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Autore: Ciel Shieru Chan    17/12/2016    0 recensioni
I più famosi personaggi della Disney, e non solo, sono costretti ad uscire dal loro dorato mondo di sogni e desideri, per affrontare la dura realtà del regno delle favole.
Essere principi e principesse non comporta solo bellezza, eroismo, balli e abiti fantastici, cavalli bianchi e vero amore.
Il prezzo del potere esige di essere pagato.
Decisioni drastiche, guerre e priorità che rasentano il limite tra bene e male devono essere prese per la salvezza di vite e di reami e ben presto si renderanno conto che draghi sputafuoco, mele avvelenate, matrigne malvagie, streghe e stregoni erano solo l'inizio.
Perchè il vero nemico si nasconde in loro stessi.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Vennero a svegliarla talmente presto che dovettero usare delle candele poiché, nonostante fosse quasi estate e le giornate si fossero notevolmente allungate, il sole non si era ancora levato all’orizzonte.
A differenza dello sposo, che avrebbe avuto il privilegio di dormire ancora per un bel po’, lei aveva l’obbligo di dedicare un’accoratissima attenzione nei confronti della sua stessa presentabilità, che doveva essere impeccabile, perfetta per il più importante avvenimento della sua vita, al di là del quale sarebbe tramontata la considerazione altrui nei suoi confronti, in quanto donna e in qualità di principessa, o regina, non contava poi tanto, difatti.
Con lo sguardo ancora appannato dalla stanchezza, poté constatare un piccolo esercito di ancelle e servette che, assieme a una dozzina delle sue dame, fece irruzione nella stanza.
Entrarono, dietro di loro, metri e metri delle stoffe più pregiate, di color bianco, crema, avorio, dorato e argentato, assieme a piccoli scrigni pieni di gioielli su vassoi d’ottone, fiale ed ampolle di vetri colorati e minuscole etichette, pesanti brocche piene di latte caldo, spatole e conchiglie colme di creme e polveri di ogni colore e odore, baccelli, semi e rametti di piante profumate ed ancora uova, mandorle e limoni, barattoli e recipienti di vetro e ferro tappati con il sughero, pieni dei più strani ingredienti.
Alcune delle sue ancelle la accompagnarono, prendendola per mano con fare allegro, fino alla stanza da bagno, dove la grande tinozza di diafana ceramica fumava di acqua bollente.
Si potevano udire flebili risatine, sussurri maliziosi ed occhiate fulminee in quel piccolo universo di condizioni femminili.
Aurora, che viveva la situazione esterna come un’estranea prigioniera in un corpo che non le appartiene più veramente, non avrebbe saputo dire se ridevano per lei ed il suo matrimonio o di lei e la sua sventura.
Mentre alcune serve si avvicinarono e le sfilarono la camicia da notte, con la delicatezza di chi maneggia una bambola di porcellana e con la crudeltà di chi lascia una bambina innocente nuda ed imbarazzata a tentare di nascondere le proprie grazie.
Ne entrarono altre, con delle bende e dei panni bianchi lievemente umidi, con i quali venne quasi totalmente avvolta, dal viso al dorso dei piedi.
Anche, con sua estrema vergogna, nei punti che si era impegnata a celare.
Altre ancora irruppero con dei cesti pieni di pietre nere fumanti, che misero nella piccola stufa, anch’essa nera, che spiccava come un lampo nella fredda stanza marmorea.
Versarono sopra altra acqua calda, creando una vorticosa nuvola opaca di vapore che pervase l’atmosfera e appannò gli occhi e le pareti.
La condussero, poi, tutte insieme, verso la stufa, per lasciarla sedere con estrema delicatezza, come fosse una piccola rosa da trapiantare...sì…nel giardino d’un altro uomo, però.
Prese un respiro profondo.
Per quanto la mancanza d’aria glielo permise.
Seduta lì si sentiva stranamente al sicuro, cosparsa da un calore sereno, intimo, quasi materno, circondata da morbide figure femminili sfocate, ondeggianti tutt’intorno a lei.
Tuttavia, già dopo pochi secondi, cominciò ad ansimare in cerca di ossigeno e successivamente anche a sudare ampiamente da ogni singola parte del corpo.
Le bende si fecero via via sempre più appiccicose, fastidiose e pesanti.
Più sudava, più aderivano alla sua pelle bagnata e più aderivano, più lei sudava e quindi si bagnava.
Dopo una decina di minuti, che le parvero spiacevolmente infiniti, le ancelle la aiutarono ad alzarsi con altrettanta delicatezza ed attenzione.
Rimossero le bende fradice come se sfilassero via una seconda pelle e la aiutarono ad entrare nel catino che, pieno fino all’orlo, straboccò lievemente sul pavimento bianco di lisce piastrelle perfettamente incastrate.
Aurora vi si immerse completamente, scivolando sulla superficie ovale del fondo.
I capelli le fluttuavano a galla come alghe dorate dal sole.
Immobile com’era, sembrava un’esile farfalla incastonata nell’ambra.
Quella sensazione di rinnovata protezione, la riportò ad un ancestrale stato di percezione quasi fetale.
L’acqua calda, la superficie liscia, il totale silenzio, solo i battiti del suo cuore che, inesorabilmente, rallentavano sempre di più.
Aprì a fatica gli occhi sotto la superficie.
D’altronde oramai era abituata ad averli pieni e bagnati.
Guardò verso l’alto, senza osservare nulla in particolare.
Ai margini fumosi, quelle stesse figure che, se prima le erano parse amichevoli, ora si estendevano tremule e minacciose oltre il pelo dell’acqua.
La beata solitudine, che le donava quella sensazione quasi sovrannaturale di sola beatitudine, iniziò a scomporsi quando il corpo e tutti i suoi istinti si ribellarono ciecamente nel tentativo di tornare a riacquistare l’aria esterna
Quando riemerse respirando pesantemente si fiondarono tutte all’unisono su di lei e si occuparono di lavarla, cospargendola e sfregando, con la massima cura, farina di fave e diversi oli d’oliva e d’alloro.
Quando ebbero terminato la aiutarono ad uscire, avvolgendola nuovamente con un grande telo bianco di lino, mentre la spuma scivolava fuori dal catino come strati di nembi.
Quando ancora era umida e gocciolante, passarono alla cura del corpo, uscendo dalla stanza decisamente accaldata ed entrando in una sala rettangolare di minori dimensioni, allestita appositamente con cassettoni e tolette adorne di specchi, oltre che tavoli ove poggiare i recipienti.
La fecero stendere su di uno scomodo triclinio di legno, sprovvisto di cuscini.
Si appoggiò contro il duro schienale e si distese, stendendo il braccio per coprire il pube con il polso e la mano.
Le spalmarono con cura sulle gambe una crema viscosa dall’odore assolutamente nauseante.
Distolse lo sguardo, voltandosi alla ricerca di aria libera di quel puzzo.
Una delle dame più anziane, rugosa come corteccia di quercia, tutta vestita di grigio con un grembiule ed una cuffia con il velo che le copriva i capelli, dando per scontato che ne avesse ancora, si avvicinò armeggiando una grossa spatola di legno e vetro.
La principessa si ritrasse, intimorita dallo strumento, comunque meno minaccioso di quello sguardo severo e imperscrutabile tralasciato dalle vuote pupille nere, attorniate da quella ragnatela di grinze.
Iniziò a strofinarla ripetutamente sulla pelle ricoperta di crema, per levigarla e renderla di velluto, provvedendo ad eliminare ogni pelo superfluo.
Fortunatamente i pochi peli che aveva erano chiari e sottili e vennero via con estrema facilità, ma si sorprese comunque della maestria e della sapienza con cui lavorò la donna, decisa e delicata insieme, che concluse il lavoro dopo due sole passate per gamba, senza proferir parola.
Non era scontato neppure che avesse i denti.
Venne risciacquata con acqua gelida ed asciugata ancora, per essere poi condotta ad un tavolino per la toletta.
Particolare attenzione doveva essere riservata alla pelle del viso ed ai capelli, i veri punti di forza del fascino e della celata sensualità femminile.
Tra gli altri materiali sul bancone riconobbe diverse polveri, di antimonio e di nerofumo, foglie di salvia, di lavanda e steli di rosmarino, del succo di limone e diverse uova.
Spuntarono due visi nuovi, anch’essi muniti di cuffia velata che, nonostante la giovine età, si occuparono di affinare ed assottigliare le sue sopracciglia.
Non che ci fosse poi molto da fare anche in questo caso, ma la perfezione non ha limiti e la fronte spaziosa andava particolarmente di moda in quel momento.
Spesso si fermavano ed annuivano l’una all’altra, per controllare che venissero uguali e, talvolta, si invertivano di posto.
Una quarta serva, corpulenta, dal volto sgraziato e lo sguardo truce, poggiò pesantemente una piccola tinozza di legno piena d’acqua sul mobile, di fronte a lei, schizzando lievemente.
Le altre la fulminarono simultaneamente per il rumore e quella arrossì, scoprendo i pochi denti gialli, con un’espressione talmente innocente ed imbarazzata che si dovette ricredere.
Un’altra dama si era occupata di spaccare le uova e riversarne tuorlo e albume in una bacinella.
Aurora si chiese a cosa potessero servire, ma si accorse che erano i gusci, quelli che non vennero buttati via.
Così, per la pulizia dei denti, usarono una mistura di polvere di corna di cervo con i gusci triturati nell’acqua fredda, che li fece apparire ancor più bianchi di prima.
Addirittura dotati di luce propria, paragonati alla scarsa illuminazione del mattino che solo ora cominciava a filtrare dalle finestre.
Per poi detergerle la pelle del volto, dopo averla aiutata a stendersi, usarono tre dei boccali pieni di latte, con speciali spugne a base di pane fresco.
Mentre percepiva le gocce di latte scivolarle sulla pelle, dalle gote ai lobi delle orecchie, dal mento lungo il collo, osservava altre due donne, che l’avevano precedentemente svegliata, che le tamponavano il volto con delicatezza, pensando quanta ironia vi fosse nel fatto che la gente patisse la fame duranti i disordini, ormai quotidiani, quando solo per lei venivano sprecati pane, latte e uova semplicemente per bellezza.
Non poté rimuginarvi sopra, poiché la sua attenzione venne pervasa dal dolce aroma che regalava l'affascinante acqua di rose, altro prodotto base per la pulizia del viso e del collo, recentemente scoperto, che giungeva dai mercanti della lontana Agrabah.
Qualche minuto dopo, il tempo necessario per non bagnare eccessivamente la pelle, venne invitata ad alzarsi.
Avvolta in un telo di lino più asciutto, venne fatta sedere innanzi ad uno strano mobile di legno che era composto da due metà piene di cassetti, unite nel mezzo da uno specchio che la rifletteva dalla testa alle ginocchia.
Sistemarono un catino su uno sgabello e lasciarono che i capelli ancora gocciolanti vi si posassero sull’orlo.
Vennero mescolate diverse sostanze vegetali con della polvere giallognola, che era zolfo.
Le venne massaggiato il cuoio capelluto con acquavite e detergenti di ogni tipo, profumo e provenienza.
Tornava ad essere estremamente piacevole il tocco sapiente di mani esperte sulla nuca, mentre i capelli le venivano pettinati, spazzolati ed arricciati e, per aumentarne ancora di più la lunghezza, vennero usati dei particolari toupet, di un colore simile al suo, che non avrebbe fatto la differenza, sotto al velo.
Chiuse gli occhi, sul punto di addormentarsi di nuovo, perché questo trattamento la rilassava a tal punto da farle dimenticare tutti i brutti pensieri, che erano oramai gli unici ad infestarle la mente, come fantasmi in un maniero maledetto.
Ma, ancora una volta, venne costretta a ridestarsi da sé, per proseguire con il minuzioso percorso destinatole.
Per quello che le dame chiamavo “maquillage”, invece, gli ingredienti basilari erano il rossetto e la crema, fatta di un intruglio di aceto e miele che conferiva all’incarnato un colore bianco ed opaco insieme, simile a quello di un confetto.
Dopo che il telo venne sostituito con una stretta sottoveste di delicato chiffon semitrasparente, la fecero nuovamente sedere ad una toletta, per truccarla.
Usarono, per gli occhi, due polveri nerissime, il carboncino d’antimonio e il nerofumo, che le donarono profondità ed espressione…sebbene non fosse un’espressione felice.
Altri cosmetici erano, poi, lo zafferano, che diede vivacità alle gote, la polvere di mandorle e le ali d’api che le donarono un effetto di fatata brillantezza.
Mentre poteva ammirarsi allo specchio, in tutto lo splendore reso perfetto dal piedistallo della sua già sorprendente bellezza naturale, l’ansia tornò a stringerla nella sua insostenibile morsa.
Fu il turno delle damigelle vere e proprie, che fecero la loro apparizione nella saletta, vestite tutte uguali per la cerimonia, con lunghe gonne rosa e corpetti porpora dalle scollature ampie e le maniche trasparenti, che lasciavano trasparire, agli sguardi più maliziosi, le nivee braccia e le innocenti, piccole spalle, con i capelli scoperti, ma legati ed acconciati in code e boccoli spirali, adornati con nastri rossi.
La strapparono a quel povero mondo di caricature umane, per portarla di nuovo nella stanza da letto, illuminata dalla flebile luce del primo sole.
Venne fatta salire su di uno sgabello di legno, mentre nacquero piccole lacrime, dal sapore di note perdute da un’amara melodia.
Davanti a lei venne scoperta la sua armatura.
La sua candida condanna a vita, più preziosa dell’oro, più pesante della promessa a cui sarebbe stata vincolata, più opprimente della prossima prigione.
L’abito da sposa.
Nel suo insieme, risultava grandioso, mentre, pezzo per pezzo, veniva smontato per essere riassemblato intorno a lei.
Per primo il corpetto, che copriva la stretta sottoveste, era di colore bianco latte, con perle cucite lungo tutto l’orlo della scollatura circolare, realizzata a pizzi, merletti e complessi ricami che andavano intrecciandosi e sovrapponendosi gli uni agli altri, lasciando scoperte le spalle ed il petto.
Attaccate alla scollatura due piccole spalline a sbuffo, anch’esse di chiffon, non troppo appariscenti, subito bloccate a metà del braccio da due bracciali d’argento tempestati di perle, da cui si sviluppavano, fin quasi a terra, due lunghe sovra-maniche pendenti aperte, decorate con cuciture e ricamate, che lasciavano intravedere le due maniche della sottoveste, aderenti al braccio fino al polso, dal quale si protraevano coprendo parzialmente il dorso di ogni mano fino al dito medio, dove terminavano unendosi ad un anello d’oro.
Era un’alternativa molto in voga ai veri e propri guanti, al momento.
Sul ventre era ricamata, sempre in oro, la rosa di Neustria, simbolo del re e del reame, tempestata di piccole perle e altre pietre bianche, da cui si diramava tutta una serie di decorazioni floreali in damascato che le adornavano il retro.
Sulla vita il corpetto terminava con la consueta forma a “V”, con una sottile bordatura di ermellino bianco che, sul davanti, pendeva con un laccio fino a sfiorare il terreno, lasciando spazio all’ampia, lunghissima gonna in seta color bianco ed avorio, decorata con broccato in filo d’oro e d’argento ed ancora bordata d’ermellino sul margine, con un pesante strascico che si stendeva per diversi metri.
I capelli, agghindati con fiori di biancospino, le vennero raccolti sulla nuca, fissati da una spilla, in oro e rubini, raffigurante la rosa regale, vessillo della famiglia, oltre che da una retina quasi invisibile e da una piccola tiara in argento decorato, tempestata di pietre preziose, posta quasi sull’attaccatura dei capelli, a cui era a sua volta legato un lungo velo di lino candido e organza, che adombrava i lunghi capelli -e i toupet- cadenti in boccoli d’oro, riempiti di nastri e collane, e superava grandemente, in lunghezza, lo strascico dell’abito, raggiungendo un’estensione notevole.
Al collo venne posato uno stretto girocollo d’argento e, sul petto, un prezioso diadema, sempre d’argento, incastonato di zaffiri e pietre preziose, simile alla tiara che portava sul capo.
Entrambi splendevano più che mai sulla sua pelle perlacea.
Si guardò ancora una volta allo specchio.
Bellissima, nobile, irraggiungibile.
Quell’immagine le sarebbe rimasta impressa per tutta la vita.
Da quel momento ogni cosa si fece sempre più veloce e distaccata tutt’intorno a lei.
Le ragazze ridevano e danzavano volteggiandole attorno, spandendo petali di rose bianche, in segno di buon auspicio.
Cercò di fare un passo per scendere dal gradino, ma inciampò ed urtò un’ancella, che cercò di sorreggerla, mentre le altre accorrevano in suo aiuto.
Il suo respiro si faceva sempre più affannoso, il calore asfissiante, mentre le cose si sforzavano di andare bene anche senza il suo consenso.
Cercò di liberarsi da quegli insopportabili rametti rinsecchiti che cercavano di tirarla su ripetendo ‘Principessa!’ come delle povere ossesse, ma si sentiva debole, incapace.
Si voltò alla ricerca di qualcuno di familiare.
Qualcuno che non era lì.
Qualcuno che, quel suo abito splendente, non avrebbe mai potuto ammirarlo.
Scombussolata, si tirò su guardando le punte delle scarpe allontanarsi, ma si accorse che non aveva fatto nulla da sola, poiché Febo la reggeva saldamente a sé, sorridendole dolcemente.
Il suo volto, a pochi centimetri da lei, era la cosa più dolce che avesse visto da quando, ore fa, la presero per violare il suo destino.
La barbetta era scomparsa, rivelando una fossetta sul mento, che lo faceva apparire comunque più giovane.
Si separò da lui, ringraziandolo sotto voce, tra sé e sé in realtà, sotto gli sguardi imbarazzati delle presenti.
Nella sua armatura dorata, con il consueto mantello blu sostituito da uno bianco lungo fino a terra, le porse il braccio per scortarla fuori, giù per le scale, fino alla carrozza.
Quello sguardo sicuro, devoto, amichevole, quasi fraterno, la tranquillizzò, ancora una volta, in quel continuo mutamento di emozioni contrastanti.
 
La carrozza, tutta rigorosamente dorata, splendeva nella sua meravigliosa statura, impreziosita da nastri e ghirlande di fiori, che ruotavano sul telaio ed attorno ai raggi delle immense ruote.
La madre l’attendeva a braccia aperte, innanzi ad essa, attorniata da una dozzina di cavalieri.
La regina Leah portava alla testa un elegante mazzocchio nero, decorato a strisce con perle e seta bianca, all’interno del quale si ergeva una piccola corona d’oro a punte, simbolo della sua posizione di sovrana madre del regno.
Dal complesso copricapo si protraeva un corto velo di raso nero decorato con un elegante pizzo sovrastante, che le copriva i capelli, soffermandosi fino a alle scapole, in segno di lutto per la perdita del marito.
L’ampia scollatura quadrata bordata d’oro, del corpetto nero, lasciava spazio ad una camicia di seta blu che le copriva il petto fino al collo, impreziosito da una semplice collana di perle nere.
Alla vita vi era una cinghia dorata, decorata e sapientemente ricamata, che tuttavia appariva agli occhi come una saetta, circondata com’era dall’ampia gonna color blu cobalto, in damascato decorato con merletti neri sul corto strascico che la seguiva.
Si avvicinò a lei, intimorita.
La donna le sorrise e la abbracciò accarezzandole i capelli, senza dire nulla.
Aurora chiuse gli occhi.
Ormai non c’era più spazio per le lacrime, non c’era più niente.
Senza aggiungere altro all’apprensivo colloquio visivo, la donna fece cenno ad un lacchè in livrea che, dopo aver aperto loro il portello, diede ordine a sua volta agli staffieri ed al cocchiere, che si posizionarono, mentre madre, figlia ed un paio di dame salivano sulla cassa.
Le restanti ancelle le seguivano, in due file, formando un fastoso, limpido corteo, mentre reggevano due ghirlande, una per lato, legate al cocchio, succedute poi dalla scorta, dove si trovava Febo stesso.
I massicci portoni di legno vennero spalancati e il fragoroso boato della folla in festa pervase l’aria mattutina.
I cavalli bardati partirono al trotto uscendo fuori dal complesso interno, per entrare nella vasta piazza circondata dalle alte mura esteriori della gigantesca fortezza, dov’era eccezionalmente concesso al popolo minuto di festare al passaggio di Sua Grazia.
Uomini e donne, bambini, contadini, artigiani, artisti, musici, mercanti, ma anche cavalieri, dame, nobili, ambasciatori e digniatri…
Riempivano tutto lo spazio disponibile, affacciati dai ballatoi e dalle bifore delle mura, dai balconi e dalle finestre, poggiati alle fontane zampillanti d’acqua cristallina, sul ponte che sovrastava il fossato e ovunque vi fosse posto, agitando fazzoletti e festoni, lanciando fiori ed inneggiando alla loro amata principessa.
Era stato lasciato libero solo un corridoio, circondato da due file di soldati allineati muniti di alabarde, che, in linea retta, divideva lo spiazzo in due parti ed avrebbe permesso il breve viaggio della processione verso la celebrazione vera e propria, nella grandissima basilica.
Le due ali della calca erano aperte attorno ad esso, ammassate per vedere meglio.
Aurora osservava sua madre che agitava la mano con grazia verso il suo popolo, ma non fece altrettanto, limitandosi ad osservare le mille facce differenti che scorrevano l’una dietro l’altra lentamente, siccome procedevano a passo d’uomo, mentre le auguravano felicità, salute, fertilità ed ogni altro bene, sorridendole, piangendo contente, intente ad ammirarla come una dea, vivendo questo giorno come fosse la loro figlia, la figlia di tutto il regno.
Diversi minuti dopo, giunti innanzi al tempio, il lacchè aprì la portiera e porse la mano alla regina, che scese salutando, un po’ intimidita.
Dall’interno, Aurora vide l’abito blu della madre scostarsi e la mano dello staffiere protendersi verso di lei.
Indecisa, tremante d’agitazione, sotto gli sguardi incitanti delle indesiderate accompagnatrici, vi poggiò appena appena la propria e si sentì trascinata con estrema delicatezza verso l’esterno.
Rimase abbagliata dalla luce splendente che la colpì in volto tanto che dovette chiudere gli occhi.
E rimasero abbagliati tutti i presenti, nel vedere quella sposa d’oro e di bianco vestita, mentre le ancelle si preoccupavano di raccoglierle il velo, ammassato all’interno.
Aurora si voltò e rimase ancora meravigliata per l’edificio che, di fronte a lei, si innalzava torreggiando verso l’alto dei cieli.
Gli altissimi contrafforti sulla facciata, interamente decorati con bassorilievi e figure geometriche ed incastonati con nicchie contenenti statue marmoree, si elevavano ad archi rampanti che parevano volare, mentre si sovrastavano gli uni agli altri fino a tornare perpendicolari alle altissime pareti decorate a cui si riunivano sbocciando in elaboratissimi pinnacoli e guglie.
I tre grandi portali strombati a sesto acuto erano tutti spalancati e lei entrò da quello centrale, il più grande, il più alto ed il più importante.
Passandovi sotto fu circondata dal tenue colore rosato riflesso dalla muratura di granito.
La lunetta sopra l'architrave, che rappresentava un giovane cavaliere trafiggere un drago, le riportò alla mente Filippo, mentre una lacrima leggera le calò dal volto, dal sapore di amara delusione e rassegnato sconforto.
L'arco era contenuto tra due lesene scanalate e lo spazio superiore era arricchito da due grandi losanghe, all'interno delle quali alloggiavano due bellissime rose di pietra.
Gli interstizi tra le colonne dell'arco erano ornati da figure che rappresentavano arti e mestieri e, lungo tutta la superficie, da figure immaginarie e mostruose, tra fiori e foglie.
Le eleganti colonnine nelle strombature, decorate con con ghirlande ed edera di pietra, si univano formando un armonioso ed elevato arco acuto, sotto il quale lei passò.
Una volta entrata l’effetto visivo fu quasi opposto e le ci vollero diversi secondi per abituarsi all’ambiente, luminoso, ma comunque molto meno rispetto all’esterno.
Guardava fissa davanti a sé, senza osservare nulla in particolare, aspettando.
Mosse un lieve passo incerto, ma si fermò.
Si voltò alla ricerca di sua madre o di un qualsiasi assenso.
Dietro di lei vi erano otto damigelle a reggerle il velo, quattro per lato, seguite dalla regina Leah, poi dalle altre sei ancelle ed infine Febo e altri due uomini.
La sovrana, che continuava a sorriderle, fece un imperscrutabile movimento con le dita, in segno di procedere.
Improvvisamente le trombe annunciarono, suonando solenni, la sua entrata.
Osservata da ogni singolo ospite, che si voltò verso di lei.
Accecata, assordata, fece un secondo passo, poi un terzo, un quarto, un quinto…finché non le sembrò naturale e smise di contare.
Guardava intimorita verso il basso, il pavimento di marmo che costituiva un intricato labirinto tra le mattonelle più scure e quelle più chiare, ma si rese immediatamente conto che, così facendo, trasgrediva l’etichetta, così tentò di sollevare il mento e darsi un’espressione almeno dignitosa, se non felice, come le avevano insegnato.
All’interno, i pilastri a fascio, che sembravano innalzarsi fino al cielo, aprivano le nervature dei costoloni sulle altissime volte a ventaglio che chiudevano il soffitto di pietra nell’immensa navata centrale.
I mille colori della luce arcobaleno che entrava dalle altissime finestre polifore con i rosoni dai decorati vetri policromi, raffiguranti immagini di ogni sorta, occupavano quasi ininterrottamente il cleristorio, divise solo dalle esili lesene, fino all’abside, attorno alla quale giravano.
Dal triforio sottostante, sopra le navate laterali, decine di ospiti erano affacciati alle alte loggette, comunque in numero esiguo, rispetto agli invitati seduti ai banchi di pregiato legno scuro, lungo tutta la navata principale e quelle laterali, dove si trovavano in piedi, con gli occhi puntati unicamente su di lei.
Tutti con indosso pomposi e superbi abiti dalle fogge rare e pregiate, ornati con pellicce, ermellini, sete colorate, pietre preziose, drappi d’oro e stemmi bardati.
Tutti nella maniacale ricerca di apparire ricchi, potenti ed influenti, con calzebrache quartate in colori accesi ed allegri, giubbe ricamate, guanti ingioiellati e merlettati, borzacchini di fine cordovano e scarpe col tacco, parrucche e ventagli in piume grigie o fastosamente decorate.
Regnava la musica, poiché nemmeno le dame più frivole potevano permettersi di deridere quella visione d’incanto.
Man mano che si avvicinava, notò che l’ambulacro retrostante l’altare era popolato dagli alti prelati di tutto il reame che parevano ammuffiti sulle loro ricchissime panche pregevolmente intarsiate le quali, disposte a semicerchio seguendo l’abside, su tre livelli di altezza, sembravano più un tribunale dell’inquisizione, che un sacro coro.
Ma non erano loro ad aver catturato il suo sguardo.
Era colui che stava eretto davanti a loro e, dandogli le spalle, guardava proprio lei.
Il suo promesso.
Salì i due gradini che la portarono sul fianco sinistro del ragazzo.
Era bello, proprio come doveva essere un principe.
Con il naso dal profilo diritto, leggermente affilato e le labbra carnose, il mento e la mascella pronunciati, ma non sporgenti, era perfetto.
Dal suo abito, due grandi maniche a sbuffo sulle spalle, costituite da strisce di tessuto damascato color rosso e porpora e di velluto nero, rifinite e decorate con filo d’oro, che si alternavano senza unirsi tra di loro, da cui spuntava il color avorio della camicia di lino sottostante, come una vaporosa nuvola estiva.
La maglia colorata era coperta da uno stretto gilet attillato di pelle, nero a scaglie argentate, con due spalline in metallo rifinito che sovrastavano le ampie maniche sottostanti.
Dal colletto alto e rettangolare, che in parte adombrava quel tanto discusso codino, si stendeva un candido plastron bianco che gli illuminava il volto, puntato con una perla.
Una fascia rossa e oro, decorata con fili d’argento e broccato in disegni di gigli e rose incorniciava il tutto, e, dalla spalla destra, si univa, sul fianco sinistro, al cinturone posto alla vita, che lo faceva apparire ancora più aitante, con i fianchi stretti e il dorso largo, il sogno di ogni principessa.
Portava un paio di guanti di pelle, anch’essi neri, decorati in un ricamo rosso e oro che, sul polso si allargavano fino a metà dell’avanbraccio e che, per certi versi, ricordavano quelli di un falconiere.
Alle dita portava diversi anelli, uno d’oro con rubini sull’indice destro, uno d’argento e ferro sul medio sinistro, mentre l’anulare della stessa mano era libero per essere occupato dalla fede nuziale.
I pantaloni grigio scuri a bande ricamate, aderenti alla pelle, erano coperti, dal ginocchio in giù, da due alti stivali lucidi e nerissimi, in pelle e cuoio, che si concludevano con un risvolto in feltro adornato da un rubino sul ginocchio.
Un lungo mantello rosso bordato d’ermellino, dall’imbottitura metallica sulle spalle, gli scivolava con maestà lungo gli scalini.
Alla testa, la corona ducale d’oro, incastonata alla base con rubini, alternati a zaffiri da decorazioni bronzee e incisioni nel metallo, sormontata, poi, da otto fioroni sostenuti da punte, ed alternati da otto perle bianchissime.
I due si guardarono negli occhi per un attimo infinito.
L’oratore si erse dall’altare e, dorato nella sua ricchissima casula, incoronato con la mitria, anch’essa di pregiatissima fattura, allargò le braccia in un abbraccio metaforico ed iniziò la celebrazione.
 
Seduto su una panca in quarta fila, dal lato della sposa, affacciato verso il centro, Frollo assisteva attento alla cerimonia, ripetendo a bassa voce tutte le formule religiose pronunciate dall’uomo.
Vestiva una tonaca di seta e raso lunga fino alle caviglie, nera a strisce grigie verticali, con le falde foderate in pelliccia di marmotta.
La scollatura quadrata era coperta da una giubba sottostante di color marrone scuro, simile a quello del pelo, la quale, a sua volta, copriva la camicia, il cui stretto colletto sporgente aderiva perfettamente al collo lungo e sottile dell’uomo, tenuto da una spilla preziosa in argento e perle.
Sulle spalle una larga imbottitura formava due lunghe spalline a strisce nere ed arancio scuro, da cui si protraevano due maniche grigie, ampie fino al polso, dove si stringevano aderenti.
Tra le mani, impreziosite da diversi anelli dai colori sgargianti, reggeva il suo cappello tricorno gonfio a strisce nere e viola, con il tocco rosso che toccava il pavimento.
Ai piedi due scarpe appuntite scure, con la suola di cuoio duro e la tomaia in pelle, circondata da uno strato di seta nera.
Davanti a lui lord Tremaine, a cui spettava, tra quelle privilegiate, una posizione ancora migliore.
Si protrasse all’indietro con difficoltà, data l’armatura che indossava e sussurrò all’uomo accanto a Frollo.
“La ragazza doveva indossare il velo anche sul viso, non è forse così? Chi diavolo si è occupato di prepararla!?”
Lord Faloys, questo era il suo nome, gli rispose, leccandogli i piedi come un servo.
“E’ giunta con il volto scoperto! Senza nulla che la celasse alle impurità”
Spazientito, il ministro intervenne chiudendo la questione.
“Non vi è mai stato nulla di necessariamente religioso nel coprire il volto di una sposa, fuor che la necessità di nasconderle il viso qualora lo sposo, nel vederla, cambiasse idea e decidesse di non rispettare gli accordi presi, ma nel caso della principessa non ve ne è alcun bisogno”
I due lo osservarono interrogativi.
Sbuffò e riprese, osservandola di spalle.
“Ella ha il corpo ben fatto, i fianchi stretti, il collo più bianco della neve su un ramo, i suoi occhi sono grigio-azzurri, il viso chiarissimo, la bocca gradevole ed il naso regolare, ha le sopracciglia brune, la fronte ampia, i capelli ricciuti e biondissimi, alla luce del giorno più luminosi dell’oro”*
Di fronte all’ovvietà i due non dissero altro e Frollo riprese la sua sottile cantilena.
Tremaine, che avvertiva il filo della sua voce, storse il naso e sbuffò a quella povera dimostrazione d’affanno religioso.
Si spostò a destra, con l’intento di ostruire la vista del rivale con la sua stazza massiccia, evidenziata dal vestiario.
Indossava la sua armatura personale, che faceva sfigurare quella dorata del capitano Jehan, di Febo, come di tutte le guardie del re.
Era in metallo, decorata in bronzo ed argento, con una cascata di pietre preziose, rilucente come una luna piena nella notte, che oscura tutte le stelle del cielo.
La corporatura muscolosa, il mento prominente sospinto verso l’alto in un’espressione altezzosa e il portamento fiero lo rendevano un cavaliere quasi perfetto, facendolo apparire più bello di quanto non fosse usualmente, soprattutto poiché lo sguardo veniva distolto dal volto.
Il petto della corazza, fino alla panziera, era finemente decorato ed inciso con forme floreali e motivi fantasiosi di ghirigori e arzigogoli svolazzanti, che contornavano il blasone del casato, con due cani rampanti circondati da due rami di alloro con delle strisce rosse e bianche sul retro, realizzate tramite l’incastonatura di decine di rubini e diaspri, alternati a quarzi e perle.
La gorgiera, poi, era un tripudio di pietre preziose e bronzo dorato, incastrate tra le varie lame, da cui si poteva appena appena intravedere la cotta di maglia.
Gli spallacci, appuntiti a chiodoni, rivelavano un intricato gioco d’intrecci fra questi ultimi, alternati in oro ed argento in un’intoccabile scacchiera abbagliante.
I fiancati a lamine di bronzo, fusi ed incisi con motivi arabescati, lasciavano spazio ai cosciali di metallo, anch’essi dorati e finemente decorati, fino ai ginocchielli che, in forma di testa di cane con due topazi al posto degli occhi, riprendevano il motivo dello stemma, per poi continuare con le decorazioni di lauro degli schinieri, simili a quelli sulle cubitiere e sui mitteni, decorati con smeraldi.
Sulla destra, tra il fianco e il braccio reggeva l’elmo a bocca di rana, in bronzo, con un fastoso, coloratissimo pennacchio.
Il tutto doveva pesare più di trenta chili, ma egli non mostrava il segno del minimo sforzo nell’indossarla.
La donna accanto a lui, sua moglie Lady Tremaine, indossava un lungo abito ampolloso di seta verde, guarnito di ermellino bianco sulle maniche a sbuffo, sul bordo e sulla scollatura quadrata, la quale lasciava spazio ad una camicia di organza decorata a pizzi che chiudeva fino al collo.
Dal corpetto a fiocchi pendevano nastri e strisce di tessuto azzurro e blu sulla gonna, scarsamente decorata.
Dalle spalle lasciava calare una stola finemente ricamata, di color blu.
L’acconciatura a forma di cuore era coperta da un velo merlettato quasi trasparente, simile allo scialle, che pur lasciava intravedere i capelli già brizzolati.
Portava una collana di grosse perle e pietre verdeacqua, simile agli orecchini circolari, dello stesso colore, che si rifacevano chiaramente agli occhi di smeraldo.
Se probabilmente era la dama vestita più sobriamente fra tutte, lo stesso non poteva dirsi delle due figlie che le sedevano accanto.
Le due bambine, di appena cinque anni, erano un tripudio di ricchezza che, sui loro corpicini tozzi e cicciottelli, appariva più grossolana che altro.
Una, di nome Anastasia, con i capelli in boccoli, rossi come quelli del padre, aveva un abitino ampio con una sottoveste di seta rossa e un’ampia gonna di organza rosa a falde, stretta in vita da una cinghia decorata d’argento e due spalline a sbuffo quasi sferiche che circondavano la testolina, mentre al collo portava un lungo ciondolino.
L’altra, di nome Genoveffa, con i capelli stretti da un grande fiocco celeste, nerissimi come forse dovevano essere stati un tempo quelli della madre, portava un abito quasi uguale, verde chiaro e scuro a falde, con una lievissima scollatura a punta, come quella che soleva indossare Aurora.
 
Le trombe tornarono a suonare, accompagnate dal coro angelico di voci bianche che sopraggiungeva dal transetto.
Mentre il retore decantava con astruse formule la solenne promessa, guidando le mani dei due nel congiungersi l’un l’altra, egli si occupava delle fedi nuziali.
Ignorando le lacrime che, come rugiada, sfioravano le gote pallide o il rossore imbarazzato, li legò nel sacro vincolo per sempre…o finché la morte non li avrebbe separati.
Al momento dell’aulico giuramento, le parole dei promessi accennarono flebilmente e quando il momento del bacio sopraggiunse inevitabile, con gli occhi di tutti i presenti fissi sul momento in cui l’intera trama politica sarebbe divenuta ufficiale.
Dopo minuti di spinoso silenzio, dove i denti di molti stridettero per la rabbia o per la goduria, Adam si abbassò lentamente, mentre Aurora gli venne incontro nel tentativo ultimo di adempiere alle sue responsabilità.
Il minimo contatto con le sue labbra le permise di constatare quanto fossero fredde ed asciutte rispetto a quelle che le restituirono la vita.
Dopo un istante si separarono, senza più guardarsi negli occhi, senza guardare nessuno.
Il predicatore li osservò perplesso, ma riprese il suo rito senza essere ascoltato, come di consueto, quando improvvisamente dopo diversi minuti, si protrasse lievemente in avanti e ripeté sussurrando al principe
“Vostra Grazia…dovreste inginocchiarvi”
Il giovane lo osservò assorto, per poi rendersi conto della richiesta, esortata per la terza volta dall’anziano uomo, col volto paonazzo e sudato per la tensione dell’inusuale situazione.
Esitante, non riuscì a trattenere un lievissimo gemito di imbarazzo, scosse il capo come per riprendersi da quello torpore assorto e s’inginocchiò lentamente sul freddo, duro gradino di pietra, soppesando ogni singolo movimento.
Aurora fece lo stesso, con estrema grazia, ma lui non ebbe l’ardire di porgerle il braccio per aiutarla e se ne vergognò come un bambino che commette una birbonata.
L’uomo si avvicinò a lui e, a braccia aperte, dopo aver profondamente inspirato, declamò a gran voce ulteriori frasi rituali per l’evento più significativo che comportava quella cerimonia.
Alla sua destra apparve un corteo di paggi elegantemente vestiti con livree porpora e argentate.
I primi due sorreggevano un grande cuscino quadrato di velluto rosso, pomposamente imbottito con piume d’oca e finemente decorato con un broccato di pregevolissima fattura, bordato e profilato con ampie nappe su ogni angolo.
Sopra vi era adagiata la corona formale dei sovrani di Neustria, essenza di potere e sovranità, garante essa stessa della perpetua successione, simbolo dell’immortalità della monarchia che, compianto Stefano, era pronta a rifiorire con Adam sotto l’egida della fede che, inafferrabile ed imperituro, il re non muore mai.
Ai primi due valletti, seguivano altri due che reggevano due alabarde incrociate, legate insieme da un velo di tessuto cremisi che celava il gioiello come un baldacchino.
Altri due, dietro ancora, portavano un secondo cuscino, simile al primo, di colore blu, con la tiara della regina, coperta anch’essa da un candido zendado bianco.
Rimossagli la corona che aveva indosso e poggiata con cura su un terzo cuscino uscito di scena, l’oratore poggiò la mano rugosa sul suo capo e lo benedisse invocando tutti gli avi ed i patroni del reame, che potessero guidarlo con grazia e con saggezza e che il suo regno potesse durare cento anni e che portasse gloria e prosperità ai suoi sudditi tutti e che generasse una prole numerosa e feconda.
Scostò il telo che copriva la corona e la prese con fermezza.
La tirò su quasi sbuffando per la pesantezza e la sollevò a fatica verso l’alto, così che la luce potesse investirla e che tutti potessero ammirarla luminosa e raggiante.
Subito dopo la calò lentamente sulla sua testa.
Adam avvertì il peso farsi sempre più opprimente sul suo collo, finché non si interruppe e lui ondeggiò impercettibilmente per non perdere l’equilibrio.
Lo splendore del diadema non aveva eguali nella sala.
La base era incastonata di enormi rubini, smeraldi e zaffiri, alternati con decorazioni in argento, compresi tra due file di perle bianche, sormontati da otto gigli d’oro, da cui si diramavano altrettanti archetti, ricoperti di lapislazzuli e perle, che, sulla sommità, congiungevano in un globo sormontato da una rosa di rubini, che sovrastava il tocco color porpora.
Simile, ma più fine nei tratti, quella della regina, che venne adagiata sul capo della principessa, mentre l’intera sala tratteneva il fiato chiedendosi se il peso dell’ornamento avrebbe spezzato quel giovane fuscello appassito.
Il giovane si rialzò con uno sforzo che, dopo tutto quel tempo, gli parve disumano e gli fece tremare il ginocchio, pregando sinceramente qualsiasi essere vi fosse oltre le nuvole perché la corona non cadesse rovinosamente.
Si voltò subito verso la sposa, ancora pietrificata a terra e si chiese se anche lei condivideva i suoi timori, sorprendendosi poi, di quanto si fosse lasciato trascinare dalla gravità della situazione.
In fondo non gli importava davvero se anche fosse caduta, se si fosse distrutta o se gli fosse stata sottratta.
Si avvicinò comunque alla ragazza e l’aiutò a rimettersi in piedi, evitando il suo sguardo, che restava comunque incollato al pavimento.
I due vennero invitati a voltarsi verso gli invitati, la dichiarazione solenne venne pronunciata a gran voce e Adam ed Aurora furono proclamati re e regina di Neustria.
Tutti i presenti, da Frollo a Tremaine, s’inginocchiarono prestando giuramento al sovrano ed al paese.
La cerimonia si concluse con esclamazioni di tripudio ed ovazioni concitate ai nuovi monarchi, che dovettero farsi avanti con forza, nuovamente scortati da cavalieri, guardie, dame e nobili del corteo lungo la navata, verso il portale, che venne aperto pian piano, lasciando che il boato della folla si sprigionasse in tutta la sua incontenibile ebrezza.
Un calesse aperto ricoperto di rose li attendeva al di fuori dell’edificio, per il ritorno verso il palazzo reale.
Come due bambini spaventati, il re e la regina vennero guidati ed invitati a salire.
Fiori, ghirlande, festoni venivano lanciati verso la coppia al passaggio dei cavalli.
Gioia ed eccitazione pervadevano uniformi quasi ogni anima accorsa in quel piazzale.
Ma se c’era una causa ancor più indirizzante a questi fasti era l’imminente banchetto di nozze, i cui avanzi distribuiti avrebbero sfamato il popolo minuto per giorni.
Così la gratitudine ed il giubilo s’esprimevano nella più concitata delle manifestazioni collettive.
 
Ovunque nell’immenso salone centrale stendardi pendevano dalle altissime capriate lignee del soffitto.
Aquile nere su sfondo rosso, gigli in campo verde, croci arancio su sfondo beige ed ancora dragoni rampanti, leoni, falchi, lepri, delfini, fiori, torri, scudi, scacchiere, pennacchi in campo blu, giallo, porpora o qualsiasi altra tinta.
Più grandi degli altri erano quelli della rosa rossa centrata in campo porpora del re e della rosa gambuta in campo azzurro di Adam.
Non a caso già le chiamavano le nozze delle due rose.
Sottostante a quest’emblematica sfilata, tavole coperte da coloratissime tovaglie, unite a formare un unico lunghissimo banco, circondato da altri minori, tutti agghindati con saliere d'argento, forchette e coltellerie, pinte d’avorio, nappi, stoviglie e suppellettili d’ogni genere, oltre che le immancabili rose.
Sulle logge sopraelevate, affacciate sulla sala dagli esili colonnati, vi erano altri deschi ancora, decorati con mille dettagli ed accortezze, dove avrebbero preso posto gli ospiti meno illustri.
Su ognuno, poi, una grande tazza d'argento colma d'acqua per rinfrescare bicchieri e bibite.
Ogni tavolo era, inoltre, rallegrato da danze, musiche e piccoli spettacoli.
Le sue dame la accompagnarono al posto d’onore, sulla destra del trono a capotavola, riservato al sovrano.
I commensali iniziarono a prendere posto ai rispettivi scranni, parlando tra loro, scortandosi vicendevolmente, talvolta scambiandosi di posto in una rumorosa quadriglia doviziosa.
Aurora si chiuse tra sé e sé, ignorando senza neppure guardare i presenti vicino a lei che, ossequiosi, si accostavano inchinandosi al cospetto suo e di suo marito.
Frollo prese posto poco più avanti, sul lato opposto al suo, accompagnato da un altro uomo dall’aspetto di un barbagianni, con una lunga tonaca rosso acceso ed il naso adunco di proporzioni sgraziatamente smisurate.
Le conversazioni si sovrapponevano le une alle altre, rimestandosi nell’aria dell’immensa sala, confusionarie e caotiche.
Le facevano venire il mal di testa, compresi i suoi vicini, uomini e donne, che cercavano di mantenere quantomeno un po’ di contegno nelle loro sperequazioni.
Le mani, sotto la tovaglia, si strofinavano nervosamente l’una nell’altra, premendo sullo stomaco, serrato in una morsa nauseabonda.
Abbassò lo sguardo sul suo piatto dorato, per poi rialzarlo qualche secondo dopo, per effetto delle trombe che annunciavano ufficialmente l’inizio del banchetto.
A quel punto i conviviali si affrettarono a prender posto anche nelle tavolate minori.
Ogni portata sarebbe stata anticipata dagli squilli delle trombe.
Camerieri e portatori erano fermi ai piedi dello scalone e, solo a un cenno stabilito dello scalco, appena dopo il suono, si diressero in parte presso il tavolo centrale nel salone ed in parte nelle logge superiori, di modo che le vivande si posassero tutte assieme ad ogni seggio.
La prima vivanda servita era della crema di fave, accompagnata con verdure e crostini di pane aromatizzato alla birra.
Ovunque servi e cameriere reggevano pinte, giare o piccole otri, contenenti acqua, birra chiara, birra doppio malto, latte e latte di mandorla, vino, sidro e succhi di ciliegie di stagione, per servirli qualora ve ne fosse la mancanza e riempire il bicchiere di ogni commensale.
Aurora si limitò a sorseggiare del succo, lasciando intatto il contenuto del proprio piatto, mentre Adam faceva roteare sempre lo stesso vino all’interno del del proprio fastoso calice, senza sollevare lo sguardo.
Al centro di ogni tavolo c’erano vassoi d’ottone colmi di frutta.
Le ultime mele e i primi lamponi ed i mirtilli, grosse arance dal colore acceso e prelibato, oltre che ciliegie, limoni, forse eccessivamente maturi, e fragole.
Tutte quelle tonalità allegre ed intense le avevano catturato lo sguardo.
Improvvisamente Tremaine, distante una mezza dozzina di seggi da lei, afferrò una fragola con uno scatto fulmineo e, a gran voce, si rivolse alla nuova sovrana.
“Mia regina, sapete come sono nate le fragole?”
Le chiese affabile indicando il frutto tra le sue tozze dita con un cenno del folto sopracciglio.
I presenti intorno si voltarono verso di lui, mentre Aurora sollevò lo sguardo e lo inquadrò senza guardarlo veramente, senza pensare a nulla.
Osservò solo la fragola.
Quel piccolo frutto, dolce e delicato, nelle mani di uno spietato aguzzino.
Tutti loro erano degli aguzzini.
Tutti loro che la guardavano fissi, in attesa della sua reazione, di cui si interessavano solo per poter tornare a pendere dalle labbra di quell’uomo
Tremaine riprese il suo discorso, interpretando il silenzio della giovane come un’esortazione a continuare.
“Sono nate dal pianto di un’antica e bellissima dea, che, alla morte del suo amato, pianse copiose lacrime, le quali, giunte a terra, si trasformarono in piccoli cuori rossi!”
Qualche signora emise un gemito di sorpresa, mentre il gruppo tornava a distrarsi da quell’attimo di silenzio.
Un’altra mano si fece largo per raggiungere un’altra, tra le deliziose fragole.
Tra le sue dita lunghe ed affusolate, Frollo rimirò il succulento frutto portandolo vicino al viso.
“E’ una storia ridicola”
Proferì ligio e sentenzioso come il giudice di un tribunale.
“Va ringraziato solo il cielo per l’abbondanza di buon cibo al desco del re”
Tremaine roteò gli occhi sbuffando e rispose seccamente.
“Lo stesso non si può dire dei commensali”
 
La crema di fave lasciò il posto a dei lunghi taglieri di legno, pieni di formaggi vari di pecora e capra, anticipati dal solito annuncio di tromba.
Anche stavolta Aurora si limitò nel toccare cibo e lo stesso fece Adam, rinchiuso in quel covo di stranieri.
Per mera cortesia, si finse sorpreso quando raffinati recipienti fecero il loro ingresso, portando dei pistacchi, mitici frutti dalla lontanissima Agrabah, che non poté trattenersi dall’assaggiare, così come quasi tutti i presenti, inclusa sua moglie.
Questa parola lo straniva.
Aveva perso valore, ora che coronava la testa di un’altra donna.
Chissà come stava Belle.
Come avrebbe preso la notizia? Ammesso che non l’avesse già appresa.
Lo avrebbe mai perdonato?
Sarebbe riuscito a sposarla un giorno?
Ormai non importava davvero.
Che razza di uomo era, se si era lasciato obbligare a compiere un passo del genere?
Certo i soldati, quelle stanze anguste in cui lo avevano rinchiuso, la mancanza di cibo…
E poi c’era il suo dovere.
Avrebbe dovuto compierlo, perché questo significava essere nobile e così gli avevano insegnato sin da bambino, prima che lo lasciassero solo.
Ma lui non era mai stato un bravo signore.
Non fino a quando l’aveva conosciuta, non fino a quando non gli aveva ricordato cosa poteva essere, a dispetto del suo aspetto fisico.
Ed ora probabilmente l’aveva perduta per sempre.
Tutto per via della sua incapacità nell’affrontare la vita.
Perché di questo era colpevole.
Chiuso in un palazzo per ventuno anni in un esilio volontario che non solo aveva compromesso il suo corpo, ma aveva strappato via anche la sua umanità.
Ed ora che aveva la possibilità di dimostrare a Belle di non essere solo affascinante, dopo che lei gli aveva restituito le sue fattezze, ma anche capace di affrontare la vita e di proteggerla, si era reso conto con lui stesso che non era così.
Che non era ancora pronto.
Che era tutto come quando era solo un bambino e forse non era mai cresciuto davvero.
Non bastava un bacio per quello.
Rinsavì quando un timido servitore gli si avvicinò con un inchino impacciato, chiedendo il permesso di portare via il suo piatto, immacolato.
Le trombe annunciarono ancora una volta e fece la sua entrata trionfale il cappone arrostito accompagnato con cipolle, chiodi di garofano, sedano e carote, al termine del quale venne seguito, dopo un altro squillo, da pollo con rosmarino, salvia, aglio, uova, arricchito con zafferano e pepe ed ancora, successivamente, una minestra di pesce e farro, con olio e prezzemolo.
L’esercito di servi si muoveva quasi a passo di danza per la sala, mentre i piatti vuoti venivano sostituiti con la massima velocità ed i bicchieri venivano riempiti continuamente, con gran piacere e godimento degli ospiti.
L’orata alle melanzane, ricoperta di fette d’arancia, insieme con miele ed olio si legava perfettamente alla minestra, mentre lo stufato di cinghiale con rosso d’uovo, fette di pane e formaggio, bagnato con latte di mandorla, riportava il saporito gusto della carne al palato, seguito dallo speziato spezzatino di selvaggina in brodo e dai fagiani ripieni con rosmarino, salvia, cipolla, lardo di maiale e limone, cosparsi nel vino.
L’agnello rosolato con albicocche secche, pinoli, ravanelli, rape ed olive con aceto ed olio chiudeva le principali portate del fiume di leccornie che defluiva ad ogni stomaco.
L’ormai noto squillo di trombe offrì una fresca insalata con lattuga, ravanelli e rape, che si fece largo tra i più sazi, ma solo per preannunciare l’arrivo delle successive focacce al miele con mandorle, scorza grattugiata d’arancia e noce moscata, delle frittelle di mele, dei dolcetti di marzapane alla cannella e delle crostate alla ciliegia con crema pasticcera.
I dolcetti ebbero particolare successo tra la folla.
Tremaine ne trangugiava a coppie senza alcun ritegno, sotto lo sguardo seccato della moglie, che aveva ridotto gli occhi a due sibilline fessure di smeraldo.
Un altro suono, Aurora ne aveva ormai perso il conto, scortò l’entrata di decine di ceste frutta.
Si chiese quale fosse il senso di portare altra frutta quando questa già abbondava nei centrotavola, ma evidentemente era troppo stupida per comprendere, si disse.
Lasciò il suo piatto immacolato ancora una volta.
Non aveva assaggiato neppure metà di tutte le pietanze che vennero servite nel corso del banchetto, aveva evitato il pesce, perché non le era mai piaciuto, ed aveva gustato solo il pollo e lo stufato di cinghiale, mentre aveva giusto assaggiato il cappone e lo spezzatino di selvaggina, che non aveva comunque concluso.
Eppure, fortunatamente, nessuno parve farci caso.
Era in un certo senso la festeggiata, il motivo per cui tutti quei nobili pomposi erano lì, ma passava sempre tanto inosservata quanto il suo nuovo marito.
E chi meglio di lei per saperlo.
Gli era vicina da ore, ma non aveva avuto il coraggio nemmeno di alzare lo sguardo per osservarlo.
Nessuno parlava con lui, né con lei.
Lei non parlava con lui e lui non parlava con lei.
Nessuno parlava con il re e la regina ed il re e la regina non parlavano tra loro.
Guardandosi intorno, si chiese dove fosse sua madre, era inusuale che non le fosse vicino.
Chiunque aveva predisposto i seggi aveva proprio voluto negarle ogni soddisfazione, constatò.
Non che avrebbe fatto la differenza dopotutto, di poche parole com’era l’avrebbe solo tediata con le sue futili preoccupazioni sul cibo.
Nemmeno Flora, Fauna e Serenella erano in vista.
E forse era meglio così anche per quel verso, dove invece l’avrebbero soffocata con le loro questioni sulla compostezza e la loro apprensione
Possibile che non ci fosse nessuno in quella grandissima sala colma di centinaia di persone che non l’avrebbe fatta soffocare di angoscia?
Sbuffò rumorosamente per via della stanchezza, sollevò il mento verso l’alto per distendere il collo, le doleva ancora per il peso della corona che aveva sorretto durante la funzione.
Chiuse gli occhi per isolarsi ed evitare di incrociarli con quelli di qualcun altro.
Il minimo contatto l’avrebbe fatta scoppiare in lacrime e lo sapeva.
Anche saperlo l’avvicinava sempre di più a quel momento.
Immaginare, poi, quello che sarebbe accaduto dopo mangiato, quella notte, la fece rabbrividire.
Nessuno aveva avuto il coraggio di dirle cosa sarebbe accaduto, ma a quanto ne sapeva, e non era molto, per quanto naturale che fosse la questione, lei avrebbe dovuto passivamente lasciare che il destino seguisse il suo corso.
Alcune signore la destarono con dei gemiti di ammirazione.
Socchiuse l’occhio destro per sbirciare.
Immediatamente intercettò lo sguardo di Adam, che la fece sussultare per un attimo fulmineo, irrigidendola tutta in un battito di ciglia, con il volto paonazzo.
Ciononostante l’attenzione di entrambi venne catturata dall’altissima montagna che fece ingresso fino al centro del salone, seguita da uno squillo di trombe più solenne dei precedenti.
La torta nuziale venne trasportata con un capiente carrello, che circondava la larghissima base e si muoveva pericolante sul pavimento porpora di pietra.
Era composta da un’altissima montagna di bignè, riempiti con crema pasticcera e ricoperti di panna, insieme a fragole, canditi ed abbellita con delle rose bianche e rosse, il tutto tenuto insieme da sottili e delicati filamenti di caramello caldo, che giravano tutt’intorno alla struttura, dalla base alla cima, in un’elaboratissima rete.
Una serva la invitò ad alzarsi.
Adam la prese a braccetto, guardandola diritta negli occhi e questa volta si lasciò rapire dalla profondità dello sguardo ghiacciato del giovane.
Un silenzio innaturale calò tra le decine e decine di invitati.
Si avvicinarono al dolce, che torreggiava sopra di loro.
Doveva essere alto due metri, come minimo, più l’altezza del carrello.
Adam riuscì a tagliarne un pezzo, mentre tutti trattenevano il fiato.
Servì anche Aurora, che simulò un ringraziamento con un impacciato cenno del capo.
Non aveva comunque intenzione di mangiarlo, ma nessuno si mosse.
I conviviali, ammassati in un grande cerchio tutt’attorno, guardavano i sovrani.
Il suo sguardo incrociò quello di Febo, poco distante di fronte a lei, che la incitò gonfiando le guance così da farle capire.
Inspirò profondamente, come se stesse per compiere un gesto estenuante, e si vide costretta ad assaggiarne un pezzo ed altrettanto fece il re.
Al palato risultava in un primo momento croccante, probabilmente per via del caramello e successivamente morbida e dolce del ripieno.
Non le dispiacque, soprattutto perché non appena inghiottì il primo boccone tutti i commensali si sbloccarono come da protocollo ed iniziò una composta, ma insidiosa calca verso il nuovo obiettivo.
Si voltò a guardare nuovamente la sua guardia, accennando un sorriso di gratitudine.
Il giovane le sorrise di rimando, per poi avvicinarsi.
Aurora lo osservò quasi divertita mentre lui si destreggiava imbarazzato tra ventri gonfi ed abbondanti e gonne larghe e spaziose, ma venne distratta dal suo sposo, che la scortò nuovamente a sedere e, non appena si poggiarono ai loro scranni, un altro annuncio di tromba introdusse, stavolta dal salone adiacente, un ciambellano in livrea rossa che reggeva un vassoio tra le mani.
Nuovamente il silenzio divenne sovrano, mentre chi gli era di intralcio si preoccupava di permettergli di passare in tutta sicurezza.
Il servitore si fermò a metà strada e porse il vassoio ad un altro cameriere dall’aria altezzosa, con un lieve inchino.
Tutti nella sala osservarono il tragitto del secondo, ma solo a pochi era sconosciuta la sua funzione.
L’uomo si fermò tra i seggi di Adam ed Aurora, adagiò il portavivande sul tavolo con un inchino e si congedò senza proferir parola.
Erano presenti un dolce che somigliava ad una fetta ben tagliata di pane scuro**, lievemente bagnato ed un calice di quello che sembrava del vino rosso, che tuttavia fumava ed al cui interno galleggiavano delle foglie scure.
Un terzo valletto si fece avanti e, data l’assenza di una preparazione precedente, sussurrò istruzioni ad Adam, di fronte allo sguardo perplesso o accigliato dei presenti.
Il giovane prese l’elegante forcella di madreperla adagiata sulla piccola torta e ne sminuzzò una parte, per poi dirigere il boccone verso Aurora, che spalancò gli occhi e si ritrasse lievemente.
“Per te...regina” fu tutto quello che riuscì a dire sul momento.
Dapprima inarcò un sopracciglio, poi fissò lui e il morso che attendeva a mezz’aria, finché non si sporse in avanti senza pensarci.
Aveva solo voglia che tutta quella farsa avesse fine.
Una volta che ebbe assaggiato quella strana pietanza dal sapore intenso, deciso e solo vagamente zuccherino, tossì per scacciare il pizzicore dalla lingua e dalla gola.
Solo quando il re le porse la posata di rimando le fu chiaro che sarebbe toccato anche a lei.
Sentendosi nuovamente avvampare l’afferrò indecisa e tremante, per poi fare altrettanto affondando i denti metallici in quella vivanda dalla consistenza mollicosa e soffice.
Si sentì in colpa per l’impazienza di poc’anzi, perché nell’avvicinare il cibo alle labbra del ragazzo si rese conto di quanto disagio provasse nel compiere un’azione apparentemente così semplice.
Si sentiva coinvolta in un gesto intimo di cui non voleva per nessuna ragione far parte.
Quando il Adam mise in bocca la forchetta avvertì immediatamente il forte sapore dello zenzero, insieme a quello piccante e vagamente dolciastro della cannella, poi i chiodi di garofano secchi e infine l’acqua di rose in pan grattato.
Si vide costretto a stringere la mascella per evitare le punte della suppellettile che avanzavano sulla sua lingua, finché non afferrò direttamente il manico per evitare che la ragazza gli infilzasse la gola.
Quella, spaventata ritrasse la mano ond’evitare il minimo contatto, imbarazzata per aver mancato un’accortezza tanto stupida.
Deglutì e poggiò la posata sul piatto, dove il dolce era rimasto praticamente intatto.
Prese il calice e, saggiando il penetrante aroma di salvia***, ne bevve un sorso, per poi offrirlo nuovamente ad Aurora, la quale, se possibile, ne assaggiò ancora meno.
La cerimonia del banchetto si concluse ufficialmente.
A quel punto, mentre nessuno accennava a muoversi, le ancelle della regina si fecero largo per raggiungerla, delicate e leggiadre come petali di rose al vento.
Di nuovo la testa prese a vorticarle rovinosamente, mentre loro la fecero alzare.
Vide di sfuggita che anche Adam si alzò in piedi, mentre veniva allontanata da quel corteo festante verso lo scalone d’onore.
Non era sicura se vi fosse della musica e l’ultima immagine che vide furono decine e decine di calici sollevati in suo onore e percepì un vocione cavernoso a lei familiare che tesseva ovazioni, mentre le dame la conducevano ai piani superiori, sotto gli occhi di tutti gli invitati, dei servi, della corte e del reame.
 
 
Nessun ballo quella sera.
La festa da ballo sarebbe stata domani, accompagnata da un fastoso ricevimento.
Quella sera era più importante oltrepassare un altro traguardo.
Ignorando questo essenziale dettaglio, Aurora si sentiva sollevata, stanca com’era, di poter tornare nelle sue stanze.
Il pensiero di dover danzare con lui la turbava.
Tenerlo per mano, guardarlo negli occhi, lasciarsi cingere alla vita per farsi trasportare tra le nuvole…non sarebbe mai successo con lui.
Solo Filippo era in grado di portarla sulle nuvole.
Si chiese se avrebbe saputo ballare ugualmente.
Con Filippo le veniva più che naturale, ma non aveva mai pensato a cosa dovesse effettivamente fare, mentre con Adam si sarebbe concentrata su qualsiasi cosa per di evitare il suo sguardo.
Dopo aver svoltato decine di volte ed aver attraversato la solita moltitudine di corridoi le servette si arrestarono e svoltarono presso un grande portone che conduceva a degli appartamenti resi molto fastosi.
Non era mai stata in quell’ala del castello.
Ovunque v’erano rose, vasi di rose, petali di rose sparsi per il pavimento e sul grande letto dal baldacchino cremisi.
Candele al profumo di rose e candelabri accesi erano disseminati nella sala.
Grandi tappeti rendevano calda la pavimentazione di pietra, tende e drappi scivolavano sulla cupa mobilia di legno, ricoperta di morbidi cuscini.
Si guardò intorno spaesata mentre le ragazze le piroettavano attorno.
Improvvisamente la gonna le venne slacciata ed allentata, cadendo a terra ed Aurora non si sentì mai più così leggera come allora.
La aiutarono ad uscire dal cratere formato dalle stoffe dorate color bianco ed avorio per farla salire su un piccolo sgabello foderato di piume.
Mentre due si occupavano di sbottonarle le pesanti, lunghe maniche, un’altra da dietro le snodava il complesso di fiocchi del corpetto lungo la schiena.
Aurora si voltò e si vide riflessa sullo specchio semi opaco di una cassapanca, sovrastato da un’elegantissima cimasa dorata con incastonate pietre rosse e blu in una sorta di scacchiera luminosa.
Quando le maniche caddero anch’esse con le spalline, le sfilarono quelle sottostanti di pizzo, lasciandole le braccia scoperte.
Le sfilarono il corpetto e l’aiutarono a scendere dal seggiolo facendola sedere su una sedia, davanti allo specchio dove le sfilarono i gioielli, e le sciacquarono il volto, mentre altre le pettinavano i capelli, sciogliendo i toupet.
Le portarono una sorta di polvere che le rese le gote nuovamente più rosee e giusto un filo di rossetto.
Quando finalmente si allontanarono, come rapaci da un carcame, ed uscirono dalla stanza si poté alzare e solo allora si rese conto che era rimasta con la lunga camicia di chiffon quasi trasparente, con le spalline abbassate per lasciarle il candido petto scoperto fin quasi ai seni e le spalle nude.
Mentre osservava una ciocca di capelli le poggiava sulla spalla sinistra, arricciandosi lungo il torace nell’atmosfera tenue della luce baluginante, le porte si aprirono nuovamente ed Adam venne sospinto dentro.
Nell’istante in cui le porte si aprirono intravide Febo, al di fuori, che alzò lo sguardo incrociando i suoi occhi nel momento in cui si richiusero con un sonoro schiocco.
La sua ultima via di fuga era chiusa.
Ma se anche avesse provato ad uscire l’avrebbero afferrata per le braccia e richiusa dentro quelle stanze, finché non avrebbe soddisfatto le loro aspettative.
Spostò lo sguardo verso le tre finestre chiuse sulla destra.
Forse c’era un’altra via d’uscita…
Eppure aveva troppa paura per compiere un gesto simile.
Si voltò e tornò a guardare il ragazzo innanzi a lei, che non si era mosso.
Aveva una camicia larga, color avorio, da cui si intravedevano le forme del corpo, le possenti spalle e il busto tonico.
I pantaloni erano gli stessi della cerimonia, mentre ai piedi portava due borzacchini di morbido raso.
Quando lui ebbe il coraggio di sollevare il viso per guardarla, lei lo abbassò di scatto.
Aveva le braccia conserte per coprire il petto che si agitava su e giù.
Aveva sentito dire da una delle dame di corte che la prima volta faceva male.
Avrebbe sofferto? Avrebbe sofferto tanto?
Osservandosi i piedi nudi e bianchi con gli occhi spalancati cominciò a tremare.
Aveva sentito dire che la prima volta si sanguinava.
Percepì il suo respiro farsi via via più affannoso.
Si morse il labbro con i denti fino a farsi male, mentre vedeva le dita sul tappeto che si avvinghiavano in loro stesse.
Un groppo in gola le fece annodare la pancia, mentre avvertiva come il bisogno di dover vomitare.
Tirò su arricciando il naso mentre piccole lacrime cominciavano a scenderle lentamente giù dagli angoli degli occhi, scivolando sulle gote pallide ed emaciate fino a tuffarsi giù dal mento.
Strinse le dita delle mani fino a graffiarsi le braccia con le unghie, scalfendosi la pelle.
Un gemito soffocato le fece aprire la bocca per prendere più aria, ma non riuscì a far altro che emetterne un altro ancora più forte, simile al guaito di un cucciolo.
Chiuse gli occhi arrendendosi al destino, lasciandosi piangere copiosamente, lasciando che la sua voce gemesse e si soffocasse, lasciandosi cadere lentamente per terra, poggiandosi sul morbido seggio di piume e stringendone il cuscino con forza.
Vi affondò il volto e strinse i denti, senza riuscire a smettere.
Vergognandosi della sua paura, del suo timore.
Udì la porta aprirsi e poi richiudersi lentamente, facendo cigolare gli infissi.
Avvertì espressioni di esclamazione mentre dei passi decisi si allontanavano.
La porta si aprì ancora crepitando rumorosamente.
Si tuffò ancora di più con il volto nel buio del guanciale, ansimando senza sosta.
Erano arrivati a percuoterla per farla stare zitta.
Erano arrivati per farle del male e farla sanguinare.
Una mano si posò sulla sua spalla, scostandole i capelli.
Esalò un grido e si tirò su con la schiena agitando il braccio pronta a colpire chiunque, ma Febo le afferrò prontamente il polso.
Aurora lo guardò negli occhi blu, corrugando le sopracciglia e tirando ancora su con il naso, mentre le lacrime continuavano a sgorgarle lungo i lineamenti, fino al collo.
Sembrava così serio, così preoccupato.
Si girò lentamente e constatò che erano soli.
Cercò di balbettare delle scuse, ma lui l’abbracciò forte e lei riprese a piangere con forza per tutta la notte, poggiandosi contro le sue ginocchia, stesa sul caldo tappeto ruvido, fino ad addormentarsi.
 
 
 
 
 
 
 
*la frase è tratta da Maria di Francia (prima poetessa francese, vissuta nella seconda metà del XII secolo), riguardo i connotati che la damigella ideale avrebbe dovuto presentare a suo avviso.
 
**Una ricetta medievale ritenuta afrodisiaca a base di cannella, zenzero, chiodi di garofano, pangrattato e acqua di rose
 
***La salvia era chiamata anche “erba sacra”, e si credeva essenziale in quanto anch’essa potente afrodisiaco maschile, in grado, inoltre, di proteggere le gravidanze ed accrescere la fertilità femminile.
Le foglie di questa pianta cotte nel vino erano ritenute l’ideale come rinvigorente sessuale.
  
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