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Autore: Lilith in Capricorn    18/11/2016    0 recensioni
In un mondo in cui la magia è scomparsa da ben 1300 anni e gli dèi hanno smesso di parlare con i mortali ormai da tempo, l'Impero Katileo è all'apice del suo sviluppo tecnologico e la sua sete di conquista sembra incontrastabile. Ha ormai sotto il suo controllo gran parte del Grande Continente, ma una nuova alleanza di regni del nord sembra essere in grado di tenergli testa: la guerra con il Wesmark Settentrionale e Meridionale, infatti, va avanti già da diversi anni e sembra non vi sia modo di uscire dall'impasse ... Finché l'Imperatore Kut non ha un'idea brillante e ambiziosa e decide di mettere insieme una spedizione per realizzarla.
Intanto, antichi misteri, enigmatiche profezie e arcaiche forze da tempo sopite iniziano a riemergere dalle profondità dell'oblio, ma non tutti sembrano rendersene conto ...
Genere: Avventura, Guerra, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Non-con, Violenza
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Capitolo 11: Il canyon di Tincmek XI
 
«Che tu sia maledetta, Mut!» inveì Upahar contro la dèa, quando realizzò di essere stato tratto in inganno dall'ennesimo, luccicante miraggio. «Tu e il tuo cuore infernale! Altro che dèa materna e protettiva!» Per tutta risposta, una folata di vento gli soffiò in faccia una nuvoletta di sabbia, irritandogli ulteriormente gli occhi già bruciati dalla luce intensa del sole allo zenit, e Upahar sferrò un pugno nella sabbia cocente con un ringhio di rabbia.

Fin da piccolo, all'orfanotrofio, gli era sempre stato insegnato che la dèa della fiamma e dei legami, dall'immensa forma draconica, era l'incarnazione della madre perfetta: protettiva e amorevole con i suoi figli, ma spietata e implacabile contro i loro nemici. Come il suo enorme cuore sfavillante nel cielo, portatore di luce, calore e vita, ma anche di afa, incendi e deserti. Tuttavia, come si poteva non nutrire scetticismo verso la sua presunta natura materna, vista la palese casualità con cui venivano distribuiti gli uni e gli altri?

In fondo, cos'avevano potuto fare di così terribile e sacrilego gli abitanti della regione meridionale di Kàlatlan per meritare un territorio così aspro e un calore così spietato?

Upahar scosse il capo stizzito e tentò di rialzarsi. «Basta arrovellarsi la testa su queste scemenze! Non devo sprecare energie!» si disse, mentre alzava di nuovo, cauto, lo sguardo al cielo alla ricerca del suo fidato Hanim. Dovette riabbassarlo quasi subito: erano ore che scandagliava l'azzurro con lo sguardo, e i suoi occhi erano stanchi e ustionati. Con un sospiro tremulo e rassegnato, si risistemò sulla schiena il suo leggero bagaglio e riprese a marciare in direzione nord-est, come gli aveva indicato il suo ruh il giorno precedente, l'ultima volta che si erano visti.

Aveva esaurito le scorte d'acqua solo da poche ore e già aveva la gola riarsa, la lingua impastata, le ginocchia tremanti, la testa pesante e stordita e il cuore gli batteva in petto a un ritmo frenetico e irregolare. Di tanto in tanto, gli sembrava persino di sentire il sangue ribollirgli nelle vene del collo, tanto era intenso il calore, contro il quale il copricapo e la tunica di lana di kabè potevano ben poco, a quell'ora.

«Comincio a capire il perché di quella firma!» borbottò, ricordando il breve documento che gli avevano fatto siglare, poco prima che partisse, nel quale era scritto che avrebbe dovuto assumersi ogni responsabilità per qualunque cosa gli fosse accaduta, compresa l'eventualità della sua morte. Certo, se si fosse trovato in guai grossi avrebbe potuto ritirarsi e mandare Hanim a chiedere aiuto e, inoltre, un paio di falchi dell'Impero sorvolavano regolarmente la sua pista, una o due volte al giorno, per controllare che fosse ancora vivo e in grado di camminare, ma ciò non toglieva che non avrebbe ricevuto alcuna forma di risarcimento in caso di infortuni o di morte.

Questo lo aveva messo bene in chiaro fin da subito l'allampanato e aggraziato Capitano della Guardia Imperiale, Kurajan Wegs, che aveva invitato un'ultima volta gli indecisi e gli insicuri a ritirarsi, dopo aver illustrato loro in cosa consisteva la prova: «Ognuno di voi ha un suo percorso da seguire, ed è contrassegnato da una serie di nastri sparpagliati lungo la via» aveva spiegato. «E poiché a volte può capitare che i vostri percorsi siano paralleli, o che si incrocino, ognuno di voi ha un suo colore personale, ma le estremità di tutti i nastrini sono bianche. Tutto ciò che dovrete fare, con l'aiuto dei vostri volatili, sarà seguire il percorso recuperando ogni singolo nastrino del vostro colore e sostituirli con nastrini dalle estremità nere, che vi verranno consegnati a breve.

«Come vi è già stato spiegato anche al momento dell'iscrizione, dovrete confrontarvi con gli svariati pericoli che la regione ha da offrire: in alcuni tratti troverete un calore intenso, quasi insopportabile, e poca acqua; in altri, invece, potreste ritrovarvi a dover guadare fiumi, o navigare lungo corsi d'acqua; o potrebbero essere messe alla prova le vostre capacità di orientamento all'interno di una foresta; infine, lungo gran parte del percorso, dovrete fare i conti anche col freddo, di notte.

«Inutile aggiungere» aveva detto poi, avviandosi alla conclusione, «che un'arma potrebbe farvi enormemente comodo, sia per procurarvi del cibo, che per difendervi da eventuali predatori. Veniamo dunque alle tre, semplici regole: non potete portare con voi nulla che non sia stato approvato da noi giudici, non dovete assolutamente toccare i nastri che non sono del vostro colore e, infine, è severamente proibito uccidere o arrecare danno agli altri candidati, pena l'esclusione dalla gara e l'arresto immediato.»

Avendo già letto quasi quelle stesse, identiche parole sul documento per l'iscrizione, Upahar per fortuna aveva avuto cura di munirsi di tutto quanto poteva essergli necessario: abiti di lana di kabè, ottimi sia per difendersi dal freddo, che dal caldo; un mantello cerato perfetto per contrastare le tempeste, sia di sabbia che di pioggia; una borsa di cuoio contenente una pagnotta, del formaggio, un po' di pesce essiccato e poche erbe, ma molto potenti, per lenire eventuali dolori alla gamba e, infine, due immancabili bisacce per l'acqua, il suo vecchio coltello pieghevole e un fischietto nuovo di zecca, donatogli da Tampìca, da utilizzare nel caso in cui fosse stato troppo sfinito o disidratato per poter chiamare Hanim con un fischio.

"Tampìca ..." si ritrovò inevitabilmente a pensare, mentre avanzava barcollante, cercando di concentrarsi su qualunque cosa che non fossero la fatica e la sete feroce, che in qualunque momento avrebbero potuto accendere la scintilla della disperazione.

Provò, quindi, ad immaginarsi il suo volto azzurrino sorridente, l'orgoglio nei suoi occhi larghi vedendolo tornare vincitore, un "te l'avevo detto" sussurrato a mezza voce mentre lo abbracciava e che, per la prima volta nella sua vita, non lo offendeva, perché non gli veniva detto con rimprovero o superbia, ma soltanto con allegria e tenerezza. Continuò a rivivere questa scena nella sua mente, ambientandola in luoghi diversi, modificando un po' i gesti e le parole di volta in volta, cercando, insomma, di lasciarsi assorbire completamente dalla gioia che gli trasmetteva.

Le provò tutte, pur di evitare di pensare al dolore che la disidratazione stava alimentando nel suo corpo: ormai, non si trattava più solo di una banale sete, della gola secca e della lingua impastata, ma di una sofferenza costante e persistente. Le labbra e i polpastrelli erano secchi e raggrinziti, gli occhi se li sentiva irritati e infossati, sotto la fronte talmente corrugata da far male, la bocca gli era diventata appiccicosa, la pelle era secca e ormai non sudava neanche più e il cuore gli martellava nelle orecchie con un ritmo frenetico, rendendogli ancora più fastidiose le vertigini. Persino urinare era diventato doloroso e il poco liquido che riusciva a espellere era di un preoccupante colore rossastro.

Perciò, nonostante tutti i suoi sforzi, non riuscì a trattenere un folle grido di furore e frustrazione quando, passato mezzogiorno, la direzione in cui il sole stava calando gli fece capire che, per tutto il primo pomeriggio, le vertigini e la mancanza di punti di riferimento lo avevano mandato completamente fuori pista, portandolo a vagare senza meta verso sud. L'urlo, sebbene catartico, lo privò delle sue ultime energie, prosciugandolo non solo della speranza, ma persino della forza necessaria per disperare.

Si lasciò cadere nella sabbia come un albero divorato dalle fiamme, crollando su se stesso, la base troppo indebolita per sorreggere il suo stesso peso. Non provò neanche a chiamare Hanim o a tirare fuori dalla borsa il fischietto di Tampìca, ormai era chiaro che qualcosa stava facendo tardare il piccolo ruh e Upahar, che aveva una fiducia cieca e incondizionata nel suo compagno di viaggio, confidava che presto sarebbe tornato, portando con sé, carico d'acqua, l'otre che il giovane gli aveva affidato. Per ora, tutto ciò che poteva fare era aspettare e riposare. Sperando di risvegliarsi da quel sonno ...

Cosa che accadde chissà quante ore dopo, quando il sole stava già per tramontare ed era calato a un'altezza sufficiente affinché la sua luce non raggiungesse più il volto del giovane, ostacolata da un qualche tipo di corpo o oggetto. Fu proprio questa piacevole ombra fresca sul volto a richiamarlo dal suo sonno, per cercare di scoprirne la fonte. Gli occhi, sebbene si fossero riposati, erano ancora irritati e le palpebre erano incollate da una forma di congiuntivite che era apparsa poche ore prima, perciò gli ci volle un po' per riuscire ad aprirli. Quando finalmente riuscì a separare le palpebre, scoprì che l'ombra sul suo volto era proiettata da una sagoma cilindrica, tozza e spinosa.

Aguzzando un po' la vista, Upahar la riconobbe immediatamente: «Una giustiziera del deserto!» gridò con voce roca, mentre già cominciava a fare qualche tentativo per rialzarsi.

Non riuscendo a sollevarsi stabilmente sul piede sano e sulla gamba posticcia, si slacciò quest'ultima e gattonò fino alla pianta cactacea col coltello alla mano: la giustiziera del deserto, infatti, offriva dei succulenti frutti zuccherosi di uno strano color magenta, ma per ottenerli bisognava fare molta attenzione ai suoi formidabili aculei che, oltre ad essere molto lunghi, erano a loro volta ricoperti da una serie di sottilissime spine; se si veniva punti, era molto difficile rimuovere l'aculeo e praticamente impossibile riuscirci senza fargli lasciare qualche spina nelle proprie carni, impedendo così la rimarginazione della ferita, che quasi sempre finiva per infettarsi.

Per questo era chiamata giustiziera del deserto: a Nihibuc, quando si sceglieva di rimettere agli dèi la decisione di risparmiare o punire un criminale, questi veniva abbandonato nel deserto per un mese e, se sopravviveva, la sua colpa era da ritenersi espiata; e poiché al disgraziato non veniva concesso nulla, salvo che dei vestiti leggeri, se non erano il caldo e la sete a ucciderlo, molto spesso era un'infezione causata dalle spine della giustiziera.

Perciò, con molta calma Upahar rimosse lentamente uno dei frutti dal suo alveolo, facendo attenzione a non sfiorare neanche un aculeo. Poi, una volta ottenuto il prezioso pomo color magenta, lo sbucciò e lo divorò seduta stante, godendo della sua polpa acquosa che gli diede un po' di sollievo dalla disidratazione. Per evitare un'indigestione, decise di mangiarne solo un altro e di aspettare pazientemente il ritorno di Hanim: tanto, ormai era quasi notte e Upahar non era in grado di orientarsi osservando le stelle.

Avvolto nel mantello cerato, con la testa poggiata sulla borsa, si accoccolò nei pressi del cactus, ma a debita distanza, riaddormentandosi quasi immediatamente. Purtroppo o per fortuna, venne svegliato solo poche ore dopo dal dolce canto di Hanim, che piombò su di lui e subito cominciò a beccargli leggermente la testa. Rasserenato e felice di vederlo, Upahar lo salutò, gli accarezzò debolmente le piume della coda dalla punta a forma di occhio, e gli disse di lasciarlo dormire ancora per qualche ora, ma il ruh non demorse: non appena il ragazzo si accoccolò nuovamente, ricominciò a beccarlo sulla testa stridendo insistentemente.

«Ma cosa vuoi, Hanim? Non vedi che sono stanco?» lo rimproverò il giovane, rialzando la testa; per tutta risposta, il ruh si librò in volo e, con i suoi volteggi, gli fece capire che doveva dirigersi verso est.

«Sì, va bene, però domani, Hanim, adesso non ce la faccio» ripeté Upahar, ma non fece neanche in tempo a rimettere la testa sulla borsa che il suo compagno riprese a beccarlo furiosamente.

«E va bene, va bene, ho capito! Andiamo!» sbottò allora, rialzandosi a fatica. Velocemente, prese un sorso d'acqua dall'otre che, come previsto, Hanim aveva riportato bello pieno, si riallacciò la protesi alla gamba destra, staccò dalla giustiziera del deserto tutti i frutti che aveva da offrire e, stringendosi nel mantello cerato, si preparò ad affrontare il gelo del deserto di notte, reso meno opprimente e spaventoso dalle due grandi e luminose lune bianche.

Essendo ancora un po' provato dalla giornata di stenti, Upahar avrebbe preferito camminare, ma Hanim sembrava avere una strana fretta e nessuna intenzione di aspettarlo: volava basso, ma avanzava a gran velocità e senza mai voltarsi, costringendo il suo compagno a corrergli dietro. Proseguirono così, a passo sostenuto, per tutta la notte, il ruh volteggiando apparentemente senza alcuno sforzo, il ragazzo alternandosi fra la corsa e la camminata veloce, finché le gambe non smisero di rispondere ai suoi ordini e i muscoli delle cosce gli cedettero.

Con la stessa urgenza, ma stavolta anche con più clemenza, Hanim planò dolcemente accanto a lui, dandogli qualche lento colpetto col becco, chissà se per sollecitarlo o incoraggiarlo. O magari erano entrambe le cose. Quando Upahar, con mano tremante, gli fece cenno di lasciarlo riposare un po', il ruh non insistette, ma gli saltò su una spalla, gli diede sue colpetti su una guancia e poi guardò dritto avanti.

Il ragazzo fece come ordinato e, aguzzando la vista, scorse all'orizzonte un paesaggio insolito: dune di sabbia sempre più piccole e, al di là di queste, una serie di montagne dalla strana conformazione, come una catena di barattoli e scatole di legno dai contorni irregolari.

«Ah! Quello dev'essere il canyon di Re Tincmek» sussurrò il giovane tra sé e sé, senza fiato. «Lo sai perché si chiama così, Hanim?» aggiunse poi, rivolgendosi al suo compagno. Poco importava che non potesse capire una parola del suo discorso: Upahar era sempre stato un gran chiacchierone e, quando non aveva nessuno con cui interloquire, parlava agli animali, agli oggetti, o con se stesso.

«Dico, sai perché porta il nome del nostro re? Fino all'estate dell'anno passato era un altopiano. Proprio così: un enorme altopiano roccioso nel bel mezzo del deserto! Qualcuno sosteneva anche che, in realtà, fosse un antico palazzo dell'Età degli Eroi andato perduto, sepolto da una terribile tempesta di sabbia durata cinquecento anni. Che scemenze ...

«Ebbene, il nostro Re Tincmek, undicesimo del suo nome, solo pochi giorni prima che diventasse un canyon, aveva paragonato la regalità, la solidità e la forza della sua dinastia a quelle dell'altopiano. Poi, neanche una settimana dopo ... Trak! Terremoto! E giù l'altopiano che ti diventa canyon! Ah, ah, ah! Chissà, forse almeno il dio Fezàr esiste, dopotutto i segni della sua mano plasmatrice e della sua ironia sono ovunque.»

Non appena le sue forze e il suo morale si furono risollevati a sufficienza, Upahar mangiò e bevve un poco, poi si rimise in piedi e proseguì in direzione del canyon. Lo aveva visto già una volta, quando era ancora un altopiano: a Nihibuc era considerato un luogo sacro e tutti, almeno una volta nella vita, dovevano compiere un pellegrinaggio presso di esso, se volevano continuare ad essere ben visti in città.

Lui e Tampìca, insieme ad altri orfani, ci erano andati circa cinque anni prima, quando una delle bambinaie aveva deciso di partire con i pellegrini e di portare con sé i bambini alla soglia della fanciullezza che, chissà, forse in futuro non avrebbero potuto permettersi il viaggio, visto il misero destino che attendeva la maggior parte dei trovatelli non adottati.

Allora, gli era sembrato davvero enorme, persino spaventoso con la sua mole, ma ora che si erano formati al suo interno degli stretti sentieri labirintici lo inquietava ancora di più, perché Hanim stava puntando proprio verso l'imboccatura di uno di essi. Non che avesse paura di perdersi: come si è detto, nutriva massima fiducia nel suo ruh. Ciò che lo spaventava era la quantità di bestie, magari anche velenose e aggressive, che probabilmente avevano trovato rifugio in mezzo a quelle rocce e che lui, al buio, avrebbe potuto calpestare o infastidire accidentalmente.

Ciononostante, non tentennò a lungo: raccolse subito a sé tutto il suo coraggio e imboccò l'angusto passaggio che Hanim gli aveva indicato. Le fredde pareti rocciose erano abbastanza elevate da oscurare completamente la luce delle lune e solo la debole fiammella delle stelle illuminava a stento la via. La sola cosa che almeno un po' riusciva a rincuorare il giovane, costretto ormai a camminare di profilo, era l'umidità che imperlava di minuscole gocciole la base del canyon, suggerendo la vicina presenza di qualche bacino acquoso.

Come previsto, dopo essersi inoltrati forse neanche di cinque chilometri, serpeggiando fra cunicoli talmente stretti da far salire il panico al cuore, e altri abbastanza ampi da riprendere un po' di fiato, il gorgoglio dell'acqua li guidò alla meta: improvvisamente, senza alcuna avvisaglia, si ritrovarono in un'ampia spianata, circondati dalle imponenti pareti rocciose che incorniciavano il cielo notturno in alto e un'ampia fossa di forma circolare in basso. Una curiosa conformazione che, rifletté il giovane, per Hanim che poteva vederla dall'alto doveva avere una forma simile a quella di un occhio, con iride e pupilla.

Con un misto di timore e curiosità, Upahar si diresse verso l'orlo dell'enorme fossa di cui, per quanto vi si avvicinasse, non riusciva mai a scorgere il fondo. Finalmente, quando i suoi occhi poterono affacciarsi direttamente sullo strapiombo, si ritrovò ad osservare il cielo notturno diversi metri più in basso.

«È come un enorme pozzo» sussurrò, sorridendo per la bellezza dello spettacolo naturale, talmente perfetto geometricamente che, se non fosse stato per le dimensioni Eroiche, lo avrebbe creduto un prodotto dell'ingegno umano.

Il suo sorriso, però, così come era venuto scomparve, non appena udì un rumore, come una sorta di gemito, provenire da laggiù. Col cuore in gola, smise di respirare e tese l'orecchio che, poco dopo, captò di nuovo lo stesso suono: un gemito esanime di dolore, quasi una sorta di richiamo, di richiesta di aiuto che la spossatezza aveva reso flebile e incomprensibile. Costernato, spostò lo sguardo su Hanim, che a sua volta stava guardando un punto ben preciso, giù nello strapiombo, a pochi passi dal suo compagno.

Seguendo la direzione del suo sguardo, si soffermò su uno dei piccoli arbusti che crescevano lungo le pareti umidicce: a differenza degli altri, perfettamente immobili, questo oscillava leggermente e Upahar, aguzzando la vista, riuscì a scorgere una sagoma scura abbarbicata sul tronchetto; quando questa si mosse per rinsaldare la presa, il ragazzo scorse, illuminate dalla luce lunare, delle lunghe dita azzurrognole.

«Oh, era per questo che hai insistito tanto per farmi partire subito?» constatò il giovane, tornando a guardare il ruh. Per un momento, si chiese se aiutare il pover'uomo intrappolato, quasi certamente un altro falconiere, potesse pregiudicare la sua partecipazione alla gara, ma gli bastò guardare negli occhi Hanim per togliersi dalla testa quel pensiero: era la cosa giusta fare, persino il suo ruh lo sapeva!

«Ehi! Ehi, là sotto!» chiamò a gran voce, portandosi le mani ai lati della bocca. «Mi sentite? Signore, mi sentite?!»

Una testa azzurrina si alzò lentamente, ma lo shuriel ci mise un po', prima di decidersi a rispondere. «Sì. Sì, ti sento» confermò con voce flebile, sollevando una mano verso di lui. «Aiutami, per favore. Le rocce sono troppo scivolose, non riesco a scalarle, credo di avere anche una gamba rotta. E sott'acqua non c'è via d'uscita.»

«Ho capito ... Ma come faccio a venire a prendervi, se le pareti non si possono scalare?»

«Non hai una corda?»

«No ...» ammise Upahar, mortificato. «Non ci ho pensato, purtroppo ...»

«Oh, allora è davvero così che deve finire?» mormorò lo shuriel, o almeno questo fu ciò che Upahar credé di sentire e quelle parole gli fecero venire la pelle d'oca e perdere un battito.

«Non dite così, non scoraggiatevi: resistete, troverò un modo per tirarvi fuori di lì!»

«E quale? Come, senza una corda? Dalla voce, mi sembri molto giovane: non rischiare inutilmente la tua vita per un povero vecchio. Se non c'è modo di calarsi, torna alla gara, non crucciarti per me. Va bene così, davvero ...»

Upahar non gli diede ascolto: valutò, invece, la distanza che lo separava dal vecchio shuriel, poi si guardò attorno e trovò quello che cercava. «Resistete ancora un po', sto venendo a prendervi!»

«Non hai ascoltato una parola di quello che ti ho detto?» ribatté il vecchio, in parte scocciato, in parte enormemente grato.

Temendo che ormai gli restassero poche forze, vista la parlata strascicata e fiacca, Upahar non perse tempo a rispondere: si sfilò la borsa, sganciò la fibbia, passò la fascia di cuoio attorno al tronco dell'alberello più vicino allo strapiombo − non che la scelta fosse molto vasta − e la assicurò alla base; poi fu la volta della cintura dei pantaloni, che unì alla fascia col nodo più solido che i marinari del porto di Nihibuc gli avessero insegnato; dopo toccò ai suoi abiti e infine, poiché il mantello cerato per poco non era sufficiente, a malincuore lo tagliò a metà e la sua corda improvvisata fu pronta.

Rabbrividendo, si calò mezzo nudo lungo le pareti scivolose. La deformazione alla mano destra non gli causò molti problemi, bastava avvolgersi la fune di vestiti attorno al polso e calarsi lentamente, allentando la stretta di tanto in tanto. Quella alla gamba, invece, fu ben più problematica, ma per fortuna le sue cosce erano abbastanza forti da reggere il suo peso, strette attorno alla corda. Il difficile sarebbe stato risalire.

Giunto all'arbusto, si riposò sul tronco per qualche minuto, mentre osservava il volto dello shuriel che, nonostante la vecchiaia dichiarata, era ancora piuttosto liscio e giovane di pelle. Lo sguardo, invece, l'età la esprimeva tutta, ma forse la spossatezza incrementava molto questa impressione.

«Mi chiamo Veshàs» fu, infatti, tutto ciò che riuscì a dire, mentre il ragazzo terrestre riposava accanto a lui.

«Io sono Upahar» rispose lui; lo shuriel annuì e sorrise soltanto. «Forza, io sono già pronto a risalire» dichiarò poi, aiutandolo a issarsi sul tronco e aggrapparsi a lui. La gamba rotta e le sue membra gelide attorno alle spalle nude di Upahar non resero facile questo semplice compito che richiese alcuni minuti.

Quando finalmente sentì che il corpo del vecchio era stabile contro il suo, il ragazzo di Nihibuc riprese lentamente a salire e, come previsto, fu molto più complicato che scendere, sia per le sue deformità, sia per il peso dello shuriel. Ciononostante, strinse i denti e proseguì caparbiamente, dando fondo a ogni singolo briciolo di energia che gli era rimasto in corpo. Tuttavia, giunto a metà percorso, la fatica aveva ormai reso meno efficienti i suoi movimenti, così, senza accorgersene, si avvolse male la fune umida attorno al polso: quando fece per issarsi, questo si sfilò e improvvisamente si sentì precipitare.

Grazie ai suoi riflessi pronti, riuscì a riprendersi dopo neanche mezzo metro di caduta, afferrando saldamente la corda con tutte le sue forze tra le cosce e con la mano buona, ustionandosi la pelle. Passato lo spavento, però, si accorse subito di essere molto più leggero. Troppo: non sentiva più sulle sue spalle il peso di Veshàs!
   
 
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