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Autore: TheHeartIsALonelyHunter    13/11/2016    1 recensioni
[AU!omegaverse|DoctorxMaster|accenni DoctorxRoseMasterxOC]
“Perché eri in quel bar?”, fu la prima cosa che riuscì a sussurrare, la testa ancora piegata all’indietro, le palpebre infettate di un torpore pesante.
L’altro si girò di poco per recuperare una scarpa, rimasta ai piedi del letto ormai sfatto, e un raggio di luce riuscì a fare breccia in quel muro difensivo imponente.
“Perché tu eri in quel bar?”, replicò lui, calcando su quel pronome quasi a voler sottintendere, in quella domanda apparentemente semplice, mille altre domande, mille altre richieste a cui Theta avrebbe risposto, sempre e invariabilmente, “Non lo so”.
[Quarta classificata al contest "The unsustainable beauty" indetto da Phae. sul forum di EFP]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Doctor - 10, Master - Simm
Note: AU, Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Note introduttive: Ambientato dopo "Doomsday", quindi dopo la separazione tra Rose e il Dottore, ma in questa mia versione il Maestro è gia Master!Simm, e molto probabilmente il Maestro e il Dottore si sono già scontrati in qualche avventura. Ho deciso di chiamarli "Theta" e "Koschei", che erano i loro soprannomi all'Accademia, ma io li ho resi i loro "soprannomi" ufficiali. Aida, a cui faccio cenno verso la fine, è un mio OC, ed è la compagna (umana) del Maestro, a cui lui resta legato fino alla morte di lei. Ho deciso di rendere il Dottore l'Alpha, nonostante entrambi, nella mia visione, avrebbero potuto esserlo, molto semplicemente per fargli riconoscere, alla fine, l'odore diverso sulla sciarpa, e anche per riuscire a introdurre il discorso dell'Omegaverse che, mi rendo conto, è molto "secondario" rispetto al tema che volevo esprimere con la storia. 
La citazione è di Charles Baudelaire, e ovviamente ho immaginato che il Dottore l'avesse incontrato durante uno dei suoi viaggi. 
Spero di aver reso al meglio questi due personaggi che adoro, come adoro il rapporto che li lega, e che sia chiaro ciò che volevo esprimere con questa storia. 
Detto questo, ringrazio Phae. per avermi dato l'occasione di entrare nel fandom con il suo bellissimo concorso, e vi lascio alla lettura :)


Nei chiaroscuri del mattino nascente, l’ombra di quel corpo si stagliava netta e ben distinta sullo sfondo scuro della finestra semi aperta, le mani impegnate nella difficile vestizione, il capo ritto e le spalle ben distese contro quella luce crescente, quasi a sfidare, con la sua attitudine guerrigliera, il bagliore onnipresente, l’universo intero, un qualche macrocosmo ignoto che si estendeva oltre quella minuta camera.
Theta non si sarebbe affatto stupito se quell’atteggiamento apparentemente strafottente fosse stato effettivamente rivolto all’intero creato, se non avesse avuto la certezza che in realtà quella sua apparente sicurezza spavalda fosse tutta diretta, freccia dalla traiettoria sicura e ben mirata, verso di lui.
Gli occhi di Koschei non si staccarono dal suo volto per ogni singolo istante che fu necessario per portare a termine quel lento procedimento. Theta ebbe la netta certezza che si stesse dilungando volutamente solo per poter scrutarlo con quel suo sguardo inquisitorio e accusatore e ricordargli, a modo suo, quanto era appena successo, cosa li avesse spinti a quel punto, come fosse stato possibile, per lui, ritrovarsi steso su quel letto, le coperte ben tirate su a coprire quello che, in fondo, non era più necessario coprire (segno forse, quello, di un ultimo pudore residuo, pretenzioso, dissimulatore, volutamente ignaro di ciò che era accaduto) e la testa reclinata all’indietro, nel tentativo vano di ignorare la fissità di quegli occhi castani.
Inutile provare: Theta riusciva a percepire, come per un istinto naturale, quell’insistenza impudente. Pizzicava sulla pelle, quello sguardo, stuzzicava ogni suo nervo, gli ricordava, in maniera insistente e quasi ossessiva, che per la prima volta, nella loro lunga e secolare esperienza, il Maestro aveva battuto il Dottore.
“Perché eri in quel bar?”, fu la prima cosa che riuscì a sussurrare, la testa ancora piegata all’indietro, le palpebre infettate di un torpore pesante. Non riusciva a capacitarsi, Theta, della velocità con cui l’altro si fosse ripreso dalla furia e dalla tempestosità delle ultime ore.
Forse era solo una sua impressione, quella sorta di apatia e di pesantezza che s’era impossessata di ogni suo arto.
Forse era sola la sua vergogna.
L’altro si girò di poco per recuperare una scarpa, rimasta ai piedi del letto ormai sfatto, e un raggio di luce riuscì a fare breccia in quel muro difensivo imponente.
“Perché tu eri in quel bar?”, replicò lui, calcando su quel pronome quasi a voler sottintendere, in quella domanda apparentemente semplice, mille altre domande, mille altre richieste a cui Theta avrebbe risposto, sempre e invariabilmente, “Non lo so”.
Non sapeva perché fosse entrato in quel bar.
Forse era stato il desiderio di abbandonarsi al vizio, per una volta nella sua lunga vita, forse era stata la debolezza della sua carne in fondo anche troppo mortale, forse, molto semplicemente, era stata la stanchezza.
La stanchezza di distruggere, la stanchezza di uccidere, la stanchezza di perdere, la stanchezza che permeava ogni suo muscolo, ogni tendine, ogni goccia del suo sangue.
Forse era stata la ferita di Rose, ancora ben aperta e stillante sangue, forse era stata l’illusione di poter disinfettare quella piaga ardente con il corroborante alcool, forse era stata la speranza malata di poter sciacquare via quell’ossessione che lo stava consumando lentamente e progressivamente.
Forse era stato quello, forse era stato quell’altro.
Non l’avrebbe mai capito.
Non sapeva perché avesse baciato Koschei, proprio Koschei.
Forse era stata la confusione indotta dall’alcool, forse era stato il fatto che aveva bevuto decisamente qualche bicchierino di troppo, forse era stata quel suo desiderio inappagato e inappagabile di dimenticanza e oblio.
Forse era stato il bisogno di dimenticarsi, per una e una sola notte, chi fosse e cosa avesse fatto, quali fossero i suoi crimini e quali i suoi peccati, di quale sangue quelle mani fossero macchiate, quali delitti avesse compiuto volutamente e quali fossero nati da una sua imprudenza, da una sua disattenzione, da una sua malaccortezza.
Forse, ammise a se stesso con una punta di rimorso e vergogna, se in quella bettola di terz’ordine non fossero stati soli, lui e quello che era stato amico, compagno, nemico, le sue labbra si sarebbero avventate su qualsiasi altro Beta avesse stuzzicato il suo olfatto sensibile, le sue mani si sarebbero aggrappate a qualsiasi altra pelle gli avesse offerto un appoggio sicuro e stabile, almeno per una notte, e il suo corpo avrebbe affondato i propri malesseri e i propri tormenti nel corpo di qualcun altro.
Ma la verità era che Koschei aveva un odore tanto buono, quella notte, un odore tanto acuto e penetrante come non ne aveva mai percepiti in vita sua, un odore acre e pungente, eppure dolce e ammaliante a un tempo, richiamo di sirena per lui, Ulisse perso e alla ricerca di un luogo in cui far serenamente naufragio.
E poi c’era stata la camera, le dita strette attorno al suo viso quasi a voler lasciare un’impronta indelebile, i baci sempre più affamati, il desiderio sempre più inappagato, sempre più inappagabile.
E poi c’erano state le mani furiose aggrappate agli abiti, la bocca vorace che richiedeva ancora, e ancora, e ancora, le gambe instancabili che si intrecciavano in un insieme sempre più confuso, i denti che affondavano nella carne, desiderosi di lasciare il segno, desiderosi di vincolare, desiderosi di ricordargli, una volta sobrio, il suo peccato, la sua colpa inconfessabile.
E poi c’erano stati i gemiti a malapena repressi, le labbra più e più volte morse a sangue, gli “ancora” sussurrati con un filo di voce, gli occhi serrati, le bocche bramose di qualcosa di più grande, qualcosa di irraggiungibile, qualcosa che premeva lì, alla bocca dello stomaco, desideroso di uscire, di esplodere platealmente, di riversarsi finalmente in un rifugio esterno.
E poi c’era stato il piacere di sentirlo lì, pelle contro pelle, a strusciare contro di lui, con quel sorrisetto impudente dipinto in faccia, gli occhi annacquati dall’alcool quanto i suoi, la risata sadica e stridula che gli aveva riempito le orecchie e che poteva sentire ancora rimbombare in un qualche recesso della sua anima.
E poi c’era stato il desiderio pungente, il bisogno incolmabile, la necessità impellente di altro, di più, quella necessità che non si spegneva mai, che non smetteva mai di punzecchiarlo, che continuava a tormentarlo e che si accresceva ad ogni manesca carezza, ad ogni bacio selvaggio, ad ogni morso inclemente.
E poi c’era stata la furia, la fretta, l’irruenza e l’impazienza, le mani affondate nelle natiche di lui, il capo riverso all’indietro nel piacere dell’amplesso, che non era piacere, ma rabbia, grido e follia, tentativo estremo di riversare quell’amarezza e quell’estrema voluttà.
E poi c’era stata la quiete, la calma, la pace, la distensione dei sensi, la totale pacificazione, quell’effimero istante di serenità e di ebrezza.
E poi c’era stata la vergogna, la consapevolezza, la certezza e la triste coscienza di ciò che era appena accaduto, di quanto fosse innaturale, di quanto fosse sbagliato, di quanto l’avesse voluto.
E sopra tutto c’era stato l’odore, l’odore forte, acre, pungente, avvolgente, l’odore che ora poteva percepire, impresso sulla sua pelle, l’odore che l’aveva inebriato, ubriacato, gettato in quel vortice infinito di ansiti, gemiti e ripugnanza, che l’aveva macchiato di una nuova macchia indelebile, lui assassino, lui egoista, lui lussurioso.
Poteva ancora sentire, se solo si concentrava un po’ di più, se solo provava a fuoriuscire dall’impotenza e dall’apatia, quelle mani strette attorno al suo corpo, le labbra furiose che segnavano il profilo del suo viso, a morsi, a baci, la sua risata, vile, divertita, perfino appagata, consapevole della sua vittoria, consapevole della rovina che aveva gettato su quel corpo stanco e ormai privo di morale.
Troppi segni sul suo corpo, troppi segni su quello di Koschei.
Era impossibile far finta che non fosse mai accaduto e dimenticare.
Era impossibile attribuire tutto all’alcool.
Il Maestro alzò un angolo della bocca e gli si rivolse, con quel costante, irriverente sorriso. Eccoli, la consapevolezza della vittoria, il piacere di quell’atto.
“In fondo io e te siamo uguali, Dottore” commentò, scrollando con fare noncurante le spalle.
Theta non rispose, dolorosamente consapevole, finalmente, di quella certezza che più e più volte aveva sfiorato la sua anima, ma che aveva ricacciato imperiosamente, perché i fantasmi lo spaventavano, perché gli riusciva molto meglio voltarsi e scappare.
Ma ora non c’erano più “se” e non c’erano più “ma”: Koschei si era accorto, quella notte, di aver stretto mani tanto e forse più sporche delle sue.
Theta deglutì. Perfino quell’azione, in quella dolorosa condizione, gli risultava faticosa: aveva riversato ogni sua energia nella notte oscura, in maniera sin troppo lucida.
“Forse hai ragione, Koschei” fu l’unica cosa che ebbe la forza di dire, stancamente. Le labbra bruciavano ancora di quei baci ardenti, la lingua ricordava chiaramente i morsi ricevuti. Ogni parte del suo corpo, lo poteva percepire chiaramente, era in qualche maniera legata, indissolubilmente ed eternamente, a quell’unica notte, a quello spasmo anelante, a quel desiderio marcio e impuro.
Per un istante, il sorriso sul volto dell’altro si incrinò pericolosamente, gli occhi s’abbassarono, simili a quelli di un cane ammonito dal padrone, e la vittoria si fece sconfitta, il piacere disgusto, e Theta poté leggere, sul viso del Maestro, la stessa, identica consapevolezza dolorosa che l’aveva attraversato al risveglio.
“Solo un’altra persona mi chiamava ‘Koschei’, ormai…”. Quel sussurro gli giunse tanto flebile e ovattato che per un istante credette di averlo unicamente immaginato, e il cambio d’espressione fu tanto repentino e improvviso che Theta credette di aver immaginato soltanto, in un delirio della sua mente, quel sorriso incrinato, quella risata interiore taciuta, quelle spalle basse e quello sguardo prono e abbattuto.
Koschei uscì dalla sua vita come aveva sempre fatto, lesto e frettoloso, silenzioso e senza fare rumore, proprio com’era entrato. Eppure, ad ogni incontro quella certezza si faceva più consistente in lui, ogni ritrovo era un nuovo graffio, ogni parola una nuova ferita, ogni sguardo un monito doloroso che qualsiasi cosa avesse fatto per sciacquare via da sé i suoi errori e i suoi fallimenti non sarebbe mai bastata a ripulire le proprie mani dal sangue.
 
Quando ebbe la forza di rialzarsi, le sue membra non gli si ribellarono contro, come aveva creduto: come corpi estranei dalla sua volontà, entità astratte che non gli appartenevano del tutto, lo condussero al contrario al centro della stanza, gli concessero la gentile concessione di raccogliere i propri vestiti, e infine gli permisero di rivestirsi di quella nuova pelle, di rivestirsi per coprire quei segni infamatori, di tentare di coprire, malamente, il suo odore con un altro.
Le narici gli pizzicavano ancora di quel lezzo acre e inebriante.
Avrebbe superato anche quell’ultima umiliazione, ne era certo: i segni sarebbero spariti, l’odore si sarebbe volatizzato al primo contatto con l’aria esterna, il ricordo di quelle mani possessive premute contro ogni singolo centimetro del suo corpo, di quella pelle che aveva infuocato i suoi sensi, avrebbe ben presto cessato di tormentarlo.
Avrebbe dimenticato, avrebbe dimenticato tutto.
Dimenticava sempre, d’altronde.
I fantasmi erano troppo veloci, le ombre si appropinquavano sempre più minacciose, pronte a soffocarlo con la loro presa attanagliante. Ma lui era un bravo corridore.
Avrebbe dato a quella notte un altro significato, un altro valore, si sarebbe dato l’assoluzione con qualche scusa blasfema.
Avrebbe dato a quel bisogno, a quel desiderio prorompente, un altro nome, un nome più nobile, meno vergognoso, meno indecente, un nome che gli consentisse di sminuire e di riabilitare, agli occhi suoi, il proprio nome, il proprio ruolo, la propria moralità. D’altronde, aveva detto una volta un uomo che aveva conosciuto bene, “Quest'orrore della solitudine, questo bisogno di dimenticare il proprio io nella carne esteriore, l'uomo lo chiama nobilmente bisogno d'amare”.
Anche lui, per una volta, si sarebbe concesso il lusso di dare un altro nome a quella debolezza, a quella venalità.
“Bisogno d’amare”, nulla più.
Non era neppure una gran bugia, d’altra parte: Rose bruciava ancora sulla sua pelle, lì, all’altezza dei due cuori, e la sua mancanza, di questo era certo com’era certo dei suoi delitti, era un vuoto che neppure un altro nome avrebbe potuto riempire.
Fu mentre era immerso in quelle cupe elucubrazioni che Theta la vide.
Era appoggiata sul tavolo a due gambe, sfilata probabilmente nella fretta e nel tempo di un bacio (Anzi, a dirla tutta Theta neppure ricordava di averla tolta dal collo dell’altro), una striscia di tessuto azzurro, ornata sul fondo da alcune frange di stoffa e decorata con dei ricami floreali.
Un capo decisamente femminile, si rese conto con una punta di stupore che riuscì a fare breccia nella coltre d’indifferenza e apatia che l’aveva circondato fino a quell’istante.
Le sue mani si mossero prima che la sua testa ordinasse loro di farlo, e in pochi istanti si ritrovò la sciarpa poggiata sui palmi aperti, stretta con delicatezza e cautela, quasi fosse stata il corpo di un neonato o un reperto artistico da maneggiare con la massima attenzione.
Curioso: su quella sciarpa l’odore di Koschei non s’era impresso.
Era un odore più tenue, quello che riusciva a percepire distintamente, un odore diverso, più delicato, dal lieve retrogusto floreale. Nulla a che vedere con il lezzo aspro e pungente che ancora riusciva a percepire nel silenzio religioso della camera.
Un odore… No, anzi, un profumo.
Un profumo da donna, certo.
Non poteva essere altrimenti.
Theta rialzò lo sguardo, le dita si serrarono attorno alla striscia di stoffa, e in un istante la chiarezza si fece strada nella sua mente confusa come la luce abbagliante dell’alba in un cielo nero fondo.
Aida.
Aida e i suoi capelli castani, Aida e il suo sorriso ammiccante, Aida e la sua risata birichina, Aida e la sua pistola sempre al fianco.
“Solo un’altra persona mi chiamava ‘Koschei’, ormai…”
Era lei, era sempre stata lei, sarebbe sempre stata lei.
Lei così sfacciata, lei così passionale, lei così caparbia, lei così… Mortale.
Quanti anni potevano essere passati, dall’ultima volta che l’aveva vista, fulgida, bella, allegra e giovane?
Quanti decenni prima?
Da quanti mesi era stata seppellita?
Quanti giorni?
Quante ore?
Era lei la ragione per cui Koschei era entrato in quel bar, la notte precedente, bisognoso anche lui di dimenticare, di abbandonarsi all’oblio, di trovare conforto a quel vuoto senza fondo.
Era lei il motivo che aveva spinto il Maestro a gettarsi tra le sue braccia, lei, e non il desiderio di vittoria, la brama di rivalsa, non la sua follia di dimostrarsi in qualche modo superiore a lui.
Due anime disperate si erano dunque incontrate, la notte precedente, due anime sporche si erano unite, bisognose di dimenticanza, bisognose di oblio, bisognose di un qualcosa di più alto, di più elevato, che forse era semplicemente amore.
Due anime uguali si erano incontrate, la notte precedente.
Due anime uguali si sarebbero di nuovo incontrate.
  
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