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Autore: ChiiCat92    08/11/2016    1 recensioni
"Il mio ragazzo è uno stronzo.
No, questa non è la lamentela di una fidanzata insoddisfatta, piantata in asso da un giorno all'altro o tradita.
Il mio ragazzo è davvero uno stronzo.
Se l'avessi beccato ubriaco con un altro, l'avrei perdonato. Se avesse usato un SMS per lasciarmi, l'avrei perdonato.
Dio mi è testimone: l'avrei perdonato persino se l'avessi visto scopare con una donna.
Ma è uno stronzo, e non posso perdonarlo."
[Akusai]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Saix
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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25/05/2016

 

Un Perfetto Sconosciuto

 

Il mio ragazzo è uno stronzo.

No, questa non è la lamentela di una fidanzata insoddisfatta, piantata in asso da un giorno all'altro o tradita.

Il mio ragazzo è davvero uno stronzo.

Se l'avessi beccato ubriaco con un altro, l'avrei perdonato. Se avesse usato un SMS per lasciarmi, l'avrei perdonato.

Dio mi è testimone: l'avrei perdonato persino se l'avessi visto scopare con una donna.

Ma è uno stronzo, e non posso perdonarlo.

 

Qual è la cosa peggiore che potrebbe capitare? A parte la Fine del Mondo, intendo, qual è la cosa peggiore che potrebbe capitare ad una persona?

Qual è l'idea generale di “giornata storta”?

Svegliarsi tardi e perdere il treno per andare al lavoro, poi arrivare in ufficio e venire licenziati per il ritardo, mandare a fanculo il capo e sbattere tutte le porte che si riesce a trovare, scendere in strada, prendere un caffè nel tentativo di calmarsi – e un giornale, tanto per controllare le nuove offerte di lavoro – e venire colti da un temporale improvviso e scrosciante che bagna fino all'osso: è un esempio. Ma non è abbastanza.

L'idea generale di “giornata storta” funziona solo per chi torna a casa alla fine della suddetta giornata, si avvolge nelle coperte e si addormenta sapendo che domani avrà altre 24 ore da vivere. Potrebbero essere peggiori di quelle appena passate, ma perché no, magari potrebbero essere migliori.

La giornata storta per eccellenza è quella in cui muori, perché quando muori vuol dire che è andato storto tutto quello che poteva andare storto.

È più o meno quello che è successo a me.

Non doveva essere una giornata storta, non è cominciata come una giornata storta, anzi. Non è giusto che non ci sia nessuno con cui arrabbiarsi quando il sole sorge e tutto sembra così perfetto che ti viene da sorridere pensando a quanto sia bella la tua vita e a che bella – fottutissima – giornata ti aspetta con la persona che ami.

Non è giusto, non è proprio giusto.

Ho sempre pensato che quando arriva il momento del tuo trapasso il tuo corpo lo sente, c'è qualcosa nell'aria che ti fa accapponare la pelle, che ti rende ipersensibile agli stimoli, un presentimento strisciante che ti scorre nelle vene come sangue. Qualcosa, insomma, che ti faccia capire che sta arrivando la fine, in modo che tu possa essere in qualche modo preparato, che la Morte non ti colga totalmente di sorpresa.

Ma non è così. Quando muori, muori all'improvviso, non hai neanche il tempo di accorgertene, non hai il tempo di realizzarlo.

La Morte arriva, e tu stai ancora cercando di respirare, incredulo.

Ti aspetti di morire a novant'anni, a ottanta, di vecchiaia, dolcemente nel sonno, non a venticinque in perfetta salute con un compagno che ami e una vita davanti.

Non ti aspetti la Morte quando sei felice.

Adesso ho imparato che è proprio nel momento in cui sei più felice che devi aspettarti il peggio. Più ti avvicini alla cima della felicità, più doloroso, tremendo e distruttivo sarà l'impatto al suolo quando cadrai. Sempre ammesso che si sopravviva alla caduta.

Io sono morto nel momento in cui meno mi sarei aspettato di morire.

Quand'ero ancora vivo mi è capitato di pensare a come sarebbe stato il giorno della mia morte. Nella maggior parte delle mie fantasie facevo esplodere un meteorite diretto sulla Terra sacrificando la mia vita per il bene dell'umanità. Sarebbe stato un modo meraviglioso di andarsene, una lacrima rivolta al bel pianeta blu e poi fuoco e fiamme. Kaboom.

Con stile, ecco come volevo andarmene. Con stile e con una gigantesca esplosione.

Ovviamente non è andata così, visto che sono morto nel modo più merdoso e stupido che possa esserci in una giornata che non si era annunciata come la peggiore della mia esistenza – nonché l'ultima – ma come una bellissima, meravigliosa, stupenda giornata insieme al mio ragazzo.

Quella mattina tutto sembrava andare come doveva. Il tempo era perfetto, proprio come ci aveva promesso il meteo.

Mi sentivo felice, soprattutto dopo aver aperto gli occhi, quando mi sono ritrovato nel suo abbraccio, così stretto, così intenso, la sua testa appoggiata contro il mio petto.

È stato uno dei momenti più belli della mia vita.

Saïx non è mai stato un dispenser automatico di coccole, affetto, dolciumi e caramelle. Strappargli anche un solo bacio in pubblico è difficile, prendergli la mano per strada praticamente impossibile. Stando con lui prima come amico poi come compagno mi ha insegnato a non pretendere troppo dalla sua misantropia e dal suo naturale, istintivo odio per il genere umano. È fatto così, l'amavo per questo. Soprattutto perché un suo unico gesto di affetto vale come un anno intero di fiori, cioccolatini e cene romantiche a lume di candela.

Il fatto di trovarlo – in quella particolare mattina – accoccolato e stretto a me come un gatto, aveva un significato tanto profondo che sarei stato pronto a piangere.

Sì, la giornata era cominciata anche troppo bene. Mi avvicinavo alla cima della mia felicità, e da lassù non mi ero accorto di quanto fosse...esile e pronta a franare sotto i miei piedi.

Quando Saïx ha aperto gli occhi mi ci sono perso per un attimo, così belli, così profondi. Quanto li amavo.

Ci siamo dati il buongiorno in un modo insolitamente ma piacevolmente dolce, forse consapevoli della meravigliosa giornata che ci aspettava.

Che stupido. I picnic non ci sono mai piaciuti, perché ho dovuto costringere Saïx a farne uno proprio il giorno della mia morte?

Mi chiedo se in fondo una piccola parte di me già lo sapesse, o se ho preso la peggior decisione della mia vita senza rendermene conto. Ma dal preciso momento in cui ho proposto di andare in campagna, fuori città, per fare un picnic il primo fine settimana utile, ho anche scritto la mia condanna a morte.

Tutto perché l'aria piacevole della primavera, il cielo sgombro, gli impegni che andavano diradandosi con l'avvicinarsi della bella stagione, mi avevano reso straordinariamente stupido e romantico.

Avrei dovuto lasciare stare quando Saïx aveva mosso le prime lamentele a riguardo. Una coppia di gay che fanno un picnic in campagna oltre ad essere un orrendo cliché era anche troppo imbarazzante per lui, ed era chiaro sin dal primo istante.

Al suo “non ci pensare neanche” non avrei dovuto piagnucolare come un bambino premendo quei tasti dentro di lui che sapevo essere troppo sensibili ai miei occhi dolci. Non avrei dovuto continuare a tormentarlo fino a strappargli uno stressatissimo “e va bene”. Non avrei dovuto saltellare di gioia e saltargli al collo per baciarlo. E non solo perché quella concessione portava la firma della Morte, ma anche perché il mio ragazzo è uno stronzo, e avrei dovuto capirlo prima.

Così, la mattina del picnic – della mia morte – era tutto pronto e perfetto. Avevo preparato i classici sandwich da mangiare sul prato, ero impazzito girando tutti i negozi della città per trovare una tovaglia a scacchi bianchi e rossi. Volevo che fosse tutto come in un film, un bel film, il nostro film. Non c'è niente di più puro al mondo di due innamorati e il loro perfetto guscio di felicità. Ero convinto che niente avrebbe potuto sfiorarci. Perché ero accecato dall'amore.

Quando mi accorsi per la prima volta che guardare Saïx mi suscitava più di un semplice batticuore, più di una semplice agitazione, non capii bene se fossi sconvolto perché provavo quei sentimenti per il mio migliore amico o per un ragazzo. Forse le due cose, in fondo, coincidevano.

I miei dubbi si dissiparono quando gli strappai il primo bacio. Diamine, deve essere ancora arrabbiato per averglielo rubato, quella sera di certo si infuriò tantissimo. Anche lui non riusciva a convivere con l'idea di ricambiare quel senso di confusione che aveva pervaso me per primo.

Seguirono circa due mesi di silenzio, nei quali ogni mio tentativo di contattarlo si rivelarono inutili. Saïx è un testone quando ci si mette, ma vederlo sotto casa mia allo scoccare dell'inizio del terzo mese di silenzio, fu la conferma che entrambi cercavamo.

All'inizio stare insieme si rivelò più imbarazzante di quanto pensassimo. Nonostante i nostri dieci lunghi anni di amicizia ci conoscevamo per la prima volta sotto un altro aspetto. Era strano. Era strano guardarlo con gli occhi dell'amore, e avere da lui lo stesso sguardo.

Alla luce di quanto è successo sono contento che non mi abbia mai detto “ti amo”. Pensavo che dipendesse dal fatto che fosse...un po' scostante ed introverso riguardo i suoi sentimenti – verso se stesso, e verso gli altri – e che prima o poi, con i suoi tempi, sarebbe arrivato a dirmelo. Adesso so che è solo perché non mi ha mai amato veramente. Ero troppo cieco per rendermene conto.

È uno stronzo.

Di per sé fa schifo, ma quando muori per colpa di qualcuno che credevi ti amasse – e di amare – fa talmente schifo che è come morire una seconda volta.

Quindi a conti fatti, io sono morto due volte.

In quella meravigliosa, bellissima giornata in cui non pensavo sarei morto, l'uomo alla guida della macchina davanti alla nostra in autostrada ha perso il controllo, impattando ad alta velocità contro il guardrail e trascinandoci in un testacoda terminato con lo schianto frontale contro una macchina nella corsia opposta.

Non ricordo di aver provato dolore, né ricordo di aver urlato o detto qualcosa in particolare.

Ma non sono morto subito, oh no, non sono morto subito.

La macchina di Saïx si è accartocciata dal lato del passeggero come un foglio, schiacciandomi quasi completamente la gamba destra tranciando di netto l'arteria femorale. Probabilmente se fossi sopravvissuto l'avrei persa.

L'immagine di Saïx è chiara nella mia memoria.

Il primo istintivo tentativo è stato quello di uscire, correre, liberarmi da quella trappola di lamiera, a prescindere da quanto il mio corpo fosse impossibilitato ad ubbidirmi. E insieme a quell'istinto, la mia mano ha cercato quella di lui, quella del ragazzo che amavo. Ma lui stava cercando disperatamente di slacciarsi la cintura, neanche si era accorto del mio debole tentativo di cercarlo.

Forse avevo inconsciamente già capito di stare morendo, nonostante l'assenza di dolore, e volevo solo la sua stretta a darmi conforto.

C'era sangue, tanto sangue, ovunque, la mia visuale era piena di un rosso accecante. Mi sembrava di averne le gambe immerse fino al ginocchio.

Da dove viene tutto questo sangue!” ho pensato, ma non riuscivo a capacitarmi del fatto che venisse da me era il mio sangue.

I miei occhi si sono alzati per implorare l'aiuto di Saïx, le mie labbra si sono schiuse per chiamare il suo nome. Ma lui non era più lì.

Slacciata la cintura di sicurezza, con un calcio ha aperto la portiera dal suo lato. È uscito, lasciandomi a morire annegato nel mio stesso sangue.

L'ultima cosa che ricordo è la sua chioma zaffiro che si allontana e si fa sempre più sfocata, sempre più sfocata, fino a scomparire nel buio.

Mi ha abbandonato. Deve essere a quel punto che sono morto.

 

*

 

Ora, benché io abbia sempre evitato l'Argomento Morte come la peste – visto che un ragazzino com'ero io non dovrebbe mai pensare di morire – non so bene cosa mi aspettassi di preciso una volta essere passato dall'altra parte.

Mi piacerebbe dire che mi meritavo il Paradiso ma, andiamo, tanto per cominciare mi sarei annoiato a vagare nella beatitudine eterna in mezzo alle nuvole, e poi un cattivo ragazzo come me stona nel Regno Celeste.

Però non sono mai stato talmente cattivo da dire che mi meritavo l'Inferno.

Ammesso che esista una via di mezzo, ecco, dopo essere morto, mi dicevo, mi sarei trovato di certo lì.

E devo dire di averci quasi azzeccato.

Riapro gli occhi a casa mia, la casa in cui vivevo prima di andare a vivere con Saïx – quello stronzo –, nel mio letto da adolescente, sotto il tetto dei miei genitori.

Un posto strano in cui svegliarsi, tanto che per un attimo mi chiedo se forse tutta la mia vita non sia stata solo un sogno – un incubo –. Ma è difficile dimenticarsi di essere morto quando mi accorgo che in petto non ho più un cuore che batte.

Il silenzio del mio corpo e dei suoi bisogni mi lascia attonito per un lungo istante, ma poi anche quell'emozione sfuma, e allora mi alzo.

La mia stanza è esattamente come quando me ne sono andato. C'è lo stesso disordine, gli stessi oggetti, persino le stesse lenzuola nel letto. Non sembra passato neanche un istante, quando so benissimo che, per lo meno, sono passati due anni.

Mi chiedo se sia il caso o meno di uscire e vedere cosa mi aspetta fuori, perché all'improvviso ho solo voglia di tornare a letto. Ho bisogno ancora di un altro giorno, ho bisogno di resettare tutto. Ho bisogno di essere ancora vivo. Ma per quello è troppo tardi.

Il mio corpo è tutto intero, come prima dell'incidente. Ho entrambe le gambe e sembrano funzionare perfettamente. Mi guardo le mani, il dorso, i palmi, non sembrano le mani di un morto. L'unico morto che ho mai visto è il gatto che avevo quando avevo circa dieci anni, non ho altri metri di paragone, però non mi sento freddo e rigido com'era lui.

Mi sento bene, straordinariamente bene considerando quello che sono.

Sì, ma...cosa sono?

Prendo un respiro profondo solo per accorgermi che non ho bisogno di respirare davvero e apro la porta della mia stanza. Mi ritrovo nel corridoio, com'è giusto che sia, ma la casa è così buia che mi viene un brivido. Non pensavo di poter rabbrividire ancora.

L'unica luce visibile viene dalla cucina e non è l'unica cosa che viene da lì: c'è un profumino allettante nell'aria e mi ritrovo affamato senza sapere come sia possibile. Se non ho un cuore nel petto perché dovrei avere uno stomaco nell'addome?

Dato che la fame la sento – eccome – corro verso la cucina e quando ai fornelli trovo mio fratello quasi mi viene un infarto, per modo di dire.

« Che ci fai qui? »

Wow, ho ancora la mia voce, la voce che ricordavo.

Lui alza gli occhi dalla padella dove sta finendo di cucinare delle uova strapazzate e mi rivolge un sorriso.

« Siediti Axel, hai bisogno di mangiare. »

Ho bisogno di risposte a dirla tutta, ma sono consapevole di non riuscire a reggermi bene sulle gambe e allora mi trascino verso la prima sedia e mi ci lascio cadere sopra.

Mio fratello è vestito come se dovesse andare a lavoro: pantalone nero, giacca nera, camicia bianca, intenso sguardo concentrato. È il Reno che ricordo, ma allo stesso tempo è come se non lo fosse.

Finisce di cucinare in silenzio, così come in silenzio mi mette le uova nel piatto e si siede accanto a me.

Il profumo è ottimo e ho l'acquolina in bocca ma è una situazione così surreale che non riesco a muovere un muscolo.

« Guarda che non sono avvelenate. »

E sorride. Quel sorriso storto da stupido che lo ha sempre fatto sembrare come se non sapesse mai cosa sta facendo, quando in realtà lo sa eccome.

Mi azzardo a prendere la forchetta e comincio a punzecchiare le uova nel mio piatto. La consistenza è quella di uova vere, ma è tutto così sbagliato.

Reno non cucina, Reno non abita neanche più a casa dei nostri genitori – come non ci abito più io –, Reno non lo vedo da quando ha cominciato a lavorare per la Shinra, Reno non sono riuscito a salutarlo prima di morire.

« Chi sei? »

Riesco a chiedere, senza staccargli gli occhi di dosso. È così difficile cogliere in lui qualcosa di diverso, è esattamente la persona nella mia memoria, non ha un solo capello fuori posto. Però c'è una consapevolezza precisa dentro di me che continua a dirmi che lui non è mio fratello.

« Mangia, su. »

« Oh che coglioni. » sbotto, e lui non fa una piega. Visto che non vuole parlare finché non avrò mangiato le dannate uova strapazzate, ne prendo una forchettata e le infilo in bocca. Il sapore è paradisiaco ma obbligo me stesso a non gradirlo più di tanto. Mando giù cercando di non farmi sfuggire gridolini entusiasti e poi poso la forchetta. « Ho mangiato. Adesso mi dici chi sei? »

Lui annuisce, ma prima tira fuori dalla tasca interna della sua giacca il pacchetto immancabile di sigarette per poi prenderne una e accenderla. L'odore del tabacco è così forte e reale che non mi sembra possibile.

« In termini umani direi che tu mi definiresti il tuo Angelo Custode. »

Quasi mi soffoco con una risata.

« Tu? Il mio Angelo Custode? » per tutta risposta annuisce di nuovo e soffia una lunga boccata di fumo verso l'alto. Raramente mi sono sentito pervaso dalla rabbia e dalla frustrazione come in questo momento, però stringo solo i pugni e prendo un profondo respiro. L'aria sa di uova e sigaretta, una miscela da voltastomaco. « Senti, è già abbastanza merdoso essere morto senza che tu faccia lo stronzo, quindi potresti smetterla e dirmi che cazzo sta succedendo? »

Il suo sguardo allora cambia, quei begli occhi blu che ricordo come essere sempre pervasi da una luccicante scintilla di malizia si spengono e diventano seri, troppo seri. Spegne la sigaretta in un portacenere che non avevo visto sul tavolo e so di avere tutta la sua attenzione. Era ora.

« Ricordi di essere morto? »

« Cazzo se me lo ricordo. »

Il fumo, il sangue, la mia mano che non raggiunge mai quella di Saïx, la sua schiena mentre si allontana.

Merda. Non pensavo che potesse fare così male anche da morto.

« Questo è un buon inizio. » mi sorride di nuovo, più dolcemente stavolta. Non ho mai visto mio fratello sorridermi così, ma neanche sorridere così a qualcun altro. « Può succedere che gli umani cancellino il momento del loro trapasso. Per questo ti ho fatto risvegliare in un posto che ti fosse familiare. »

« Oh grazie, gentilissimo. » mi ritrovo a borbottare e a prendere un'altra forchettata di uova dal mio piatto, per qualche ragione trovo che mangiare sia estremamente confortante. « E perché hai la faccia di mio fratello? Lui non è morto, almeno che io sappia. »

« No, non lo è. » odio quando sorride così gentilmente, mi fa pensare a tutti i sorrisi che Reno non mi ha mai rivolto. « Io non ho un corpo fisico, ho scelto le sembianze di qualcuno a te vicino che ti avrebbe fatto sentire a tuo agio. »

« Capisco. » no, in realtà no, perché è anche troppo vero che con “mio fratello” davanti mi sento più tranquillo, nonostante tutto. « Sei davvero il mio Angelo Custode? »

« Sì, esatto. »

« Beh, mio caro Angelo, hai fatto un bel casino. » lui inarca le sopracciglia, stupito forse di quanto cattiva e aggressiva suoni quell'accusa. « Dove diamine eri? Non hai fatto il tuo lavoro come si deve! Sono morto! Non dovrebbero che ne so, licenziarti per questo? »

Stringo i pugni così forte che se fossi ancora vivo di certo mi farei male, un male cane, ma no, non sento niente. Non so quanto mi piaccia non provare dolore, questo tipo di dolore, perché riesco a sentire svariate altre sfumature di sofferenza, e sono tutte soverchianti.

« Mi dispiace, ma temo che non sia colpa mia, era giunta la tua ora. »

« La mia ora? » a quel punto batto un pugno sul tavolo, così forte che trema il piatto. « Perché?! Ero giovane, in piena salute, amavo un uomo che... »

No, mi si stringe la gola. Non riesco a pensare a lui senza sentirmi soffocato.

Di nuovo la sua immagine mi compare davanti agli occhi. Lo vedo mentre si allontana, lo vedo mentre mi lascia lì a morire in quell'accartocciato ammasso di metallo. Lo vedo mentre decide di trattarmi come un perfetto sconosciuto e lasciarmi da solo.

È come se mi dilaniassero dall'interno, come un pezzo di carta strappato più e più volte così sono io. Quel sentimento di doloroso abbandono, di amore tradito, mi distrugge. Mi sento sgretolare.

Sobbalzo quando la mano di Reno prende la mia e la stringe. Incontro i suoi occhi e il suo sorriso e quel dolore scema, si riduce alla punta di uno spillo benché non sparisca. È latente dentro di me, pronto a uccidermi ancora e ancora e ancora.

Ora so che l'unica cosa che sopravvive alla morte è l'amore. Ma non nel modo che ci si aspetterebbe.

« Non lasciarti travolgere da questi sentimenti negativi, rischi di disgregarti e sparire. In questo momento la tua anima sta attraversando un...momento di stasi. Sei morto, ma sei ancora vivo in qualche modo. »

« Mi stai dicendo che sono un fantasma? »

Al solo pensiero mi vengono i brividi. Non che io abbia paura dei fantasmi, anzi, tutto il contrario, io ho sempre ridicolizzato tutta quella branca del paranormale che si occupa di non morti e spiriti inquieti. Questa è una pena per contrappasso, me lo sento.

« Se definirti così ti è più congeniale, allora sì, sei un fantasma. »

Non era quello che volevo sentirmi dire, ma è una strana consolazione. L'ha detto lui, no? Sono ancora vivo in qualche modo.

« Perché sono così? Non dirmi che è per... »

« Questioni in sospeso. »

Finisce lui la mia frase e allora alzo gli occhi al cielo.

Dio, se sei lassù davvero, non appena sarò morto definitivamente dobbiamo fare due chiacchiere. Due chiacchiere a quattrocchi.

« Va bene. Questioni in sospeso. E che dovrei fare allora? »

« Io non posso dirtelo, il mio compito finisce qui. » mi lascia la mano, che ha tenuto fino a quel momento, e si alza. È allora che mi rendo conto che tutto intorno a noi sta cominciando a...sparire, a diventare più sottile, come fosse fatto di carta velina. « Devi trovare da solo le ragioni che ti hanno costretto a rimanere sulla Terra, e solo allora potrai trovare la pace. »

« No aspetta, non puoi lasciarmi così! »

Mi alzo anch'io, più per necessità che per altro: la sedia su cui ero seduto è praticamente diventata di vetro trasparente, e non sembra in grado di reggere il mio peso.

« Non preoccuparti, andrà tutto bene. C'è un'unica domanda a cui vuoi dare una risposta, cercala e vedrai che tutto andrà come deve. »

« Aspetta, aspetta! » provo ad afferrarlo ma anche lui, come il mondo che dice di aver creato, sta lentamente scomparendo, diventando così sottile da poter essere percepito solo se strizzo gli occhi. « Non so da dove devo cominciare, non so che cosa devo cercare, per favore non lasciarmi! »

Mi rivolge un ultimo sorriso per poi sparire, puff, come se non fosse mai stato lì. E d'altronde, neanch'io ci sono mai stato, perché quella non è la vera casa dei miei genitori, non è la vera cucina, non c'è niente di vero.

Quando quel mondo confezionato per il mio “risveglio” sparisce completamente mi ritrovo dove tutto è cominciato, anzi, dove tutto è finito.

Sono in piedi nella corsia dell'autostrada dove abbiamo avuto l'incidente. Deve essere più o meno la stessa ora di quel giorno a giudicare dal traffico, l'unica piccola, minuscola differenza è che le macchine mi passano attraverso come se fossi fatto di niente, di aria, di fumo, lasciandomi una sgradevole sensazione di intangibilità che mi fa girare la testa.

Devo andarmene di qui, devo togliermi dalla strada.

Però non ci riesco. Per un lungo istante rimango come paralizzato guardando la vita che intorno a me scorre come se niente fosse.

Axel Sinclair è morto, proprio qui, in una trappola di metallo, abbandonato dalla persona che più amava, e la vita continua. Non un fiore, non un segno, non ci sono vetri sull'asfalto, non ci sono tracce di pneumatici. Non c'è nulla che dica “ehi, qui è morto qualcuno”. Non c'è niente di me in questo posto.

Lentamente le gambe mi ubbidiscono e comincio a camminare. Ci sono otto chilometri da qui al centro città, chissà se i fantasmi sentono la stanchezza così come sentono il dolore.

 

Essere morto è orribile, sotto molti punti di vista, ma non posso dire che non sia anche spassoso. Non mi è mai successo di poter stare ad osservare senza essere osservato a mia volta.

C'è una bellezza silenziosa in questo mondo nascosto invisibile agli occhi dei vivi. Per scoprirlo sono dovuto morire.

È come se intorno ad ogni essere umano ci fosse una sorta di...sfera, o una cupola, traslucida che li protegge e li difende finché tengono lo sguardo basso. Si assottiglia un po' quando alzano gli occhi per incrociare quelli di qualcun altro, e torna ad inspessirsi quando li riabbassano.

Se si tratta di una coppia di amici, quella sfera diventa completamente trasparente seppure rimanga intorno a loro come fosse una protezione, ma in una coppia di innamorati è assente. Innamorarsi rende vulnerabili.

Quand'ero vivo probabilmente avevo intorno qualcosa del genere anch'io, adesso non c'è nulla. È perché sono morto, ovviamente, eppure mi sento disfunzionale, rotto, fuori posto. Sarà l'effetto che fa non avere un cuore.

Mentre cammino cerco di non toccare nessuno, né di farmi toccare. Non sembrano accorgersi della mia presenza, ma essere attraversato è una delle sensazioni più spiacevoli che abbia mai provato in vita mia, o in morte mia, beh è lo stesso.

Non so dove sto andando, non ne ho la più pallida idea. Non c'è nessun posto dove vorrei andare a dirla tutta.

Ripensare alle parole di Reno – del mio Angelo Custode – mi fa sentire confuso e scoraggiato.

Un'unica domanda a cui voglio dare risposta. Ho milioni di domande, non una!

Non voglio rimanere un fantasma per sempre, ma questa “pace” di cui Reno ha parlato non so neanche cosa sia esattamente. Potrebbe essere peggio di questo.

Non voglio scomparire, non voglio essere ripulito dall'esistenza di questo universo come il tratto di strada in cui sono morto. Via il sangue, via la carcassa dell'auto, via Axel Sinclair.

No, non accetto di finire così.

E tutto per colpa di quello stronzo.

All'improvviso mi fermo, mi si blocca il respiro in gola. La mia reazione sarebbe riassumibile con un semplice: GASP.

Lo stronzo che mi ha lasciato morire. Saïx. È tutta colpa di Saïx se sono ridotto così, se neanche nella morte ho potuto trovare la pace e mi tocca rimanere in questo limbo ectoplasmatico.

È tutta colpa sua, solo sua.

È questa l'unica domanda a cui voglio dare una risposta. Okay, non è proprio una domanda, e non è proprio una risposta, ma immagino che Reno intendesse qualcosa di metaforico.

La mia questione in sospeso riguarda Saïx e il fatto che mi abbia lasciato da solo a morire.

Da questo momento in poi e finché non avrà aria da respirare e vita da vivere, io sarò il suo peggior incubo.

 

Quando io e Saïx ci siamo messi insieme la prima cosa che mi è sembrata naturale fare è stata andare a vivere da lui, così, senza neanche pensarci. All'incirca una settimana dopo il nostro chiamiamolo coming out – anche se è imbarazzante da dire – io mi ero già trasferito a casa sua. Sembrava naturale farlo. Eravamo una coppia, eravamo innamorati, perché avremmo dovuto vivere lontani.

Lui aveva un appartamento vuoto, tutto suo, lasciatogli dalla madre, mentre io vivevo ancora con i miei genitori, quale occasione migliore per schiodare da casa e cominciare la vita adulta.

L'appartamento è al settimo piano di un palazzone costruito per gente ricca e fine com'è Saïx, quel genere di persone che fa solo bei lavori, che vive solo in belle case, che ha belle macchine e una bella vita. Quel genere di persona che Saïx sarebbe diventato una volta presa la laurea in medicina.

La sua carriera medica aveva buone premesse, peccato che nel momento del bisogno non solo ha abbandonato il suo ragazzo, ma ha anche fatto morire un paziente.

Se solo ci penso...

No, Reno ha detto di non pensarci. Non devo farmi sopraffare da un'emozione così grande. Ho un nuovo scopo adesso, non devo dimenticarlo.

Quando arrivo in vista del palazzo dove vivevo mi viene un brivido. Non so cosa aspettarmi, non so cosa troverò. A dirla tutta non so neanche da quanto tempo sono morto. Che giorno era? Era sicuramente sabato, ma non ricordo il numero. Ed era Maggio, anche di questo sono sicuro.

Sono morto un sabato di Maggio, ma dannazione non riesco a ricordare altro.

Attraverso la strada senza neanche guardare, tanto comunque nessuna macchina può investirmi. Per un momento mi sento in colpa. Mia madre mi ha sempre insegnato a guardare a destra e a sinistra prima di attraversare, ed è così strano disubbidire ad un insegnamento così ben radicato in me. Scusami mamma, sono un fantasma, posso permettermi di essere un bambino cattivo.

Sul citofono ci sono ancora entrambi i nostri nomi, e la cosa mi provoca un'ondata di bile che potrebbe corrodere il fegato.

Karalis-Sinclair.

Bello schifo, il mio nome accanto a quello della persona che mi ha lasciato morire.

Oh, lo farò pentire amaramente di non avermi aiutato. Lo farò pentire eccome. Implorerà il mio perdono. Non so come, ma gli farò capire che sono io a farlo vivere in quell'inferno.

Il portone è chiuso, mi tocca attraversarlo. Prendo un respiro e muovo un passo in avanti. Il freddo del metallo e dell'acciaio di cui è composta la porta mi fa venire i brividi, ma dura solo un attimo.

Sono appena entrato di nascosto nel palazzo dove fino a poco tempo fa entravo usando le chiavi. Avevo un adorabile portachiavi a forma di mezzaluna appeso al mazzo di chiavi. Un regalo di Saïx.

La rabbia che mi prende all'improvviso mi fa vedere rosso, il corpo formicola tutto ma non mi sento disgregare come la prima volta che ho pensato a lui, anzi, mi sento solo farmi più tangibile, più forte. Questa rabbia è nutrimento, e non sono mai stato così affamato prima.

Non prendo l'ascensore, salgo di corsa su per le scale senza sudare, senza avere il fiatone. Un altro punto a favore dell'essere un fantasma.

Il nostro pianerottolo non è cambiato. La porta dell'appartamento è sempre la stessa, c'è anche lo stesso zerbino. Potrebbe essere passato un solo istante da quando sono morto, mi fa quasi mettere in dubbio che io lo sia davvero.

È istintivo e quasi necessario per me avvicinarmi lentamente come se stessi entrando nella casa di un estraneo e lo stessi facendo di nascosto. Poggio l'orecchio contro la porta cercando di cogliere un qualche rumore dall'interno ma...niente. Tutto silenzioso.

Allora entro, attraversando la porta blindata che tanto Saïx ha voluto a protezione della sua inestimabile proprietà.

Nonostante sia una bella giornata di sole – esattamente come quando sono morto – la casa è immersa nel buio. Tutte le tende sono tirate, e le finestre che hanno le tapparelle sono praticamente sbarrate.

Confuso, mi guardo intorno, cercando di capire se è un appartamento ancora abitato o se per caso Saïx non se ne sia andato. Magari trovava impossibile vivere lì dove viveva anche la persona che ha lasciato morire.

Ogni mio dubbio è dissipato quando noto all'ingresso la giacca di Saïx sull'appendiabiti. Ma non è la sola: di giacche ce ne sono due, e della seconda non conosco il proprietario. Mia non è di certo.

Giuro su qualsiasi Dio mi abbia messo in queste condizioni che se trovo Saïx con un altro io...

Io non lo so. Non lo so cosa potrei fargli.

Potrei ucciderlo, come lui ha fatto con me.

Mentre mi interrogo su come potrei fare per ammazzarlo considerate le mie condizioni, le mie gambe si muovono automaticamente verso la stanza da letto.

Ignoro tutto ciò che si trova nel mio campo visivo periferico, ignoro tutto ciò che non vedo. Perché non vedo tracce di me da nessuna parte.

Sulla cassettiera nel corridoio c'era una nostra fotografia di quella volta che siamo andati al lago. Una giornata orribile, considerando che sono caduto nell'acqua gelida che mi ha provocato una settimana di polmonite.

E la cornice con l'unico bacio fotografato che sono riuscito a strappargli? Non c'è neanche quella.

Non c'è niente, niente di niente.

Né le mie scarpe sempre spaiate lasciate all'ingresso, né i miei libri accatastati sul tavolino del salotto, né la pila dei DVD di film serie Z che lo costringevo a guardare accanto alla TV.

Mi ha cancellato. Ha cancellato tutto quanto c'era di me in questa casa.

La porta della stanza da letto è socchiusa. Il dolore che sento al petto è così atroce che devo reggerlo per paura che non vada in mille pezzi.

Riesco a sentire nell'aria il suono e il sapore di chi fa l'amore. Sospiri, strusciare di lenzuola, piccoli gemiti strozzati, sudore, adrenalina, desiderio.

Non pensavo di poter morire una seconda volta. È anche peggio della prima a dirla tutta.

Da quel che riesco a vedere dalla porta socchiusa, Saïx è in compagnia di qualcuno che non sono io, nel letto che condividevamo, sottomesso a lui e al piacere che sembra dargli.

Non riesco a vederlo in volto, ma basta sentirlo gemere. Basta sentirlo sussurrare un nome che non è il mio.

Mi tiro indietro prima di impazzire. Stringo forte i pugni perché desidero provare dolore, tutto tranne questo, tutto tranne questo fuoco che mi brucia dentro consumandomi fino all'osso.

Vorrei avere abbastanza fiato in gola per poter urlare, vorrei avere un corpo fisico per poter entrare da quella porta e allontanare quell'uomo dal mio ragazzo e colpirlo, colpirlo fino a rubargli la vita, nello stesso modo in cui l'hanno rubata a me.

Vorrei, ma non posso e la frustrazione, l'indignazione e la rabbia sono così atrocemente dolorose che esplodo. O meglio, non sono io ad esplodere, ma tutte le lampadine del corridoio e quelle della stanza da letto – abat-jour comprese –. L'allarme antincendio, in più, comincia a suonare, forte, tanto da stordire.

Coprirebbe i miei singhiozzi e i miei lamenti se potessi piangere. O forse l'apparecchio traduce l'ondata del mio rovente dolore, trasformandolo nelle grida che non posso più emettere.

Poi tutto si fa buio, e l'unica cosa che riesco a chiedermi è se i fantasmi oltre alla stanchezza e al dolore possano anche svenire.

 

La risposta è sì: i fantasmi svengono. Anche se non lo definirei proprio “svenire”, è come se per un attimo fossi morto davvero. Ma è stato un attimo così fugace che quando riprendo i sensi non mi sembra passato neanche un istante, invece devono essere passati diversi minuti.

Saïx è in piedi, di spalle di fronte a me, esattamente come quando mi ha lasciato a morire in quella maledetta macchina. Controlla il segnalatore di fumo dopo aver tolto la mascherina che protegge l'interno di chip e fili. Si è rivestito, velocemente pare. La forma delle sue spalle, della sua schiena, della vita, richiamano sensazioni che non vorrei provare.

La sicurezza e il conforto del suo abbraccio, il pungente aroma del suo profumo, il battito del suo cuore sotto l'orecchio.

« Hai trovato qualcosa? »

La voce profonda del suo amante, ancora nella stanza da letto, annichilisce ogni ricordo, lasciando nuovamente solo spazio per la rabbia, ma non così ustionante come prima. È una fiamma meno intensa, meno bruciante, cova sotto le ceneri.

« No, non capisco cosa sia successo. »

Risponde lui. Rimette la mascherina sul sensore, porta le mani ai fianchi. Non lo posso vedere in volto ma so che è perplesso. Sono perplesso anch'io.

Raccolti in un angolo del pavimento ci sono i vetri delle lampadine esplose per colpa mia. Alzo gli occhi verso l'alto e conto almeno dieci lampadine in frantumi sul soffitto, quel che ne rimane ancora avvitato nella loro sede. Non riesco a credere di aver fatto scoppiare dieci lampadine solo perché mi sono arrabbiato.

Forse non sono solo un fantasma, forse sono un poltergeist.

Comincio a rivalutare tutti i racconti di oggetti semoventi, sbalzi di tensione, porte che sbattono e sferragliare di catene.

« Sarà stato un cortocircuito, torna a letto. »

Non posso non lanciare un'occhiataccia alla stanza da letto in direzione di quella voce. La odio come odio il suo proprietario, non importa che faccia abbia, già solo il fatto che respiri mi è di disturbo.

Saïx allora si volta e trattengo automaticamente il fiato.

È uno stronzo, è la ragione per cui sono morto, ma il mio cuore trema ancora al solo guardarlo.

È la persona che più ho amato al mondo.

Ma in qualche modo è diverso. È diversa la luce nei suoi occhi ambrati, è come...smorzata, manca di quel brillio che ha sempre tradito le sue emozioni. Sembra stanco, le borse sotto gli occhi ne sono una prova, stanco e spettinato come dopo una lunga notte insonne, una notte piena di incubi.

Ma soprattutto è diversa la cicatrice a forma di X che gli solca il viso. Non c'era prima dell'incidente, deve esserne una conseguenza.

Da una parte gioisco, e non riesco a sentirmi terribile per averlo fatto. Porta in volto il segno del suo tradimento, e non può fare a meno di vederlo ogni giorno quando si specchia, e questo da solo è una soddisfazione, un'amara soddisfazione.

Lo seguo quasi senza rendermene conto quando entra nella stanza da letto.

Voglio vedere chi lo aspetta, con chi mi ha sostituito così in fretta – beh, sì, non so ancora da quanto tempo sono morto, ma in ogni caso ha trovato un rimpiazzo troppo in fretta –.

Tra le lenzuola è sdraiato quello che mi sembra essere una divinità d'ebano. Se non fosse che sono morto – un sacco morto – e che quello non fosse il tappabuchi di Saïx, rimarrei seriamente impressionato.

È un uomo sulla trentina affascinante abbastanza per sembrare più maturo nello sguardo d'oro fuso, ma è ingannatore, dato che il suo corpo guizzante di muscoli sembra quello di un ragazzo nel pieno della sua giovinezza. I capelli lunghi e di una curiosa sfumatura argentea gli ricadono sul volto con minuziosa precisione. Sembra ordinato nel disordine, fatto per piacere, abbagliante nel sua virilità. Ma forse il suo più grande pregio è l'essere semplicemente vivo.

Rivolge a Saïx un sorriso così malizioso che persino io mi sento scuotere da dentro da un brivido di inaspettato piacere, mentre con una mano tocca dolcemente il posto accanto a lui, come invitandolo a stendersi ma sottintenda un ordine perentorio.

Quell'uomo ha carisma, lo trasuda da tutti i pori. Sembra essere in grado di far muovere il mondo solo con una parola, e solo perché l'ha voluto.

Ma c'è qualcosa che mi lascia piuttosto stordito.

Saïx non è circondato da quella...strana sfera traslucida che ho visto intorno alle persone, ne è completamente privo. Ma intorno all'uomo invece c'è eccome, sembra una barriera, spessa tanto da appannare a tratti la vista. Impenetrabile.

Anche quando Saïx gli si sdraia accanto e lui gli tocca il viso con una mano quella barriera non lo abbandona, continua a persistere tra loro, anche se nessuno dei due se ne rende conto.

Chissà cosa vorrà dire. Smette di importarmi quando lui lo bacia.

Il brivido di raccapriccio che mi provoca mi costringe a uscire dalla stanza il più velocemente possibile. Non voglio vedere, non voglio vedere più.

Non ce la faccio.

Mi sembra di intravedere fiamme sfarfallare nel mio campo visivo, mi sembra di essere io stesso fuoco. Fuoco bruciante di rabbia e dolore.

Ho bisogno di respirare, ho bisogno di calmare i nervi. Non è così che devo sfogare la mia rabbia, contro me stesso, rischiando di svanire e di perdere quest'unica esistenza che mi è rimasta.

Devo rivolgere la mia rabbia verso di lui.

Mi schiaffeggio le guance con i palmi aperti come per tornare presente a me stesso.

Organizzarsi, questo è l'importante, questa è la direttiva. Organizzarsi e capire come poter rifare a comando quello che ho fatto alle lampadine.

È successo perché ero arrabbiato, e questo è un buon inizio. D'altronde deve essere stata la rabbia a farmi rimanere in questo mondo, fa parte della mia “questione in sospeso”.

Un rumore attira la mia attenzione e mi volto. Non avrei dovuto farlo.

Lo spettacolo dell'amante del mio assassino che entra nudo in cucina mi crea una strana ondata di disagio. Sarà perché sto assistendo da un angolino non visto come uno stalker, sarà perché quell'uomo si fa il mio ex, sarà perché ho all'improvviso uno spasmodico desiderio di staccargli la testa a morsi.

In qualsiasi caso lo seguo con lo sguardo e mi rammarico di essere così poco attraente rispetto a lui. Non pensavo che a Saïx piacessero i palestrati abbronzati.

Ora che lo guardo da solo, senza il corpo di Saïx incollato addosso, risalta ancor di più la barriera spessa e fredda che lo circonda. Reno avrebbe dovuto darmi più informazioni a riguardo, è un pessimo Angelo Custode.

Lo guardo mentre apre il frigo per prendere una lattina di soda – vecchie abitudini di Saïx non tenere in casa niente di alcolico –. Non mi piace come sorride, non mi piace l'espressione sulla sua faccia. Non mi piace.

Un formicolio su tutto il corpo mi fa quasi tremare e per un attimo non vedo più nulla. È un'esclamazione sorpresa quella che mi fa tornare presente a me stesso...e allora non posso che scoppiare a ridere.

La lattina di soda è letteralmente esplosa in faccia al tipo abbronzato, bagnandolo tutto, e ho come la sottile, soddisfacente sensazione che sia stata colpa mia.

Lui posa la lattina sul ripiano della cucina con una smorfia arrabbiata e prende uno strofinaccio per asciugarsi il volto.

Questa storia del fantasma comincia a piacermi.

 

Più o meno ho capito come funziona, è semplice a pensarci adesso.

Il mio corpo è intangibile, non posso toccare nulla, non in maniera diretta almeno, ma posso influenzare gli apparecchi elettrici, di qualsiasi genere. Per quelli ci vuole un minimo della mia energia e questo forse dipende dal fatto che sono oggetti “animati”, hanno circuiti in cui scorre l'elettricità, e posso influenzare quell'elettricità.

La mia capacità di controllo aumenta ad ogni tentativo, probabilmente con le lampadine ho “perso i sensi” perché è successo all'improvviso e su un numero elevato di oggetti.

Per quanto riguarda gli oggetti “inanimati” – come la lattina di soda che ho fatto esplodere – ci vuole un po' più di concentrazione o una forte emozione, e la perdita di energia è maggiore.

Poco male, in questa casa ci sono abbastanza aggeggi elettrici da farmi sentire come un bambino in un negozio di caramelle.

La nuova fiamma di Saïx si chiama Xemnas e non vive ancora con lui. Dopo cena, Saïx l'ha praticamente messo alla porta di malagrazia mormorando un “a domani” che lui non deve aver molto digerito vista la sua espressione indignata. Io avrei avuto paura e l'avrei fatto rimanere, ma Saïx gli ha chiuso la porta in faccia e dato una passata di chiave.

Come mi dispiace, Xemnas.

Adesso siamo soli. Sto valutando come muovermi, cosa fare. Intanto osservo Saïx.

È strano, guardarlo mi suscita due tipi di sentimenti. Da una parte mi manca così tanto il suo abbraccio, i suoi baci, il suo cuore sotto l'orecchio, il suo calore, la sensazione dei suoi capelli di zaffiro tra le dita; dall'altra sono così schifato anche solo della sua presenza che vorrei potergli stringere le dita intorno al collo e vederlo soffocare, agonizzare, ma non morire, non lo voglio morto, lo voglio ridotto al mio stesso stato, così posso passare il resto dell'eternità facendogli pesare le sue colpe.

Okay, forse così suona un po' troppo melodrammatico, ma cazzo mi ha ucciso, se non mi merito io un po' di melodrammaticità vorrei sapere chi.

Cerco di ignorare il magone che mi prende alla gola vedendolo così...solo e infelice.

Sparecchia la tavola in silenzio. Due piatti, due bicchieri, due serie di posate. Quando vivevo in questa casa era sempre divertente farlo, facevamo a turni, a volte mi lamentavo perché non ne avevo voglia e allora barattavo il mio dolce perché lo facesse lui.

Rideva spesso quand'eravamo soli, regalava bellissimi sorrisi alla personale intimità che si era creata tra le mura di questa casa.

Adesso non ride, né tanto meno sorride, non sembra neanche più in grado di farlo.

Mette le stoviglie nel lavandino e comincia a lavarle lentamente, ma non sembra porvi particolare attenzione.

Forse sta pensando a quando, lavando un piatto, mi era scivolato dalle mani e si era rotto, e nel tentativo di raccogliere i cocci mi ero tagliato. Un taglio brutto, orribilmente sanguinante, con annessi pezzi di ceramica nella ferita. Lui non si era scomposto, aveva solo premuto un panno sulla mano e aveva annunciato che mi avrebbe portato in ospedale. E l'aveva fatto davvero. Alla fine si era risolto tutto con tre punti – quindi non era neanche un taglio così brutto –. Ricordo che era tanto calmo da aver fatto sentire calmo anche me, nonostante il dolore e il bruciore. Ricordo di aver pensato che sarebbe stato un ottimo medico in futuro.

Crash.

Sobbalzo mentre lui emette un verso di strozzata sorpresa. Ha fatto cadere un piatto.

Per un momento rimaniamo entrambi immobili a fissare i cocci. Poi mi viene spontaneo abbassarmi per provare a raccoglierli. È in quel momento che le nostre mani si toccano. La sensazione non è diversa da quella che provavo in vita e mi lascia quasi boccheggiante, ma la reazione di lui è totalmente inaspettata: si tira indietro premendosi la mano al petto con tanta urgenza come se avesse appena preso la scossa. Ha gli occhi sgranati e...mi fissa.

So che non sta guardando me, so che sta guardando un punto vuoto, ma è il punto vuoto in cui mi trovo io. Mi sento rabbrividire e sto quasi per giustificarmi, per salutarlo, per dire qualcosa, ma lui abbassa gli occhi sulla mano per controllarla.

Cosa ha provato “toccandomi”?

Scuote la testa e prende scopa e paletta per raccogliere il piatto rotto.

Se avessi un cuore batterebbe forte. Riesco ancora a sentire sulla mano il suo tocco, eppure so che non è reale, so che non mi ha sentito davvero. Non sono altro che un coccio rotto sul suo pavimento, da raccogliere e gettare nella spazzatura.

 

Dormire: questo mi manca. Mi piaceva dormire e tendenzialmente sonnecchiavo ovunque capitasse prima. Sul divano mentre aspettavo che il pranzo fosse pronto, con la testa sul tavolo dopo aver mangiato, rannicchiato sul tappeto di fronte alla TV nel tentativo di guardare un film di cui riuscivo a seguire solo i primi dieci minuti, sulla spalla di Saïx dopo aver fatto l'amore.

Dormire mi manca, per cui mentre lui si gode il suo sonno umano, io girovago nell'appartamento e sembro davvero quello che sono: uno spirito inquieto.

Ho paura di toccarlo ancora, ma ho così voglia di appoggiare una mano sul suo petto nudo e ascoltare il battito del suo cuore. Allungo giusto una mano per sfiorargli il braccio e la sua reazione e rabbrividire tutto, fare una smorfia, gli viene persino la pelle d'oca. No, non è il caso di approfondire il contatto.

Frugherò un po' nella sua stanza, non ritengo possibile che mi abbia cancellato con tutta questa...precisione. Ci sarà pure qualcosa di mio qui dentro! Non ce lo vedo a bruciare ogni mio ricordo...quella è più una cosa che farei io.

Per prima cosa controllo il suo telefono. È facile accenderlo, non devo neanche toccarlo, mi basta volerlo, e per di più ha lo stesso codine PIN di quando stavamo insieme. Attento Saïx, i poltergeist sanno hackerare i telefoni.

Così finalmente scopro che giorno è oggi e inarco appena le sopracciglia. Due anni, sono passati due anni da quando sono morto. Eh, adesso so che è davvero poco il tempo che ci ha impiegato per rimpiazzarmi. Brutto bastardo.

Visto che ci sono entro anche nel suo profilo Facebook e gli do un'occhiata. Noioso, proprio come lui, condivide per lo più ricerche scientifiche, non ha copertina, nessuna immagine del profilo. Bisogna rimediare, è così spoglio!

È un po' complicato usare il telefono senza toccarlo, usando la mia energia di fantasma, però riesco a cercare su Google l'immagine di due gay che fanno sesso e gliela piazzo come copertina, mentre per l'immagine del profilo scelgo il primo piano di un culo. Ecco, adesso è perfetto. Ci sarà da ridere domattina. Chiudo tutto e mi sento come un ninja stealth. Nessuno sa che sono qui, nessuno potrebbe incolparmi per quello che è appena successo, non ci sono le mie impronte digitali sul telefono. Che figata.

Parecchio soddisfatto della cosa, posso mettermi a frugare nel suo cassetto della biancheria. Mutande, mutande, canottiere, calzini, ancora mutande – di quante mutande ha bisogno – tutte dello stesso colore, tutte della stessa forma. Questo non è cambiato in due anni.

Solo lontanamente penso a cosa Saïx vedrebbe se si svegliasse adesso: la sua biancheria intima che si muove da sola e mani invisibili che frugano nel cassetto. Inquietante. Mi ricorda Paranormal Activity, oh, prenderò parecchi spunti da quei film.

Quasi arrivato al fondo del cassetto non trovo niente di interessante per cui sto per gettare la spugna quando il mio sguardo cade su qualcosa nascosto tra due canottiere. Ci metto tutto il mio impegno per riuscire a tirarlo fuori e...non sapevo dell'esistenza di questa fotografia. È uno scatto di me sdraiato in spiaggia, forse la prima estate che abbiamo passato insieme. Sembra che io stia dormendo, piuttosto profondamente anche, ho l'espressione beata e stupida di chi sta facendo un bel sogno. Ricordo quella vacanza, ricordo di aver fatto davvero tante foto, ma non ne ricordo neanche una che sia stata fatta a me. Saïx non è il tipo, non lo è mai stato. Eppure, ecco qui una foto, una foto per lui così importante da arrivare a nasconderla così segretamente in un cassetto.

Perché hai tenuto questa foto, Saïx? Non è così significativa, non è neanche un bello scatto. Sono solo io che dormo sulla spiaggia.

Da quanto tempo la tiene lì? C'era già quando stavamo insieme o è solo un cimelio post mortem?

La volto, curioso di sapere se sul retro ha scritto qualcosa, e trattengo il fiato quando vedo la sua scrittura, sicura ed elegante.

Quando ti ho visto sognare sapevo che stavi sognando me.”

Mi bruciano gli occhi, è il ricordo di lacrime che non posso versare.

Ci vogliono tutte le mie energie e tutta la mia concentrazione per riporre la foto e chiudere il cassetto.

Mi trovo a respirare profondamente come per allontanare una crisi isterica. Sono in iperventilazione, ed è assurdo visto che non ho neanche bisogno di respirare.

Saïx si agita a letto, il suo volto si contrae in un'espressione sofferente. Muove le labbra come se stesse parlando, ma non riesco a capirlo.

Dentro di me qualcosa preme perché mi sieda accanto a lui, le mie mani in automatico vanno sul suo volto, come a consolarlo.

« Va tutto bene. »

Mi sfugge dalle labbra.

Patetico, sono così patetico. Perché dovrei confortarlo? Non se lo merita, quello che si merita è tutta quella sofferenza.

Lo pensi davvero, Axel?

La sensazione è difficile da spiegare, è come venire risucchiati verso il basso, trascinati da una corrente di una potenza soverchiante. Non riesco a tirarmi indietro, né ad aggrapparmi a qualcosa, scivolo verso il basso, e la stanza vortica in un caleidoscopio di colori e immagini. L'ultima cosa che vedo è il viso sofferente di Saïx prima di...prima di...

 

...prima di svegliarmi su una spiaggia.

Fa così caldo, il sole picchia sulla pelle. Anche attraverso gli occhiali scuri è troppo luminoso, troppo doloroso. Eppure è stranamente piacevole, riscalda non solo il corpo ma anche il cuore.

La sabbia sottile scrocchia sotto di me quando mi metto seduto. Sudore caldo mi copre dalla testa ai piedi, sento i capelli zuppi sul collo.

Quando alzo gli occhi incrocio lo sguardo di Saïx, seduto sulla sdraio sotto l'ombrellone. Non sia mai che il sole rovini il suo pallido incarnato.

Da qualche parte ricordo di aver appena avuto con lui una discussione al riguardo, di averlo preso in giro, di averlo chiamato “tintarella di Luna”.

Adesso, però, mi rivolge un sorriso sornione, come di qualcuno che ha appena fatto qualcosa di nascosto per la quale non potrà mai essere incriminato.

Ma è un'espressione che dura un solo istante, perché è subito seguita dallo stupore, dalle sue labbra che si spalancano in una “oh!” di sorpresa, e dal panico che soffoca i suoi occhi in un istante.

« Axel? »

Chiede, come se avesse appena visto un fantasma.

Allora torno consapevole.

Tutto ciò che ho intorno non è reale, non il sole, non il sudore sulla pelle, non la sabbia sotto le dita, non il cielo sopra di me: niente.

Mi guardo intorno, confuso.

Sono nella fotografia?

In un ricordo?

« Axel...sei...reale? »

In un sogno?

Saïx si alza, esce dalla protezione oscura dell'ombrellone e praticamente mi crolla accanto in ginocchio.

Ritrovare quegli occhi dorati a così poca distanza mi fa girare la testa. Sento il suo profumo come se lo avessi davanti davvero, sento il suo calore. La sua pelle lattea è così in contrasto con la mia colorita dal sole.

Fa per toccarmi, allungando una mano verso la mia, ma mi tiro indietro, improvvisamente spaventato.

Sul suo volto, rosso, sanguigno, il segno a forma di X spicca più che mai.

« Scusa. » mormora, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato. Mi vede? Mi sente? Può parlare con me? Dovrei tirargli uno schiaffo? Non avevo notato quella piccola luce di speranza accesa nei suoi occhi finché non si è spenta. Si guarda intorno con sufficienza prima di alzarsi e mettere un passo di distanza tra me e lui. « Deve essere un altro sogno. »

Sospira e scuote la testa, tornando lentamente verso l'ombrellone.

« S-Saïx! »

Mi sfugge dalle labbra senza che possa fare niente per impedirmelo. Lì dove dovrei avere il cuore sento un dolore profondo e acuto che mai ho provato prima. Lui si volta, e ha sul viso l'espressione di chi è stato appena pugnalato alle spalle.

Mi sente, mi sente davvero.

Balzo in piedi e corro, volo, allungo le braccia verso di lui.

Non posso impedirmelo.

Lui è ancora il magnete che mi attrae, è ancora il collante che mi tiene insieme. È amore e dolore, sofferenza e piacere.

È Saïx, il mio Saïx.

Quanto lo odio, quanto vorrei fargli del male.

Gli cingo il collo, affondo la testa nell'incavo della sua spalla, lo sento respirare.

Quanto lo amo, quanto vorrei che tutto fosse reale.

Pian piano mi avvolge la vita, come se stesse maneggiando un oggetto di cristallo, e mi stringe sé con la massima cura. Sento il suo sospiro, di piacere e sofferenza, prima di avvertire il suo fiato all'orecchio. Un brivido mi percorre la schiena.

« Non sono mai riuscito a stringerti così. »

Sussurra, così piano che se non fossimo stretti in quell'abbraccio non lo sentirei.

« Mi hai già sognato prima? »

Lo so che non è reale ma...Dio, lo è così tanto. Tutte queste sensazioni, ogni sottile modo in cui i nostri corpi combaciano l'uno all'altro. È vero, è tutto vero, deve esserlo.

Non voglio svegliarmi.

« A volte. » risponde, anche se ho già dimenticato la domanda. « Ma eri sempre troppo lontano...o...morto. »

Un brivido mi percorre da capo a piedi, e sento crepe aprirsi nel mio corpo, come se stessi cadendo a pezzi. Uno specchio rotto che non riflette più alcuna immagine.

« Saïx...! »

« Non ti lascio. »

La sua presa si fa più forte, sento con quanta forza mi protegge, i muscoli e il corpo tesi nello sforzo.

Ma non basta, sento il crack crack del mio corpo che va in frantumi, così come mi sento singhiozzare.

Quando ho cominciato a piangere?

« Saïx, Saïx! »

Mi aggrappo più disperatamente a lui ma c'è sangue, tanto sangue. La presa scivola e non riesce a tenermi, sono troppo sottile, troppo fragile, il mio corpo è viscido con tutto quel sangue.

« Non andartene, Axel. Non di nuovo. Ti prego, rimani qui! »

Gocce di pioggia mi cadono sul volto ma...non sta piovendo. È Saïx, sono le sue lacrime.

Vorrei potergli dire qualcosa, ma come un castello di sabbia sulla battigia mi sbriciolo.

 

Saïx si sveglia urlando il mio nome, mentre io, sbalzato fuori a forza dal sogno dentro il quale ero caduto, mi ritrovo accasciato sul pavimento, stremato e tremante.

Lo sento singhiozzare mentre affonda il viso tra le mani, e vorrei potermi alzare per consolarlo, ma non ci riesco. Mi sento così stanco.

Axel, Axel, Axel, Axel.

Non fa altro che ripeterlo.

Si accuccia in posizione fetale, affoga le lacrime e le urla nel cuscino, poi, come un bambino stanco, si addormenta, ed io rimango a fissare il suo volto paralizzato dal dolore, e le sue labbra ancora schiuse a mormorare il mio nome.

 

Alla luce del giorno tutto sembra migliore.

Saïx si è alzato presto e ha messo su il caffè, il suo profumo ha riempito subito tutta la casa.

Non sembra ricordare il sogno di stanotte, e se lo ricorda lo nasconde molto bene, esattamente come ha fatto con la foto nel suo cassetto.

Come in un rituale ormai consolidato, che sembra ripetere per darsi le dimensioni della realtà in cui vive, ha eseguito tutte quelle piccole mansioni automatiche tipiche di chi impegna le mani per allontanare i brutti pensieri.

Dopo aver aperto tutte le tapparelle e aver arieggiato l'appartamento, mentre aspettava che la caffettiera annunciasse l'arrivo del caffè, ha messo in ordine tutto quello che era già in ordine, con precisione maniacale.

Più volte ha raddrizzato un quadro già dritto, più volte ha tirato fuori e riordinato dei libri già perfettamente in ordine, più volte ha sprimacciato lo stesso cuscino sul divano.

Ha cercato in tutti i modi di trovare qualcosa da fare nel tentativo di evitarmi, e non sa neanche che sono rimasto qui a guardarlo per tutto il tempo.

Ciò che è successo stanotte mi confonde. Non riesco più a guardarlo allo stesso modo.

Provo un desiderio bruciante e un odio profondo nei suoi confronti, ma non appena mi passa abbastanza vicino da sfiorarmi trattengo il fiato, e lo sforzo di volontà necessario per non toccarlo è atroce.

Perché non riesco solo ad essere arrabbiato con lui come dovrei essere?

È la mia questione in sospeso, no? Era quello che avevo deciso di fare, rendergli la vita un inferno per avermi lasciato morire.

Ma la sua vita è già un inferno.

Scuoto la testa, la caffettiera ribolle e lui corre ai fornelli perché il caffè non si versi dappertutto.

So bene quanto detesti avere la cucina sporca, e quanto si arrabbiava se al mattino per colpa della mia disattenzione lasciavo versare il caffè.

Per un attimo, come se avessimo condiviso il pensiero, rimane fermo con la mano tesa verso la caffettiera. È tutto così asettico, tutto così pulito senza di me.

Saïx, spegni il gas, si verserà tutto!

Il coperchio della caffettiera ribolle e il caffè gocciola sulla cucina, facendo sfrigolare la fiammella per un attimo. Solo allora lui torna presente a se stesso e con un'imprecazione spegne il gas e solleva la caffettiera.

Le occhiaie scure intorno ai suoi occhi lo fanno apparire dimesso. Ha l'aria di chi non riesce a concentrarsi.

Lascia la caffettiera nel lavandino e va a recuperare il telefono.

« Oh cazzo. »

Mormoro tra me e me, quando lui lo accende e riceve milioni di notifiche. Lo scherzetto che gli ho fatto su Facebook, l'avevo quasi dimenticato.

Lui assume un'espressione esasperata. Sillaba un “oggi no!” pieno di angoscia, e invece di contenere l'incontenibile flusso di notifiche sul suo profilo, digita un numero e avvia la chiamata.

Xemnas, certo.

« Buongiorno, sono io. » sento la voce profonda del suo amante e rabbia e odio tornano potenti a farsi sentire. « Non ho dormito bene stanotte...non penso verrò in ospedale oggi. » borbottii dall'altra parte della cornetta. « No, non c'entra niente. Senti io... » la voce di Xemnas mi fa venire i brividi. « ...ho bisogno di tempo. » l'espressione di Saïx si fa tesa, cattiva quasi, non l'ho mai visto così. « Due anni non sono abbastanza. Ci sentiamo più tardi. »

Da come ha messo via il cellulare, praticamente gettandolo con rabbia sul letto, è di per sé indicativo. Non ho sentito cosa Xemnas gli ha detto, ma non deve essere stato niente di piacevole.

Si lascia cadere sul letto, una mano tra i capelli come se non riuscisse a reggere il peso della testa.

Distrutto. È distrutto.

Mi siedo accanto a lui ad una distanza sufficiente perché non rischi di toccarlo.

E lo guardo piangere.

Il suo è un pianto diverso. Non è quello di un bambino o di un ragazzino, ma non è neanche il pianto di un uomo. È qualcosa di maestoso e dignitoso, qualcosa che non si può fare a meno di guardare in un silenzio attonito, qualcosa che va rispettato per la sua intimità e la sua forza.

Non ci sono singhiozzi né scossoni, le lacrime cadono regolari lungo le guance, non si preoccupa neanche di asciugarle via. Gocciolano una dietro l'altra con un lieve, continuo plic plic plic.

Non sembra neanche un pianto che gli appartiene, è il pianto disincarnato di tutte le persone che hanno amato e perso, che hanno sofferto, combattuto, che sono cadute e si sono rialzate, che convivono ogni giorno con un dolore che non li abbandona mai veramente, un dolore che rimane, non importa quanto si giri e rigiri nel letto la notte, dal quale si può avere sollievo solo per il breve periodo del sonno, per poi tornare più forte alla veglia.

Quante volte avrà pianto così? Quante volte, in questo stesso modo, in questo stesso punto, con le dita a stringergli forte i capelli di zaffiro?

Quante volte avrà pianto per tutto quello che di sbagliato è andato nella sua vita?

Non piangerebbe così qualcuno che non ha amato, non piangerebbe così uno stronzo.

Perché sta piangendo così?

Dopo un tempo che mi sembra infinito, Saïx placa il suo pianto e si sporge per aprire il cassetto dell'intimo dov'è nascosta la foto. Neanche si accorge di quanto sia sottosopra, si limita a gettare tutto fuori finché non trova quello che ho trovato io la scorsa notte.

Nella foto sembro così sereno, così felice. Non ricordo cosa stessi sognando, né se effettivamente stessi sognando qualcosa, eppure quella frase scritta sul retro...

« Axel... »

Mormora, mentre con un dito accarezza la forma del mio corpo impressa sulla foto.

Per tutta l'eternità, o almeno fin quando la carta non si sarà deteriorata tanto da diventare bianca, io rimarrò immortalato in quel momento di assoluta serenità, immerso nella felicità con Saïx, su quella spiaggia, sognando qualcosa che non ricorderò mai.

Con un sospiro si alza, la foto la stringe al petto con una mano.

Si guarda intorno come se si sentisse osservato, più volte i suoi occhi cadono nell'angolo vuoto in cui mi trovo e rabbrividisco all'idea che possa sentire la mia presenza.

Attraversa a passo sostenuto l'appartamento, ha una chiave legata al collo, fin ora passata inosservata, che ora si sfila. Non c'è mai stato bisogno di avere porte chiuse in questa casa. Anche se tecnicamente è casa sua, quando vivevamo insieme ero libero di andare ovunque volessi, entrando e uscendo persino dal bagno nei momenti meno opportuni – come si arrabbiava Saïx! –.

La porta chiusa è quello dello sgabuzzino. Ricordo che lì dentro tenevamo le cose stagionali, le borse da mare, le giacche a vento e gli scarponi da scii, cose che avevamo comprato e usato solo per quella vacanza o per quella gita. Chissà se anche il cestino del picnic mai fatto si trova lì.

Di nuovo si guarda intorno, accertandosi che non ci sia davvero nessuno, poi apre lo sgabuzzino.

È profumo di ricordi, lacrime e dolore quello che proviene da quel piccolo, asfissiante spazio. Profumo di me, di noi.

Non ha buttato niente, c'è ogni cosa qui dentro. Ci sono i miei fogli stropicciati, ci sono i miei vestiti, ci sono i miei DVD, le mie foto, ci sono i miei ricordi, ci sono io.

Sento il dolore di Saïx come se fosse il mio quando si lascia cadere a terra in mezzo a tutte quelle cianfrusaglie.

C'è polvere ovunque, si respira a fatica. L'ultima volta che deve essere entrato qui deve essere stata molto tempo fa.

È un posto proibito dove si permette di essere debole, di lasciarsi sopraffare dalle sue emozioni.

Lo vedo mentre tende una mano verso una delle mie camice, per poi ritrarla, come scottato.

Gli fa male stare qui, lo sento.

Perché si infligge questo dolore?

« Mi dispiace Axel. » mormora, gettando la testa all'indietro, gli occhi chiusi. « Mi dispiace, è tutta colpa mia. »

Improvvisamente mi sento colpito al petto da una pugnalata. Allora qualcosa ha fatto, allora è davvero uno stronzo.

Sono così confuso, così pregno di emozioni che non capisco, mi squarciano dentro.

Come posso amarlo e odiarlo allo stesso tempo?

Stringe le gambe al petto e appoggia la testa sulle ginocchia, nascondendo il volto in una cascata di capelli zaffiro.

Che cosa non so? Che cosa è successo?

« Saïx. » lui solleva la testa di scatto. Che mi abbia sentito? Ma il suo sguardo fissa il vuoto, non mi vede...però mi sente. Mi siedo accanto a lui, gli poggio una mano sul volto e lui trema, trema come colpito da uno spiffero gelido. « Saïx. Io...ho bisogno di sapere. Ti prego. Tu mi hai amato davvero? Mi hai lasciato morire? »

Batte le palpebre lentamente, i suoi begli occhi ambrati si appannano, si sfocano, e io rimango senza fiato.

 

All'improvviso sono in macchina, le mani strette sul volante, fisso la strada davanti a me con attenzione maniacale. Sento il bisogno di controllare la velocità, di essere sicuro che la marcia sia inserita correttamente, di stare attento che non ci siano strane spie accese sul cruscotto.

Tutto pur di fingermi distratto per non partecipare allo stupido coretto imbarazzante e improvvisato da...me?

Sul sedile del passeggero ci sono io, proprio io.

Capelli rosso fuoco gellati all'indietro, occhi verde smeraldo, fisico longilineo, abbigliamento spiegazzato da ragazzino pieno di toppe e strappi: sì, sono decisamente io. E sto cantando la più irritante delle canzoni di Katy Perry, come se fossi lei, e avessi la stessa voce.

Ma com'è possibile?

Io sono Axel, non...non...

Incrocio il mio sguardo nello specchietto retrovisore. Sono occhi dorati quelli che mi fissano di rimando, e intravedo la forma del viso spigoloso, le labbra dritte ma carnose, ciocche blu zaffiro.

Certo, è ovvio. Io sono Saïx. Sto vedendo tutto attraverso i suoi occhi.

All'improvviso io...Axel, Axel smette di cantare e mi fissa. La conosco bene quell'espressione – e non soltanto perché quello è il mio viso – so già cosa vuole dirmi.

« Io non canto. »

Gli dico, rigido, secco, ma sotto sotto non vedo l'ora di scoprire quanto tempo ci metterà per farmi crollare, in quanto il suo fuoco caldo mi scioglierà il cuore e mi farà cantare come uno stupido, in quanto crollerà la barriera che mi circonda per permettergli di entrare e fare di me ciò che vuole.

« Aaaaaavanti! Solo una strofa, lo so che conosci questa canzone a memoria. »

Si sporge per aumentare il volume proprio quando parte il ritornello, che lui si mette a cantare, anzi, a strillare più che altro. Non si può dire che stia cantando.

Last Friday night
Yeah we danced on tabletops
And we took too many shots
Think we kissed but I forgot!

« Non canto Axel, io non canto. »

Last Friday night
Yeah we maxed our credit cards
And got kicked out of the bar
So we hit the boulevard!

Ma sto già sorridendo, e le dita tamburellano sul volante. Ma la cosa più bella è il sorriso sul suo volto, così ampio, luminoso, mi ha stregato.

Sto per cedere, e svergognarmi cantando una canzone di cui so solo il ritmo e qualche parola sparsa.

Riesco a voltarmi verso di lui per lanciargli un'occhiata. Forse se non mi fossi voltato avrei avuto i riflessi pronti abbastanza per salvare la vita di entrambi. Forse se non avessi cercato così avidamente il suo sguardo non sarebbe successo nulla.

Lo stridore di pneumatici sull'asfalto e il grido stridulo di freni spinti al massimo dura una frazione di secondo prima che un botto come di un'esplosione annulli tutto il resto.

Riesco a vedere la macchina davanti sbandare pericolosamente prima di sterzare dal lato opposto per evitarla, ma è troppo tardi.

Le urla di Axel mi riempiono le orecchie, la nostra macchina, agganciata a quella davanti, viene trascinata in una girandola impazzita, non so più dov'è sopra, dov'è sotto, perdo la presa sul volante.

La cintura mi tiene ancorato al sedile, la sento segarmi la pelle.

L'ultima cosa che vedo è una macchina che sfreccia a tutta velocità verso di noi.

L'impatto è devastante.

Gli airbag si aprono, il contraccolpo mi stordisce per un attimo, le orecchie mi fischiano. Non sento più niente, niente se non le urla di Axel. E poi neanche quelle.

Non so quanto tempo dopo ritorno in sensi, so solo che quando mi volto quello che vedo riempie il mio cuore di orrore.

Tutta la parte anteriore destra dell'auto si è accartocciata schiacciando una gamba di Axel. Deve essere svenuto per l'impatto. Ma è pallido, è così pallido! E tutto quel sangue?

Sento il panico stringermi lo stomaco. Devo scendere, devo liberarlo.

Mi slaccio la cintura e con un calcio apro la portiera.

Non vedrò mai come Axel, riavutosi, tende la mano verso di me, perché nel frattempo sto uscendo dall'auto, non vedrò mai come cerca il mio aiuto, come mi chiama, non vedrò niente.

Devo avere qualcosa di rotto, forse una costola, perché respirare è difficile, mi reggo in piedi a stento. Distrattamente raccolgo il sudore dalla fronte, brucia da morire, continua a gocciolarmi negli occhi, neanche mi accorgo che è sangue e che viene dalla ferita sul mio viso. A terra è pieno di vetri rotti e olio di motore.

Faccio il giro, reggendomi alla macchina, per arrivare allo sportello del passeggero, per arrivare ad Axel.

Mi aggrappo alla maniglia, le mani mi fanno male. Tiro, con tutte le mie forze, la spalla grida di dolore.

« AXEL! » picchio un pugno contro il vetro del finestrino, una, due, tre, quattro volte, cerco di sfondarlo. « AXEL, AXEL! »

Non respiro, non ci riesco, e lui non si muove.

« La prego, si allontani dall'auto. »

Qualcuno prova a prendermi per un braccio, ringhio come un animale allontanando chiunque sia, neanche lo guardo in faccia, impegnato come sono a cercare di aprire la portiera.

Devo salvarlo, devo liberarlo. Voglio stringerlo tra le braccia.

« Signore, per favore, è sotto shock. »

« Lasciami! »

So che è un paramedico quello che colpisco al naso con una gomitata, ma non mi interessa.

L'unica cosa che conta è Axel, tirarlo fuori dall'auto.

Al terzo tentativo mi tirano via in due, ma non smetto di scalciare, urlare, ringhiare. La gola sanguina per quanto forti si sono alzate le mie urla.

Non più di un animale ferito a morte assisto impotente alla scena dei vigili del fuoco che tagliano lo sportello con le tenaglie, al sangue di Axel che come una cascata di riversa sull'asfalto, ai paramedici che cercano di fermare l'emorragia.

Che ne dichiarano il decesso.

« NO, NON È VERO! LASCIATELO! »

Riesco a liberarmi dalla presa e corro, corro verso di lui, scivolo al suo fianco, gli afferro una mano, lo scuoto piano.

« Axel. » il suo volto esangue, le sue labbra schiuse in un ultimo richiamo che non ho sentito. « Axel, non morire. Non morire. » i paramedici mi guardano immobili, non hanno il coraggio di muoversi, di interferire con il mio dolore, con il mio ultimo, inutile tentativo di salvarlo dalla morte. « Axel... » mi accascio sul suo petto, il suo cuore non batte più. Lui non è più qui, non è più con me. Non è giusto. Il dolore è così forte, mi auguro che mi uccida. Non posso sopravvivere senza di lui. « Ti amo, Axel...ti amo. » lo scuoto ancora, lo immagino aprire gli occhi, guardarmi annoiato con quell'espressione sempre mezza intontita che ha quando è appena sveglio. « Ti amo, ti amo, ti amo... »

Ho aspettato troppo tempo per dirglielo.

 

Per l'ultima volta accarezzo i suoi capelli, per l'ultima volta sento il calore del suo corpo, per l'ultima volta lo sento vivere.

« Ti amo anch'io, Saïx. »

Mormoro al suo orecchio.

« Sei pronto per andare, adesso? »

Quando alzo lo sguardo, Reno mi sta guardando, le braccia incrociate sul vestito del lavoro.

Annuisco.

Ho avuto la risposta a quell'unica domanda.

l mio ragazzo mi amava. Non ha avuto mai avuto il coraggio di dirlo ad alta voce. O forse sono stato sempre così ottuso da non capirlo quando lo diceva in altri modi.

Ti amo, il tè inglese forte lasciato a raffreddare sul tavolo con un bigliettino scritto in fretta che annunciava che sarebbe rientrato tardi.

Ti amo, una pizza al volo comprata nel mio ristorante preferito un giorno qualunque.

Ti amo, la coperta in più nel mio lato del letto nelle notti più fredde.

Ci sono tanti modi di dire ti amo, e ho dovuto aspettare l'ultimo momento per capirlo.

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The Corner 

Ciao a tutti, e ben trovati 
è passato un pochino di tempo (circa un mese?) dalla mia ultima shot 
sentivaaaate la mia mancanza, eh? 
Questa è una storia che avevo cominciato un pochino di tempo fa, 
ma che come TUTTE le mie cose sono riuscita a completare solo adesso.
Spero vi sia piaciuta e che vi abbia suscitato tante emozioni quante ne ha suscitate a me scrivendola. 

Messaggio speciale per la Fan Numero 1: 
una volta parlando avevamo affrontato questa tematica, ricordi? 
L'incidente, i fantasmi, il tuo "e mi lasceresti morire come un perfetto sconosciuto?",
beh, questo è quello che è uscito dopo quella nostra conversazione.
Spero di non averti deluso. <3 

Chii
 

   
 
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