era accorto dell’assenza del ragazzo ed era tornato indietro
abbastanza in fretta da vedere la stessa scena e riconoscere le stesse persone.
«Cosa credi che stiano facendo qui?», chiese Oikawa, mentre riprendeva a camminare.
«Forse dei semplici controlli», rispose
distrattamente Hajime «Non credo siano affari
nostri», concluse poi.
Ad Oikawa, però, ci
volle un po’ per scrollarsi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di
strano in quella situazione.
Quando trovarono finalmente Tobio,
questi sembrava dormire, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata alla spalla
della piccola Esca della Karasuno, che invece li
aveva visti arrivare. Si guardarono per qualche istante, forse indecisi sul da
farsi o magari solo per rendersi conto di quella situazione – abituale ormai,
per le diverse volte in cui s’erano visti, ma in cui non s’erano mai davvero
sentiti a proprio agio. Quando Shouyou pensò di
svegliare Kageyama, il ragazzo si mosse, sulla sua
spalla, ed aprì lievemente gli occhi.
«Hajime?», chiamò, con
voce bassa per il sonno, mettendo a fuoco ciò che aveva di fronte. Qualcuno un
po’ più sentimentale, avrebbe detto che lo aveva sentito.
«Hey», lo salutò questi, inclinando appena il
capo e sorridendo «Mi hai spaventato, stanotte».
Kageyama si
mise immediatamente dritto. L’aveva…? Oh. Non ci aveva pensato. Non subito
almeno: era successo tutto così all’improvviso e poi l’attesa gli era sembrata
interminabile… non sapeva davvero che cosa stesse succedendo o provando… Quando
lo aveva chiamato era stato quasi un istinto e, ora che ci pensava, non
ricordava bene neanche che ora fosse. Aveva solo voluto sentire la sua voce.
«Mi dispiace», disse, alzandosi «Non credevo che
potessi sentire anche una cosa del genere… io… avrei dovuto avvisarti prima.
Non ci ho pensato, è stato tutto-».
«Hey, hey, calmati. Non ti stavo rimproverando.
Ad ogni modo, mi fa piacere che tu stia meglio: significa che le cose non sono
peggiorate».
Quando si trattava di Kageyama,
Oikawa notò che Iwaizumi era
protettivo come non l’aveva mai visto prima: era spontaneo nei movimenti e
nelle parole, rassicurante, quasi emanasse un’aura di tranquillità che in
qualunque altro caso non era così evidente, alle volte neanche con lui. Di
solito la sua calma era silenzio, riflessione, quasi mai si tramutava in
qualcosa di attivo. Si chiese, il capitano dell’Aoba,
se quel ragazzino sapesse quant’era fortunato.
Hinata,
invece, aveva visto che Kageyama era estremamente
aperto con quel ragazzo: s’era scusato ed aveva parlato con una libertà che
solitamente non si concedeva, o che forse proprio non sapeva di avere. Di
solito capirlo era difficile e lui stesso era sbattuto contro quel muro molte
volte prima di comprendere davvero come funzionavano le cose con lui. Ma con
l’Asso dell’Aoba tutto scorreva naturale e Shouyou alle volte pensava di non poter far altro che
osservarli.
«Come stanno i vostri amici?». Oikawa aveva parlato guardando proprio Hinata,
passando oltre, fingendo di esserci abituato.
«Nishinoya sta bene,
tutto sommato – ha un braccio rotto, ma nessun danno serio e potranno
dimetterlo presto. Daichi… il nostro capitano non si
è ancora svegliato».
«Lo stanno tenendo in coma farmacologico»,
proseguì Kageyama, volendo essere preciso «Ma sono
preoccupati per il trauma cranico…». A quelle ultime parole, i volti dei due
ragazzi dell’Aoba s’incupirono.
«Hinata!».
Una voce femminile interruppe l’atmosfera di
nuova preoccupazione che s’era creata tra i quattro ragazzi. Shouyou si sporse oltre la figura di Tobio
e riuscì a scorgere Yachi che con passo veloce li
stava raggiungendo: sembrava affaticata, come se avesse fatto tutta la strada
correndo – poco dietro di lei Kiyoko le teneva la
mano e si faceva quasi trascinare, mantenendo una certa compostezza. Anche sul
volto della più grande c’era però un’espressione accigliata e più seria.
«Ci sono novità? Come stanno? Questa mattina ci
ha chiamati Yamaguchi…». I due ragazzi fecero segno
di diniego con la testa e la giovane manager abbassò il capo, sconfortata. Era
stato stupido, ma aveva sperato che la situazione non fosse così grave come era
parsa dalla telefonata.
«Suga è nella stanza di Daichi:
ha dato da poco il cambio ai suoi genitori, che sono rimasti dentro per la
notte. Nessuno ha ancora dato il cambio a quelli di Noya,
invece, anche se Tanaka non si è allontanato neanche
per un istante. Il resto di noi sta semplicemente vagando per i corridoi in
attesa che cominci l’orario di visite…».
Kiyoko
annuì, sedendosi e facendo fare lo stesso ad una Yachi
estremamente provata: era stata lei a chiamarla, dopo che Yamaguchi
l’aveva informata – aveva preferito che sentisse una notizia del genere dalla sua
voce, piuttosto che da quella di chiunque altro. Sapeva che parole usare e in
che modo prepararla ed il loro legame avrebbe fatto sì che Hitoka
non desse letteralmente di matto per la preoccupazione, almeno finché non fosse
arrivata a casa sua. Ma ovviamente neanche Shimizu aveva potuto evitare che la
ragazza si spaventasse tanto a sentire, soprattutto, le condizioni di Daichi, quindi aveva convenuto che l’unica soluzione
sarebbe stata quella di andare quanto prima in ospedale.
«…Asahi?», chiese, con una certa innocenza Yachi, ma dall’espressione che assunsero subito sia Hinata che Kageyama capì di aver
detto qualcosa di non così tanto semplice. Era successo qualcosa anche a lui?
…Forse per via del legame?
«Durante la notte è andato via. Nessuno lo ha
più visto da allora», disse con un certo disagio Shouyou
«Yamaguchi si è offerto di andare a cercarlo, insieme
a Tsukki ed Ennoshita – si
sono allontanati una mezz’ora fa».
«Azumane non è il compagno del vostro Libero?», si trovò a
chiedere, sorpreso, Iwaizumi. Kageyama
annuì e nessuno continuò su quell’argomento: non era normale che qualcuno
lasciasse il proprio compagno in una
situazione del genere – se Hajime aveva sentito
chiaramente la preoccupazione di Tobio, allora che
cosa dovevano star provando Asahi e Yuu?
***
«Non so se te l’ho mai detto, ma ho passato
davvero tanto tempo a chiedermi di che colore fossero i tuoi capelli… Non avrei
mai pensato che fossero così, ma mi piace molto questa sfumatura di castano: ti
dona tantissimo, ti rende ancora più autoritario come capitano».
La voce di Koushi s’alzò
di un tono quando proruppe in una risata che suonava allo stesso tempo
incontrollabile e forzata, isterica. Il ragazzo stava appoggiato al lato del
letto di Daichi, puntellato su di un gomito, mentre
l’altra mano giocherellava con le ciocche di capelli del ragazzo – le dita
parevano volerle conoscere da capo perché erano nuove alla vista e illudevano
di essere tali anche agli altri sensi. Suga non si sarebbe mai aspettato, però,
di farlo mentre Daichi dormiva di un sonno non suo.
«Ora mi chiedo se anche i tuoi occhi siano più o
meno dello stesso colore… Ma sai… per poterli vedere devi svegliarti, devi
stare bene… Ti prego, ti prego Daichi, tu devi stare
bene… Io non posso, non credo di essere tanto forte da poter reggere… non so
come si faccia, Daichi…».
Le lacrime presero a scivolare lungo le guance
di Suga senza che questi potesse impedirlo o volesse farlo: aveva resistito
tutta la notte, non s’era lasciato andare davanti agli altri, nonostante tutti
dacché avevano saputo del legame, non avessero fatto altro che guardarlo con un
misto di pietà e dispiacere. Ora sentiva ch’era arrivato il momento di piangere
e disperarsi perché mai come allora si sentiva solo e perduto: aveva quello che
più desiderava da quando aveva incontrato Daichi, ma
i colori adesso sapevano solo di un’ironia cattiva e gli ricordavano
costantemente che il legame forse era arrivato troppo tardi. O giusto in tempo
per perché potesse sentirlo morire.
Le lacrime allora divennero singhiozzi, che
scuotevano le spalle di Koushi in un pianto
disperato: sentiva tutto il dolore dei compagni,
ne era sopraffatto a tal punto che non poteva che sfogare in questo modo anche
tutto il resto, soprattutto la rabbia. Mormorava parole sconnesse, continuando
a pregare Daichi di non lasciarlo solo, di non
andarsene in un modo tanto crudele, di resistere. Ce l’avevano fatta. Perché
non potevano essere felici almeno stavolta?
La madre del ragazzo entrò in stanza senza fare rumore.
Vide Suga, con il volto nascosto tra le lenzuola bianche del letto e le mani
ora strette a pugni. Singhiozzava forte in un pianto che avrebbe fatto male a
chiunque e che feriva lei nel profondo. Allungò una mano verso di lui: voleva
confortarlo, dirgli che suo figlio era forte, che si sarebbe ripreso presto e
sarebbero stati felici, ma esitò; bastò un attimo, la mano restò sospesa a
mezz’aria, troppo lontana da Suga e troppo fredda. La donna realizzò che non
poteva esserne certa: non poteva consolare quel ragazzo perché non era certa
che il suo Daichi si sarebbe ripreso.
Uscì nello stesso modo in cui era entrata e fu
come se non ci fosse mai stata nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle e
soffocò il pianto con una mano davanti alle labbra. Suo marito era ancora via,
aveva detto di aver bisogno d’aria e lei aveva creduto di essere sola lì fuori.
«Signora Sawamura…?».
La voce sottile di Hinata la riportò alla realtà: i
compagni di squadra del figlio erano rimasti per tutta la notte lì con loro –
alla fine anche i medici s’erano arresi e ad avevano permesso loro restare in
corridoio, a patto che non disturbassero o entrassero in troppi nella stanza di
Daichi.
Alzò la testa verso di loro e lesse su quei
volti la serietà e la paura che fosse successo qualcosa: la guardavano con
occhi spalancati e corpo rigido. Prima ancora che potesse specificare che non
era successo nulla, che era stata la sofferenza di Suga a farle reagire in quel
modo, si sentì un tonfo provenire dalla stanza. La donna si voltò spaventata,
aprendo subito la porta, il suo pensiero allarmato andò a Daichi,
a che cosa potesse aver provocato quel rumore.
Ciò che si trovarono davanti, la donna e i
ragazzi, sorprese tutti. Suga era a terra, sulle ginocchia, una mano che
cercava il letto da cui s’era allontanato di qualche passo e l’altra, invece,
all’altezza del petto, sul quale calava la testa. Il respiro, pesante, era il
solo rumore che scandiva quella scena.
«Su-sugawara»,
balbettò Yachi – non riusciva a muoversi, perché non
capiva che cosa stava succedendo e lo stesso motivo pareva aver paralizzato
tutti i presenti. Tranne Oikawa. Il capitano dell’Aoba si mosse e con un paio di falcate sicure fu al fianco
dell’Alzatore, accovacciandosi accanto a lui, ma facendo bene attenzione a non
toccarlo ancora.
«Posso immaginare che cosa tu stia provando, Sugawara. Non ti dirò che va tutto bene perché è evidente
che non sia così, ma sono qui accanto a te, voglio aiutarti». Parlava in modo
serio, ma la sua voce era allo stesso tempo calda e rassicurante. Koushi mosse la testa verso di lui.
«Mi manca l’aria», riuscì a dire, ma le parole
erano uscite in modo forzato ed ora che era così vicino a lui, Oikawa vedeva quanto fosse pallido.
«È un principio di attacco di panico.
Concentrati su di me, Sugawara. Proviamo a respirare
insieme?».
Koushi non
sapeva quello che stava facendo: non aveva mai sofferto di attacchi di panico
prima e in quel momento gli pareva di non riuscire neanche a pensare. Che cosa
aveva detto Oikawa? Respirare, doveva respirare. Come
si respirava? Cercò il ragazzo con lo sguardo, ma tutto quello che riusciva
effettivamente a pensare era che si stava comportando come uno stupido, proprio
ora che doveva resistere, per Daichi. Se stai tanto male adesso, come reagiresti
se lui morisse? Quel pensiero bloccò del tutto la difficile respirazione di
Suga, che si sentì completamente sopraffatto da ciò che lo circondava.
«Sugawara? Sugawara? Koushi?!», cercò di chiamarlo Oikawa
– sapeva che avrebbe dovuto portarlo fuori da quella stanza, prima che la
situazione peggiorasse, ma gli interessava, prima, fargli riprendere una
normale respirazione. «Guarda me, d’accordo?». Stava bene attento a non
toccarlo, sebbene l’istinto fosse quello di metterlo quantomeno in piedi
«Concentrati sulla mia respirazione. Ti va se proviamo a respirare insieme?».
La voce di Oikawa,
così calma e forte, era un balsamo sulle insicurezze di Suga, sembrava spingere
un po’ più lontano tutto ciò che incombeva su di lui, il legame che faceva
male, Daichi che non era con lui, le mura di quella
stanza improvvisamente troppo strette. Gli aveva detto di stare con lui, di
guardarlo. Poteva farlo. Oikawa aveva preso a respirare con forza, contando fino a due
prima di espirare e di nuovo fino a due prima di inspirare; Koushi
cercò di seguirlo rendendosi conto di quanto fossero corti i propri respiri
all’inizio. Sotto lo guardo attonito di tutti i presenti, il capitano dell’Aoba riuscì lentamente a calmare l’alzatore della Karasuno, finché questo non fu in grado di alzarsi da solo:
traballava, evidentemente scosso e pallido, ma respirava ora con una certa
regolarità.
«Ha bisogno di una boccata d’aria. Vi spiace
restare qui con il vostro capitano mentre lo porto fuori?». Oikawa
non lo disse, ma sapeva che sarebbe stato meglio se a restare lì con Daichi fossero i compagni di squadra di Sugawara,
invece che lui ed Iwaizumi: Koushi
sarebbe stato più tranquillo e in compenso con un estraneo non avrebbe sentito
la pressione di dover spiegare quello che era appena successo, se non voleva.
Hinata e Kageyama annuirono d’istinto e ad Iwaizumi
bastò un’occhiata per capire che Tooru non aveva
bisogno di compagnia. Annuì e lo guardò allontanarsi con Sugawara:
lo conosceva abbastanza da sapere che era in piena fase recettiva – pronto a
qualunque cosa fosse successa al ragazzo che aveva accanto. Quindi sapeva che
sarebbe stato bene.
«Oikawa sa come
gestire gli attacchi di panico?», chiese ancora sorpreso Kageyama,
avvicinandosi ad Iwaizumi. Questi annuì con un
leggero sospiro.
«Sappiamo entrambi come si fa, in realtà»,
specificò «Tooru sa mettere moltissima pressione su
di sé. È una fortuna che sia effettivamente così
bravo da superare sempre i propri limiti».
«Come ti senti?».
Ora che Koushi
riusciva di nuovo a pensare con una certa lucidità, la prima cosa che notò fu
che la voce di Oikawa era ancora sicura e calma – si
sarebbe aspettato una certa esitazione, un muoversi intorno a lui incerto per
via di quello che era successo, ma il ragazzo si comportava come se nulla fosse
stato, quasi facesse quello per vivere, soccorre la gente così stupida da farsi
venire un attacco di panico nei momenti meno opportuni.
«Improvvisamente stanco, ma tutto sommato bene.
Mi fa un po’ male la testa…». Gli parlò con sincerità – il minimo che potesse
fare, dopo tutto l’aiuto che gli aveva dato. «Grazie. Io… non m’era mai
capitato prima».
«Non dirlo come se dovessi scusarti: non c’è
nulla di cui vergognarsi. Con tutto quello che ti è successo e considerata
l’influenza che il legame sta avendo sulla tua sfera emotiva e sensoriale,
credo sia stato il minimo. Un po’ di aria fresca, qui, ti farà bene – e posso
andare a prenderti dell’acqua al distributore, se vuoi».
Oikawa fece
quasi per andarsene, ma Suga si mosse istintivamente verso di lui – non gli
servì fermarlo perché questi tornasse sui suoi passi. Lo capiva: non voleva
restare da solo, avrebbe dovuto pensarci. Gli sorrise – il suo sorriso
malandrino, quello che Koushi aveva visto durante la
partita dell’Inter High, che serviva
per provocare. Strappò una breve risata anche a lui, per quanto inappropriata.
«Non isolarti, Mr. Refreshing, o perderai il tuo tocco
magico. E la Karasuno ne ha troppo bisogno o la
prossima volta che vi affronteremo, non arriverete neanche al terzo set».
Suga rise ancora – rise per il nome strano con
cui lo aveva chiamato, per la sfacciataggine con cui stava parlando, perché il
dolore che sentiva, forte ancora nel petto, era ancora lì ma stava almeno
respirando. Rise tra le lacrime, che tornarono a ricordargli quello che stava
affrontando. Oikawa restò lì a guardarlo –
s’aspettava anche quello.
«Immagino possa chiamarsi un progresso»,
concluse, quando Suga riuscì di nuovo a calmarsi. Poi tornò serio «Sai… credo
che ormai sia abbastanza chiaro a tutti quanto siano incasinati i legami. Tra
me e Iwa-chan e lui e Kageyama
e anche la piccola Esca… e poi tu e il capitano che vi trovate in questo modo…
Forse è proprio questo il punto: la perfezione non esiste – certo, io ci sono
spaventosamente vicino, ma non stiamo parlando di me ora. La perfezione non
esiste, sarebbe troppo facile altrimenti, non ti pare? Credo che la cosa
importante sia non mollare. Non mollare, Sugawara».
Oikawa lo
guardava fisso, intendeva davvero quello che aveva detto. Koushi
ci pensò: in fondo, lui il legame con Daichi lo aveva
ed era corrisposto. Certo, il dolore che provava era tremendo e minacciava
ancora di farlo crollare ad ogni istante, ma forse ne valeva la pena – Oikawa quel dolore non lo avrebbe mai provato.
«Mi riaccompagneresti dentro? Non voglio stare
troppo lontano da lui…». Tooru sorrise.
«Certamente, Mr.
Refreshing».
«Posso farti una domanda?». Suga non voleva
essere indiscreto, ma Oikawa non esitò ad annuire.
«Hai avuto a che fare con gli attacchi di panico…?».
«Sì, Koushi. Ho avuto a che fare con gli attacchi di panico».
________________
E quindi
è successo, sono di nuovo cascata in questo prompt di
soulmates complicate ed imperfette – dopo la prima c’avevo
preso gusto… tanto che ho deciso di farne una serie. In teoria avrei i plot per
altre due, ma non so con che tempi le realizzerò, soprattutto perché questa è
stata chilometrica e ci ho impiegato mesi per concluderla. Ad ogni modo, farò
di tutto per portare a termine il progetto!
Qualche
precisazione… Come scritto già sopra, questa è la prima parte di tre (farvi
sorbire un pippone di 54 pagine tutte in una volta mi
pareva una punizione troppo crudele) e cercherò di pubblicare il resto
abbastanza velocemente così che nel giro di una decina di giorni sia completa –
dopotutto, era nata per essere una one-shot, anche se
lunghissima e andrebbe letta come tale.
Ultima
cosa: la frase latina che apre questa storia è tratta dal VII libro delle Metamorfosi di Ovidio e significa “No, stretta a colui che amo, andrò
attraverso gli ampi mari: nulla temerò fra le sue braccia o, se temerò qualcosa,
temerò solo per il mio sposo”.
Detto
ciò mi eclisso – a presto con le prossime parti.
Alch.