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Autore: MichaelJimRaven    08/11/2016    1 recensioni
Un sogno che ho fatto tempo addietro, quando sono andato a vedere il film di ROn Howard sui Beatles.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Lennon, Paul McCartney
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Dopo aver visto “Eight DAys A Week” di Ron Howard, ho passato una notte particolare Mi andava di condividerlo.

Il viaggio era stato quasi istantaneo, come al solito. Rimanevano da fare le solite procedure: mettersi un vestiario adatto all’anno, nascondere la Delorean in un posto sicuro e fare finta di essere un abitante di quel tempo. Il salto indietro questa volta era stato decisamente breve: giusto una sessantina d’anni, poco più.
Ero già stato in Inghilterra in quegli anni; c’ero già stato anche nell’epoca vittoriana e anche al tempo delle guerre sante ed ogni singola volta rimanevo affascinato da quell’isola. Il tempo lì sembrava passare lentamente e in maniera uniforme. Non vi erano mai cambiamenti repentini e tutto quello che poteva affacciarsi dal mondo esterno doveva prima ottenere il benestare della vecchia Londra e dei suoi lunghi silenzi.
Doc e Marty non avrebbero potuto farmi un regalo migliore per i miei quarant’anni: quasi mi ero messo a strillare come una fangirl idiota, quando Emmeth mi aveva allungato le chiavi della macchina del tempo, iniziando la solita sfilza di raccomandazioni sul “non interferire con il flusso del tempo e non cambiare la storia per proprio tornaconto”. “Le conseguenze potrebbero essere oltremodo disastrose, Max! Lo sai! E lo sai meglio di quasi tutti gli altri, la fuori!” Appoggiato al banco di lavoro del Dr. Brown, McFly sorrideva, rinchiuso nel suo piumino.
Non aveva ancora aperto bocca e sembrava si stesse godendo appieno la filippica di Doc che incombeva su di me come lo straripamento di una diga. “
Ok Doc, Ok! Lo so! Non occorre che tu me lo ripeta!” Il vecchio scienziato si era lentamente fatto da parte allargando il braccio destro per permettermi di vedere appieno la Delorean. Cristo! Era sempre uno spettacolo quel gioiellino. Dopo trent’anni la sua bellezza era rimasta immutata! Certe automobili sono fatte per rimanerti impresse in ogni loro dettaglio.
“Ho coperto il datario ed i circuiti temporali con una striscia di nastro isolante! Vedrai che la sorpresa sarà più bella!”
Marty aveva finalmente aperto bocca e mi si era avvicinato dandomi un buffetto sulla spalla, poi mi aveva indicato la valigetta appoggiata a lato della portiera del guidatore.
“Cerca di ricordarti la carica per il ritorno: non è piacevole dimenticarsela…”
Ci eravamo guardati negli occhi per un secondo e la risata era salita spontanea da entrambi.
“Beh, sali o no?!”
Doc aveva aperto la portiera facendole emettere quel suono che mi aveva fatto sognare per decenni. Avevo sfilato in mezzo ai due con la consapevolezza spavalda di chi sapeva già tutto.
Non era la prima volta che i ragazzi mi permettevano di usare la macchina del tempo e oramai avevo imparato anche io a conoscerne pregi e difetti. Il basculante del garage si stava aprendo con la sua consueta e sonnacchiosa calma, disegnando sul pavimento un cono di luce prodotto dai lampioni esterni.
Fuori di lì, il deserto, come sempre a quell’ora.
“Ragazzi, vado! Ci vediamo tra un minuto, come sempre!”
Con un balzo ero entrato dentro la Delorean e mi ero accomodato al posto di guida. Inserita la chiave e attivati i circuiti temporali, rimaneva solo da mettere in moto e pigiare sul gas; una piccola retromarcia lungo il viale per permettere la rincorsa e poi…Partito. Toccate le 88 miglia all’ora, un lampo di luce aveva riempito il lunotto facendo sparire gli alberi di Oak Park per sostituirli con la campagna Inglese, a pochi chilometri da Liverpool.
La valigia che Marty mi aveva preparato conteneva un paio di jeans scuri, una camicia bianca con un gilet nero, un paio di scarpe in pelle e la mia immancabile coppola. Mi ero cambiato praticamente subito, cercando di dare nell’occhio il meno possibile. Cosa piuttosto facile dato che ero in un qualche luogo sperso a nord della città.
Oltre a me, solo qualche uccello che volava alto cercando di capire cosa fare del suo tempo.
Nascosta l’auto dentro un campo di erba così alta da dare l’impressione di non appartenere a nessuno, mi ero tirato su le maniche della camicia e avevo preso dal mio borsello la pipa ed il tabacco. Avrei dovuto scarpinare per almeno un oretta prima di arrivare in città. Di buon grado, mi ero incamminato.
Nel 1962 Liverpool era una città che offriva molti diversivi per chi avesse voglia di coglierli e farli suoi: c’erano le case e gli edifici di mattoni rossi che odoravano ancora di cantiere, i negozi che si affacciavano sulle strade e le persone che si spostavano a piccoli gruppi, ridendo e scherzando tra loro in maniera così naturale da sembrare quasi finti!
Era piacevole mischiare il profumo del mio tabacco da pipa agli odori che quel luogo mi mandava contro… dai panifici ai bar, dai negozi di calzature a quelli di vestiti.
I profumi delle ragazze degli anni sessanta, così dolci e intensi da risultare difficili da sopportare per uno che sarebbe nato 13 anni più tardi.
C’era uno stile bellissimo e particolare ed era nell’aria che di lì a poco si sarebbe fatta la storia.
Stavo camminando oramai da un bel po’ e iniziavo ad avere voglia di bere qualcosa.
Proprio mentre pensavo ad una pinta di birra, un gruppetto di ragazze ( che adesso potrebbero tranquillamente essere mie nonne) carine ed agghindate, fasciate nei loro cappottini e nei loro vestiti, tenevano in mano un piccolo foglio dal quale non staccavano la vista. Camminavano senza badare a quel che accadeva loro intorno,puntando decise nella mia direzione rischiando di investirmi.
“Non vedo l’ora che arrivi stasera!”
“Jane mi ha detto che sono tornati da Amburgo e sono ancora più fighi di prima!”
“Ancora di più? Ommioddio…!”
“MA dove li ha visti Jane?!”
“La sorella dell’amica della madre…”
Erano passate così velocemente da non permettermi di udire la fine della frase ma era abbastanza ovvio quale fosse il soggetto.
Mano a mano che mi avvicinavo a Matthew Street sentivo l’adrenalina riempirmi le vene, oltre ad un ansia che non provavo da anni.
Pochi passi, un respiro intenso come per accumulare coraggio ed energia e avevo svoltato l’angolo. Davanti a me Matthew Street. Davanti a me, il Cavern Club. Certo, lo conoscevo quel posto: ci ero già stato nell’estate del 1994 e quasi non mi era piaciuto.
Somigliava troppo ad un Hard Rock Cafè ed era alla stregua di quei locali alla moda dove la maggior parte della gente va perché ci vanno altri. Non aveva il fascino che ha ora nel 62, ai miei occhi.
La porta di legno scuro, pesante alla vista, era in realtà leggera da scostare…quasi fosse pensata per accoglierti senza nemmeno faticare. La piccola anticamera che divideva l’ingresso dalla zona del palco e dei tavoli era poco più di piccolo bar di periferia. Il bancone di legno e le spine della birra lucide, nuove, appena posate sopra una placca di ottone. Due ragazzi lucidavano i pomelli che brillavano come oro. Dietro di loro, il palco.
Vi era una coltre di fumo di sigaretta che impregnava del suo odore il luogo.
Quasi non mi ero reso conto di essere entrato con la pipa accesa. Lo avessi fatto ora, nella mia città, mi avrebbero guardato in malo modo e additato come mascalzone. Invece, in quel preciso momento, il mio cervello aveva bypassato quell’opzione e mi aveva fatto entrare in quel luogo, fumando.
Esattamente come stavano facendo due ragazzi sui vent’anni che erano seduti ad uno dei tavoli vicino al palco.
Su una sedia vicina, era posata una chitarra e sopra al tavolo, alcuni fogli buttati qua e la in maniera casuale. Quello che sembrava il più grande tra i due si era voltato improvvisamente come se lo avessero distratto da un compito.
Evidentemente la mia presenza non era poi così insignificante come credevo.
Si era voltato e mi stava studiando.
Un paio di secondi e anche l’altro ragazzo aveva spostato gli occhi dal foglio di carta e si era messo a guardarmi, giocando con la matita tra le dita. Entrambi avevano fatto un tiro dalla sigaretta, quasi all’unisono.
Con i loro occhi che mi fissavano interrogativi e l’espressione curiosa che avevano, avevo realizzato a livello emotivo quello che il mio cervello già aveva registrato e sapeva. Cristo! Ce li avevo davanti! “Doc, Marty! Cristo!! Mi stanno guardando!” Parlavo dentro di me ed ero nervoso.
Molto nervoso.
Così nervoso che John, portata lentamente la mano a levarsi la sigaretta di bocca, aveva detto: “Tutto bene, signore?!” Ed era rimasto a guardarmi, aspettando una risposta.
Non ero in grado di spiccicare nemmeno una sillaba.
Cercavo di mandare qualche neurone a far muovere i miei muscoli,ma mi sentivo quasi pietrificato. Erano state le parole di Paul a scuotermi come un pugno sullo stomaco:
“Vuole sedersi? Non ha una bella cera!” e mi aveva indicato la sedia accanto a quella che reggeva la chitarra.
Si erano messi a ridere tra loro, portando nuovamente la loro attenzione ai fogli che coprivano disordinatamente il tavolo.
Mi avevano chiamato “Signore”. Cazzo! Dovevo apparirgli veramente vecchio!
Lentamente, il mio piede destro si era sollevato dal pavimento, come se un secondino mi avesse levato la palla da carcerato ed iniziassi a camminare dopo anni di immobilità. Raggiunta la sedia che Macca mi aveva indicato, l’avevo scostata cercando di fare meno rumore possibile e mi ci ero seduto.
Ora che ero al tavolo, potevo vedere il contenuto dei fogli: potevo leggere parole e frasi di brani che conoscevo a menadito e che avrei potuto finire al posto loro, dato che li stavano scrivendo in quel momento. Quasi senza accorgermene ne avevo preso uno in mano e ne stavo leggendo le parole, canticchiando la melodia a bocca chiusa; una cosa che facevo meccanicamente almeno dieci volte al giorno da più di vent’anni.
Paul aveva alzato la testa nuovamente e l’aveva inclinata di lato. Il fumo della sigaretta lo rendeva quasi un fantasma.
Mi ero subito reso conto della prima cazzata.
Un colpo di tosse che era risultato convincente, aveva fatto fermare anche John. Era indietreggiato verso lo schienale della sedia alzando le braccia per stiracchiarsi. Sembrava stanco, e io sapevo che lo erano entrambi. Amburgo era stata massacrante.
Chiunque amasse quella band come la amavo io, lo sapeva.
“State preparando la scaletta?!”
La domanda mi era uscita di bocca naturale. Una domanda che avevo fatto talmente tante di quelle volte negli anni, che oramai sembrava registrata direttamente nel mainframe del mio cervello. Era uscita così. John e Paul si erano scambiati uno sguardo veloce e proprio John mi aveva allungato uno dei fogli.
“Sì, proprio così. Stiamo mettendo assieme i pezzi per questa sera! Di solito lo facciamo altrove e poi arriviamo qui per fare il check sound e suonare… Ma Pete e George stanno litigando per cose che solo loro riescono a capire, quindi io e Paul… A proposito!!”
In quel momento, si era fermato e mi aveva teso la mano.
“Io mi chiamo John e lui è Paul!”
Stavo per stringere la mano a John Lennon. Cazzo! E se avessi dovuto stringerla anche a Paul? Avrei dovuto dargli la sinistra? Eh, diavolo! Era mancino! Ovvio che dovevo dargli la sinistra! MA quanto sono idiota? Che cazzo di domande mi faccio?! Un altro colpo di tosse, questa volta di John, aveva bloccato l’inutile turbinio delle mie paranoie nervose.
“Piacere, io mi chiamo Max!”
E, finalmente, mi ero deciso a stringere quella mano che era rimasta a mezz’aria per più’ del dovuto, in attesa della mia.
“Bene, ora che ci conosciamo, direi che possiamo anche prendere qualcosa da ber, no? Ho sete e sono un po’ stanco! Facciamo una pausa, Paul?”
McCartney che ,nonostante tutto il trambusto, stava ancora definendo alcune parole sul testo che aveva davanti, aveva annuito senza guardarci.
“Sì, sì! Buona idea! Io prendo una birra!”
“Allora ne ordino tre! Birra anche per te, Max?!”
“Grazie!”
L’aria era così leggera e allo stesso modo densa che mi faceva girare la testa. Stavo per prendere una birra con Paul McCartney e John Lennon, e lo stavo facendo come se li conoscessi da una vita e fosse la cosa più normale del mondo.
“Secondo me dovremo rivedere almeno il finale, John: non mi piace la sequenza dei brani verso la fine. Mi sa di moscio!”
“Moscio?! MA se sono tre rock and roll di fila!”
“Appunto! Sono i soliti tre accordi… Sembrerà la stessa canzone se non ne mettiamo assieme una di diversa!”
Era buffo! Ogni band che si trovava a fare una scaletta pre-concerto faceva le stesse identiche discussioni. Mi sembrava di essere al tavolo con i ragazzi che suonavano solitamente con me. Era strano vedere come anche due persone che di lì a poco sarebbero diventate due leggende, facessero lo stesso con gli stessi dubbi e le stesse problematiche di persone “normali”. John e Paul discutevano animatamente i loro piani ed era spettacolare vedere come due personalità diverse come le loro, venissero accomunate e fuse in un unica mente quando si sedevano assieme a “creare”.
L’impulsività di John era mitigata dalla maggiore conoscenza di Paul.
La troppa rigidità di Paul veniva sciolta dell enfasi creativa e straripante di John.
Erano uno spettacolo anche fuori dal palco e dalle sale di registrazione e, Cristo, avevano solo vent’anni e tutta la vita davanti. In quel momento potevano solo pensare di diventare grandi. Io sapevo invece che sarebbero diventati immensi.
Mi stava venendo il magone.
Avevo allungato la mano verso una delle tre birre, avevo bofonchiato un poco convinto “Cheers” e, in un sol sorso, avevo azzerato la mia pinta.
“Cazzo, amico! Avevi sete eh?”
Il barista, poco dietro il nostro tavolo, aveva commentato sarcastico il mio abituale modo di bere la prima pinta. Ero rimasto in silenzio. Loro due sembravano essersi dimenticati di me. Paul aveva preso in mano il suo mitico Hofner e cercava di arrangiare qualcosa che non avevo mai sentito. John aveva imbracciato la chitarra ed era rimasto fermo per alcuni secondi ad ascoltare Paul, poi aveva provato a mettere sopra alle sue linee di basso qualche accordo.
Non parlavano. Erano, in quel momento, quello che tutti noi sapevamo già: il motore pulsante e creativo di una band che avrebbe scritto la storia della musica.
Dopo una decina di minuti, Paul si ere sfilato il basso di dosso e si era messo la giacca.
“Esco per un po’, ho bisogno di prendere aria. Vado giù all’angolo, John...Ci si vede dopo!! Saluti, Max! Ci vediamo stasera al concerto vero?”
Ed era sparito, dietro il palco.
Avevo fatto a tempo solo a levare il braccio in segno di saluto. John aveva sbuffato verso l’alto, spostando un ciuffo di capelli e si era nuovamente allungato sulla sedia. Il palco era già praticamente allestito di tutto punto e lui lo stava osservando.
“Non ho voglia di suonare, questa sera! Me ne andrei volentieri a letto!”
E mi aveva sorriso, passandomi la birra di Paul, che non aveva nemmeno toccato. Alzate le due pinte e fatto un piccolo evviva, le avevamo poi buttate giù come se fossero state d’acqua.
Era stato in quel momento che avevo realizzato che quel ragazzo che stava bevendo con me in quel momento, sarebbe arrivato solamente alla mia età. E anche che George e Pete, che stavano litigando chissà dove e per chissà cosa, avrebbero avuto destini strani; Pete, sostituito con Ringo e George sarebbe diventato un song writer, grande amico di Eric Clapton una persona sensibile e introversa e un baronetto.
Esattamente come gli altri quattro.
Mentre pensavo alla vita dei quattro ragazzi, John si era ributtato sulla scaletta e io ero rimasto ad osservarlo in silenzio, per qualche minuto.
Aveva annotato alcune righe ai margini in velocità e poi me l’aveva porta.
“Dici che possa andare?!”
In quel momento non avevo capito la cosa: John non poteva sapere che io conoscessi già quei brani. Era la prima volta che mi vedeva… e non poteva certo immaginare chi fossi in realtà e da dove venissi. Semplicemente, mi aveva chiesto un parere, sulla fiducia.
Prendere quel foglio dalle sue mani era stato come ricevere il Santo Graal da Re Artù in persona: stavo guardando una scaletta dei Beatles, scritta da John e Paul… e mi era stato chiesto se andasse bene! Cioè! Non ci si crede, vero?!
Dietro di noi, i baristi del Cavern iniziavano a tirare giù le sedie dai tavoli creando confusione: il rumore della normalità quotidiana era arrivato ad interrompere un momento che era, per me, magico,
“Credo che dovresti invertire le prime due, John: meglio iniziare con un brano incisivo e poi scendere per poco di intensità!”
“E tu come sai che il secondo brano è più incisivo del primo? Li suoniamo per la prima volta stasera!”
E aveva ripreso a ridere, scuotendo la testa. Però aveva invertito i due brani, con le freccette, proprio come facevamo tutti per aggiustare un ordine, e poi si era alzato appoggiando la scaletta vicino alla chitarra.
Avrei voluto prenderla, cazzo!
Rubarla e portarmela via, nel 2016, metterla sotto teca e per rimanere a guardarla ogni volta che mi sarei acceso la pipa.
“Beh, Max, io vado a stendermi un oretta in camerino! ...Allora ci vediamo dopo, al concerto?!”
Lo stavo guardando mentre si rimetteva la giacca e si accendeva un altra sigaretta. In quel momento avrei voluto fare un sacco di cose...perfino abbracciarlo e dirgli quanto lui avesse significato per me, nella mia vita. Lui, Paul, George e Ringo.. che John ancora non conoscev! Invece, avevo preso la pipa e l’avevo riaccesa, ficcandomi poi le mani in tasca. Lo guardavo mentre si sistemava e improvvisamente la mia bocca si era aperta senza che me ne rendessi conto:
“John! ... New York è uno schifo! Non andare mai ad abitarci!”
John Lennon si era abbottonato la giacca e mi stava guardando con un espressione accigliata. Era a metà tra il sorpreso e l’incredulo.
“Che cazzo c’entra sta cosa?”
E aveva alzato la mano, salutandomi, sorridendo beffardo.
Si era voltato ed era sparito dietro il palco esattamente come aveva fatto Paul qualche minuto prima.
Ero uscito dal Cavern mesto, completamente in balia delle sensazioni.
Ero felice per quell’incontro ma ero anche profondamente triste. Avevo camminato meccanicamente fino al prato di erba alta ed avevo ripreso la Delorean, rientrando esattamente un minuto dopo di quando ero partito.
Avevo ringraziato Doc e Marty per il regalo, ma appena erto uscito dalla casa di Emmeth mi ero nuovamente intristito.
Il freddo della sera iniziava a darmi fastidio ed il bavero del mio Montgomery era diventato, come sempre, un ottimo riparo. Avevo quasi paura di prendere il cellulare dalla mia tasca. Il display si era illuminato sull’home page di Google e avevo aperto Wikipedia. John era andato a New York comunque.
  
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