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Autore: visbs88    09/12/2016    12 recensioni
Una serie di macabri e inspiegabili delitti conduce i fratelli Kohaku e Sango e loro padre a una splendida festa su una gigantesca nave. Gli altri invitati non sanno che sono cacciatori, professionisti per cui l'esistenza di fantasmi e vampiri non è una favola ma la realtà quotidiana. Salvare persone, cacciare mostri, gli affari di famiglia: questa è la vita per chi sa che il soprannaturale non è un'invenzione e carica su di sé il peso di proteggere gli innocenti.
Questa volta, però, il tempo scorre troppo in fretta, e due occhi profondi come un abisso su un volto più bianco della neve potrebbero essere un inganno così come la salvezza.
[Supernatural!AU perfettamente leggibile anche da chi non dovesse conoscere il telefilm]
[Fanfiction scritta per il contest di Natale "Sfida a Catena" indetta dal gruppo Facebook Takahashi Fanfiction Italia]
Genere: Azione, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kagura, Kanna, Kohaku, Naraku, Sango
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Contest: Sfida a Catena indetto dal gruppo Facebook Takahashi Fanfiction Italia.

La mia sfida: coppia Kohaku/Kanna, rating libero, la trama è un loro incontro su una nave assieme ai rispettivi compagni il giorno di Natale; si sfiorano quasi per un istante senza però incontrarsi fino a quando un bicchiere di vino rovesciato è complice del loro incontro. E scelta libera su tutto.

 

Nota #1: questa è una Supernatural!AU, perfettamente leggibile anche da chi non conosca il telefilm previa spiegazione di alcuni dettagli.

Nota #2 (o primo dettaglio): la parola “demone” in Supernatural viene usata per indicare creature estremamente diverse da quelle che siamo abituati a conoscere nel mondo di InuYasha. Nella mia storia ho mantenuto il significato del telefilm, ritenendola la scelta più adatta dal momento che mi piace rispettare le ambientazioni prima di tutto. Questo spiega perché certi personaggi della storia vengano descritti come /nome di una creatura che non vi dico sennò spoilero/ anziché demoni, come forse voi vi aspettereste. Tra parentesi, l'inserimento di tale creatura nel contesto di Supernatural è una mia invenzione, anche se rientra in un filone che accomuna certi episodi--- ok, la smetto, o vi faccio solo più confusione.

Nota #3 (o secondo dettaglio): in generale, i cattivi di Supernatural si dividono in due categorie, aka le Creature Assetate Di Sangue E Prive Di Personalità, e i più interessanti Personaggi Sovrannaturali Con Vera Caratterizzazione. Tenetelo a mente e capirete alcune delle mie scelte (mi piace richiamare anche le tecniche narrative ricorrenti degli universi in cui scelgo di ambientare le mie fic).

Nota #4 (che non c'entra con Supernatural): penso che la maggior parte di voi appassionati di cultura giapponese già lo saprà, ma ci tengo a precisare che in Giappone il Natale, per quanto abbia di sicuro tantissimi tratti in comune con il nostro (lo hanno copiato occidentalizzandosi), è una festa che si suole passare più con il proprio fidanzato/innamorato che con amici e famiglia; è, insomma, un'occasione romantica prima di tutto. Non è una cosa fondamentale nella fic, ma ci sono degli accenni, e mi piace essere chiara. ^^

Nota #5: non esiste XD mi serve solo a dirvi che spero che questa one-shot vi piaccia e non sia noiosa, a ringraziare le ragazze del gruppo Facebook che sono state una compagnia piacevolissima e incoraggiante durante questa esperienza, e ad augurarvi buona lettura, e buone feste! Enjoy. ^_^

 

 

 

White Blood

 

(or The strange Christmas case of the girl that time forgot)

 

 

 

 

Questo è decisamente ciò che chiamerei il lavoro di un guastafeste –, aveva detto suo padre.

Una decina di corpi dagli occhi bianchi e le labbra livide, la pelle così tesa sulle ossa da sembrare un velo di sabbia trasparente; qualche sparuto schizzo di sangue sulle pareti, bacche d'agrifoglio ovunque sul pavimento, e mille schegge luccicanti che dovevano essere state palline di vetro appese al finto albero di Natale che giaceva rovesciato sul divano, in un ammasso arruffato di plastica e verde scuro.

Questo è decisamente ciò che chiamerei il lavoro di un mostro”.

 

 

Kohaku si sarebbe sentito a disagio in un abito formale anche se non avesse avuto una pistola al fianco e un coltello nascosto nella tasca interna della giacca.

Di per sé, le armi non erano un problema: dormiva tenendo almeno una delle due sotto il cuscino, sempre, e sapeva usarle molto meglio di quanto qualsiasi ragazzo di diciassette anni avrebbe dovuto. Ma muoversi tra la folla cercando di evitare gli urti improvvisi, o anche solo dover tentare di allentare il colletto troppo stretto e rigido della camicia senza dare in nessun modo nell'occhio, non lo aiutava certo a concentrarsi sul suo obiettivo finale.

– Rilassati – gli mormorò Sango, con un pizzico di urgenza, salvo poi accennare a un sorriso triste e complice – È un lavoro come gli altri. Andrà tutto bene.

Kohaku la guardò, serio e ancora teso, ma si sforzò di annuire, di farle capire che era pronto, anche se magari non tanto quanto lei – che rimaneva sempre un passo avanti a lui, malgrado quanto differente dal solito apparisse. La sua lunga coda di cavallo era rimasta la stessa, ma non capitava spesso di vederla truccata con più di una leggera sfumatura di ombretto sulle palpebre, e ancora più di rado accadeva che indossasse qualcosa di diverso da comodi jeans, una camicia a quadri e una giacca di pelle; Kohaku la ammirava, perché era semplice e bella, e riusciva a portare un completo modesto come una camicia bianca e dei pantaloni con una fresca eleganza di sicuro superiore a quella di molte altre ragazze sulla pista da ballo, che sfoggiavano abiti tutt'altro che sobri. Ma d'altronde, cosa c'era di sobrio in quel luogo?

Di tanto in tanto, dalla prua e dalla poppa della nave schizzavano nel cielo nero privo di stelle piogge di fuochi d'artificio verdi, rossi e bianchi, senza una particolare ragione, e le persone applaudivano e sorridevano, deliziate, ammirandoli attraverso le vetrate trasparenti che facevano da soffitto. La sala era immensa, ma caldissima, malgrado la città che baluginava sulla costa lontana riuscisse a mostrare di essere imbiancata da neve perfino dalla distanza. Quattro giganteschi alberi di Natale facevano bella mostra dei loro aghi appuntiti e lucenti agli angoli della stanza, addobbati d'oro e di velluto; festoni di lunghezza smisurata erano appesi ovunque. La folla era punteggiata da bicchieri di champagne, da cappelli rossi bordati di pelo bianco sulla testa di distinti uomini con facce tutte uguali, da qualche gonna troppo corta e da risate, e non era ben chiaro se la musica natalizia fosse sovrastata dalle chiacchiere spensierate e cortesi, o il contrario. Com'era possibile che tre cacciatori fossero finiti lì, in mezzo al lusso e alla buona società, anziché essere nella solita squallida stanza di un motel, o tra i vicoli bui di periferie malfamate? Kohaku provava una punta di tristezza, nel rendersi conto che ambienti simili gli sarebbero stati molto più familiari – che avrebbe saputo come muoversi anche sotto agli occhi degli spacciatori, ma che invece le piroette di allegre adolescenti e signore ancora di bell'aspetto gli apparivano un po' strane, un po' aliene, un po' sconosciute.

D'altra parte, quella era “la vita”, come Sango e suo padre gli avevano spesso ripetuto: era toccata loro in sorte, scorreva nel loro sangue, e Kohaku non la odiava. Forse non gli regalava spensierata felicità, ma aveva la sua famiglia – o quel che ne rimaneva –, e se combattere al loro fianco era il suo unico destino possibile, non gli appariva troppo buio; senza contare che, se loro tre non fossero stati lì presenti quella notte, non osava immaginare in cosa quella festa di Natale così opulenta si sarebbe trasformata di lì a poche ore.

 

 

Ho parlato con Kiyomizu – aveva esordito suo padre, allentandosi il nodo della cravatta mentre appoggiava un sacchetto di cibo in scatola sul tavolino del motel, accanto al computer di Kohaku – Il povero diavolo è un fascio di nervi, e insiste nel dire che non ricorda nulla, e che non aveva motivi di rancore verso gli altri ragazzi.

Quadra. Un essere umano non avrebbe mai potuto uccidere in quel modo, le autopsie erano chiare – aveva osservato Sango, alzando le spalle – Fantasma, o cos'altro? Ci sono ovvi segni di una possessione, qui.

Ma nemmeno un fantasma agisce così, no? – aveva ribattuto Kohaku, afferrando una bibita senza staccare gli occhi dal computer – Ho trovato qualcosa. Pare che incidenti simili si ripetano ogni quindici anni dal 1937, in questa zona, in questo periodo.

Sango e suo padre lo avevano fissato, perplessi.

Non sono nemmeno sicuro che il Natale fosse diffuso qui, così tanto tempo fa – aveva detto l'uomo, cauto, incrociando le braccia – Cos'altro c'è?

Non molto – era stato costretto ad ammettere Kohaku, scorrendo velocemente tra le varie pagine Internet aperte sul desktop, cercando di ricapitolare ciò che fosse rilevante – Il numero di omicidi per ondata va aumentando, come se la creatura si sia sempre ripresentata più forte di volta in volta. E negli episodi più vecchi, per l'appunto, non si parla neppure di Natale.

Qualche collegamento tra i luoghi? Tra le persone? – aveva domandato Sango, sistemandosi dietro di lui per guardare lo schermo. Kohaku aveva scosso la testa.

Nulla, eccetto che si trattasse di feste di vario genere... sempre più ampie. Ma i luoghi non si ripetono, sono casuali, e mi pare impossibile che qualcosa leghi così tante persone.

Fai qualche altra ricerca in tal senso, per sicurezza – aveva ordinato allora il padre, togliendosi la giacca e appendendola a un attaccapanni – Ma un fantasma non prosciuga le sue vittime e non può andare così tanto in giro a piacimento, e un demone avrebbe lasciato zolfo. Di così potenti e capricciosi conosco solo i kami, e se abbiamo a che fare con loro dobbiamo sapere tutto il possibile su questa faccenda. Vado a farmi una doccia.

Rimasti soli, Sango e Kohaku si erano scambiati un'occhiata seria. Poi lei aveva sorriso, a metà tra la rassegnazione, la dolcezza e l'ironia.

Non avevi voglia anche tu di un allegro e festoso Natale?

 

 

Nervoso com'era, e perso per un attimo a guardare i finti fiocchi di neve che decoravano i lunghi tavoli colmi di pietanze a buffet, Kohaku quasi trasalì quando suo padre gli batté sulla spalla.

– Restate tra la folla e tenete gli occhi aperti per qualcosa di strano – disse rapidamente l'uomo a lui e a Sango, senza staccare lo sguardo dal secondo ponte della nave, che era più in alto e si presentava quasi come una balconata decorata da palline rosse e agrifoglio e vischio, da cui si affacciavano personalità ancora più eminenti e ben vestite di quelle che avevano potuto osservare finora – Ho visto Kodo, è lassù. Provo ad raggiungerlo, vi chiamerò se avrò bisogno di aiuto.

Kohaku sentì la preoccupazione farsi strada nel proprio cuore e anche sul proprio viso. Più cresceva, più difficile diventava accettare che il padre fosse sempre quello in prima linea nel cercare e avvicinare le pericolose creature a cui davano la caccia; capiva che nessuno avrebbe mai voluto esporre i propri figli a pericolo inutile, ma allo stesso tempo non poteva sopportare che il suo stesso genitore rischiasse così tanto per causa sua. Ne aveva parlato a Sango, ma lei era decisamente più coraggiosa di lui, più incrollabile nelle proprie speranze e più esperta: si fidava di loro padre, quando lui decideva di affrontare una battaglia da solo; sapeva sempre come aiutarlo senza intralciarlo, e in cambio si aspettava solo di essere trattata allo stesso modo. In quel momento, si occupò lei di annuire con decisione e di mettere una mano sulla spalla di Kohaku, come per scoraggiarlo dal protestare.

– Terremo d'occhio i telefoni – disse con semplicità, seria, ma senza ansia – Fai attenzione.

L'uomo fece un cenno d'approvazione e poi si allontanò, facendosi largo a fatica tra i troppi invitati di quella festa. Kohaku riuscì a seguire la sua figura con lo sguardo per un po' – benché il suo vestito fosse nero come tutti gli altri, benché la sua statura fosse media, benché il colore castano dei suoi capelli riuscisse a confondersi con la massa, quella persona rimaneva pur sempre suo padre –, fino a quando non divenne davvero impossibile individuarlo da lontano. Si chiese quale identità avrebbe finto per riuscire ad accedere al piano di sopra: avrebbe continuato con la farsa del ricco banchiere che aveva permesso loro di entrare, o sarebbe stato più prudente impersonare qualcun altro, la cui esistenza sarebbe stata più complicata da verificare? Forse tali precauzioni sarebbero state inutili: le casse gridavano la loro musica più alta che mai, e nessuno aveva altro per la testa se non sano, scintillante divertimento.

Sango lo prese per mano.

– Mi concedi un ballo, cavaliere? – gli sorrise, e riuscì quasi a strappargli uno sbuffo di risata.

Era un po' strano, sapere che una coppia di fidanzati sarebbe stata molto più plausibile da trovare in simili occasioni rispetto a una coppia di fratelli, e doversi comportare di conseguenza; ma Sango era Sango, la sorella che l'aveva accudito come una madre da quando avevano perso quella vera, e come un'amica da quando lui era diventato grande abbastanza: non si poteva parlare di vero imbarazzo, non con lei.

– Non voglio andare là in mezzo, però – si ritrovò a dirle, accennando con la testa al caotico centro della sala – Ci spostiamo lungo i margini?

– Va bene, timidone – fu la gentile, affettuosa risposta – Dovrai trovarti una ragazza che non si voglia mettere in mostra, in futuro.

Kohaku accennò una smorfia di finta offesa e scosse la testa, facendola ridere, e poi si incamminarono fianco a fianco, avvicinandosi di più alla pista da ballo.

Trovarsi dei compagni e avere delle relazioni era una realtà molto lontana dalla loro. Forse sarebbe stato triste trascorrere il Natale senza nessuno se Kohaku avesse avuto amici, se avesse posseduto anche solo il tempo di preoccuparsi di certe cose anziché di salvare vite da morti orribili e inspiegabili al senso comune; ma il fatto che una bella ragazza come sua sorella fosse nella sua stessa situazione gli impediva di soffrire granché, e quindi Kohaku non si poneva troppe domande: erano cacciatori. Era “la vita”, quella. Qualcosa vi mancava, ma ormai se ne era fatto una ragione; o almeno, così credeva – perché quella notte perfino le certezze del suo mondo solitario e vagabondo gli furono tolte da sotto i piedi, cominciando proprio da quell'istante.

Si fermarono perché Sango potesse sistemarsi di fronte a lui, mettendogli le mani sulle spalle. Era ancora la più alta tra i due, ma non più tanto quanto un tempo, ormai; e fu anche per questo che, mentre le cingeva i fianchi senza troppa convinzione, Kohaku riuscì a gettare lo sguardo oltre la sua spalla, vedendoli per la prima volta.

Furono i loro occhi a mandargli un brivido lungo la schiena. Fin da età ben più tenere era vissuto immerso in ciò che era al di fuori del normale, e ne aveva imparato l'odore, le movenze, i suoni e le vibrazioni nell'aria, con un istinto che andava oltre il semplice allenamento, ma che metteva radici nella sopravvivenza e in quella paura sempre capace di fargli rizzare i capelli sulla nuca; e quelle due paia di occhi rossi come il sangue fecero impietrire il suo cuore per un attimo.

L'uomo era alto, pallido, vestito di blu, dalle labbra sottili e dure increspate in un sorrisetto beffardo, e dai lineamenti troppo belli e fini per quelle iridi cupe e dense, che scintillarono quando incrociarono le sue; la donna era più bassa, e indossava un kimono cremisi e bianco. Teneva in mano un ventaglio dagli stessi colori, aperto, e lo agitava con garbo facendo muovere appena gli orecchini a forma di piuma ai lati del suo volto arrogante, ma truccato in modo così perfetto da sembrare porcellana dipinta da petali di rosa sulle labbra e sulle palpebre.

Kohaku fece un lievissimo cenno con la testa a Sango, che già si era incupita nel vedere il turbamento sul suo viso, e lei cercò di voltarsi senza dare troppo nell'occhio. L'istante successivo, tuttavia, Kohaku realizzò che tale precauzione era inutile: la coppia stava ormai passando loro accanto. Ma non erano soli: l'uomo teneva per mano qualcuno, che camminava nella sua scia.

Niente rosso, né tinte violente, in quella figurina assai più minuta: solo bianco. Bianco a partire dal semplice fiore dai petali tondeggianti appuntato tra i suoi capelli, più argentei di quelli che avrebbero potuto incanutire le fragili teste di anziane signore. Ma quello era un volto giovane, giovanissimo, che non dimostrava più di sedici anni – con le ciglia trasparenti, le labbra come invisibili linee su un volto di neve, e altrettanto pallido era il braccio sottile che la manica del kimono color perla lasciava intravedere. Forse ci si sarebbe potuti aspettare occhi della stessa sfumatura dell'argento o del ghiaccio, ma ciò che Kohaku vide quando li studiò lo riempì di una nuova, diversa, turbata inquietudine: due pozzi di un castano profondo, che avrebbero potuto splendere di calore e mistero, e che invece erano vuoti, fissi nel nulla, e privi di luce.

Non c'era espressione, su quei lineamenti. Kohaku sapeva che tanta stranezza avrebbe dovuto allarmarlo perfino di più, ma non era paura quella che gli impediva di distogliere lo sguardo, e nemmeno sospetto: si chiedeva cosa una simile ragazzina potesse avere in comune con due figure tanto più imponenti, voluttuose, carismatiche – al punto che tutti osservavano loro, e lei, malgrado il candore, scompariva nell'ombra. Si domandava cosa vedessero quelle pupille perse nel silenzio, incastonate sopra a guance di porcellana; forse provava pena o pietà nei suoi confronti, pensò, ma quando lei gli passò accanto – quando le loro braccia si sfiorarono e lui percepì calore oltre alla seta fin troppo leggera del kimono dai fili di luna –, quando quegli occhi così vuoti si sollevarono dal pavimento e incrociarono i suoi, il suo cuore perse un battito in un balzo di incomprensibile stupore.

Perché quel volto, fisso nel suo per un solo istante, era bello e fragile come un sogno; e soprattutto, negli abissi di quegli occhi scuri e impenetrabili, brillò una scintilla, un barlume tremulo – che non avrebbe potuto significare altro che un sussulto breve e improvviso di un'anima che, per una semplice concatenazione di cause, doveva esistere.

Poi, lei lo oltrepassò. L'istinto portò Kohaku a girarsi, per tentare di carpire qualcosa di più, ma si ritrovò a fissare i riflessi dei suoi capelli perlacei, e la lunga chioma nera come l'ala di un corvo dell'uomo che la trascinava con sé, e la flessuosa figura striata di rosso della donna che li accompagnava. Ben presto, tuttavia, furono tutti e tre inghiottiti dal muoversi e dal pulsare della festa, e tutto ciò che rimase da studiare fu una ragazza che ridacchiava per le lusinghe di un pretendente un po' troppo allampanato.

A quel punto, Kohaku non poté fare altro che tornare a rivolgersi verso Sango, incontrando subito i suoi occhi come si era aspettato – ben più umani e familiari con il loro semplice e caldo color nocciola, anche se concentrati e un poco duri come solo quando il vero inizio di una caccia incombeva.

Ma qualcosa di lui continuava a provare confusione, se non disagio. Era stato tutto così lento, e così rapido. Forse la suggestione delle luci e della festa e il suo nervosismo gli avevano giocato qualche scherzo. Era certo di aver percepito qualcosa di sbagliato a primo impatto, ma l'attimo in cui aveva guardato la fanciulla dalla pelle nivea negli occhi era stato come scoprire di aver sospettato un bluff che non era mai esistito in una partita di poker: sentirsi malignamente sospettosi, e inutilmente aspri, e innegabilmente nel torto.

– Cosa ne pensi? – si ritrovò a mormorare a Sango, una strana sensazione che gli stringeva lo stomaco, sperando che lei potesse prendere una decisione rapida che lui non riusciva a trovare.

Ma la ragazza si morse il labbro inferiore, la fronte appena aggrottata, e si voltò a fissare la folla che ancora li fiancheggiava, più festante e allegra che mai. Gli fece un cenno eloquente con la testa – “Dai un'occhiata” –, e Kohaku obbedì.

All'inizio, fu difficile capire cosa Sango volesse mostrargli. Poi, i dettagli cominciarono a emergere, uno a uno: una giovane con un abito lolita rosa e viola, e lenti a contatto di un fucsia elettrico; un ragazzo vestito con eleganza, ma che si guardava attorno con fare sospetto; una parrucca verde scuro poco più in là, e verso destra un volto truccato di nero in modo così pesante da essere grottesco.

Forse, la festa non era così elegantemente normale come avrebbe dovuto essere. E questo era un ovvio problema: come distinguere cosa fosse solo strano dal genere di strano di cui si occupavano loro? Kohaku sapeva cosa l'istinto gli avesse suggerito, ma all'improvviso tutto perdette peso, o almeno cominciò a non valere più troppo rischi: suscitare scalpore e aggredire la persona sbagliata in un contesto come quello poteva significare guai seri, lo avevano sempre saputo. Eppure, il mostro era lì in mezzo – pronto a portare a termine il proprio perverso piano.

 

 

Trovato!

Il suo entusiasmo era stato di sicuro un po' fuori luogo, dal momento che stavano avendo a che fare con decine di macabri assassinii, ma aver scoperto una pista per fermarli non aveva potuto che riempirlo d'orgoglio e di una scintilla di speranza.

Cosa? – avevano subito chiesto Sango e suo padre, l'una alzandosi di scatto dal letto sul quale prima era stata stesa studiando appunti su appunti, l'altro affacciandosi dalla cucina da cui proveniva odore di ramen istantaneo.

Kohaku aveva girato lo schermo del computer verso di loro, indicando un po' trionfante il nome scritto a grandi lettere in cima alla pagina web in cui stava rovistando da ormai un paio d'ore.

– “Kodo Industries” – aveva annunciato, salvo poi farsi più serio – Sono collegati a tutti i casi, dal 1937.

E chi diavolo sono? – aveva chiesto suo padre, stupefatto.

Vendono decorazioni per feste. Costose, di alta qualità, particolari. Da quelle tradizionali, ai compleanni, fino a... beh, Natale, quando è periodo.

Sango l'aveva guardato sgranando gli occhi, il volto pallido che contrastava con la camicia a quadri scura che indossava.

Non dirmi che hanno venduto a tutti quelli che...

Bingo.

Era piombato il silenzio, rotto soltanto dal rumore delle auto che passavano a pochi metri dalla finestra che dava sulla strada.

Vale la pena che ti chieda come hai fatto a scoprire una cosa del genere? – chiese suo padre, avvicinandosi e accostando una sedia al tavolo per potersi sedere accanto a lui, gli occhi fissi sullo schermo con un misto di curiosità, ammirazione e orgogliosa diffidenza.

No – aveva risposto Kohaku, con un mezzo sorriso che però aveva represso in fretta – Naturalmente non sarà facile avere una lista di tutti quelli che hanno comprato da loro in zona in quest'ultimo periodo, e potrebbe restringere il campo solo di poco.

E non sappiamo comunque come uccidano – aveva aggiunto Sango, con aria un poco preoccupata, raggiungendoli – Nessuno degli oggetti che abbiamo esaminato dava segni di essere maledetto.

Se si tratta di kami, non c'è da stupirsi che si siano collocati al vertice di un'industria – aveva ribattuto il padre – E che da lì possano combinare quello che vogliono.

Soltanto a sentire quelle parole, l'accenno di occhiaie sul volto di Sango era parso farsi un poco più scuro e profondo.

Fantastico – aveva esclamato, con tutto meno che entusiasmo nella voce – Come se già non fosse difficile capire il loro dannato modus operandi.

Ma frugando tra i membri di spicco dell'azienda potremmo avere fortuna e scovarli. Comincia ad orientarti da lì, io proverò ad andare a dare un'occhiata alla sede principale domani mattina. Kohaku... scopri se hanno qualche affare importante in corso, qualcosa che possa interessarci. Mi raccomando... oh, maledizione!

E su quella nota il padre era fuggito verso la cucina, da cui proveniva un intenso odore di ramen bruciato, strappando una mezza risata ai figli, malgrado l'ammontare di lavoro che ancora li attendeva.

Contro ogni macchinazione del caso, erano riusciti in qualche modo a mangiare, e Kohaku era rimasto incollato allo schermo fino a notte fonda, quando ormai Sango era collassata tra i fogli e il proprio computer ormai scarico, e suo padre russava da più di un'ora. Era arrivato quasi al punto di arrendersi, le palpebre pesanti dalla stanchezza, gli occhi che bruciavano e un principio di emicrania, quando una certa finestra su cui da secoli scorrevano cifre e lettere, a velocità troppo rapida per essere comprensibili a qualcuno che non fosse lui, si illuminò di verde – “Accesso riuscito”.

Non aveva saputo resistere all'impulso di rovistare subito tra le mail più importanti del manager della Kodo Industries.

E il cuore gli era precipitato nello stomaco.

 

 

– Dobbiamo dividerci – decise Sango, rimanendogli vicina per poter parlare a voce relativamente bassa – Dobbiamo provare a ritrovarli, o scoprire se c'è qualcos'altro che ci è sfuggito, e non possiamo farlo così. Avviserò io papà.

Kohaku annuì, salvo poi rendersi conto di cosa trovarsi da solo in quella bolgia di corpi umani avrebbe potuto significare.

– Come faccio a non farmi notare? – domandò, in un tono che gli uscì un po' troppo infantile per i suoi stessi gusti. Ma Sango ebbe la delicatezza di non schernirlo, malgrado il piccolo sorriso che le aveva incurvato gli angoli della bocca.

– Mangia – gli rispose con semplicità – Bevi. Non guardare nessuno per troppo tempo, né negli occhi né in generale. E sorridi, anche se al nulla.

– È stupido – non poté trattenersi dal borbottare lui.

– È il lavoro – fu la calma replica della sorella, che poi si staccò da lui – Fai attenzione. Una mano sempre sul cellulare.

E l'altra sulla pistola”, aggiunse Kohaku nella propria testa, ma sapevano entrambi che sarebbe stato superfluo e anche rischioso specificarlo ad alta voce.

Qualche ultimo cenno di saluto, e Sango si allontanò nella stessa direzione dello strano trio passato soli pochi minuti prima, lasciando Kohaku solo.

Mangia, bevi, sorridi”, gli aveva consigliato. Non era affatto certo di poter mettere in pratica l'ultimo comando, ma almeno sapeva che avrebbe potuto iniziare a muoversi partendo dal fare un giro tra i vari tavoli del ricchissimo buffet.

Ne avrebbe approfittato per schiarirsi le idee, per trovare vera concentrazione. Sapeva che avere uno sguardo perso nel vuoto non avrebbe aiutato a sembrare disinvolto, ma era il suo modo di rilassarsi, di sentirsi a proprio agio in mezzo agli sconosciuti – ricordarsi chi era, sempre: il bambino che dopo le tabelline e i nomi degli imperatori del Giappone aveva imparato le diverse specie di mostri che potevano nascondersi sotto il suo letto, e come ucciderli.

Vampiri: decapitazione. Fantasmi: eliminare con il fuoco qualsiasi rimanente organico dei corpi delle persone che erano stati prima di morire, a partire dalle ossa. Lupi mannari: l'argento era efficace; kappa e wendigo: fuoco di nuovo, ma usato direttamente su di loro. Demoni infernali: esorcismi in latino che andavano imparati a memoria. Poi c'erano le creature minori, troppe da elencare – i mutaforma, i poltergeist, le sirene, i djinn, i kistune, e tutto il resto; infine, di tanto in tanto nella terra del Sol Levante i kami dimenticati smettevano di accettare senza riserve che nessuno avesse più intenzione di adorarli.

Aveva ripassato l'argomento con molta attenzione, in quei giorni, ma sempre ben consapevole che sarebbe servito a poco: erano tutti talmente diversi gli uni dagli altri, che dare loro la caccia era arduo tanto quanto uccidere le streghe. Potevano avere sembianze umane o animali, e i poteri più svariati, nati dalle degenerazioni di ciò che piccoli villaggi avevano un tempo ammirato e venerato in loro. Era dato sapere solo che la loro energia fosse limitata, e che ne consumassero molta per manifestarsi e soprattutto per essere tangibili: per la maggior parte del tempo, si mantenevano di proposito della consistenza dei fantasmi, per prolungare un poco più a lungo la propria permanenza nel mondo terreno, diventando concreti solo quando necessario; e se coglierli di sorpresa attraversandoli poteva essere un buon metodo per trovarli, molti di loro erano abbastanza astuti perché né pallottole né lame potessero ucciderli. Tutto si riduceva a impadronirsi dell'oggetto materiale a cui erano sempre legati e che dovevano per forza portare con sé, e distruggerlo; ma era assai più semplice da dire che da fare.

Kohaku guardò le persone ridenti, i camerieri indaffarati, le luci sugli alberi di Natale; pensò a suo padre, che puntava dritto verso Kodo, dirigente dell'omonima azienda, e forse il più probabile candidato per essere il pericoloso mostro che avrebbe tentato di ucciderli senza pietà non appena avesse scoperto le loro reali intenzioni; pensò a Sango, che si era incamminata nella direzione più probabile per ritrovare le figure sconosciute che li avevano messi in allarme, e lo aveva fatto senza la minima esitazione – per il puro istinto di tenerlo lontano il più possibile. Si fece servire di malavoglia una fetta di arrosto fumante, e riprese a camminare, cominciando a sentirsi un po' accaldato per colpa della folla che pulsava ovunque lui posasse lo sguardo. Avrebbe avuto bisogno d'aria, ma la nave era interamente coperta per proteggere i suoi ospiti dal freddo pungente dell'esterno. Poche vie d'uscita, e il mare a separare tutti quegli innocenti dalla salvezza che era sempre un poco più facile da ottenere se ci si trovava sulla terraferma: dall'istante in cui aveva visto quanto la Kodo avesse venduto all'agenzia che aveva organizzato quell'immensa festa per l'alta società della città, Kohaku non aveva avuto avuto dubbi – una catastrofe incombeva, ed era come avere una bomba tra le mani e ben poche idee su come disinnescarla.

Gli omicidi erano sempre andati in crescendo, nelle ondate precedenti. I peggiori, nelle notti di Natale come quella, e meglio dissimulati degli altri nel loro essere soprannaturali: quindici anni prima, la strage della festa di lavoro di una compagnia di assicurazioni era stata attribuita senza troppi dubbi a una fuga di gas – ironicamente, per giunta. Qual era il piano, per realizzare qualcosa di ancora più mostruoso? Quanto tempo avevano Kohaku e la sua famiglia? Troppe poche informazioni, troppi pochi dettagli, perfino per gente come loro.

Le casse rimbombavano al ritmo di Jingle Bell Rock. La fetta d'arrosto, mangiucchiata solo a metà, finì in un cestino senza troppi complimenti quando Kohaku si rese conto che lo stava nauseando molto più che aiutarlo. Dopo pochi passi incerti, scrutando la folla e incrociando troppi sguardi che poi passavano a squadrarlo, incuriositi o sospettosi, realizzò di aver commesso un errore, e rimediò afferrando la prima cosa che gli capitò a tiro dal vassoio di un cameriere – un tondo, capiente calice colmo di vino rosso, il cui odore gli punse le narici non appena se lo portò vicino al viso per accennare a berlo. Non aveva intenzione di farlo, dal momento che a stento riusciva a deglutire il sapore forte di una birra, ma tenere il bicchiere in mano lo fece di nuovo sentire un poco più a proprio agio. Si ritrovò a osservare per qualche secondo il liquido scuro, le sue sfumature color rubino appena più pallide ai bordi: gli ricordarono gli occhi dell'uomo alto e misterioso, le labbra sensuali della sua donna, e tutto il colore che non c'era stato sul viso della ragazzina.

Riprese a camminare, ma con un'ombra di turbamento nel cuore, la stretta allo stomaco che si ripresentava. Come mai si sentiva in quella maniera? Non era la prima volta che pedinava qualcuno, o almeno tentava di rintracciarlo. Ma perché, di tutte le persone che potevano accompagnarsi a quei due loschi figuri, c'era stata proprio una come lei? Così giovane, così bianca, così... pura? Era forse quello, il problema? Non era facile immaginarsi un mostro dietro un volto simile, neppure considerando il suo sguardo vacuo. Bella, pallida, innocua, più bassa e fragile di lui: le stava davvero dando la caccia? C'era qualcosa che non quadrava, che non collimava con tutte le esperienze da cacciatore che aveva avuto in passato, ed esse erano state ben più che numerose.

Arrivò ad aver quasi compiuto un semicerchio completo intorno alla sala e controllò il cellulare, senza trovarvi messaggi né di Sango né di suo padre. Era strano, che nessuno dei due lo avesse preceduto nel combinare qualcosa – o erano nei guai? Kodo o la coppia di sconosciuti li avevano scoperti, condotti in trappola? O magari il kami era qualcun altro, e loro avevano sbagliato tutto, a causa del caos e del troppo poco tempo per indagare? Kohaku gettò lo sguardo verso il centro della stanza, vedendo solo cappelli da Babbo Natale e sorrisi, alcuni storti, alcuni sinceri, tutti in attesa della prossima canzone da ballare, o diretti a prendere qualcosa da mettere sotto i denti. Niente che lo colpisse, niente di inusuale. Non poteva d'altra parte lasciarsi prendere dal panico e iniziare a insospettirsi per ogni minimo dettaglio, si disse abbassando gli occhi, e tornando a girarsi per proseguire sulla sua strada.

Ma sulla sua strada, ora, c'era la ragazzina dai capelli bianchi.

Kohaku impietrì, trattenendo il respiro, e lei fece lo stesso. La fissò in quelle sue iridi piatte ma vive, troppo scure su un viso troppo chiaro, troppo vicine a lui che non sapeva come leggerle, e le domande iniziarono a scoppiettargli nel retro della mente, chiassose quanto la musica, confuse quanto i respiri nella massa della festa, scintillanti come luci degli alberi troppo addobbati – ma prima che riuscisse a formularne anche solo una, anche solo a se stesso, accadde.

Qualcuno passò rapidamente dietro di lui e gli urtò con forza il braccio che reggeva il bicchiere di vino. La sua presa già poco salda vacillò, il vetro gli scivolò tra le dita, e il vino si rovesciò addosso alla ragazzina, che non ebbe il tempo di scansarsi.

Il cuore di Kohaku sprofondò, mentre già lui vedeva quella cascata rosso scuro infrangersi contro quel kimono più bianco della neve, imbrattarlo come sangue, come se anziché farle un mero sgarbo le avesse sparato dritto nello stomaco, e gli sguardi atterriti degli astanti, un silenzio innaturale, e la voglia di sparire per sempre; ma ciò che avvenne fu molto, molto peggio.

Il vino le passò attraverso.

Ricadde con il suono di un'allegra pioggia sul pavimento lucido, attraversando quel petto esile e bianco senza lasciarvi traccia, e senza nemmeno inzuppare l'orlo inferiore dell'abito, né i sandali piccoli e candidi. Qualche schizzo sporcò i pantaloni di Kohaku, ma non lei.

Lei, che trasalì al pari suo, ma rimanendo pallida come uno spettro, e che puntò nelle sue due pupille accese di stupore e orrore benché null'altro sul suo viso di bambola si fosse alterato.

Sapevano. Sapevano entrambi.

Ma fu lei, con un accenno di determinazione nella piega delle sue labbra sottili e quasi invisibili, la più veloce ad agire, al contrario di ciò che sarebbe dovuto accadere – se solo l'istinto di Kohaku non si fosse bloccato, insieme ai suoi riflessi. Una piccola, lattea mano si chiuse attorno a uno dei suoi polsi, tiepida, delicata, non certo ferrea; ma quando lei, aggiungendo soltanto un impercettibile cenno a seguirla, si voltò e iniziò a camminare a passi corti e rapidi, Kohaku non fu in grado di svincolarsi dalla sua presa, né di impedire ai propri piedi di muoversi dietro di lei.

Si lasciarono alle spalle la pozza di vino, un cameriere scocciato, qualche cipiglio perplesso di persone che forse avevano notato qualcosa di strano, ma che alla fine scossero la testa credendo di avere solo immaginato; e si immersero nella folla, lei guidando lui, lui con una mano alla cintura, in corrispondenza della pistola.

Il luccichio delle decorazioni, il rosso e il verde, le risate e la neve finta parvero svanire dalla sua mente: tutto ciò che sapeva era che aveva trovato il kami, o almeno uno dei kami, quelli che avevano insanguinato quella città per troppo a lungo con delitti atroci; che tale kami lo stava portando con sé, e che lui non riusciva a reagire; che questo era dovuto al fatto che non poteva crederci.

C'era qualcosa di sbagliato, sbagliato, sbagliato, in quella figura così eterea e umana, che si muoveva con grazia tra le persone e lo guidava a destra e a sinistra come lui da solo non avrebbe mai potuto fare – o forse sarebbe stato più appropriato dire... giusto, giusto, giusto, e quindi sbagliato. Era una ragazzina dagli occhi immensamente profondi e tristi, vestita come una piccola sposa, o un angelo dimenticato – quando i kami spesso passavano più tempo a digrignare i loro denti in ghigni crudeli che ad agire davvero. Come poteva essere quella la verità? Come poteva essere tutto colpa sua, anche se solo in parte?

Il cuore di Kohaku martellava. La sua mano libera si spostò dalla pistola alla tasca che conteneva il cellulare, facendo del proprio meglio per tirarlo fuori malgrado gli urti delle persone che lo circondavano e la sua ferrea volontà di non staccare di dosso gli occhi dalla ragazzina neppure per un singolo istante. In qualche modo ci riuscì, e con movimenti meccanici e ormai memorizzati grazie all'abitudine entrò nella casella dei messaggi, o almeno sperava. Ma come scrivere, e soprattutto cosa? Come spiegare, e come farla franca?

Le risposte arrivarono entro breve. Si accorse che si stavano avvicinando al secondo ponte della nave, che incombeva maestoso sulla festa, e per un attimo pensò che tutto fosse collegato – che la ragazzina lo stesse portando da Kodo, che lui e l'uomo vestito di blu dagli occhi rossi fossero in combutta. Ma lei non cercò di avvicinare le scale, protette da uomini della sicurezza in perfetto smoking: si diresse verso una delle due grandi porte che davano sulla sala più interna, sotto al ponte più alto, e lì entrarono. Kohaku colse per pochi secondi l'immagine di un immenso lampadario di cristallo che ricordava un gigantesco fiocco di neve, e grandi quadri, e lussuosi tavoli e sedie di legno, e una folla un po' più rada e un po' più anziana; poi però la ragazzina piegò verso la sinistra, puntò dritta verso una porta aperta, la attraversò. L'addetto alla sorveglianza li fissò inarcando un sopracciglio, ma non disse nulla, limitandosi a scuotere la testa e a guardare altrove; malgrado la situazione terribilmente pericolosa in cui si trovava, quando Kohaku realizzò il perché si sentì arrossire con violenza.

Una fetta consistente degli invitati, prevedendo già che la nottata sarebbe stata molto lunga, aveva prenotato le camere da letto che costituivano tutti e tre i piani sottocoperta della nave, e ora lui stava scendendo là sotto con una ragazza, e di soppiatto.

Ma le frivolezze gli svanirono ben presto dal cervello: le cose si facevano serie, e più sospette che mai. Per la prima volta, oppose resistenza – riluttante all'idea di fare anche solo un gradino in più, di allontanarsi dalla protezione che la massa di persone di sopra gli aveva conferito fino a quel momento, di lasciarsi condurre in trappola come un agnellino.

Lei si fermò subito, voltandosi a guardarlo.

Quella sua espressione distante era un po' meno vuota, un po' meno insondabile: impossibile capire cosa fosse cambiato, se l'atteggiarsi dei lineamenti o una certa luce nei suoi occhi, ma Kohaku fu certo di essere studiato e letto e anche capito, dal modo in cui un velo di tristezza calò dopo pochi secondi sul viso della ragazzina; di delusione, perfino, alla prospettiva che lui avesse cambiato idea, come doveva essere chiaro dallo sguardo duro che Kohaku si era imposto di avere. E a quel punto, lei lasciò la presa sul suo polso, anziché rafforzarla.

Tra stupore e confusione, lui la fissò, incredulo di fronte al rovesciarsi delle consuetudini che si trovava di fronte a lui: il mostro era una fanciulla, e il rapimento di uno dei cacciatori era un invito, come si intuiva chiaramente da quelle iridi torbidamente limpide.

Seguimi, se lo vuoi. Dovresti.

Era malinconica, con il suo volto del tutto privo di sorriso o di smorfie. Triste e bianca.

Gli voltò le spalle e si allontanò da lui, proseguendo a scendere gli scalini foderati da un tappeto rosso scarlatto, lenta e calma, una figura esile e quasi trasparente. Nel guardare i riflessi di luna dei suoi capelli, Kohaku capì quanto importante fosse decidere in fretta, e decidere bene.

Seguirla era un rischio incalcolabile. Era un mostro, nessun dubbio a riguardo, e in qualche modo doveva essere pericolosa, e lui era solo, privo di idee chiare su come affrontarla. D'altra parte, sarebbe stato di sicuro sbagliato lasciarla scappare, e perdere ogni possibilità di fermarla: non era così che un cacciatore agiva, e Kohaku cercò di concentrarsi su questo, di convincersi che fosse la motivazione più solida e convincente per non tirarsi indietro. Ma la verità era un'altra, completamente diversa, e illogica, e incomprensibile: non riusciva ad avere paura di lei, non davvero. Non riusciva a vederla diventare una creatura aberrante assetata di sangue, e non capiva. Non poteva immaginarsela mentre lo attaccava, cercava di ferirlo e ucciderlo, e quasi non riusciva a figurarsi se stesso nel colpire lei.

Sentiva che erano pensieri ingenui, che non poteva lasciarsi stregare da presunta purezza, dal candore di un kimono che si allontanava sempre di più; ma sapeva anche che mai prima di allora si era sentito così, e che non era inesperto. Aveva già cacciato mille volte, senza mai porsi troppi problemi di pietà: perché cominciare in quel momento, se non per una buona ragione? Qualche mostro aveva pianto lacrime di coccodrillo per commuoverlo, e lui aveva imparato a non crederci; ma era certo che qualunque cosa si celasse dietro a quel volto bianco, in quel petto silenzioso e serrato, non poteva trattarsi di menzogne. Durante i primissimi istanti l'aveva vista spenta del tutto, come un mero spettro, invisibile ma pervaso di una luce del colore del vuoto, che poi però si era tinto di un tepore simile a quello di una lucciola nella notte. Si rese conto che avrebbe potuto parlarle, ma non osava rompere il suo silenzio; che lei avrebbe potuto costringerlo a obbedirle, ma che invece gli stava lasciando la possibilità di abbandonarla; che gli era stata vicina, ma che non aveva ancora capito assolutamente nulla di lei.

Dunque, si rivolse al telefono, trovò in poche mosse il numero di Sango, digitò il minimo indispensabile di parole.

Trovato. Sto bene. Sottocoperta, lato sinistro, bisogno di supporto.

Premette il tasto per inviare e subito rialzò gli occhi, per trovare quelli di lei, lontani ma troppo scuri per non catturare subito tutta la sua attenzione, intenti a scrutarlo con un pizzico di diffidenza grigia, quasi pronta a sfumare di nuovo nell'assenza di emozioni.

Il suono del proprio cuore che gli rimbombava nelle orecchie, un poco di sudore freddo lungo la schiena, Kohaku riprese a scendere le scale, pronto a seguirla. Solo quando lei capì e si voltò per ricominciare a guidarlo, in un silenzio innaturale e ovattato, lui infilò in tasca il cellulare e poi strinse le dita attorno al calcio della pistola, pronto a estrarla.

Camminarono per un poco, in una quiete che era tutto l'opposto del chiasso e dell'effervescenza che si erano da qualche minuto lasciati alle spalle. La luce delle lampade era calda, dorata, e addolciva le tinte scure dei pannelli di legno alle pareti e i dettagli di velluto rosso che facevano da decorazione. Era uno strano sfarzo tra antico e moderno, Oriente e Occidente in cui Kohaku si sentiva tremendamente fuori luogo, e in cui la figura leggera e pallida della fanciulla pareva più che mai un fantasma senza tempo e senza consistenza.

C'era un tremito di curiosità, nel retro del suo cuore. La speranza che Sango leggesse il messaggio al più presto e che arrivasse in tempo in caso le cose fossero degenerate, e quella opposta di riuscire a cavarsela da solo, per quanto giovane, per quanto fosse stato pressoché sempre protetto fino ad allora. Non era la prima volta che suo padre e sua sorella si dividevano da lui durante una caccia, ma mai l'avversario era stato tanto imprevedibile, misterioso e probabilmente potente, e le scale continuavano a scendere, oltre al primo piano, oltre al secondo, fino a giungere al terzo e a dei corridoi lunghissimi intervallati solo da porte di mogano con dei falsi oblò in legno dorato come decorazione, e dei fiocchi rossi natalizi sulle maniglie. Non aveva paura, ma gli pareva di essere immerso in uno strano sogno, e aveva quasi l'impressione che se si fosse pizzicato un braccio tutto sarebbe finito in un istante: si sarebbe svegliato sul sedile posteriore della macchina di famiglia, mentre Sango studiava una cartina e dei giornali per trovare un nuovo lavoro di cui occuparsi, e suo padre proponeva di fermarsi a una stazione di servizio a procurarsi qualcosa di veloce da mangiare. Ma invece la ragazzina bianca continuava a camminare sui suoi sandali di foggia non certo contemporanea, svoltando un paio di volte prima di fermarsi di fronte a una porta; abbassò la maniglia, e quel rumore secco e improvviso risvegliò i sensi più pratici e concreti di Kohaku, che strinse più forte la pistola, e mosse gli ultimi passi con cautela benché lei fosse già entrata nella stanza.

Prima di seguirla, si fermò per un momento sulla soglia, cercando di inquadrare con una rapida occhiata tutto intorno l'ambiente in cui avrebbe potuto ritrovarsi a combattere di lì a poco. Scoprì che le camere erano più piccole di quanto non si sarebbe aspettato, o forse solo molto più ammobiliate di quanto fosse normale per la cabina di una nave: c'era un lungo tavolo centrale circondato da sedie, ma anche parecchi mobili e cassettoni accostati alle pareti, tutti carichi di vasi di fiori e di lampade e ornati da complicati intarsi; oltre a un letto matrimoniale in fondo alla stanza, che sfoggiava una coperta con un motivo di agrifoglio verde e rosso che cozzava non poco con l'eleganza del resto dell'arredamento, c'era un'altra cuccetta singola, e perfino un divano a due posti. In pratica: poco spazio per muoversi, soprattutto per chi, come lui, aveva notevoli difficoltà a rendersi incorporeo.

Per il momento, comunque, pareva che non incombesse nessuna battaglia: la ragazzina era qualche metro più avanti, ferma, guardandolo con i suoi occhi spenti e tristi. Lui sapeva che ora il sospetto e la diffidenza doveva essere chiari nella sua espressione dura e seria – perché non era tipo da saper fingere di essere a proprio agio, e d'altronde avevano ben poco da nascondersi: lei era stata smascherata, e nel smascherarla lui stesso aveva fatto saltare la propria copertura. Al medesimo tempo, però, non si sentiva scrutato come un nemico, come qualcuno di pronto a uccidere, come una minaccia; ciò lo confondeva ancora più che metterlo in allarme.

Alla fine, quando fu ormai chiaro che lui era ben restio a entrare, una strana rassegnazione parve farsi strada nella postura e sul viso della ragazzina, e subito dopo lei portò una mano al fiore che aveva tra i capelli. Dirigendovi la propria attenzione, Kohaku fece appena in tempo a notare uno scintillio tra i petali che prima, forse a causa della troppa luce della festa, non aveva colto; poi lei prese il fiore tra le dita, se lo tolse, si avvicinò alla parete sulla sinistra, lo appoggiò in uno dei pochi punti liberi da quadri o altre decorazioni, e sotto agli occhi increduli del ragazzo si compì quella che non si sarebbe potuta descrivere se non come una magia di qualche sorta.

Il centro del fiore si ingrandì, diventando una superficie piatta e lucida perfettamente tonda, dal diametro di un paio di decine di centimetri. I petali si fusero gli uni con gli altri a formare una sottile cornice bianca.

Era uno specchio, in cui la giovane fissava il proprio fragile riflesso con un misto di dolcezza e dolore.

Spara”, fu il primo comando che il cervello di Kohaku intimò alla mano ancora stretta sulla pistola. Era fin troppo palese: i kami erano legati a oggetti incantati che era necessario distruggere per ucciderli, e quello specchio non poteva dunque che essere il definitivo collegamento tra la ragazzina e il mondo terreno. Ma, appunto, fin troppo ovvio: non quadrava. Nessuna creatura aveva mai offerto la propria testa su un piatto d'argento in quel modo senza esitazione, senza prima cercare di strappargli il cuore dal petto. E Kohaku sarebbe stato davvero capace di rompere così quell'equilibrio che era venuto a formarsi, e cancellare con il frastuono di uno sparo e di vetri infranti l'immagine di quella fanciulla così bianca e innocua per sempre? Non ci riuscì, o perlomeno non ebbe il tempo di prendere altra decisione che non fosse aspettare: dopo tre o quattro secondi, dilatati al punto da sembrare ore, la superficie dello specchio si appannò, come se stesse riflettendo nebbia, o il vapore di una doccia l'avesse investito. E in quel fumo perlaceo comparve una parola, scritta proprio come se fosse stata tracciata dal dito di un bambino, benché la ragazzina non avesse mosso un muscolo. Semplice, breve, e terribile.

Aiutami.

D'istinto, Kohaku mosse un passo in avanti, per poter guardare più da vicino ed essere certo di avere letto bene, sgranando gli occhi dallo stupore e abbandonando per qualche secondo il serissimo e concentrato contegno che si era imposto di avere: la parola rimase lì, un poco tremula, ma inconfondibile. E allora non rimase altro che fissare colei che aveva appena mandato quel messaggio tanto inaspettato e improvviso: riuscì a notare come le sue sopracciglia fossero appena aggrottate in un accenno di dolore lieve e intenso, e quei suoi occhi profondi come abissi ora evitavano i suoi.

Cosa fare? Senza rendersene conto, Kohaku aveva quasi staccato la mano dalla pistola. Aveva la gola secca, non sapeva cosa pensare, come atteggiarsi, dove guardare. Mai prima di allora gli era capitato di vivere un paradosso dalle dimensioni tanto mastodontiche, e allo stesso tempo era certo che tutti quei dettagli assurdi si stessero a poco a poco unendo per creare un quadro che avesse un poco di senso – di sicuro, tutto di lui sarebbe stato irrazionalmente più propenso ad aiutare una simile ragazzina, piuttosto che ad ucciderla, pur conoscendo la sua natura.

Lei lo sbirciò, vide la sua espressione, forse lesse il tumulto che gli aveva causato nel petto. Accennò con un movimento impercettibile del capo allo specchio, e Kohaku si voltò di nuovo verso di esso, senza riflettere troppo. Dapprima lo trovò di nuovo grigio; poi, nuove scritte iniziarono a essere tracciate dal nulla.

Mi chiamo Kanna.

Una breve pausa.

Vuoi conoscere la mia storia?

Era un prendere o lasciare in cui in realtà non esisteva alcuna possibilità di scelta, a quel punto: per non ascoltare sarebbe servito un cieco animo di ferro, disposto a scrollare le spalle e a uccidere senza porsi ulteriori domande, senza sentimenti e senza pietà, e Kohaku, benché sapesse del rischio che tutto si rivelasse una trappola, uno stratagemma per guadagnare tempo e forse permettere all'uomo e alla donna dagli occhi rossi di raggiungerli, non aveva quel genere di animo.

Decise di mantenere alta la guardia. Ma, fissando quella figura di pallore e mistero, annuì.

L'espressione della ragazzina – Kanna, a quanto pareva –, non si rasserenò: il lieve cenno della mano con cui cancellò le parole dal suo specchio scintillante fu debole, rassegnato, come se ciò che la attendeva di lì a poco fosse più motivo di sconforto che di liberazione.

Kohaku scoprì in fretta perché.

Anziché frasi, questa volta sullo specchio iniziarono ad apparire immagini, sfumate e velate dal fumo di una memoria antica quanto i secoli: un tempio shintoista di legno e pietra, illuminato solo da tremule torce e candele d'incenso; un altare, ampio e macchiato di sangue; uomini e donne di tutte le età inginocchiati di fronte a tre statue dalle proporzioni almeno doppie rispetto a ciò che sarebbe parso naturale – ma quella di Kanna, identica alla ragazzina in piedi accanto a Kohaku, rimaneva comunque assai più piccola delle altre due, altrettanto facili da riconoscere: anche la donna con il ventaglio era rimasta invariata nello scorrere inesorabile di infiniti anni, a quanto pareva. L'unico che fosse cambiato era l'uomo, che nello specchio stava al centro, imponente e maestoso: indossava un kimono maschile tradizionale, al posto di quel completo con tanto di giacca e cravatta che naturalmente sarebbe sembrato ben più che anacronistico.

Kohaku assistette al sacrificio di un giovane vitello sull'altare delle tre divinità, per mano di quello che sembrava un uomo ricco, se non eminente; poi diverse scene si alternarono più rapidamente, facendogli intuire che le vittime non erano state poche, né infrequenti. Poi la scena si spostò in un cimitero coperto di neve: sfilze di lapidi ornate da fiori secchi e infreddoliti, qualche gruppo di povere persone strette le une alle altre, e dei falò su cui bruciavano salme. Il cielo era nero, come se infettato dalla cenere.

Infine, di nuovo parole.

Eravamo l'Inverno.

Kohaku aggrottò la fronte e, rapito dalla storia, continuò a leggere.

Kagura era vento e sangue.

Io, gelo e neve.

Naraku, notte e morte.

Sullo specchio riapparvero i volti spettrali dell'uomo e della donna, gli occhi scarlatti che rilucevano come tizzoni ardenti.

Lui è crudele. È assetato di desiderio, e inesorabile.

Per lei, il bisogno di sangue è innato e insaziabile, non ne ha colpa.

Io ho solo bisogno di fiori in dono.

Ma siamo sue schiave.

Le parole smisero di cancellarsi tra loro, e Kohaku guardò Kanna, trovandola con lo sguardo basso, e una mano stretta all'altezza del cuore.

Sarebbe stato impossibile non capire che soffriva.

Un tiepido sentimento di pietà e compassione riuscì finalmente a farsi strada tra il sospetto e il timore, e Kohaku provò quasi l'impulso di appoggiarle una mano sulla spalla, di farle capire che le era vicino. Si trattenne, ma per la prima volta ruppe il silenzio in cui aveva deciso di chiudersi.

– Eravate venerati con fervore e rispetto – proseguì la storia a bassa voce, e lei lo fissò negli occhi, sorpresa e ferita – Ma il tempo è passato, e siete stati dimenticati.

Nel silenzio più completo, lei continuò a fissarlo, malinconica. Annuì solo dopo qualche secondo, senza trasporto, senza cambiare atteggiamento. Kohaku si era aspettato di non sbagliare, e non seppe trattenere la domanda che venne subito dopo.

– Come siete riusciti a risvegliarvi?

Lo sguardo di Kanna si fece un poco più vacuo, e per un attimo Kohaku temette di aver compiuto un passo falso; ma tutto ciò che accadde fu la comparsa di due nuove parole sullo specchio.

Rabbia.

Fame.

Rimasero lì più a lungo delle altre, come se Kanna desiderasse che si imprimessero a fondo nella sua mente, lettere spesse e incerte, ma pregne di dolore. Poi cominciò la spiegazione, più rapida.

Io stavo bene. Ma Naraku ha sempre cercato di tornare.

Quando l'Inverno diventò un momento come tutti gli altri per gli umani, ha iniziato a muoversi, anche se poco.

Quando ebbe abbastanza forza, trascinò me e Kagura nel mondo con lui.

Quando l'Inverno si trasformò in un momento di festa, la rabbia esplose.

Leggendo, Kohaku si ritrovò a ricapitolare in fretta nel proprio cervello tutte le informazioni che aveva raccolto sulla serie di casi collegati ai tre kami: tutto collimava con quel racconto. I primi sparuti delitti, atroci, sì, ma pochi e sparsi, e il notevole incremento da quando in Giappone il Natale aveva iniziato a prendere piede, dopo la guerra, con l'apertura all'Occidente.

Si rese conto di crederle. Ma c'era qualcosa che non capiva.

– Perché non ti sei opposta prima? – domandò, un'ondata di urgenza nella voce all'idea che una simile giovane fosse stata manipolata al punto da condurla all'omicidio di massa – Perché non scappare?

Kanna parve scuotere appena la testa.

Non sono mai stata forte abbastanza.

Nemmeno ora.

All'occhiata perplessa di Kohaku, lei rispose con una di malinconica supplica. Gli si avvicinò d'un passo, e prima che lui potesse scostarsi gli toccò un braccio, come se volesse aggrapparsi a lui, sentendosi davvero come un fantasma destinato a svanire in un misero soffio del destino. I loro volti si trovarono vicini, e Kohaku si rese conto di quanto fosse bianca e bella, di come quella pelle paresse fragile e fredda come neve, e lei lo guardava con un'implorante fiducia che nessuno gli aveva mai riservato; fu difficile distogliere lo sguardo quando lei gli indicò con la mano lo specchio, ma vi fu costretto per sapere cosa lei gli volesse dire.

Devi porre fine a tutto. Aiutami.

La vita di Naraku è legata a una sfera di cristallo che lui porta sempre in una tasca. Devi distruggerla.

Di attimo in attimo, diventava sempre più difficile non fidarsi di lei. Qualcosa nel retro della mente di Kohaku continuava a sussurrargli della possibilità di un inganno, che lei stesse mentendo, sviando la sua attenzione dal vero oggetto a cui mirare; dall'altro lato, tutto quanto coincideva con tale perfezione alle informazioni che lui possedeva sui kami, che la sua razionalità stessa gli impediva di essere troppo scettico. Ma, malgrado l'adrenalina che cominciava a scorrergli lungo i nervi e i muscoli, aveva bisogno di più informazioni, e che non poté trattenersi dal chiederle.

– Qual è l'oggetto di... Kagura, invece? – disse in fretta – Devi aiutarmi il più possibile.

Vide subito un lampo di esitazione nel profondo degli occhi scuri di Kanna; ma prima che potesse domandarsene o capirne il perché, una voce femminile risuonò alle sue spalle.

– Scortese da parte tua non chiedermelo di persona.

Sarebbe stata splendidamente sensuale, se solo Kohaku non avesse capito all'istante a chi appartenesse.

Si voltò di scattò, pronto a estrarre anche la pistola. Ma sotto gli occhi color cremisi della donna con il kimono, e di fronte al sorrisetto indolente su quelle sue labbra da predatrice, si pietrificò.

– Non mi prenderei il disturbo, se fossi in te – proseguì infatti lei, Kagura, aprendo il proprio ampio ventaglio e muovendolo appena per farsi aria, appoggiata con un che quasi annoiato allo stipite della porta – Se sei un cacciatore, sai bene che non puoi fregarmi così.

Perfino il cervello quasi in preda al panico di Kohaku dovette riconoscere che – “Maledizione!” – aveva ragione.

Non sapeva cosa galoppasse di più, se il suo cuore o il tumulto dei suoi pensieri.

Era in trappola. E se Kanna non gli aveva mai suscitato paura, né gli era mai parsa in grado di fargli del male, ora il gioco era completamente differente.

Non aveva vie di fuga, ed era pressoché inerme.

Kagura lo fissò per qualche momento, bellissima e beffarda, riflessi di rame nella perfetta acconciatura dei suoi capelli; poi il suo sguardo si spostò alla destra di Kohaku, dove Kanna era rimasta immobile come una statua di cristallo e marmo. L'espressione della donna divenne un poco più dura, e più sarcastica.

– Cosa combini, sorella? – chiese, sprezzante – In volo per la libertà?

Fu chiaro dopo appena qualche istante che non c'era alcuna possibilità che la ragazzina rispondesse, dal modo in cui aveva piegato il capo e sembrava essersi ritratta in se stessa. In un nuovo moto di panico, Kohaku temette che bastasse solo quello a spezzare la sua volontà, e capì di dover agire, e di doverlo fare in fretta.

– Posso aiutare anche te – gli proruppe dalle labbra, e d'istinto alzò anche le mani in segno di resa, per mostrare quanto fosse pronto a non essere ostile – Posso liberarvi. Possiamo farlo insieme.

Gli occhi color sangue di Kagura si illuminarono, e per un attimo Kohaku si illuse di averla interessata, se non già convinta; ma poi si accorse che si trattava di una scintilla di pura ironia, che in fretta diventò più tagliente di una lama.

– È questo il punto? – chiese la donna, con finta, superba sorpresa – Un eroe buono e senza macchia, Kanna? Pensi che sia abbastanza?

Non attese una risposta e ignorò il silenzio della ragazzina, per rivolgersi direttamente a lui, fissandolo con il contegno che sarebbe stato possibile rivolgere solo a un povero, ingenuo sciocco.

– Ucciderò Naraku quando il tempo sarà maturo – declamò, aspra – Per ora, ho bisogno di lui. E sarà meglio che tu non ti metta in mezzo.

Kohaku capì subito che non c'era speranza di convincerla: Kanna poteva essere un'eccezione, ma i mostri erano mostri. Non si disse nemmeno di non arrendersi – ma continuare a insistere era l'unica scelta: doveva guadagnare tempo, e pensare a come tirarsi fuori di lì.

– Perché non tagliare corto? – le domandò, forzando di proposito il tono un po' infantile che sapeva di poter sfruttare – Possiamo finire tutto qui. Stanotte.

Kagura batté le ciglia, quasi languida, e gli sorrise, ancora più beffarda.

– E perché ti preoccupi tanto, dolcezza? – soffiò, smettendo di agitare il ventaglio – Cosa ti ha raccontato la nostra comune amica, perché io ti stia così a cuore?

Kohaku si morse la lingua, ed esitò, cercando di ignorare il tuffo allo stomaco che aveva minacciato di dargli le vertigini – i mille sospetti che Kanna avesse mentito, e di essere stato in torto per tutto, tutto, tutto il tempo.

Riuscì a far sogghignare Kagura di un riso più indulgente, quasi lo stesse compatendo.

– Temo che abbia giustamente lesinato sui dettagli – commentò, raddrizzandosi, e Kohaku si irrigidì, ben sapendo che da una posizione più stabile non poteva che conseguire l'intenzione di compiere una mossa d'attacco – Perché non gli spieghi che ruolo hai, Kanna, quando ci prendiamo il sangue che ci spetta?

– Perché non parli tu, bastarda?

Tutti e tre sussultarono, e il resto accadde in un attimo: Kagura entrò nella stanza, ma voltandosi con un sobbalzo, spianando del tutto il ventaglio e mettendosi sulla difensiva; Sango apparve sulla porta, puntando senza preamboli la pistola contro l'altra donna, un'espressione dura su quel suo volto di propria natura così gentile; Kohaku colse al volo l'opportunità ed estrasse anche la sua arma, puntandola verso Kagura, che li fissò a turno, un poco stupefatta, mentre Kanna indietreggiava e si avvicinava al suo specchio.

All'improvviso, il masso nel costato di Kohaku si era fatto un poco più leggero. Il pericolo non era cessato, la battaglia era appena cominciata; ma Sango l'aveva trovato, in qualche modo. Era con lui, era arrivata in tempo, e questo cambiava tutto.

Fu propria sua sorella a parlare di nuovo per prima, senza staccare gli occhi da Kagura.

– Stai bene, Kohaku? – domandò, e lui non si risentì del suo tono freddo, perché conosceva benissimo la rabbia che la poteva invadere al cospetto di creature assassine prive di cuore.

– Non un graffio – le rispose con lo stesso tono e rimanendo altrettanto fermo. E la sua sicurezza non vacillò, quando sulle labbra vermiglie di Kagura si dipinse un sardonico sogghigno.

– La trama si infittisce – disse quella quasi tra sé e sé, ricominciando a muovere il suo ventaglio, come se fosse più tranquilla che mai – O forse non cambia nulla, dal momento che siete solo degli sciocchi impotenti.

– Non preoccuparti – rispose Sango, aspra – Sono brava a indovinare. Faccio qualche buco a quel ventaglio, o inizi a collaborare?

Un lampo di sospetto e sorpresa rabbia attraversò le pupille sfumate di rosso della donna, che fulminarono Sango con un lampo d'odio e sdegno. Rimase immobile per un secondo – ma alla fine l'istinto tradì perfino una come lei: chiuse di scatto il ventaglio, e nulla avrebbe potuto smascherarla di più che ridurre così una superficie che, per forza di cose, prima aveva rischiato di renderla vulnerabile.

La sua vita era legata a quel maledetto arnese bianco, rosso e nero. Kohaku lo prese di mira, ma voleva attendere che fosse Sango a prendere una decisione: informazioni, o chiudere quella parte della partita senza più rifletterci?

Ben presto, tuttavia, la scelta divenne obbligata, o forse scomparve.

Kagura socchiuse le palpebre, studiandoli a turno, e poi parlò lentamente, quasi assorta.

– Siete esperti – mormorò, tagliente – La sapete lunga su di noi. Proprio ciò che ci serve.

Kohaku lanciò un'occhiata perplessa e d'allarme a Sango, ricevendone in cambio una identica. E Kagura recuperò il sorriso.

– Pensate che fortuna – esclamò, e contro tutte le aspettative riaprì il ventaglio – Avete guadagnato quei minuti di vita che vi serviranno per raggiungere la festa. Kanna...

Per poco, Kohaku non si stupì che lei fosse ancora lì, ferma e silenziosa in maniera innaturale, più pallida che mai, i piccoli pugni stretti lungo i fianchi. Kagura la fissò con un misto di disprezzo e della tristezza più dura che lui avesse mai potuto vedere.

– Non fare stupidaggini. Non hai bisogno di loro. Muoviti.

Aveva a malapena concluso la parola, quando il braccio che reggeva il ventaglio compì un movimento circolare tanto ampio quanto rapido, e una folata di vento improvvisa e violenta come un pugno allo sterno colpì Kohaku al volto, costringendolo a barcollare e a ripararsi con le braccia per non essere travolto anche dalle raffiche che seguirono e che fecero scricchiolare il legno delle pareti; udì uno sparo, ma quando il vento cessò di colpo e lui poté tornare a guardarsi attorno, confuso e attonito, vedere l'espressione frustrata e sgomenta di Sango gli fu sufficiente per capire, prima ancora di realizzare il vuoto dove prima Kagura era stata.

Era scappata.

E l'orologio ticchettava sempre più veloce.

Kohaku si domandò cosa diavolo fare a quel punto. Sango, invece, agì, puntando all'istante la pistola contro Kanna, facendolo sussultare dall'orrore.

– Lei chi è? – chiese rapidamente la ragazza, aspra dalla fretta.

– Non è... – cominciò subito Kohaku, pronto ad avvicinarsi alla sorella e a farle abbassare l'arma, ma una mano gli afferrò una manica e gliela tirò, non forte, ma decisa.

Quando incontrò lo sguardo di Kanna, il suo stato d'animo non fece che peggiorare: perfino la completa compostezza di quel volto era ora alterata da un'agitazione muta e disperata, e un piccolo dito bianco puntava verso lo specchio.

Fuggite! Vi hanno scoperto, non c'è più spera...

L'affannoso scriversi di quelle lettere sghembe tracciate di puro istinto si interruppe con un forte bagliore proveniente dallo specchio stesso, e con un gemito basso ma straziante di una voce ancora giovanissima – mentre Kanna si portava entrambe le mani al petto e si piegava su se stessa, nascondendo il volto.

Kohaku, sconvolto, tentò di avvicinarsi, senza alcuna idea di come poterla aiutare, ma senza nemmeno potersi trattenere; ma un lampo ancora più forte fece tremare il pavimento e lo abbagliò per pochi, ma fatali secondi: quando riaprì gli occhi, c'erano macchie nere sulla sua retina – ma di sicuro, nessuna figura bianca accovacciata vicino a lui, e nessuno specchio.

– Maledizione! – arrivò la voce di Sango, e Kohaku la colse a stropicciarsi a propria volta le palpebre prima che lei riuscisse a fissarlo, gli occhi ardenti di determinazione – Andiamo, devono essere di sopra!

– Aspetta! – esclamò però il ragazzo, malgrado il suo cuore battesse all'impazzata, e Sango lo fissò come se fosse impazzito – Non hai sentito la donna? È dove vogliono che andiamo!

– E se non andiamo, tutti i passeggeri muoiono – replicò Sango, senza neppure un istante di esitazione – Forza!

Gli bastò un istante per capire quanto sua sorella avesse ragione: non c'era tempo per la prudenza, né per gli schemi. Bisognava agire subito, e ciò significava correre – seguire la coda di cavallo di Sango fuori dalla stanza, a rotta di collo.

La affiancò nel corridoio, e da quel momento corsero insieme, fianco a fianco, le pistole in mano e il cuore in gola.

– L'uomo – riuscì a dire Kohaku quando iniziarono a salire le scale – Ha un gioiello in tasca, il suo oggetto!

– Come fai a saperlo? – arrivò la domanda, in un tono più concitato ma meno affannoso del suo, mentre i gradini volavano via due a due sotto ai loro piedi.

– Tu fidati di me, ok?

Fiducia: era tutto ciò che rimaneva, ormai, insieme alla corsa, e alla disperata speranza che non fosse già troppo tardi, e che Kanna non fosse stata uccisa per il suo tentativo di tradimento...

Entrarono a perdifiato nel salone al chiuso, e senza rallentare di fronte all'uomo di guardia puntarono alle porte per uscire.

– Il distintivo, Kohaku!

Mentre irrompevano fuori, e l'allegra musica natalizia li travolgeva con il suo ruggito, Kohaku riuscì ad afferrare il distintivo nella tasca interna della giacca e a estrarlo, e l'attimo dopo Sango già si faceva largo tra gli uomini della sicurezza esclamando Servizi segreti di polizia!, e lui le stava alle calcagna, salendo le scale che portavano al ponte numero due, ed entrambi furono così veloci che non una persona ebbe il tempo di notare che nessuno dei due poteva essere vecchio abbastanza da far parte delle forze dell'ordine. Kohaku udì delle grida, il volume della casse diminuire, ma ignorò tutto quanto – almeno fino al momento in cui non arrivò di sopra, e la scena che gli si parò di fronte gli strinse il cuore in una morsa.

La folla di galantuomini e signore in abito lungo non ballava più al centro della pista, ma era addossata lungo i lati e i parapetti, e il suo tumulto e sgomento non fece che crescere alla vista dei nuovi arrivati armati di pistole. Ma Kohaku non aveva occhi che per il trio di persone in piedi proprio sotto al lampadario che traboccava di nastri rossi e foglie verde scuro: Kagura, che teneva d'occhio i passeggeri, e non dedicò a lui e a Sango nulla più che un beffardo cenno di saluto con il capo; ma soprattutto l'uomo vestito di blu, Naraku, che troneggiava alle spalle di una Kanna dagli occhi vitrei, stringendole le spalle con mani simili ad artigli.

– Lasciala andare! – gli gridò d'impulso, slanciandosi in avanti, pistola spianta, ma tutto ciò che riuscì a udire in risposta al di sotto delle grida e delle proteste della massa fu una risata fredda come ghiaccio e più crudele di quella di un demone, mentre quegli occhi ardevano di fuoco e sangue perfino da quella distanza; poi, dal nulla, Kohaku vide che alla propria destra c'era suo padre, pistola in pugno, arrivato all'improvviso, ma con un'espressione ben più che determinata sul viso, mentre iniziava anche a formarsi un drappello di uomini della sicurezza confusi ma furiosi in cima alle scale che venivano dal piano di sotto.

– Lo specchio? – chiese suo padre in quello che fu costretto a essere un grido a causa del troppo rumore che li circondava. Kohaku l'avrebbe implorato di fermarsi, se solo Sango non fosse stata più rapida a rispondere.

– E il ventaglio! Spara!

Corsero avanti, dritti verso i tre kami, che non si erano ancora mossi di un passo – benché l'espressione di Kagura fosse sprezzante, e quella di Naraku crudelmente irritata nell'osservare il formicolare dei civili in preda al panico. E benché tutto gli sembrasse al rallentatore, anche Kohaku corse, con la folle speranza di fermare la sua stessa famiglia dall'uccidere un'innocente, e solo con il retro della propria mente realizzò che quella immobilità da parte dei mostri era strana...

Quando furono a pochi metri, Sango sparò verso Kagura. Il suono ruppe il caos come uno schiocco di frusta e portò il silenzio per un brevissimo, lunghissimo istante.

Poi, il proiettile si infranse a metà strada, scoppiando in mille schegge che Sango evitò soltanto con un salto indietro, e per qualche momento una sorta di barriera color sangue tremolò nell'aria per poi scomparire di nuovo.

Kagura scrollò le spalle. Naraku sogghignò, salvò poi aprirsi in una smorfia al ricominciare delle grida – Cos'era?!, Cosa succede?!, richieste d'aiuto da chi cominciava a captare il pericolo, intimazioni vuote da parte del corpo di sicurezza...

– Cielo. Non riesco nemmeno a sentirmi pensare.

Il cuore di Kohaku rabbrividì al solo udire quella voce – setosa e vellutata come una carezza, e intrisa del sarcasmo più velenoso e viscido che si potesse immaginare; e si sentì impallidire, nell'incrociare lo sguardo degli occhi di brace di quel volto sardonico e trionfante.

Una mano di Naraku accarezzò i capelli della ragazzina rimasta immobile tra le sue grinfie per tutti quegli infiniti istanti.

– Vogliamo cominciare, Kanna?

A quel comando, chiaro e limpido come vetro tagliente perfino nel frastuono, Kohaku sentì le proprie viscere attorcigliarsi per l'ennesima volta di panico e orrore.

– Kanna! – chiamò, con tutta la voce che aveva in corpo, protendendosi verso di lei, pregando – Qualunque cosa sia, non...

Ma lo lesse nel dolore dell'occhiata che lei gli rivolse: non c'era speranza.

Le sue piccole mani bianche si sollevarono in alto, reggendo lo specchio. E poi esso si librò nell'aria, da solo, levitando come se privo di peso, e iniziando a brillare come una stella.

Suo padre provò a sparare, ma fu inutile: la barriera lo protesse.

E poi, nel silenzio attonito e spettrale che era piombato di colpo, il brusco gemito di disperazione di Sango risuonò come il rintocco di una campana funebre, e Kohaku non le fece eco solo perché non aveva più voce in corpo.

Uno dopo l'altro, i volti degli astanti stavano diventando vuoti. Dai loro petti cominciarono a sprigionarsi luci bianche e azzurre, piccole e scintillanti come giovani astri, e una volta che esse iniziavano a fluttuare in direzione dello specchio incantato, le persone rimanevano in piedi come marionette dagli arti molli – gli occhi aperti e bianchi, le bocche spalancate.

Sarebbe stato uno spettacolo quasi mistico, vedere così tante lucciole splendenti volare insieme, unirsi, arrivare perfino dal pavimento sotto ai loro piedi, o dal ponte principale; ma nel cuore di Kohaku esisteva solo l'impotenza, e la tremenda paura di tanta bellezza.

E fu quando udì un tonfo alla propria destra e si girò per guardare che cosa fosse caduto, il vero momento in cui desiderò essere in grado di urlare.

La pistola di suo padre era a terra; le mani di lui, abbandonate lungo i fianchi.

Il suo volto, uguale a quello di tutti gli altri.

Papà!

Non avrebbe mai voluto sentire Sango gridare così, né vedere una tale rabbia e paura nei suoi occhi. Ma non poteva aiutarla, perché non aveva idea di come aiutare nemmeno se stesso – di fronte alla prospettiva che fosse stato tutto un errore, di aver sbagliato ogni singola mossa, che se solo avesse accettato prima la verità e capito subito che Kanna era un mostro tutto avrebbe potuto essere evitato, e se suo padre e tutte quelle persone fossero morte sarebbe stata soltanto colpa sua...

Lo specchio riluceva ormai come un sole quando l'ultima luce si unì alle altre, facendo sbiadire il lampadario e tutti i luccichii che prima erano parsi tanto grandiosi.

Regnava il più completo silenzio, rotto solo dal pulsare frenetico del sangue nelle orecchie di Kohaku.

A quel punto, Naraku parve soddisfatto.

– Molto meglio – commentò, scostandosi dietro una spalla una lunga ciocca di capelli neri come la notte, un'espressione beffarda e sensuale sulle sue labbra pallide – Ora si può ragionare.

– Hai lasciato in vita le persone sbagliate per ragionare, feccia – sibilò a denti stretti Sango, la voce rotta, la presa sulla pistola quasi spasmodica, una lacrima lungo una guancia, ma salda sui propri piedi. Kagura alzò le spalle.

– Tranquilla, zucchero – disse, con voce quasi annoiata, agitando quel suo maledetto ventaglio – Non sono ancora morti. Devo prendere il loro sangue, prima.

– Il sacrificio viene dal dominio – arrivò la voce di Naraku, profonda e amara come fiele – La vostra coscienza è tutt'altro che un caso.

Sango e Kohaku si scambiarono un'occhiata – era troppo presto per combattere, ma l'angoscia si faceva più forte di parola in parola, e Naraku parve compiacersene.

– Lieto che la pista di quella stupida industria abbia alla fine portato i suoi frutti – mormorò, languido, continuando ad accarezzare i capelli di Kanna, che sembrava pronta ad abbandonarsi in ginocchio, se solo lui non l'avesse sorretta – Cominciavo a dubitare che un cacciatore l'avrebbe mai notata.

– Attirare a sé dei cacciatori – commentò Sango, tentando di tenere la testa alta malgrado la sua voce tremasse – Brillante piano.

Naraku le sorrise, per nulla intimorito, in una quiete così totale che si udiva il ticchettare della grossa lancetta dei secondi dell'orologio fisso sull'albero maestro.

– Usare un burattino per uccidere altri umani in nostro onore è una cosa – disse, con una leggerezza da far accapponare la pelle, indicando le migliaia di bambole vuote che li circondavano, per poi sorridere ancora di più – Che qualcuno ci cerchi, sappia chi siamo e muoia sul nostro altare, è ben altra.

Kohaku sentì gelido sudore scorrergli giù per la spina dorsale – no, non poteva essere, Kanna non poteva avergli detto tutto solo perché lui sapesse...

Kagura mosse un passo avanti, la schiena ben diritta, lo sguardo fermo e duro.

– La loro energia più quella di tutti gli altri dovrebbe riuscire a fare finalmente la differenza – disse, rivolta più a Naraku che a loro – In caso serva, sfrutteremo anche il padre. Cominciamo? Manca solo un'ora alla mezzanotte, e il lavoro è molto.

– Senza dubbio – le rispose l'uomo, stringendo la presa sulle spalle di Kanna, che non alzò la testa. Poi guardò Sango e Kohaku, con un ultimo ghigno predatore – È delizioso colpirvi mentre vi fate gioco di me.

E quello completava, alla fine, quell'immenso, macabro, terrificante quadro: la sera di Natale – la festa della concordia e dell'amore in pieno inverno, lo smacco a tre divinità temute e sanguinarie, a una notte che era stata un tempo portatrice soltanto di buio e morte.

Distruggerla, sfruttando la rabbia, li avrebbe resi più potenti che mai. E stavolta non sarebbero scomparsi per altri quindici anni.

Era il momento di agire, ma esisteva un piano; e, soprattutto, a uno schiocco di dita di Naraku il legno vicino ai piedi di Sango e Kohaku si spaccò, e orrende radici nere irte di spine scattarono verso di loro.

Fu impossibile perfino per Sango, di solito quella dai riflessi più pronti, prevedere e schivare quell'attacco. Quando le spine avvolsero i loro polsi, penetrando nella loro carne con tremenda violenza, il dolore fu tale che la pistola cadde di mano a Kohaku senza che nemmeno lui se ne rendesse conto, mentre gridava e cadeva in ginocchio, e Sango faceva lo stesso, e loro padre rimaneva fermo come un guscio vuoto.

– Lega stretta la ragazza, merita di soffrire – Kohaku udì la voce di Kagura, distante e soffocata mentre le fitte acute delle spine e la vista del sangue che cominciava a colare sul pavimento gli rimbombavano nella mente – Comincio dal maschio.

Sango urlò più forte, e questo lo sconvolse così tanto che per un momento nemmeno si accorse che le sue catene erano state sciolte – lo capì solo quando tentò di slanciarsi verso di lei e ci riuscì, ma a quel punto era solo capace di pensare che doveva toglierle di dosso quelle funi che le si erano avviluppate alle braccia e l'avevano costretta in ginocchio, e che da nere stavano diventando rosse; l'aveva quasi raggiunta quando una folata di vento lo sbalzò via di almeno tre metri, mandandolo a rotolare sul parquet.

Kagura si fece avanti, inframmezzando con i suoi passi leggeri i gemiti di Sango e lo scorrere del tempo – e Kohaku capì troppo tardi che avrebbe dovuto preoccuparsi della pistola e di combattere, anziché di fare l'eroe: l'ennesimo, maledetto errore.

Tentò di alzarsi e correre, fu sbalzato via un'altra volta. Da lontano vide che Kanna ora lo stava guardando, ma non poteva più curarsene. Aveva il coltello nella tasca della giacca, ma sarebbe stato inutile; muoveva un passo e finiva di nuovo a terra, i polsi da cui cominciava a perdere troppo sangue che pulsavano, il corpo indolenzito dagli urti. Doveva riflettere, ma non aveva un secondo di respiro.

Stava per morire. Suo padre era in preda a dei mostri, sua sorella era prigioniera tra i tormenti. E tutto quanto perché lui aveva voluto fare l'eroe fin dal principio, senza capire che Kanna non avrebbe potuto essere salvata.

Un'ultima folata di vento lo fece atterrare sulla solida balaustra che dava sul ponte principale – luci e spine d'agrifoglio gli punsero la schiena, e solo per miracolo non cadde di sotto; guardò in alto e vide il cielo nero come la pece, l'indifferenza di una stella che luccicava solitaria, e poi apparve Kagura sopra di lui, con il suo volto serio e affamato.

– Fossi stata in te, avrei puntato quella pistola contro lo specchio, mentre eravamo nella stanza, per ricattarmi – gli mormorò, in un tono basso e quasi pratico, mentre uno strillo di Sango perforava l'aria, e uno strano fischio gli riempiva i timpani – Avrei parlato a Naraku di come intendo tradirlo, e l'avrei fatto rivoltare contro di me.

Il fischio si fece più intenso. Forse era la consapevolezza che lei avesse ragione, che provare a trattare i mostri come umani era inutile, e che lui l'aveva imparato solo a un prezzo troppo caro.

– Sei stato ingenuo. E ora pagherai sull'altare della vostra folle idiozia.

Kagura alzò il ventaglio – il cui margine, all'improvviso, gli parve affilato quanto una lama.

E il fischio divenne insopportabile, al punto da ricordare un grido.

Un uomo urlò davvero.

Kagura si voltò di scatto, un'espressione di sgomento per la prima volta sui suoi lineamenti disumanamente perfetti. Si scostò un poco, e Kohaku poté guardare.

Vide le catene di Sango andare in fumo, lasciandola prostrata e ferita, ma libera. La barriera protettiva che aveva bloccato i proiettili si materializzò solo per andare in frantumi. E Kanna era distante almeno una decina di metri da un Naraku in ginocchio, una mano sollevata in un gesto imperioso malgrado il suo viso vuoto.

Ci sarebbe stato spazio per molte, moltissime, infinite domande. Ma la lezione era stata imparata, ed era il momento di essere cacciatori e nulla più.

Kohaku riuscì ad allungare un braccio e ad afferrare il ventaglio di Kagura – per una volta, era stata lei quella a rimanere immobile dallo shock. Diede uno strattone mentre si alzava in piedi, lei si voltò a guardarlo con ferocia.

Le prese il polso, che rimase concreto per l'esigenza che lei aveva di restare aggrappata al suo oggetto più prezioso. L'altra mano della donna si allungò verso il suo collo, ma Kohaku fu più rapido, e riuscì a fare leva per torcerle il braccio, facendole perdere l'equilibrio.

Tutto quello che lui voleva era il ventaglio, ma aveva dimenticato la vicinanza della balaustra: il corpo di Kagura vi si rovesciò sopra, e nello slancio lo oltrepassò; e se precipitare avrebbe potuto non esserle fatale, lo fu essere troppo attaccata alla vita: lo strattone del peso del suo corpo, ancora materiale per la sua esigenza di combattere, strappò la tela del ventaglio in due.

Kohaku udì il suo strillo d'agonia, ma non volle fermarsi a guardare.

Gettò a terra la metà del ventaglio che gli era rimasta in mano e, per quanto debole per il sangue perso e con lo stomaco chiuso dalla nausea, si voltò, ben sapendo che la battaglia non era finita.

Vide che Naraku si era alzato in piedi e si era avvicinato a Kanna, che tentava ancora di tenerlo sotto controllo. Lui perdeva sangue dallo stomaco, lei cominciava a indietreggiare. Sango stava gattonando verso una delle pistole.

Posso farlo io, sorella”.

Kohaku corse verso l'arma che aveva abbandonato. Colse il volto di Naraku girato verso di lui – denti digrignati, occhi che non aveva nulla che ricordasse nemmeno più un essere umano –, ma lo ignorò. Raccolse la pistola, la impugnò, prese la mira per un solo istante e poi sparò.

Il primo proiettile, diretto al taschino sul petto, andò a vuoto. Ma Kohaku sapeva che, per quanto inconsistente l'uomo potesse rendersi, il suo presunto gioiello rimaneva vulnerabile, e ritentò verso la tasca sul fianco sinistro.

Centrò.

Si udì un rumore di vetro infranto, e Naraku si bloccò come se si fosse trasformato in una statua di sale, senza un grido né un gemito. Poi, una luce nera e violacea gli proruppe dal petto, dalle labbra, dagli occhi – trasformandosi in fumo, avvolgendolo, pulsando, diventando una piccola nube che iniziò a comprimersi su se stessa.

Kohaku si era aspettato di vederla sparire, ma invece quella esplose.

Avvenne con un grido lacerante, con tale violenza da rigettarlo a terra per l'ennesima volta, facendo comparire crepe sui vetri che facevano da cupola, gettando a terra tutti i corpi vuoti dei passeggeri, riempiendo di oscurità l'intera nave per attimi così lunghi che Kohaku temette che qualcosa fosse andato storto.

Ma, alla fine, anche quel buio si dissolse in fretta, senza lasciare nessuna traccia dietro di sé.

Kohaku rimase a terra per qualche momento, stordito – guardando le decorazioni in parte strappate, in parte cadute a terra; lampadine rotte, e tavoli di cibo rovesciati. Ma una luce splendeva più ardente e intensa di quella del lampadario che minacciava di staccarsi dal soffitto: era quella dello specchio di Kanna, fulgido come un faro, ma che catturò la vera attenzione di Kohaku solo quando cominciò a scendere verso terra, verso le braccia di protese di... Kanna.

La guardò senza parole né in gola né nella mente, la sua figura piccola e sottile avvolta dal kimono bianco ancora immacolato, i capelli bianchi che splendevano argentei, gli occhi scuri puntati dritti verso l'oggetto che le era appena ritornato tra le mani. Lo tenne alto, tuttavia, e quello emise un nuovo bagliore ancora più forte – un'ondata di pura energia che si espanse in tutte le direzioni, colpendo anche Kohaku in pieno petto, insinuandosi nei suoi muscoli, nei suoi nervi, nel suo sangue. Lui si sentì meglio all'istante, meno spossato, meno confuso, meno indolenzito malgrado tutto ciò che aveva appena passato: abbassò lo sguardo, e vide che le ferite sui suoi polsi erano state sanate, e che le macchie di sangue sul pavimento erano sparite. Vide anche le crepe sui vetri saldarsi, i mobili e gli orpelli tornare al loro posto, il lampadario diventare di nuovo stabile.

E vide Sango alzarsi a sedere senza fatica, le maniche della sua camicia integre e non più a brandelli, e soprattutto bianche, bianchissime – niente sangue. Stava bene.

Kohaku iniziò a gattonare verso di lei, per abbracciarla, per dirle che era tutto finito, quasi dimentico che tutto finito in realtà non era; ma ci pensò Kanna a ricordarglielo, chiudendo gli occhi, chinando il capo, e posizionando una mano sotto allo specchio e una sopra.

All'inizio non fu facile notare le minuscole luci che si staccavano da quella più grande, tanto quest'ultima era splendente; ma perse a poco a poco d'intensità, e l'aria si riempì di piccoli lumi alla ricerca del cuore a cui appartenevano – anime rubate e smarrite che tornavano a casa a migliaia, impalpabili e fluttuanti, e stavolta fu davvero uno spettacolo di pura armonia, che infuse in Kohaku un sentimento di serenità come aveva quasi temuto di non poter mai più provare: le persone si alzavano in piedi e ricevevano la propria luce, riacquistavano colore, gli occhi diventavano meno vitrei, attimo dopo attimo, istante dopo istante. Ben presto, anche il corpo inerte di suo padre iniziò a muoversi, e Kohaku sentì due lacrime spuntargli agli angoli degli occhi.

Ce l'aveva fatta. Li aveva salvati. Non era morto nessuno, se non i malvagi che avevano tentato una simile abiezione.

Aveva rimediato ai propri errori, ciascuno e ognuno di essi. O forse... alcuni non erano mai accaduti davvero?

Incrociò gli occhi di Kanna, mentre un lentissimo movimento ricominciava nella folla. Le sorrise, e gli parve quasi che lei sorridesse di rimando. Poi un lampo bianco gli invase la mente, e sentì uno strappo all'altezza dello stomaco; quando riaprì gli occhi, era nella camera da letto in cui Kanna l'aveva condotto quelli che sembravano secoli prima.

Lei era lì, accanto a lui, lo specchio appeso alla parete dove era stato anche prima. E c'erano anche Sango e suo padre, in piedi e confusi, ma soprattutto vivi. Kohaku li fissò, pieno di sollievo e sorridendo senza nemmeno accorgersene, benché l'uomo fosse ancora pallido e soprattutto stesse guardando Kanna con un misto di rabbia e sospetto.

– Dove sono? – domandò bruscamente, portando una mano alla pistola che era per qualche strana ragione appesa di nuovo al suo fianco, forse grazie alla magia che li aveva guariti e aveva riparato ogni cosa; per fortuna Sango, la più vicina, fu veloce a bloccarlo, anche se con gentilezza.

– Tra amici, al sicuro – gli disse, con dolcezza, e poi indicò Kanna con un sorriso – Grazie a lei.

– Ma... – cominciò subito il padre, interdetto, e la ragazza lo interruppe altrettanto in fretta.

– È un kami, sì – spiegò, condiscendente – Ma il suo aiuto è stato fondamentale. Senza, nessuno di noi sarebbe vivo.

Kohaku avrebbe potuto giurare – da un lieve fremito su quelle guance tonde e fragili – che se solo le fosse stato possibile, Kanna sarebbe arrossita: qualcosa nel suo sguardo, per quanto ancora profondo e distante, era acceso di una luce quieta, e serena, che la rendeva mille volte più umana, e più simile alla divinità che di fatto era.

Una sua mano candida indicò lo specchio, su cui c'era già scritto qualcosa.

Ringraziate lui.

Lui ha creduto in me.

Di sicuro, quando i suoi occhi scuri e grati incrociarono di nuovo i suoi, fu il turno di Kohaku a sentirsi il viso diventare un poco più caldo, e il ragazzo scosse la testa, un poco imbarazzato, per quanto riconoscente.

– No, Kanna – disse senza quasi pensare – Sei tu che hai avuto il coraggio di cambiare.

Lei lo fissò un poco più seria, quasi pensosa, ma il tossicchiare di suo padre lo distrasse.

– Tagliando corto, avrete un bel po' di cose da raccontarmi – disse l'uomo quando lui lo guardò – Ma per il momento, mi interessa solo che la nave sia al sicuro.

– Lo è – confermò Sango, salvo poi accigliarsi – Anche se magari i passeggeri saranno un po' confusi...

In suo aiuto venne lo specchio.

No. Non ricorderanno nulla.

Ho rimosso tutto quanto.

– Bene – affermò subito il padre di Kohaku, raddrizzandosi – Vado a procurarci un passaggio a terra, prima che Kodo mi ritrovi e continui le sue noiosissime chiacchiere. Lascio a voi la fine del lavoro.

Nel pronunciare quelle ultime parole, lanciò un'occhiata eloquente a Sango, che parve impallidire un poco, ma annuì. Poi l'uomo si rivolse verso Kohaku, serio, e gli fece un cenno d'approvazione con il capo.

– Ben fatto, ragazzo.

Per qualche strana ragione, il complimento non lo scalfì quasi per nulla, soppiantato dall'angoscia che lo aveva invaso a capire cosa suo padre, che più dei figli disprezzava ogni forma di creatura non umana da quando un goblin gli aveva strappato sua moglie, desiderava che facessero di lì a pochi minuti. Si sforzò tuttavia di mormorare un ringraziamento, ma fu con il cuore pesante che lo guardò uscire dalla stanza, lasciando lui, Sango e Kanna da soli.

Anche sua sorella sembrava un poco a disagio; ma una breve occhiata d'intesa che gli lanciò gli fece capire che aveva un piano.

– Cosa farai adesso, Kanna? – si rivolse infatti con dolcezza alla ragazzina, dissimulando abbastanza bene il proprio turbamento – Sei libera, in fondo.

Lei li scrutò a turno, calma, ma di nuovo un poco triste. Poi chiuse gli occhi e rimase immobile per qualche momento, prima che nuove parole apparissero sullo specchio.

Potete farlo.

È giusto che sia così.

Il cuore di Kohaku cominciò a battere con violenza. No, non poteva intendere...

– Kanna, che cosa... – tentò di replicare anche Sango, scossa, ma la fanciulla proseguì.

Grazie a voi ho fermato la crudeltà e la follia.

Il mondo mi aveva già dimenticata, e ora...

Ora non ha davvero più bisogno di me.

– Non è vero! – esclamò Kohaku, muovendole un passo incontro, sconvolto. Non lo avrebbe accettato, non dopo essere arrivato così vicino a salvarla per sempre, non dopo averla vista combattere – Non è necessario! Ti basterà vivere senza ferire nessuno, e né noi né nostro padre...

Kanna lo fissò con tale intensità che le parole gli morirono in gola.

E poi sulle sue labbra pallide comparve il sorriso più debole e sincero allo stesso tempo che Kohaku avesse mai visto.

Va bene così.

Non posso sperare di andare e tornare per sempre. Ero stanca.

Ora sono felice, anche se il mio tempo è finito.

E poi...

Infilò una mano in una piega del proprio kimono, e ne estrasse qualcosa di rosso, bianco e nero: una metà del ventaglio di Kagura, che tenne tra le dita con delicatezza, fissandola con malinconia.

Era mia sorella. Non era colpa sua.

Ho bisogno di trovarla, e di dirle che mi dispiace.

Kohaku si rese conto di aver iniziato a tremare, e che un dolore acuto gli stava trafiggendo il petto.

Non era giusto. Non lei.

Era vero che tutti i kami correvano il rischio di degenerare davvero – che Kagura e Naraku magari erano sempre stati crudeli di natura, ma che la stessa sorte poteva toccare a qualunque divinità dimenticata. Ma non poteva immaginare lei andare incontro a quel destino, era semplicemente troppo; e anche se era conscio del fatto che non sarebbe mai potuta restare al suo fianco, almeno saperla libera sarebbe stato abbastanza...

Kanna risollevò lo sguardo in direzione di Sango.

Per favore, fallo tu.

Perfino malgrado la sofferenza che gli attanagliava le viscere, e che avrebbe portato lui e chiunque altro in situazioni differenti a chiudersi nell'egoismo del proprio tormento, Kohaku riuscì a vedere il cuore di sua sorella spezzarlesi nel petto – attraverso il lampo nei suoi occhi, il fremere delle sue labbra, l'istante in cui le mancò il respiro, le mani che le si strinsero a pugno, il suo accennare un passo indietro come a volersi ritrarre; ma alla fine rimase dov'era, benché i suoi lineamenti fossero irrigiditi da un dolore che Kohaku ben capiva, e che lo fece soltanto stare peggio. Lo guardò, e lui capì che gli stava chiedendo un aiuto che non era in grado di darle.

Passarono mille secondi in pochi ticchettii d'orologio in un silenzio rotto dai loro respiri, che tremavano mentre loro cercavano di resistere contro il fato.

Ma alla fine, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime, Sango afferrò la pistola e la estrasse, e Kohaku capì che era finita. Che non c'era scelta.

– Sei sicura? – chiese la ragazza, la voce rotta malgrado il suo chiaro tentativo di mantenerla ferma, la testa alta, l'espressione spezzata e risoluta di chi accetta un sacrificio.

Kanna annuì.

– No... – gemette Kohaku, andandole incontro, ma bloccandosi per l'ennesima volta sotto al suo sguardo che parlava dei secoli di freddo e solitudine che un cuore gentile era stato costretto a patire. Ma non c'era più paragone con quello della prima volta in cui l'aveva vista, e questo rendeva il tutto soltanto più amaro, più ingiusto, più insopportabile.

Kanna colmò la distanza tra di loro, e prima che lui potesse fare nulla, gli prese il volto tra le mani. Erano fresche e tiepide, delicate come il poggiarsi di un fiocco di neve sulla terra, e lei profumava d'aria fresca, di zucchero, di nuvole – come aveva fatto a non notarlo prima? Lo guardò, e Kohaku batté le palpebre perché le lacrime cadessero e l'ultima vista di lei non fosse sfuocata, ma limpida e tersa come il tocco del suo respiro. Le piccole dita di lei si bagnarono di quelle gocce mentre Kanna si sporgeva in avanti, appoggiando le labbra sulle sue.

Kohaku chiuse gli occhi, sfiorò con una mano la stoffa del suo kimono, si sforzò di non pensare anche solo per un attimo all'idea di perderla, e di accettare quel bacio tenero e casto con una gioia che andasse oltre la sua sofferenza; ma quando finì seppe che non era stato abbastanza, maledì se stesso, ma ricacciò indietro un singhiozzo.

Kanna gli rimase vicino solo per i pochi secondi che le servirono per sussurrare, in una sottile voce simile a quella del luccicare del ghiaccio, un'unica parola.

Grazie.

Kohaku versò nuove lacrime, fissandola negli occhi, scuotendo la testa – implorandola per l'ultima volta di non farlo. Ma lei si ritrasse, senza sorridere e senza mostrare paura; si allontanò di qualche passo, si fermò, abbassò il capo. Attese.

E Sango singhiozzava, quando premette il grilletto.

Lo sparo non ferì il silenzio più dell'infrangersi dello specchio. Mille crepe sottili quanto fili di ragnatela si diramarono sulla superficie scintillante, e quando Kohaku vide che la stessa sorte stava toccando al volto di Kanna e al suo corpo distolse lo sguardo, senza riuscire a sopportare per un momento di più.

Ci fu un lampo bianco come neve, e poi più nulla.

Kohaku strinse le braccia sul petto, più forte che poté, come a sperare che questo potesse in qualche modo contenere il dolore che stava minacciando di spezzarlo da dentro; nello sforzarsi per non chinarsi su se stesso, per non prostrarsi nella sofferenza, incrociò gli occhi di Sango, rossi di pianto – vide il trucco colato lungo le sue guance, le sue labbra gonfie, la pistola caduta a terra.

– Mi dispiace – gli mormorò, la voce incrinata, tendendo un braccio verso di lui – Mi dispiace così tanto...

Kohaku non aveva fiato né volontà per risponderle, ma se c'era una sola cosa che sapeva era che non era stata colpa sua, né di suo padre, né di Naraku, né del destino.

Non era stata colpa di nessuno. Era la vita. Solo che...

Non aveva mai fatto così male, si disse, mentre senza una parola si avvicinava a Sango e la accoglieva in un abbraccio, piangendo un po' sul suo petto, e accarezzandole i capelli mentre lei singhiozzava sulla sua spalla.

E così rimasero fino a quando non fu il momento di andare.

 

***

 

I fuochi d'artificio scoppiettavano ancora nel cielo nero come pece, quando Kohaku avanzò lungo il molo per raggiungere Sango, seduta alla sua estremità. Da dietro vedeva solo la sua coda di cavallo e il cappuccio del suo giaccone mimetico, ma era già un'immagine molto più familiare rispetto ai vestiti formali che si erano tolti di dosso non appena giunti alla minuscola stanza di motel che li avrebbe ospitati per la notte e in cui suo padre stava riposando. Perfino il suono dei propri comodi scarponi sul legno era piacevole, dopo tanto rumore di tacchi e passi di danza.

Arrivato da Sango, si sedette al suo fianco, lasciando le gambe oscillare al di sopra delle onde d'inchiostro. Lei tirò su col naso prima di girarsi a guardarlo, gli occhi ancora un po' rossi, ma con un tiepido sorriso.

E Kohaku tirò fuori da sotto il proprio cappotto un apribottiglie e un paio di birre.

– Ti va? – chiese alla sorella, porgendogliene una, e lei sgranò gli occhi, stupita. Non era difficile capire perché: lui aveva sempre detestato l'alcol, oltre a sentirsi in colpa per il fatto che non aveva l'età minima consentita dalla legge per berlo. D'altra parte, il rispetto delle autorità era quasi una barzelletta per loro, che avevano una decina di documenti e distintivi falsi a testa e ogni settimana facevano qualcosa che avrebbe spedito chiunque altro in prigione; quindi, meglio smettere di preoccuparsi, e lasciare che un saporaccio desse una scossa ai suoi pensieri troppo tristi.

Sango parve capire qualcosa di tutto questo dal suo sguardo, perché alla fine sorrise, e accettò la bottiglia.

– Immagino che il mio fratellino stia proprio crescendo – commentò aprendola, in un tono un po' più vivo di quello che aveva avuto da quando Kanna era morta.

– Tocca a tutti – le rispose, accettando l'apribottiglie che gli veniva offerto – Non ho nemmeno mai creduto a Babbo Natale, se è per questo.

– Con la nostra fortuna, se esiste è un pazzoide omicida – replicò Sango, con amara ironia.

Riuscì a strappargli lo sbuffo di una risata. A sentirlo, anche lei ridacchiò. E andò a finire che continuarono così per un pezzo, scaricando un poca di tutta la tensione che ristagnava nei loro petti, senza riuscire a smettere; quando finalmente ripresero il controllo, Sango si lasciò andare a un lungo sospiro.

– Babbo Natale o no – disse, tenendo lo sguardo basso – Ti prometto che il prossimo Natale sarà migliore.

Kohaku rimase in silenzio per qualche secondo, prima di decidere di rispondere.

– Senza offesa, ma ne dubito – disse alzando le spalle – Ma va bene così.

– Non sono davvero sicura che vada bene, Kohaku.

Ci fu un'altra pausa. La nave era tutto un luccicare perfino da quella distanza.

– Mi basta solo che non sia per sempre.

Sango si voltò a fissarlo, seria, e Kohaku lesse l'esitazione nel suo sguardo, e un'amara verità.

Sapevano entrambi quanto pochi fossero i cacciatori che riuscivano a ritirarsi dalla vita, senza che essa li richiamasse a sé – perché non si poteva ignorare un titolo di giornale con una morte sospetta senza sentirsi in dovere di evitarne altre; e c'era il brivido del pericolo, per alcuni una vera e propria droga, e molto altro, da considerare.

Ma Kohaku non riteneva stupido sperare, almeno un poco. Era, alla fin fine, l'unico pensiero che nessuno sarebbe mai riuscito a cancellare dal suo cuore: poteva essere felice. Aveva la propria famiglia con sé, e magari un giorno sarebbe riuscito a crearne una propria. Ma al momento era più facile non pensarci, e godersi l'aria fresca sulla pelle, il profumo del mare, e lo spettacolo di bagliori dorati che la festa scagliava nel cielo.

Dalla sua espressione, Sango dovette capire che era meglio lasciare cadere l'argomento, almeno per quella volta.

– In ogni caso, abbiamo questa nostra festa tardiva – disse, sollevando la bottiglia di birra nell'atto di proporre un brindisi – Buon Natale, Kohaku.

Lui guardò il cielo, pensando a due occhi profondi come i flutti e distanti come l'orizzonte. E proprio in quel momento, un fiocco di neve gli si posò sulla fronte, benché non ci fosse una nube.

Sospirò, e chiuse gli occhi.

– Buon Natale – sussurrò.

 
   
 
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