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Autore: Pleasantville    26/12/2016    0 recensioni
(questa storia vede l'introduzione di un solo nuovo personaggio da cui sarà narrata, dall'inizio dell'apocalisse ad Atlanta, fino a Negan)
< S-signora? > riesco a dire con un filo di voce.
Questa solleva il capo e incontro uno sguardo feroce, animalesco lanciato da due occhi di un azzurro acquoso, come fossero ciechi.
Indietreggio d'istinto, mentre lei continua ad avvicinarsi. Adesso allunga un braccio nella mia direzione, come volesse afferrarmi, accompagnata da un suono graffiante che le esce dalla bocca.
Sono confusa, pietrificata dalla paura. Cos'è quella cosa? Cosa diavolo è?! Ad un incidente del genere ci sono poche probabilità di sopravvivenza, soprattutto di uscirne in quel modo! Nessuno si sarebbe rialzato e nessuno starebbe ancora in piedi dopo aver perso quell'enorme quantità di sangue!
Sbatto le palpebre più volte e finalmente riesco a prendere di nuovo il controllo dei miei muscoli. Indietreggio altri due passi, poi mi volto e corro verso il negozio, dove mi chiudo la porta alle spalle.
Non so perché reagisco così. Tutto ciò che so è che il mio istinto di sopravvivenza mi dice di stare lontano da quell'essere e basta. Qualunque cosa sia trovarmi tra quelle mani non deve essere affatto piacevole.
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Daryl Dixon, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 3

C'è freddo, un freddo maledetto. Lo sento insinuarsi attraverso le fessure dei miei abiti e sfiorarmi la pelle tagliente e inesorabile. C'è anche tanto buio. Non riesco a distinguere cosa mi circonda, vedo solo forme grossolane, imprecise che potrebbero appartenere ad alberi o palazzi. Sento un verso, quel verso. Il rantolio raschiato in fondo alla gola. Inizio a correre, ma i miei piedi sono pesanti ed ho come la sensazione di non stare avanzando, anzi più cerco di correre più sembro ferma. Sono stanca, ho già il fiatone, mentre il rantolo della morte si fa sempre più vicino. Mi giro, la vedo: la donna dell'incidente con l'auto sta arrancando nella mia direzione e paradossalmente è più veloce di me. La bocca aperta, i denti ben in vista. Mi volto di nuovo e continuo a correre, ma qualcosa mi afferra bloccandomi. E' lei, non so come mi ha già raggiunta. Il mio avambraccio è prigioniero nella sua morsa inaspettatamente ferrea. E' forte. Mi dimeno, cerco di spingerla via, mentre quegli occhi vitrei mi fissano famelici, i denti che scattano gli uni contro gli altri mordendo l'aria. E poi ecco altri rantolii, li sento propagarsi dall'oscurità attorno e subito dopo posso distinguere forme di corpi traballandi staccarsi dal buio e venire verso di me. Inizio a sudare freddo, il cuore palpita frenetico. Mi circondano, non posso scappare. Tutti quegli occhi acquosi che ti scrutano vuoti e bramosi allo stesso tempo, quelle mani fredde che sembrano artigli e quelle bocche minacciose... 
Chiudo gli occhi priva di forze, mi lascio andare rassegnata. Un dolore acuto mi pervade il braccio. Urlo. La mia voce viene sopraffatta dai loro versi. Poi ancora dolore, alla gamba credo. Apro gli occhi: vedo la carne che viene strappata mia dal mio corpo, il sangue che fuoriesce copioso, il muscolo della coscia scoperto, mentre più di loro si ammassano su quel punto, affamati, strappando ogni pezzo della mia pelle e gustandola. Li chiudo di nuovo. Adesso è tutto un continuo dolore straziante, le mie grida strozzate, i loro denti che affondano nei miei tessuti come fossero niente.
Spalanco gli occhi di colpo e sollevo la schiena, mettendomi a sedere. Le orecchie mi fischiano, ho l'affanno, avverto il sudore scendere lungo la nuca e la fronte. Non metto subito a fuoco ciò che mi sta attorno, mi occorre sbattere le palpebre un paio di volte.
Sono nella mia stanza, nel mio letto. Osservo le mie braccia, poi scopro le mie gambe: niente, pulite, nessun morso, nessuna parte mancante o pelle penzolante, solo i miei tatuaggi. Un grande corvo con tre occhi racchiuso in una cornice art noveau sulla coscia, un serpente attorcigliato intorno ad un pugnale lungo la caviglia ed una rosa sul braccio. Sospiro. Solo un incubo... si, un incubo.
Mi passo una mano sulla fronte < Sto perdendo la testa > mormoro tra me e me, poi mi giro a guardare la sveglia e con mia grande sorpresa mi accorgo che è quasi mezzogiorno.
Ho davvero dormito così tanto?! Non avevo comunque intenzione di andare a lavoro oggi, dopo gli avvenimenti della sera precedente: dopo essere tornata a casa dal quartiere ispanico non ero riuscita a prendere sonno, così ero ricorsa alla valeriana, ma dovevo averne presa troppa.
Mi alzo e vado in bagno. Il contatto dei piedi nudi contro il pavimento di ceramica freddo mi fa rabbrividire. Mi siedo sul bordo della vasca, lascio scorrere l'acqua e in attesa che si riempi mi avvicino al lavandino per lavare i denti. Quando ho finito mi spoglio, spargo i miei sali profumati alla lavanda nell'acqua e mi immergo nella vasca, provando una sensazione di rigenerazione. Mi sdraio lasciando fuori la testa dalle orecchie in su, poi allungando una mano accendo la radio lì vicino, poggiata su uno sgabello.
< La città è in preda ad una psicosi di massa. Nonostante le misure di sicurezza intraprese dal sindaco, quali il coprifuoco, alcune zone messe sotto quarantena e l'invito a mantenere la calma, la popolazione sembra averla persa del tutto. Le strade di Atlanta sono invase dalle auto con intere famiglie all'interno, dirette verso le uscite della città, già dalle prime ore del mattino. Non tranquillizzano i continui disordini che si stanno verificando ed espandendo a macchia d'olio nelle ultime ore. Gruppi anarchici insorgono armati, distruggendo auto e razziando negozi. Dalle 8:00 di questa mattina sono intervenute anche le forze dell'esercito per cercare di contenere il caos... ma sembra che questi avvenimenti non interessino soltanto la nostra città, ma bensì anche il resto della naz... Hey, signore... mi scusi, signore non può stare qui... cosa... ah! Ahhh! >.
La trasmissione si interrompe bruscamente.
Balzo fuori dalla vasca e grondante d'acqua cerco altre stazioni radiofoniche, ma hanno tutte la linea disturbata o non trasmettono neanche.
Mi avvolgo in un asciugamano e corro alla finestra della mia camera con ancora le tende chiuse. Le scosto e vedo fila di auto incolonnate che intasano la strada, i marciapiedi con la gente che va in su e giù come impazzita.
Improvvisamente sento degli spari dall'appartamento accanto. Sussulto. Poi la porta che si apre e i passi di qualcuno che si affretta a scendere le scale.
Apro la porta e sporgo la testa per vedere: l'uscio dell'appartamento affianco è aperto, c'è il corpo di una donna riverso sul pavimento, a faccia in giù, immerso in una pozza di sangue. E' Christine, anzi era, la moglie del vicino, Nick. Non li conosco molto bene. Lui ha un negozio di ferramenta, lei cassiera in un supermarket. Non ho mai scambiato molte parole con loro, tranne i soliti saluti convenzionali quando li incrociavo sulle scale. Lei, però, mi sembrava gentile. Ricordo che appena trasferita in quel palazzo mi preparò una torta di mele per darmi il benvenuto. Ricordo anche che non la mangiai; non amo la frutta, soprattutto nei dolci.
Mi sembra che per un attimo si sia mossa. Riduco gli occhi in una fessura, aggrotto la fronte e la osservo con attenzione. Adesso vedo con chiarezza le dita della sua mano sinistra staccarsi dal pavimento, poi le braccia e quel rantolo. E' una di loro e si sta rialzando.
Il mio cuore fa un tuffo nel vuoto, le gambe è come se fossero diventate di burro. Incontro il suo sguardo, quegli occhi iniettati di sangue...
Deglutisco e mi lancio in uno scatto in avanti, afferro la maniglia della porta e la chiudo sbattendola. Il rumore rimbomba per la tromba delle scale.
Rientro a casa < Cazzo! Cazzo! Cazzo! > dico a ripetizione, urlando l'ultima imprecazione.
La sento battere contro il legno della porta.
Trovarmi quella cosa là, nell'edificio in cui vivo, nel mio pianerottolo, nella casa del mio vicino, ad un paio di metri da me... Dio! Ormai nessun luogo era sicuro, neanche ciò che chiami casa. E questo è sufficiente a farmi decidere di andare via.
Mi vesto velocemente, indossando un paio di jeans scuri, una canottiera nera e sopra una larga ed anonima felpa grigia con il cappuccio, ai piedi degli anfibi. Prendo uno zaino ed inizio a riempierlo di cibo, acqua, un paio di maglie pulite, qualche medicinale. Vado in cucina e aprendo il cassetto estraggo un coltello ben affilato che nascondo subito nel tascone centrale della felpa, poi lancio un ultimo sguardo al mio appartamento.
Mi sono trasferita ad Atlanta da poco più di un anno, cercando una vita diversa, un nuovo inizio, qualcosa di buono che ero convinta solo una metropoli potesse offrire. Lasciare il piccolo paesino in cui sono nata e cresciuta non mi era costato niente, in termini affettivi soprattutto. Con la mia famiglia non ho mai avuto dei buoni rapporti, siamo stati sempre sopra due pianeti diversi. Mio padre mai presente, lavorava, tornava a casa, mangiava e dormiva. Non si è mai interessato, non mi ha mai chiesto < Come ti va la vita? > o semplicemente < Com'è andata a scuola oggi? >. Per lui ero come invisibile. Mia madre, la classica casalinga infelice, che ogni mese trovava qualcosa di diverso su cui focalizzare le proprie energie, che poi si trasformava in pura ossessione: il mese delle borse, quello dei gioielli, poi quello della palestra. Insomma tutto, tranne che interessarsi di sua figlia, di cosa provasse, di cosa le accadesse. E ai loro occhi ero praticamente un'estranea, costantemente la pecora nera, quella strana, quella impossibile da capire, come se ci avessero mai provato!
Amici, non ne ho mai avuti. Non sono mai stata brava ad intraprendere rapporti umani. Mi sono sentita sempre diversa dai miei coetanei. A me non interessava ciò che, invece, costituiva il mondo delle ragazzine in piena adolescenza. Niente vestiti, capelli, trucco, la boy band del momento e altre superficialità, così stavo sempre per i fatti miei. Forse era proprio quello il problema, che stavo troppo a pensare.
Quindi quando ho lasciato il mio paese non ho provato tristezza, anzi. Sono arrivata ad Atlanta con tante aspettative, ma anche qui non è andata poi diversamente. Volevo fare l'artista, diventare una pittrice affermata, ma alla fine tutto ciò che sono riuscita a fare è diventare la commessa di un negozio d'antiquariato. Non sono riuscita nemmeno a farmi degli amici. Ormai sono arrivata alla conclusione che il problema non sono gli altri, ma io. Credevo che l'origine del mio malessere, del mio sentirmi eternamente fuori posto fosse quel paesino con la sua mentalità ristretta: mi sbagliavo. La mela marcia sono io.
I miei occhi si posano su una pila di tele accatastate in un angolo della cucina. In fondo non mi mancherà quel posto, non mi mancheranno le mie cose. Sono come un animale randagio, non sono mai riuscita ad affezionarmi particolarmente alle cose.
Esco chiudendomi la porta alle spalle e insieme ad essa chiudo l'ennesimo capitolo infruttuoso della mia vita. Sul pianerottolo si sente solo lei che continua a spingere contro la porta. Scendo le scale e varco la soglia del portone. Fuori mi avvolge il caos.
Le macchine incolonnate, il suono insistente dei clacson, la gente che corre, gli elicotteri che sorvolano la città, le sirene dei soccorsi in lontananza. Adesso che ci sto in mezzo non mi impressiona neanche più. Forse è proprio nel caos che mi sento a mio agio. 
Sollevo il cappuccio della felpa.
Inizio a pensare che sono nata per la fine del mondo. Che forse per tutta la vita ho aspettato questo momento. Non essere da sola mentre si va alla deriva, non essere l'unica a porsi domande, ad essere sopraffatta dai dubbi, dalla paura dell'incognita per il futuro. A non sentirmi diversa, fuori luogo perché non sono più solo io, ma il mondo intero ad essere impazzito.
   
 
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