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Autore: _FallingToPieces_    31/12/2016    6 recensioni
Eva desidera morire e porre fine alla sofferenza, ma al contempo è estremamente spaventata dalla malattia che la vuole distruggere.
Eva non ce la fa più, non sopporta più di essere così, di sentirsi tanto anormale.
Ha progettato di farla finita l'ultimo giorno dell'anno. Ma tutto in lei grida aiuto, supplica una mano per essere tirata fuori da quel tunnel di dolore interiore.
La solitudine la divora ormai da anni. I suoi sentimenti non sono poi così lontani da quelli di una persona confinata su un'isola sperduta.
Riuscirà a fuggire dalle prigioni che lei stessa ha innalzato?
"Dimentichi che nella maggior parte delle storie il naufrago viene salvato."
E forse Calum è la barca in lontananza, quella che la porterà via dalla sua isola.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Calum Hood, Luke Hemmings, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Castaway

Eva si trascina per casa in pigiama, nonostante sia mezzogiorno passato, struccata e con i capelli tutti aggrovigliati. Ha delle occhiaie pesanti a segnarle lo sguardo e un colorito più pallido del solito.
Le cicatrici sugli avambracci le bruciano, sono infuocate, anche se oggi non ha avuto il coraggio di passarci sopra la lama e riaprirle. Quelle ferite ricucite sono ricordi di un momento della sua vita in cui tutto le sembrava talmente nero e irrecuperabile da volersi gettare a capofitto sul dolore fisico per mettere a tacere quello psicologico. Quando la mente sta male, non c'è cura che possa guarirla; alleviarla sì, magari per qualche tempo, ma è conscia di non poter assumere farmaci per sempre.
E poi, un per sempre per lei non ci sarà. È per questo che, poco fa, nel buio della sua stanza, ha buttato via il rasoio affilato e ha dato un calcio al cestino. Tagliarsi non servirebbe a niente, non è mai servito a niente. Quelle poche volte che in passato è riuscita ad andare in profondità, a vedere scorrere il sangue dalla sua pelle martoriata, è stata questione di un minuto per iniziare a provare rimorso, per pentirsi della sua azione e capire di aver commesso una cazzata.
Il sollievo è minimo, dura appena qualche secondo, poi viene sovrastato dalla dura consapevolezza di sentirsi ancora più deboli, miserabili di prima, e l'odio per se stessi monta sempre più furioso.
Nel breve tragitto per ritornare alla sua camera -poiché ormai percorre solo la distanza cucina, bagno, letto da due settimane- si imbatte nella piccola Debbie, una delle tante cugine che abitano quella casa.
La bambina strilla, appena se la trova davanti. Si mette ad urlare ogni qual volta che la vede di prima mattina, quasi le faccia paura il suo aspetto trasandato e stravolto.
«Vuoi spaccarmi i timpani?» la rimprovera.
E Debbie, che deve compiere sei anni il mese prossimo, sporge il labbruccio e sgrana gli occhi. Sta per scoppiare a piangere.
«Tu sei cattiva!» È una vocetta maschile a strillare. Sam è il gemello di Debbie, sebbene a guardarli non si direbbe. Sono agli opposti anche caratterialmente, a meno che non ci sia da coalizzarsi per attaccare briga.
Eva sbuffa, massaggiandosi le tempie. Si sente la testa sempre così intorpidita, e le urla dei bambini non l'aiutano.
Prima che ambedue possano iniziare a fare i capricci, interviene Claire. «Eva, sono due bambini. Perché devi sempre prenderli in giro?»
È la più grande delle sue cugine, quella diligente e matura che va al college, che sta per sposarsi, che primeggia in tutto.
Oh, non la sopporta. Alla fine, sebbene abbia soltanto quattro anni in più, vede in lei tutto ciò che non diventerà mai. Perché lei si sente una fallita, in tutto e per tutto.
Eva scrolla le spalle. Non è più una persona di molte parole. Parlare spesso le viene difficile, le parole le rimangono incastrate in mezzo ai denti. «Non ho detto niente» si lamenta piano, sottovoce. Forse i cuginetti non l'hanno ancora perdonata per aver detto loro che Babbo Natale non porta regali ai bimbi che piagnucolano continuamente. Ma è una frase che le è uscita senza che se ne accorgesse, quel brutto giorno in cui è tornata a casa dalla visita in ospedale e non aveva i nervi saldi.
«Eva, puoi darmi una mano col pranzo?»
Il richiamo di Agnes, la zia, giunge forte e chiaro alle sue orecchie, ma finge di non sentirlo ed esce di casa, chiudendosi la porta alle spalle. «Dio, che stress» borbotta.
Il porticato è abbellito di tutte le lucine natalizie possibili. La loro vista non le aggrada. Ma non può farci niente. I Collins sentono il Natale con una passione tale da farla vomitare.
Si incammina sul vialetto, spalanca il cancello e approda in strada. Il marciapiede non lo calcola neppure. Preferisce muoversi libera sull'asfalto, preda delle sferzate d'aria che sollevano le macchine al passaggio.
Si accende una sigaretta, notando suo malgrado che il pacchetto sta per terminare. Se la porta velocemente alle labbra, tenendola sospesa tra indice e medio. Inspira con tutta la forza che possiede, a pieni polmoni, poi rilascia una nube di fumo.
Il naso le pizzica. Vorrebbe soltanto andare a dormire e risvegliarsi a festività terminate. Odia quel periodo dell'anno e i ricordi che porta con sé, ricordi che la attanagliano, la fanno sprofondare ancor più in quel torpore, in quella depressione perenne e logorante.
Vorrebbe imitare l'esempio di suo padre e affogare tutto nell'alcool, sbronza dopo sbronza, fino a perdere il controllo e non avere più un rapporto con la realtà ma solo una visione distorta di tutto ciò che la attornia.
Ha preso in considerazione l'idea, ci ha provato; un giorno si è introdotta nello studiolo dello zio e ha rubato una bottiglia di Bourbon dalla sua dispensa. Era talmente pungente da averla fatta tossire e, infine, in seguito a vari sorsi, rigettare.
Alcool e antidepressivi non vanno di pari passo, e dopo quell'episodio ha desistito.
Suo padre, però, ha sempre trovato conforto nell'alcool. Era diventato un elemento tanto fondamentale da mettere in secondo piano i figli. Non accettava di essere chiamato ubriacone, nascondeva l'evidenza e fingeva di essere perfettamente presente. Finché non ha smesso di recitare e si è lasciato avvolgere del tutto dalla morsa di quella dipendenza, abbracciandola con affetto. Eva ricorda che, negli ultimi lunghi istanti in cui gli è stata accanto, non conosceva più la differenza tra ebbrezza e lucidità. Ma dopotutto i momenti di lucidità non c'erano più, erano stati completamente rimpiazzati da qualcosa che all'apparenza sembrava essere la soluzione.
«Sempre intenta a farti investire, vedo.»
La voce che parla alle sue spalle le è tremendamente familiare, anche se un po' cambiata da come la ricorda. Ridacchia. «Le macchine hanno tutto il cazzo di spazio che vogliono, se devono passare» taglia corto. «E tu sei solo una stupida allucinazione, perciò vattene.»
In altre situazioni non avrebbe il coraggio di rivolgersi a lui in quel modo. A stento è stata capace di alzare il tono, in sua presenza, durante gli anni precedenti. Eva ha problemi a mostrare qualsiasi emozione, e da sempre propende a parlare con tono piatto, monotono, tenendosi tutto dentro.
«Mi hanno definito in tutti i modi, ma allucinazione mi è nuova.»
«Be', fattelo andare bene visto che sei in Europa, in Giappone, in Cina o... dove diamine ti pare al mondo e chiaramente non qui.» Eva non ha nessuna intenzione di girarsi. Cammina senza meta, consumando neanche troppo lentamente la sua sigaretta, ed è convinta di star ancora dormendo. Sono anni che le sembra di vivere in quello stato di abulia. È diventata asettica come il posto che tanto teme.
«Ero negli Stati Uniti. Ma hai riassunto bene le tappe del tour.»
«Sei antipatico anche nei sogni» commenta lei. Calum non può essere tornato. Non può. Non riuscirebbe a sopportarlo.
«Non ero un'allucinazione fino poco fa?»
«Direi più incubo. Da cui mi risveglierò, spero presto, e tornerò alla mia felicissima vita di sempre.»
«Continua pure ad ignorarmi.»
«È quello che farò.»
«Immagino non ti dia fastidio la mia compagnia, allora.»
Eva si ritrova affiancata da una figura alta e longilinea. Deglutisce, anche se cerca di celarlo con un colpo di tosse.
«Mi fa ridere il fatto che tu non voglia accettare il mio ritorno e mi respinga con questo comportamento ostile e infantile. Soprattutto considerando che sei stata tu a ferirmi. Tante e tante volte.»
La sua voce calda che esprime quelle considerazioni, pienamente nel suo stile, la fa per un attimo vacillare. Ha voluto credere fermamente di trovarsi in un sogno.
Si volta di scatto a guardarlo in faccia. Indossa gli occhiali da sole, un paio a goccia rigorosamente firmato, ma è certa che da sotto di essi la stia fissando.
«Finalmente ti degni di rivolgermi la tua attenzione» esclama. «Come te la passi, Eva?»
«Perché sei tornato?»
Eva ha anche difficoltà a pronunciare i nomi delle persone. Non sa perché. È sempre stato così. Quasi se ne vergogna.
Lui inarca un sopracciglio. «Voglio passare le vacanze in famiglia. Me lo merito, dopotutto. Non li vedo da tanto e mi mancano.»
«A chi lo dici.» Eva prende un'altra boccata, soffiando il fumo verso il cielo.
«Nessuna notizia di tuo fratello?»
«Ho smesso di cercare. Di sperare non ci penso neanche lontanamente.»
«Stai mentendo. Lui ti manca e continui a sperare che torni.»
Eva fa spallucce e si schiarisce la voce, che finora le è uscita roca. Quando si rimane troppo e troppo a lungo il silenzio, è così. Quello è il suono disperato che ne trapela.
«Quindi sei del tutto indifferente?» le domanda Calum, le mani in tasca e gli occhiali ora appoggiati tra i capelli scuri. «Ah, non fare così. È fastidioso quel tuo vizio di smettere di ascoltare e rispondere.»
«A te come va la vita? Ho sentito in giro che sei diventato un playboy.»
«Cazzate. Lo sono sempre stato. La fama non mi ha cambiato» sostiene anche. «Sigaretta?»
Lei gli lancia il pacchetto, tanto ce n'è solo una. «Hai perso tutti i tuoi soldi col poker oppure continui a scroccare dagli altri per hobby?»
«La seconda. Te l'ho detto, la fama non mi ha cambiato.» Calum si lascia accendere la paglia e fa il primo tiro con un certo appagamento.
«Me la devi indietro. Io sono quasi al verde» replica cupamente Eva, che la sua l'ha dovuta schiacciare sull'asfalto.
«La tua famiglia è ricca sfondata. Fatti dare la paghetta.»
«Quella non è la mia famiglia.»
«Stesso sangue.»
«Dai una possibilità ai tuoi zii. Sono brava gente» le consiglia il ragazzo, facendosi serio.
Eva si tira indietro i capelli di un rosso vivace. Sono tinti, lo si intuisce anche dalle radici nere. «Mi hanno preso per pena.» Lì dentro si sente la pecora nera in mezzo ad un gruppo di agnellini rigorosi e perfetti. «Sono la cugina stramba, fuori di testa, cupa e triste.»
«Appunto per questo mi chiedo come possano averti tenuta e persino sopportata in tutti questi anni» scherza lui.
Eva prende a camminare con più fretta, lasciandolo indietro. Si è offesa.
«Sei anche permalosa. Hai un caratteraccio, Eva. Devi riconoscere che quella famiglia, la tua, è composta da santi.» Calum approssima una corsetta fino a lei.
Stanno percorrendo tutte le vie del quartiere. Fa caldo, un caldo torbido.
In quell'istante, guardando il suo profilo -mascella serrata, lineamenti induriti, sopracciglia ridotte ad una riga- si rende conto di averla ferita. «Scusa» ripara, stringendosi nelle spalle.
«Lo pensi veramente. Non nasconderti dietro a stupide e false scuse. Non fare come loro» mormora lei, tirando una scarpata ad un sassolino. Lo fa schiantare contro la staccionata di una delle villette monofamiliari del vicinato.
«Va bene, come vuoi. Del resto hai sempre ragione tu, no?» Il moro è esasperato da quell'atteggiamento. Non ha mai saputo come comportarsi con lei. Ogni cosa che dice è sbagliata. «Io vado. I miei mi aspettano» annuncia.
Eva, per tutta risposta, si issa su un muretto coperto di graffiti e fa un cenno col capo.
Così Calum inizia ad allontanarsi. Ma ci ripensa e torna sui suoi passi. «Che fai durante queste vacanze?» le chiede. Ha l'impressione che nessuno le abbia posto la domanda.
«Niente. E non provare a invitarmi a qualche festa per compassione.»
«Non l'avrei fatto» le assicura. La conosce bene, anche se non abbastanza da leggere i suoi sentimenti. È complicata, ha mille sfaccettature. Ma in quegli occhi di un verde scolorito è impossibile non scorgere della tristezza. «Cerca di non combinare guai o di provare a farti investire. A presto, Eva.»
Eva non ammetterebbe mai che lo sta osservando di nascosto mentre si avvia verso casa. E non ammetterebbe nemmeno sotto tortura che si sente sola e lui l'ha allietata per un po' da quella solitudine. «Ho in mente di meglio» borbotta, alzando il mento a scrutare il cielo.

Il cellulare squilla per l'ennesima volta, facendola scattare sull'attenti.
È il numero di uno dei tanti reparti dell'ospedale, sono tre giorni che la stanno tartassando di chiamate. In fondo sono gli unici che la chiamano, ormai la sua rubrica langue.
Tiene il dispositivo con una mano, fissando lo schermo senza accennare a rispondere.
Perché dovrebbe? Ha già saputo tutto ciò che doveva sapere.
Non c'è niente da aggiungere, niente che possa farla sentire meglio o che possa mutare le sue intenzioni in merito.
La chiamata si interrompe, ma poco dopo riparte.
E lei sta lì immobile, incapace di muovere un singolo arto per premere il tasto di risposta.
Cancro. Questa è la parola che le ronza nella testa da settimane. Una parola corta, che le rimane sempre impigliata nelle cavità della gola, una fottuta parolina che racchiude tutto il suo destino.
I dottori le hanno messo davanti la nuda e cruda verità un lunedì fa.
Eva ha sempre temuto che, prima o poi, anche lei ne sarebbe stata vittima. Che fosse una sorta di presentimento, una semplice paura o auto-convinzione, si è rivelato tutto fondato.
Da quando sua madre è morta, ha sempre covato dentro di sé il pensiero negativo di meritarlo anche lei.
Quando stava male, quando la vedeva a letto avvolta dalle coperte e imbottita di farmaci, ha desiderato di essere al suo posto, di poter appropriarsi della sua malattia e del suo patimento.
Per una ragazzina di quattordici anni o poco più non è sano, ma non lo sarebbe per nessuno.
Lunedì scorso ha fatto dei semplici esami di controllo, perché da tempo si imponeva di dover prendere coraggio e affrontare quei sintomi preoccupanti.
Ma stare seduta su quella scomoda sedia di plastica e ascoltare la diagnosi dei medici è stato comunque un colpo. L'hanno scossa sin dalle fondamenta. La terra sotto i suoi piedi è tremata. Il cuore ha fatto dei balzi energici, e una fitta l'ha schiaffeggiata in pieno petto. Improvvisamente il respiro si è fatto corto.
Eppure ha continuato a prestare attenzione ai consigli dei dottori, perfino annuendo. Udiva le loro voci, erano ovattate e distanti, ma era in un altro mondo.
“Il tumore si sta espandendo”, le hanno spiegato, mostrandole alcune diapositive. “Dobbiamo operare. Possiamo ancora prenderlo in tempo.”
E dopo l'operazione, cosa sarebbe accaduto? Quanti cicli di chemioterapie avrebbe dovuto sopportare? E sarebbe cambiato qualcosa, alla fine?
Eva ha fatto promettere alla zia di non dire niente a nessuno, perché è maggiorenne ed è lei a dover decidere.
Da quel giorno ne sono trascorsi altri dieci. La notizia della malattia è come una coltre di nebbia che la segue ovunque si muova, coprendo il Sole, la speranza.
«Eva, tesoro?»
Si volta con espressione allarmata, come colta in flagrante. La zia Agnes è sulla soglia e la osserva con rincrescimento.
«Hanno chiamato di nuovo?»
Eva fa un cenno. Niente di più.
«Lo sai che prima o poi dovrai rispondere» dice lentamente Agnes, la voce vellutata.
«Conosci la mia decisione.»
«Ma non la condivido. Come potrei?»
«Non sei tu a dover essere d'accordo. È una mia scelta.»
Il volto della zia è stanco e preoccupato, segnato da alcune rughe. «Io non posso tenermi dentro questa cosa. Devi parlarne con Gregory, Eva. Troveremo una soluzione, po-»
«Ho detto che nessuno dovrà saperlo. Non tradire la mia fiducia. Non te lo perdonerei mai.» Eva odia essere così dura, ma è solo un atteggiamento di difesa, di protezione.
«Perché non vuoi farti aiutare da noi? Siamo una famiglia.»
«No. Voi siete una famiglia, io sono solo un ospite» mette in chiaro. Si sente un corpo estraneo, ma non può certo incolparne loro. È tutta una recita, dopotutto. Deve mantenere le apparenze.
«Questo non è vero. Io non so perché vuoi ferirci così, ma-»
«Tu non sei mia madre. Ricordatelo. Non cercare di prendere il suo posto. E Gregory non è mio padre. Non confondete più i vostri ruoli.» Sta ferendo adesso gli zii per non doverli ferire più profondamente in futuro.
E la sua tattica sta funzionando, poiché Agnes è terribilmente scossa e afflitta. Dalla sua espressione traspare tutto.
«E non tirare più fuori quest'argomento, perché se lo fai di nuovo sarà la volta buona che me ne vado da questa dannata casa» insiste Eva. Si sta mordendo la lingua per non prorompere in scuse e ritirare ciò che ha detto. Non è una cattiva ragazza, ma deve interpretare quella parte.
«Continuerò a pregare che tu cambi idea, Eva. E non smetterò di volerti bene solo perché stai facendo di tutto per rifiutarci» risponde la donna, sottotono. «Sai dove trovarci, quando deciderai di volere la tua famiglia accanto.»
«Sì, prega quanto vuoi. Come se servisse a qualcosa!» sbotta Eva. Prende il cellulare e lo scaraventa sul pavimento. «Per me è finita.»
Ma questo moto di rabbia è un segno positivo: sta reagendo, sta ricominciando a sfogarsi e lasciar libere le emozioni.

È la Vigilia. I membri della famiglia Collins non possono fare a meno di ricordarlo ad intervalli regolari di cinque minuti. Eva si è appena destata ed è già di pessimo umore.
Le urla entusiaste dei cuginetti sono la ciliegina sulla torta di un risveglio pessimo.
Dalla cucina preleva il contenitore del latte e il cartone dei cereali, riempiendo la sua tazza. Su di essa, a caratteri cubitali, è stampata la scritta keep calm and fuck off. Chiara rappresentazione di ciò che direbbe se infastidita a colazione.
Eppure, da una parte, è perfettamente sicura di non riuscire a mandare nessuno a quel paese. Recita tanto il ruolo della dura, fa l'imperturbabile, quella che non viene toccata da niente e resta impassibile a tutto; invece è un po' l'opposto, perché non ha coraggio di ribellarsi o di mostrarsi tanto concretamente tetra e crudele.
Mormora una risposta incomprensibile al «Buongiorno» degli zii e torna nella sua stanza trascinando le ciabatte. Si accomoda alla scrivania, raggomitolandosi sulla sedia girevole, e si versa dell'altro latte bianco.
Un finto colpetto di tosse le fa sollevare lo sguardo per incontrare quello di Claire.
«Mm?» la incita a parlare con un borbottio, senza sforzarsi di farlo lei stessa.
«È il ventiquattro» dice Claire, con le mani sui fianchi e un'espressione eloquente.
«So che giorno è oggi. E non mi interessa» Conta ossessivamente i giorni che le mancano per uscire da quella prigione da anni, lo fa da quando vi ha messo piede. A casa dei Collins sta male, non è a suo agio, si sente un peso, si sente inferiore.
L'altra sospira, fingendo di non averla sentita. «Come da tradizione, dovremmo andare a prendere i regali mancanti.»
«Mancanti? Come se ne avessi comprato qualcuno» ridacchia Eva, masticando rumorosamente i suoi cereali preferiti. «Ma che importa? Non ho intenzione di prendere niente.»
«Non avevo dubbi.»
«Sono senza soldi, non puoi pretendere più di tanto» replica la ragazza. Poi metabolizza il commento pacato della cugina e inarca un sopracciglio. «Sembra che la mia gravissima mancanza non ti irriti.»
«Ascoltami bene, Evangeline.» Claire pronuncia stancamente e per intero il suo nome, avvicinandosi. La guarda fissa negli occhi. «Sono abituata alle tue mancanze. E quest'anno sono decisa a metterci la parola fine. Ti farò rigare dritto.» Lo sussurra con tono più minaccioso di quanto vorrebbe.
«Ah ah» questa è la risposta di Eva, che non crede al suo avvertimento e se ne frega.
«Non ti permetterò di rovinare la tradizione e di distruggere la serenità dei miei genitori.» La cugina è seria, serissima.
Eva rimane attonita, ma si limita ad annuire con aria disinteressata. «Sono impressionata.»
«Non prenderti gioco di me. Perché io non sto affatto giocando.»
È l'unico complimento sincero che le abbia mai fatto, e l'ha ignorato. «Ok, come vuoi» si arrende. «Non mi farò vedere alla cena.» Beve in un solo sorso il contenuto residuo della sua colazione, sbatte la tazza sopra la caterva di fogli sparsi sulla scrivania e si alza. «Vi evito il problema.»
Non vuole essere estromessa da quella famiglia così unita e serena, ma non può fare altrimenti che esibire quell'attitudine. Lo fa per difendersi, non per attaccare gli altri. Perché in cuor suo è conscia di essere solamente un problema; per loro, per lei stessa, per tutti. E sempre, sempre, pensa a come togliersi di mezzo.
Claire le si para davanti, bloccando la sua avanzata. «Tu vieni con me e Lizzie al centro commerciale.»
Le suona come un ordine, ma non è granché credibile. «Non ne ho voglia.»
«Non te lo sto chiedendo gentilmente, Eva.»
«Dovresti minacciarmi. Al momento non ho voglia di fare niente.» Ed è terribilmente vero. Non ha la forza di muoversi, di compiere un qualsiasi gesto, di portare avanti una conversazione. Ha esaurito le batterie tanto, tanto tempo fa. Ormai è un'automa. Sopravvive, non vive.
«Andrò da Calum, allora. La minaccia ti pare abbastanza credibile?»
Il solo nome può farla vacillare, lo sanno tutti. Può strapparla a quell'apatia, a quel sonno profondo in cui è intrappolata. Calum è l'unica cosa che l'ha sempre tenuta in vita, che le ha fatto mantenere un contatto con la realtà. «Cosa c'entra lui?» sussurra, a corto di voce.
«Avevamo pensato di invitarlo a pranzo, domani. Con gli altri ragazzi del gruppo e le loro famiglie. Ti piace come idea?»
Eva deglutisce. Non le piace. Per niente. Ha paura di rivederlo. L'incontro ravvicinato che hanno avuto per strada l'ha lasciata senza fiato. «Hai un tuo interesse. Fa' come ti pare.» Tenta di tenere fermo il tono, mentre lo dice.
«Quale interesse?»
«Ashton.» Conosce il suo punto debole. Claire è cotta di lui da tempi immemori. «Al tuo maritino piacerebbe conoscerlo?»
«Chris non teme questi pettegolezzi. Si tratta solo di una cotta da liceale. Morta e sepolta esattamente quando ho terminato il liceo» ribatte lei, tranquilla. «Pensa alla tua situazione, non alla mia. E preparati. Abbiamo una tradizione da portare avanti.»
Eva stringe i pugni. Non deve lasciarsi spaventare dalle sue minacce a vuoto. Claire è troppo beneducata, gentile, ragionevole e tante altri begli aggettivi, per umiliarla pubblicamente. Andrebbe contro il suo stile di vita estremamente cristiano.

«Ragazze, uscite?» L'uomo di casa, Gregory, posa il quotidiano che sta leggendo minuziosamente e guarda le due figlie e la nipote sfilargli dinnanzi. È esterrefatto nel vederle insieme, o anche solo nel vedere Eva che esce di sua spontanea volontà.
«Shopping!» esclama Claire, raggiante.
«Oh, la tradizione!» annuisce, sorridente. «Brave, brave. Divertitevi.»
Eva ha un espressione scontrosa. E lo zio la riprende con un'occhiata severa. «Per favore, Eva. Un po' di spirito natalizio.»
Lei si dirige al garage e punta all'automobile di Claire, che agogna silenziosamente da due anni. Sta per salire, quando la cugina le fa segno di seguirla.
Eva vorrebbe fermarla, ma non ci riesce. Si sta indirizzando dall'altra parte della strada, verso una delle abitazioni dirimpettaie. È costretta ad andarle dietro, ritrovandosi nel giardino della famiglia Hood.
Claire suona il campanello, Eva batte il piede sullo zerbino per combattere l'ansia.
È la sorella di Calum ad aprire la porta.
«Mali-Koa!» la saluta Claire, mostrando un sorriso. «Come stai?» Per un periodo sono state buone amiche.
Eva non sa più cosa voglia dire avere degli amici. I pochi che aveva li ha persi, allontanati di proposito oppure guardati voltarle le spalle. È trascorso così tanto dall'ultima volta che ha avuto una chiacchierata con un'amica, che è uscita per divertirsi. Si sente sola, e forse la cosa più brutta è che ci ha fatto l'abitudine. Quanto è brutto abituarsi alla solitudine e viverla come se fosse parte integrante della propria esistenza? come se fosse normale?
«Tutto bene. Tu?»
Claire annuisce. «Perfettamente. Riferiresti un messaggio a tuo fratello?»
«Puoi dirmelo direttamente.» Calum spunta dal fondo del corridoio, affiancandosi a Mali-Koa.
«Eva ha una proposta da farvi.»
Lo sguardo di Eva scatta come una molla su quello azzurro della cugina. La supplica in silenzio di non continuare, di non farle questo.
«Eva? Sto ascoltando» la incita Calum.
Quando si tratta di aprire bocca davanti a tante persone, si blocca. E la presenza del moro rende tutto più arduo, sebbene sia sempre stato l'unico a farla sentire tanto a suo agio da superare certe limitazioni.
«Siete tutti invitati al pranzo di domani» risponde Claire per lei.
«A casa vostra?» Calum è perplesso. Mali-Koa ancor di più.
«Sì. Come ai vecchi tempi. Fate girare voi il messaggio ai Clifford e compagnia?»
Eva si sente braccata, in trappola. I vecchi tempi sono sepolti, cancellati. Ma non è capace di dirlo, di far capire quanto quell'idea del pranzo possa gettarla nello sconforto più assoluto.
«Anche loro?»
«Festeggiamo alla grande quest'anno.» Claire elargisce altri sorrisi. Ha parlato solo lei, come al solito. Eva non ha avuto il coraggio di intervenire. È sempre così. Non ne è in grado, per quanto ci provi e riprovi.
Muove dei passi veloci fino all'Audi, rintanandosi nei sedili posteriori e ignorando le occhiate confuse dei tre che ha lasciato senza proferire parola.
Elizabeth, la cugina minore, la osserva dallo specchietto retrovisore. «Tutto ok?» le domanda, preoccupata.
Eva sta ancora fissando il finestrino con aria assente, quando Claire sale in macchina e si prepara a innescare la retromarcia.
«Perché l'hai fatto?» le chiede soltanto, e per la prima volta da anni nella sua voce si ode una sfumatura di rabbia, di risentimento. Il ritorno di Calum sta tirando fuori le sue emozioni, a lungo represse e celate sotto un cumulo di gelo.
«Mi ringrazierai» risponde Claire, accelerando. E ne è convinta. Perché Eva non se ne rende conto, ma ha davvero bisogno di qualcuno che la scrolli e la faccia riemergere.

Il centro commerciale è affollato oltre ogni previsione. Famiglie che si precipitano da un negozio all'altro, dividendosi per finire gli acquisti con più celerità, persone singole che si soffermano a studiare tutte le vetrine, bambini che corrono ad ammirare i giocattoli che desidererebbero trovare sotto l'albero. E poi ci sono loro tre, che si aggirano per i corridoi con il carrello vuoto.
«Chi l'avrebbe mai detto che si sarebbe rivelato un buco nell'acqua?» commenta Elizabeth, mordendosi il labbro.
«Ci vuole pazienza» replica Claire, che per ogni regalo interessante riesce a scovare almeno cinque difetti.
«Dicono che il motto di Natale sia “è il pensiero che conta”» borbotta Eva.
«Scommetto che per te metterci il pensiero significa lanciare oggetti a caso dentro il carrello» commenta lei, ostinata.
Eva annuisce, confermando. Elizabeth, che ha sedici anni, si lascia scappare un risolino.
«Concentriamoci.» La maggiore del gruppo non ha intenzione di perdere tempo. Si avvia all'interno di un negozietto di cianfrusaglie e soprammobili particolari.
E lì, vicino alla cassa, Eva intravede Luke. È cambiato tantissimo dall'ultimo incontro che hanno avuto.
Il loro rapporto è stato conflittuale, pieno di tira e molla. Uscivano insieme, prima che Eva si rendesse conto di essere innamorata di Calum, che è il suo migliore amico.
«Io... propongo di dividerci» dice allora. Non se la sente di entrare.
«Ma qui potremmo trovare qualcosa per i gemelli» obietta Elizabeth.
Eva si mette a correre. Ha bisogno di aria. Fatica a respirare. Spintona per sbaglio una coppia sulle scale mobili, loro le danno della maleducata, ma lei è lanciata verso l'esterno. Appena le porte automatiche si aprono, lasciandola uscire, si nasconde tra le automobili e appoggia la schiena alla portiera di una di esse. Inspira ed espira ripetutamente, imponendosi di riprendere il controllo. Ma controllare un attacco di panico non è impresa facile, né producente.
Ti succhia le poche energie che hai, perché le impieghi tutte per cacciarlo via. Semplicemente non si può controllare.
Ha letto, ha esaminato libri a sfondo psicologico per capirne qualcosa e carpire segreti. Ma si è resa conto che l'unico modo per vincere una crisi di panico sia di lasciarla fluire, farsi dominare e arrendersi alla sua potenza, alla sua superiorità. Arrendersi per un attimo, prostrarsi alla propria debolezza, per poi risorgere più forti di prima, più consapevoli.
È da quando ha undici anni che le capita di avere questi momenti.
«Devo solo accettarlo» si dice, chiudendo gradualmente gli occhi e smettendo di porre resistenza. «Non devo respingerlo.»
Trascorre un paio di minuti a sussurrare frasi simili, finché il battito cardiaco non le si stabilizza.
«Eva?»
Una voce squillante e inconfondibile la obbliga a sollevare le palpebre. Una capigliatura più rossa e appariscente della sua le balza subito all'occhio. «Mikey?»
«Gesù, non ci vediamo da una vita.» Michael le sorride, ma è leggermente a disagio. Dall’estate di quasi quattro anni fa, quando -dopo un'epocale litigata tra Luke e Calum scoppiata a causa di Eva- il gruppo è partito per la tournée mondiale, i rapporti si sono incrinati fino a divenire pura indifferenza.
Lei sta ancora male, se pensa ai momenti felici che ha passato con lui e gli altri. Le manca terribilmente la loro amicizia, ma sa di non poter fare niente per riportare tutto a com'era. «Già» conferma, cercando di mantenersi distaccata. «Come va?»
«Alla grande» risponde Michael, spettinandosi i capelli. «Tu? A proposito... che stavi facendo qui nascosta?»
«Niente.» La ragazza si rialza, sistemandosi i vestiti spiegazzati. «Anzi, devo rientrare. Io...» Non completa la frase e se ne va di fretta, facendosi di nuovo investire dalla folla del centro commerciale.
«Aspetta!»
Preferirebbe evitarlo. Non vuole restare in sua compagnia, né in compagnia di qualsiasi vecchio amico. Sa che finirebbe per affezionarsi a loro come ha fatto la prima volta e non può permettere che accada. Così si infila in mezzo alla calca e finge di non sentirlo, sebbene lui la stia chiamando a gran voce.
Sbuca vicino ad un'erboristeria e si ritrova a pochi passi dalle cugine. Con loro c'è un ragazzo. Sta di spalle, ma dall'altezza e dai capelli biondi -lievemente più scuri rispetto a come li ricordava- riesce a intuire chi sia. Ha sperato che non si incontrassero, nel frattempo che era nascosta nel parcheggio.
Fa segno a Claire di non annunciargli la sua presenza, ma è questione di secondi e incrocia due limpidi occhi azzurri.
«Oh... Ehi, ciao.» Luke è disorientato, non sa bene come rivolgersi a lei. Sa solo che Eva ne ha combinate troppe ai loro danni. E ancora non è riuscito a perdonarla, nonostante il tempo che hanno trascorso lontani.
«Ti ho chiamata un centinaio di volte!» Michael li raggiunge, fermandosi a riprendere fiato. «Non mi hai sentito?»
Eva scuote la testa. Percepisce addosso lo sguardo di Luke, ma non ha il coraggio di incrociarlo e provare a decifrarlo. Però, mentre Claire ed Elizabeth si soffermano a salutare Michael, lo scopre ad osservarla di sfuggita.
«Potremmo unirci a voi» esclama Michael. «Abbiamo delle cose da comprare, vero Luke?»
La ragazza spera che il biondino accampi una scusa qualsiasi pur di non rimanere con loro. Ma lui accetta e poco più tardi sono tutti e cinque alle casse del supermercato.
«Ci riforniamo per le feste.» Michael giustifica la quantità di birre e superalcolici che scorrono sul rullo trasportatore, grattandosi la nuca al sorrisino della giovane cassiera.
«Allora... Sei tornata.»
La considerazione di Luke prende Eva in contropiede. «Siete voi ad esser tornati.»
«Sì, be'... Ma di solito non passi anche le vacanze in quel collegio?»
Lei, che sta mettendo sopra il nastro vari oggetti e tanti sacchetti di patatine e dolciumi, si sorprende che se ne ricordi. Si stringe nelle spalle. Come sempre, ha una maglietta a maniche lunghe a coprirle i segni sulle braccia.
«Cambiato idea?»
«Più o meno.» Non vuole rivelargli che ha lasciato la scuola, che ha frequentato solamente due misere settimane a spizzichi e bocconi e poi ha gettato la spugna.
Perché in realtà nessuno sa come Eva abbia trascorso gli ultimi tempi. È saltata da una clinica per disturbi depressivi all'altra. Il liceo l'ha visto poco e niente, seppure gli zii raccontino in giro che è iscritta ad un collegio fuori Sydney.
«Com'è quel posto?»
«Una prigione» risponde prontamente Eva, e nel frattempo il gruppetto si indirizza fuori dal supermercato. Tengono una borsa a testa, ed è stato Michael ad offrirsi di pagare il tutto, pur dovendo sorbirsi le lamentele di Claire -che, assolutamente, non può accettare.
«Michael, sai bene che possiamo permetterci queste cose» ribadisce. «Non c'era alcun bisogno che pagassi tu.»
«Dai, è Natale» taglia corto lui. «Nessun problema.»
Elizabeth improvvisamente adocchia qualcosa di interessante e indica una vetrina che mette in mostra una grande quantità di vinili, e pure Michael viene catturato dal fascino che emanano. Claire è costretta a seguirli controvoglia: deve tenere sotto controllo la sorellina.
Luke ed Eva rimangono da soli nel caos che li circonda, il che è paradossale. Non sanno che pesci prendere, di cosa conversare, se guardarsi in faccia oppure no.
«Una prigione?» ripete lui, a scoppio ritardato. «Cosa vi fanno studiare di tanto brutto?»
Eva scuote il capo, volendo troncare il discorso. Ha sempre amato studiare, ma non è mai riuscita a darsi la possibilità di farlo con costanza. A scuola soffriva, era costantemente sotto sforzo, si sentiva soffocare.
Luke intuisce che non voglia sputare il rospo, così: «Non si tratta dello studio, vero? C'è qualcos'altro che ti fa star male, lì dentro.»
La ragazza annuisce impercettibilmente, eludendo il suo sguardo.
«Non vuoi dirmi di cosa si tratta, immagino.»
«Già lo sai» sussurra Eva. «C'è qualcosa che non va in me.» Critica se stessa per non lasciare che prima lo facciano gli altri. Si pone sempre sulla difensiva, per evitarsi delusioni.
Luke sta per ribattere, ma lei va dietro alle cugine e Michael nel negozio di musica. Qui decide di mettere da parte i pensieri che le vorticano in testa, tutti concentrati sui suoi vecchi amici.
Potrebbero rimanerle pochi mesi di vita. Non ricorda nemmeno la stima che ha fatto il medico. O forse non l'ha voluta ascoltare, presa com'era dal negare ogni forma di terapia e cura che le hanno illustrato.
Ma una cosa l'ha compresa in quel colloquio. Ha compreso che è arrivato il tempo di prendere una decisione: decidere se, per l'occasione, allontanarsi o riavvicinarsi ai propri cari. Non può scegliere entrambe le prospettive. E non vuole che nessuno le stia accanto in quella situazione. Perché è sicura che la sua convinzione di non sottoporsi all'intervento vacillerebbe violentemente, se qualcuno dimostrasse di tenere a lei, di desiderare che non si spenga.
L'occhio le cade su una raccolta di cd di una band che, da piccola, adorava.
Deve comprarlo. Non importa che costi una fortuna, che in tasca le rimarrebbero soltanto cinque dollari; non le importa neanche della fila chilometrica per pagare, dell'ansia che procurano tante persone in un posto piccolo. Si mette in coda, ignorando tutto ciò che in un momento differente l'avrebbe messa a disagio.
«Che bello. Per chi lo prendi?» Elizabeth le si affianca, accennando al cofanetto.
«Mio fratello.» Ad Eva viene fuori senza che abbia davvero voluto dirlo, o pensarlo. Si è rifiutata fino all'ultimo di perdonarlo per essere scappato, per non averle mai fatto sapere dove si trovava o se stava bene. Una mattina era entrata nella sua camera, nella vecchia casa, e non aveva trovato più niente, non un bigliettino, nulla. Questo è successo dopo il suicidio del padre.
Estrae le banconote dal portafogli, la fila si sta rimpicciolendo.
«Sei sicura di non volere che ti aiuti?» domanda Elizabeth, notando il poco denaro che le resta. «Dopo non potrai comprare altro.»
«Lo so... Il tuo regalo e quello di-»
«Non devi comprarmi niente» le assicura la cugina. Ha una voce dolce, che s’addice perfettamente al suo volto a forma di cuore e ai lunghi boccoli biondi. «Per i gemelli ho pensato che ciò che ho preso prima potesse essere da parte di entrambe. Insomma, se sei d'accordo.»
Eva abbozza un sorriso. Forse Elizabeth non è male come ha sempre creduto.

Sono le due del pomeriggio. La corsa allo shopping è finalmente terminata. Ad Eva brontola lo stomaco, duole la testa e non ha mai desiderato tanto ardentemente di tornare a casa.
«Volete un passaggio?» chiede Michael, una volta che giungono nel parcheggio sotterraneo.
Claire indica la sua auto nera e lucida, sbloccando le portiere con il telecomandino. «Come se avessimo accettato» lo ringrazia.
«Vi do una mano a caricare le borse, allora» si propone. «Posso?» Allunga le braccia in direzione di Elizabeth, che ne tiene tra le mani una dall'aria pesante.
Eva sospira. Sembra che una coalizione trami alle sue spalle per farla restare il più possibile sola con Luke.
Quest'ultimo è dello stesso parere, sebbene non esibisca apertamente la sua insofferenza. «Hai... È stato davvero un bel gesto» farfuglia. «Il regalo per Joe, dico.»
Eva se lo stringe al petto e annuisce. Sa già dove lasciare quel dono, è certa che prima o poi il fratello tornerà e lo troverà.
Ma non vuole proseguire quella conversazione. Non solo perché non se la sente di parlare di Joe; non vuole che, guardando negli occhi Luke, riaffiorino certi ricordi. Non vuole soffrire, e non vuole nemmeno che lui soffra.
Sale in macchina, sfuggendo ancora una volta al suo sguardo.
Elizabeth si congeda dai ragazzi con un sorriso timido ed educato e si accomoda nel sedile del passeggero, allacciandosi la cintura. Claire si abbraccia sia uno che l'altro, con loro sommo stupore, strapazzandoli come farebbe una mamma. «A domani, ragazzi.»
Ed Eva, osservando la scena con una smorfia, è invidiosa. Vorrebbe tanto poterlo fare senza dover pensare che da un semplice gesto ne scaturiscano delle conseguenze. Vorrebbe ricucire i rapporti con loro senza dover angosciarsi col pensiero che, in un modo o nell'altro, sarà capace di spezzare nuovamente quel legame. Volente o nolente, deve accettare che non li rivedrà più.

Eva sta contemplando la lettera che ha appena finito di scrivere. La sua calligrafia è ordinata e sottile, sebbene non manchino le varie cancellature. Per buttare giù quelle righe è riuscita ad accartocciare e gettare nel cestino ben tre fogli di prova. Non è mai stata brava nell'esprimere i suoi sentimenti, ma il diario nel quale appunta ogni riflessione l'ha concretamente aiutata a metterli su carta. Purtroppo, ha consumato tutte le pagine.
Quando bussano alla porta della sua camera, trasalisce. Afferra la busta che giace accanto all'usurato diario, la inserisce a casaccio tra una pagina e l'altra e si affretta a nascondere tutto nel cassetto della scrivania.
L'uscio si apre piano, mostrando la figura esile di Elizabeth. «È permesso?»
Eva si muove con la sedia girevole verso di lei, dandosi la spinta con i piedi, e la incoraggia a esordire con un cenno.
«Uhm... c'è un regalo che vorrei davvero.»
E siccome esibisce un'espressione scettica, Elizabeth aggiunge: «No, non intendo un regalo materiale.»
Eva non capisce dove voglia andare a parare.
«Voglio... essere come te.»
Elaborando quella strampalata richiesta, Eva aggrotta la fronte. «Cosa?»
«Fammi assomigliare a te.»
Continua a non capirla. È dolce, educata e carina. Perché vorrebbe somigliarle?
Lei ha un aspetto talmente disordinato e caotico da attirare solo occhiatacce.
«Ti prego.»
Eva si osserva: indossa dei pantaloncini strappati su più punti e una maglia nera di rete. Poi osserva l'abito color confetto della cugina. «È per un ragazzo?» Solo quella potrebbe essere la ragione a spingerla ad un gesto così estremo. Infatti aggiunge: «I tuoi lo conoscono?»
Elizabeth annuisce. «Sì, ma...»
Eva la stuzzica con uno sguardo indagatore.
«Eva, lui non sa nemmeno che esisto. È inutile che ti dica chi è» mormora la bionda.
Non sa che esiste, però Elizabeth ha scelto di stravolgere completamente la sua persona per lui. «Io lo conosco?»
«Sì» si arrende lei.
Al che, Eva si alza e fruga nel mobile della cassettiera. Da sotto varie paia di calzini estrae una cornice e la pone davanti agli occhi di Elizabeth. Non rispolvera quella fotografia da così tanto che si è persino dimenticata delle pose che hanno assunto.
Punta Michael col dito. In fondo non conosce poi molti altri ragazzi.
«Non è lui.»
L'indice salta la figura di Ashton; lo scarta a priori, dato che piace già a Claire. E non può essere Luke, gli avrà parlato sì e no mezza volta. Quindi con il dito esita su Calum, spiazzata.
«Calum? No, no. Non ti farei mai una cosa simile.»
Rimane solo il giovanotto biondo e dinoccolato. Notando come Elizabeth si sia stretta nelle spalle per l'imbarazzo, Eva impallidisce. «Luke?»
La cugina si precipita subito a chiudere la porta cosicché nessuno oda.
«Lui sta con-» inizia Eva, in evidente difficoltà.
«Arzaylea. Lo so. Non intendo mettermi tra loro. Vorrei soltanto... mostrargli cosa si perde.»
Ma Eva non può aiutarla. Sarebbe troppo. Non riesce ancora a guardare in faccia Luke, dopo quello che è successo tra loro. E, per la prima volta da anni, in lei si accende qualcosa di simile al dispiacere. Ha sempre creduto di non essere attaccata alla cugina, tuttavia inizia a pensare di essersi sbagliata quando incontra il suo sguardo speranzoso.
«Quindi... ti va di darmi una mano? Lo sanno tutti che, be', aveva un debole per te.»
Non vorrebbe immischiarsi in niente che riguardi Luke. La loro storia è stata breve, ma ha lasciato ad entrambi delle cicatrici.
Eppure alla fine Eva annuisce. «Okay.»

Elizabeth si sta guardando allo specchio con occhi e bocca spalancati. Sono cinque minuti che non emette un fiato e sta ferma in quella posizione.
Eva le ha tinto i capelli di azzurro, perché ricorda ancora che Luke impazziva per quel colore. Quando sono usciti per il primo appuntamento, i capelli di lei erano così.
Le ha prestato alcuni vestiti che aveva così accanitamente relegato ad un angolino del guardaroba, quando i ragazzi sono partiti per il tour e ha perso la loro amicizia. Adesso Elizabeth indossa una minigonna e un lucido top nero con i laccetti sulla scollatura.
«Sei sicura che Luke apprezzi questo genere?» Elizabeth è molto dubbiosa a riguardo.
Ma Eva non le risponde. Sa benissimo che quello è il genere di Calum, non di Luke. La sua testa le sta giocando brutti scherzi.
Credeva di aver sepolto quel capitolo della sua vita, quella parte di adolescenza, quei sentimenti. Riesumare degli stupidi vestiti della sua fase goth la sta costringendo a ripensare al passato.
Prende un grosso respiro per placare l'ondata di malinconia che la sta pervadendo.
Da quanto tempo sta andando avanti così, senza accorgersene? Da quanto non vede allo specchio la sua figura triste, pallida e inespressiva? Da quanto non prova qualcosa che non sia quella profonda voragine che le divora l'anima?
«Sembra un bravo ragazzo, ma scommetto che in fondo... insomma... non è un angioletto» commenta Elizabeth.
Eva si volta improvvisamente a guardarla. È la sua copia a sedici anni. Solo più carina, dai tratti più delicati, dal corpo più armonioso. È proprio disposta a tutto pur di lasciarlo a bocca aperta, se ha trasformato la sua fluente chioma bionda e il suo abbigliamento da bambolina.
Elizabeth si è comportata diligentemente per tutta la sua giovane vita. È il prototipo della figlia perfetta. Studia tanto -e lo fa anche con piacere-, frequenta posti raccomandabili, ha lo stesso giro di fidate amiche dalle elementari e non beve o fuma. Deve essere stanca delle pressioni che riceve per essere così.
Ha persino preso in considerazione, dietro una spintarella dei genitori, alcuni celebri college americani. Forse ci entrerà, chi lo sa.
Eva pensa allora a se stessa. Quale carriera ha desiderato di intraprendere, quando ancora era capace di sognare?
Sorride con amarezza. Studiare psichiatria. Scuote la testa, come se questo sia un obiettivo ridicolo.
È stata a stretto contatto con uno psichiatra o due, nel periodo più devastante della depressione. Ha ammirato il loro lavoro.
Ma probabilmente è un'utopia. Non lo diventerà mai. Probabilmente è destinata ad entrare in quello studio solo restando dall'altra parte, quella del paziente.
Posa lo sguardo sullo zaino di scuola che giace sotto il letto. È vuoto da mesi.
No, è sicura che non diventerà mai una psichiatra o qualsiasi altra cosa. Non diventerà mai niente perché, spostando invece lo sguardo sulla piccola cassaforte accanto alla cartella, vede la busta con i risultati degli esami medici.
In quei giorni non ha mai dovuto ricorrere alla memoria per ripetersi le parole dette dai dottori, la diagnosi; ma, stranamente, in quel pomeriggio trascorso con Elizabeth ha completamente rimosso il destino che la attende. Si è distratta. Ed è stato bellissimo, per una volta.
«È vero?»
Sbatte le palpebre alla voce della cugina. Non ha ascoltato un solo pezzo del suo discorso.
«Voglio dire, tu conosci molto bene Luke. Com'è, in realtà?»
Eva non lo sa, non lo sa più. Non sono amici. Nessuno dei quattro è più suo amico. «Non lo conosco così bene» mormora. Eppure è errato, è una menzogna. È stato il suo primo fidanzato, il suo primo bacio, il primo “ti amo” ricevuto.
Nessuno sapeva che stessero insieme. Era una relazione segreta. C'erano troppe incertezze per uscire allo scoperto: Aleisha che aveva una cotta per Luke, e lui che non era riuscito a confessarle di non sentire lo stesso, Calum che aveva puntato Eva dal primo giorno, seppur celandolo a tutti, Eva che non aveva mai potuto mentire a se stessa sui sentimenti contrastanti che provava per Calum.
I due ragazzi, amici dalle elementari, hanno litigato per colpa sua, quando è venuta a galla la verità, quando sono successe tante altre cose che hanno messo nei guai Eva.
E lei non può permettersi di seminare ancora zizzania, perché tanto non le resta più molto tempo a disposizione prima di lasciare tutti.

Eva si ritrova sul solito muretto ricoperto di scritte e disegni, le gambe a penzoloni e lo sguardo rivolto al cielo. Non ci sono nuvole. E il sole sta per tramontare.
Dovrebbe rientrare, in fondo è una cena importante. Ma non ha il coraggio di farlo. Perché per quanto provino a farla sentire parte integrante dei Collins, ha sempre questa convinzione di essere indesiderata.
Consuma l'ennesima sigaretta della giornata nel giro di due minuti, con la cenere che ricade sul diario aperto sulle ginocchia. Ne è ossessionata, non permette a nessuno di sfiorarlo. All'interno ci sono troppi segreti, troppe ammissioni.
Al suono di passi che si avvicinano, lo chiude bruscamente e lo getta dentro la sua tracolla multicolore.
«Non dovresti essere a casa?» È Calum, che appoggia la schiena al muretto e decide di farle compagnia, proprio lì dove tempo fa si sono parlati per la prima volta.
La ragazza fa spallucce.
«La cena di Natale dei Collins è una tradizione imprescindibile» osserva lui. «Non torturarli anche oggi.»
«Cosa vuoi?» Eva va dritta al dunque, sussurrando con impazienza quelle parole. Perché o è stanca di parlare o non ci riesce.
«I tuoi zii mi hanno chiesto, anzi supplicato, di parlarti.»
«Mi controllano anche?»
«Ferma.» Calum anticipa la sua intenzione di scappare. «Non andare da loro, se è soltanto per trattarli male.»
«Non sono affari tuoi.»
«Potrai anche essere infastidita perché mi hanno chiesto di tenerti d'occhio, ma io ho accettato di farlo. Quindi prenditela con me, se devi.»
Eva, però, non è capace di prendersela con lui. E Calum lo sa bene. «Lasciami in pace» mormora solamente, raccattando la sua borsa da terra e avviandosi verso una meta qualsiasi.
«Quel diario... perché lo custodisci tanto gelosamente?»
La domanda inaspettata la prende in contropiede, e con un gesto meccanico stringe con vigore la tracolla sul fianco quasi voglia proteggere le sue confessioni.
«Hai scritto qualcosa su di me, suppongo. No?» prosegue Calum. «Prima o poi i segreti vengono scoperti, Eva. E se riguardano me, a quel momento manca davvero poco.»
Eva sbuffa. Quel momento non arriverà mai. Lei metterà fine a tutto. Lo farà uscendo dalla porta secondaria, quando tutti saranno impegnati a fare il conto alla rovescia per il nuovo anno. Ha pianificato tutto, con una sconcertante dovizia di particolari.
«Mi devi ancora la verità.» Il moro non molla, è tenace. «Soprattutto su quel giorno.»
Quel giorno. L'ultimo che hanno passato tutti insieme come amici. Quel giorno in cui Eva ha visto sua madre spegnersi nel letto d'ospedale ed è corsa da Calum in cerca di conforto, singhiozzando fuori di sé. L'ha trovato con un'altra, con Aleisha. E qualcosa dentro di lei si è spezzato, perché poco prima aveva lasciato Luke per lui, aveva rinunciato ad un ragazzo premuroso e innamorato per un altro che era così volubile e scostante da non poterle dare certezze.
«Tu non sai come è stato svegliarmi mattina dopo mattina e pensare a te che tentavi di buttarti giù da un cornicione» riprende Calum. «Non hai la minima idea di cosa voglia dire provare quella fottuta sensazione di rimorso! Hai cercato di ammazzarti, Eva. Dopo avermi incolpato di averti fatta soffrire, dopo aver urlato di odiarmi. Voglio la verità. Ora.»
Lei sussulta. Non hanno mai affrontato esplicitamente l'argomento. Si sono limitati a insulti ed elusioni finché il gruppo non è partito. «Non troverai risposte qui dentro» risponde, il tono incredibilmente sommesso. E fa per andarsene, come al solito.
Ma Calum le blocca il polso, instaurando un contatto fisico che non esiste più da tanto. «Non farlo, non provare a fuggire. Non con me. Non mentre ti sto chiedendo di dirmi cosa cazzo è successo quel giorno!» sbotta. «Parla, Eva. Tira fuori quella dannata voce e parla!»
«Sei tu a non sapere niente!» urla Eva, liberando finalmente la voce che ha tenuto soffocata per anni. «A non sapere come ci si sente» aggiunge più pacatamente, stringendo i pugni. «Tu non sai nulla di me. Non sai cosa significa annaspare per rimanere a galla, per non affogare. Non sai cosa significa la solitudine. Non sai niente!» ora sussurra, gli occhi lucidi. «Non sai cosa significa essere sola al mondo, non avere amici, non avere nessuno e voler smettere di vivere. Cosa pensi di saperne tu di tutto questo? Cosa?»
E Calum ammutolisce. La guarda dall'alto del suo metro e ottantacinque, ma non risponde. È interdetto.
«Io vivo costantemente con il desiderio di morire. E tu non puoi capire, non puoi capire quanto sia doloroso esistere così» conclude Eva, che quasi non ha più fiato. Districa il polso dalla stretta di lui, scuote il capo con una lacrima che le riga il volto e corre via.
Rincasando, si accorge di star tremando. Non è mai riuscita a tenere testa a Calum in nessun modo. Quella è forse la prima volta, ma date le circostante non può esserne felice o soddisfatta.
Abbassa tutte le veneziane della sua camera dalle pareti viola scuro e si getta sul letto. Afferra il vecchio iPod dal comodino e si infila le cuffiette con rabbia. Ha bisogno di placare il respiro, l'agitazione.
È ossessionata dalla band americana The Pretty Reckless, sono gli unici che potrebbe ascoltare senza mai stufarsi. Ma in quell'istante, facendo susseguire una loro canzone dopo l'altra, non sono in grado di calmarla.
Si alza e scende in cucina. Sulla soglia però si ferma. Gli zii e Claire stanno discutendo bisbigliando di lei. Si appiattisce alla parete del corridoio.
«Da quando sono tornati i ragazzi, sembra diversa. Non avete notato che ha cominciato a parlare di più?» dice Claire. «Sono quattro anni che non esterna niente.»
«Prima dovevamo costringerla a rispondere» conviene Gregory, lo zio. «È un segno molto positivo. Dovremmo informare i medici e lo psicologo. Potrebbero diminuire la quantità degli antidepressivi.»
«Io non credo che sia una buona idea» obiettò Agnes. «È ancora troppo instabile. Se accadesse qualcosa più avanti...»
Eva spalanca gli occhi. Vorrebbe fidarsi della zia, della sua promessa di non dire niente sulle sue condizioni di salute, ma non ci riesce.
«Ti riferisci alla partenza dei suoi amici? Certo, quello sarà un altro brutto colpo. Però, se solo riuscissimo a farli riavvicinare, avrebbe un motivo per continuare a tenere duro.»
«No, io... mi riferisco ad un'altra cosa. Mi ha fatto giurare di non dirlo a nessuno, ma come posso mantenere la mia parola?» esclama Agnes, rammaricata.
Eva sbuca dal corridoio, non potendo trattenersi. «Hai promesso» le ricorda. «Hai promesso di tenertelo per te. Non farmi pentire di essermi fidata.»
La donna si passa una mano sulla fronte. «Mi dispiace davvero, Eva. Non vorrei farlo, credimi.»
«Ti prego» la supplica.
«Devono saperlo pure loro. Noi possiamo aiutarti, tesoro.»
«Nessuno può aiutarmi.»
«Che cosa sta succedendo?» chiede Gregory, con apprensione. «Eva, cosa devi dirci?»
Ma Eva sigilla le labbra, che quasi spariscono in una linea dritta e arcigna. Sta pregando la zia con il solo sguardo.
«Gli esami che ha fatto due settimane fa...» comincia lei. «All'ospedale le hanno diagnosticato un tumore.»
E la ragazza non muove un muscolo, tesa com'è nel tentativo di non scoppiare a piangere. La stanno osservando increduli, scioccati. Anche Claire non ha parole.
«Non riporrò più la mia fiducia in te» dice Eva, rivolta alla zia. Non vuole accettare che l'abbia fatto per il suo bene. «Mai più.»
Gregory si avvicina. Si toglie gli occhiali da vista, battendo nervosamente la stanghetta sul mento. «Si può guarire, Eva» la rassicura. «Contatteremo qualsiasi medico, qualsiasi struttura che-»
«Non guarirò» lo interrompe lei. «Non mi sottoporrò a nessuna cura.»
«Perché? Eva, ascoltami.» Lo zio appoggia le mani sulle sue spalle. «Lo so che è difficile, che hai paura. Ma non puoi arrenderti così, prima di aver combattuto.»
«Mia madre è morta dopo aver combattuto per un anno intero. Dopo aver accettato terapie su terapie. È servito a qualcosa, se non a stremarla? Avanti, ditemelo. È servito? No. E io non opporrò resistenza.» Sembra che tutto ciò che si è tenuta dentro durante l'adolescenza stia venendo fuori in un sol istante. È liberatorio da una parte e sfiancante dall'altra.
Gregory chiude gli occhi, sospirando. È sempre stato molto legato alla sorella. «Devi provarci, Eva. Solo provando potrai riuscirci. Ti sto pregando di non arrenderti. Tutta la tua famiglia lo sta facendo. Noi ti vogliamo bene.»
«Basta.» Eva si scrolla le sue mani di dosso e si dirige alla credenza. Apre un pacchetto di patatine, alienandoli dalla sua mente. «Ho fame.»
Fa sempre così. Estromette tutti dai suoi pensieri, quando non vuole più sentirli parlare.
«Eva...» Claire tenta di attirare la sua attenzione.
Ma lei ha deciso di non volerne più sapere niente. Così ritorna nella sua stanza e si richiude a riccio, appoggiando la testa tra le ginocchia.
Tuttavia non riesce a stare nella stessa posizione per più di un minuto. Prende il diario dalla tracolla, allungando il braccio. E rilegge la lettera che ha progettato di lasciare ai Collins.

Lo negherò fermamente, lo sapete bene. Ma devo ringraziarvi per avermi ospitata da voi per tre lunghi anni. Non ce ne sarà un quarto. Non so se sentirmi dispiaciuta, se provare del senso di colpa per abbandonarvi così. In realtà non so proprio cosa sto provando. C'è una parte di me che non riesco ancora a decifrare.
Mi sembra quasi di scrivere di un'altra persona, e non di me stessa. È ridicolo ammettere con questa indifferenza di star per morire.
Ancora non ho capito se sono davvero indifferente. Penso che la mia sia soltanto paura. Paura di essere stroncata da qualcosa che non posso controllare.
E io sto male quando non posso controllare ciò che mi circonda, vengo investita dal panico.
Tremo scrivendo questa lettera. Forse non sono poi così irrimediabilmente apatica. Forse non sono la persona abulica e insofferente che tutti vedono. Perché dentro di me, ogni tanto, prevale quell'altra parte, quella che ha ancora con sé un briciolo di sensibilità, di speranza, di emozione, di vita.
Adesso sta prevalendo. Ma sono sicura che la spegnerò come ho sempre fatto ultimamente.
Ho un piano. Sono mesi che lo sto costruendo. Non vi piacerà. È un gesto disperato.
L'ultimo giorno dell'anno sarà anche l'ultimo della mia vita. Mentre voi sarete tutti impegnati a festeggiare, io prenderò la decisione che avrei dovuto prendere tempo fa.
Non posso più vivere così, non ho più forze per lottare o forse non le ho mai avute.
Sono stanca. Di tutto. Sono stanca di sentirmi sola, di non riuscire ad uscire da questo stato d'animo. Sono esausta. La depressione si è portata via tutto. Quale motivo ho di rimanere?
Libero il mondo della mia presenza. Le persone tristi vengono allontanate da tutti, è così che si dice. Sono destinate all'isolamento.
E io non posso più sopportarlo. Ho sperimentato queste delusioni per troppi anni della mia giovinezza.
Quando troverete questa specie di lettera, sarà già tutto finito. Io sarò finalmente libera.
E di questo non posso chiedervi perdono.
Eva


È solo una parte dei tre fogli che ha scritto. Non sa se sia la più importante. Non sa nemmeno se le sue parole suonino troppo disperate.
Ma non le potrebbe importare di meno. Lei stessa è disperata. Non vede più vie di uscita, ormai.
La confezione di pillole che ha rubato dalla clinica per disturbi psichici e alimentari è chiusa nella sua piccola cassaforte. E la attende. Ancora una settimana e quel mix letale la ucciderà.
«Ehi, ti dispiace se sto un po' qui?»
La porta si è aperta all'improvviso facendo sobbalzare Eva, la quale ha subito nascosto la lettera.
Elizabeth le sorride incerta. «Da me non riesco a studiare» si giustifica.
L'altra la fa accomodare con un movimento delle mani e deglutisce. «Perché?» chiede, appena udibile.
«Stanno litigando. Sento le loro voci fino alla mia stanza.»
«Litigando?» ripete Eva.
«Già. Non so per cosa. Ma è strano, di solito non discutono mai.» Elizabeth pare smarrita.
Ma Eva la sa lunga. Conosce il motivo della litigata degli zii. Gregory potrebbe essersi arrabbiato perché la moglie ha taciuto la verità.
Non è poi così bello sapere di esserne la causa.
«Mi metto qui e non ti do fastidio, giuro» le assicura la cugina, sedendosi alla scrivania. Ha una libro di Letteratura da circa mille pagine posato sulle gambe e lo sfoglia con gran interesse.
Ma la sua concentrazione sullo studio dura una decina di minuti, poiché improvvisamente solleva lo sguardo da cerbiatto e inclina la testa di lato. Il nuovo look le dà un'aria più matura, sembra più consapevole della sua bellezza. «Posso farti una domanda?»
«Mmm.» Eva è riversa sul letto, posizione da stella marina.
«Non ti agita sapere che domani ci sarà anche Calum?»
Eva quasi si strozza con le patatine alla paprika che sta masticando. Si mette subito a sedere. «Perché?»
«Pensavo solo che... Insomma... voi due stavate-»
«Non stavamo insieme» chiarisce Eva. «Non eravamo niente.»
«Però lui ti piaceva. Non hai mai detto a nessuno perché vi siete allontanati. E se vuoi sfogarti, io sono qui.»
A questo punto Eva si alza dal letto come una furia. Non c'è niente da dire, perché non si sono lasciati. E non si sono lasciati perché non sono mai stati insieme. «Sono stanca. Vado a dormire.»
«Ma... è tardo pomeriggio.»
Eva spalanca la porta della camera e: «Per quale ragione credete tutti di sapere meglio di me di cos'ho bisogno?» sbotta. «Se voglio dormire, lo faccio a qualsiasi orario. E se non voglio sentir parlare di Calum o di qualsiasi cosa o persona che gli riguarda, semplicemente è perché non me ne frega più un cazzo di lui. Cosa non vi è chiaro di questa frase?»
«Tutto chiaro, almeno per me.»
Eva si volta verso il corridoio e sgrana gli occhi verdi. Calum è proprio dinnanzi a lei, appoggiato allo stipite con una spalla. La sta guardando con un'espressione mesta ma non del tutto sorpresa.
«È maleducazione origliare» Eva prova a spostare l'attenzione da ciò che ha appena urlato alla sua incursione.
E di nuovo, in presenza di Calum, si infervora, lascia sfociare la sua frustrazione. «Che ci fai sempre nei paraggi? Sei la mia ombra?»
Elizabeth si congeda, avviandosi al bagno. Eva tenta di seguire il suo esempio, ma Calum le sbarra la strada e la incoraggia a rientrare con una spinta leggera.
«È confortante sapere che mi parli male alle spalle e anche davanti» commenta. Si accomoda sul letto, incrociando le braccia al petto.
«Chi ti ha dato il permesso di entrare?» gli domanda Eva, restando a debita distanza.
«Un tempo non era un problema infilarmi nella tua camera senza chiedere.»
Lei automaticamente deglutisce. «Devi dirmi qualcosa?»
«Sì. Passavo per avvisare che probabilmente non sarò presente al pranzo di domani» risponde lui. «Vengono dei parenti a casa e i miei non li vedono da anni, perciò... Credo che ci saranno soltanto i ragazzi.»
«Okay.»
«Solo “okay”?»
«Che altro dovrei dire? Mi dispiace?»
«Se davvero ti dispiace, sì... Anzi, non rispondere. Dato che, cito le tue parole, non te ne frega un cazzo del sottoscritto, suppongo che non ti debba affatto dispiacere» la precede Calum. La sua voce ha una sfumatura particolare: pare un pizzico di delusione. «Sempre se sei coerente, cosa che dubito fortemente.»
Eva gira il pomello e gli apre la porta per incitarlo ad uscire. «Ti direi che sono felice di non vederti domani, ma hai ragione: non sarei coerente. Quindi ti rispondo che la tua presenza mi è completamente indifferente. Buon Natale, a mai più» lo saluta rapidamente, indicandogli il corridoio con dei cenni del mento.
«A mai più? Sei incredibile, Eva» commenta il moro, sistemando la sedia e attraversando contrariato la stanza. Sosta sulla soglia e osserva la ragazza con un cipiglio pensieroso. «Fornisci le stesse risposte che potrebbe darmi tua cugina di sei anni, te ne rendi conto?»
«Ciao.»
«Sì, ciao. E io che volevo chiederti scusa per prima. Che stupido. Pensavo di trovarti cambiata, invece sei sempre la solita fuori di testa.»
Eva si chiude con due giri di chiave e si accascia sul pavimento. Non dovrebbe esserle indifferente che lui ci sia oppure no? Dall'espressione ferita e dispiaciuta che ha assunto, si direbbe il contrario. Le importa ancora di lui. E non poco.
E ciò rovina tutti i suoi piani, fa vacillare le sue certezze.

Effettivamente Eva si è addormentata prima della cena. Quasi senza accorgersene, ha chiuso gli occhi ed è caduta nel mondo dei sogni, che tuttavia è stato invaso da incubi.
Si risveglia una mezz'ora più tardi, la fronte imperlata di sudore, il battito accelerato e un nome provato a sussurrare agitatamente ma rimasto bloccato in bocca.
Salta giù dal letto per correre fuori e si arresta alla sua porta dimentica di aver chiuso a chiave. Le mani tremano mentre fa sbloccare la serratura e velocissima si introduce in bagno.
Usa la manopola dell'acqua fredda e la lascia scorrere sul viso finché non le sembra di essersi ripresa e aver tolto di dosso il sudore e l'angoscia.
È pallida. E ha le palpebre pesanti. Forse ha gridato nel sonno e l'hanno sentita. Non lo sa.
Si asciuga con un telo bianco, spostandosi di nuovo in camera per vestirsi. I capelli le ricadono bagnati sulle spalle. Osservando il suo riflesso, sospira pesantemente. Non vuole arrivare a vedere quei capelli che cadono. Ha sempre fatto fatica a mantenere fermo lo sguardo sulla bandana che portava la madre.
«Eve?»
Non degna d'attenzione chi pronuncia il suo nome dal corridoio. È Luke, lo capisce anche se ha acceso lo stereo a palla e la voce le giunge poco chiara: lui è l'unico a chiamarla Eve. Lo fa da sempre.
E lei non riesce a resistere. All'ennesimo «Eve, posso entrare?» gira la chiave.
Luke fa il suo ingresso leggermente trafelato. «Sono stato qui fuori per mezz'ora» si lamenta.
Eva ostenta il suo solito atteggiamento noncurante. «Perché sei qui?»
«Voglio darti una cosa.»
«Io... io non ho voglia di passare del tempo con te nella mia stanza» chiarisce lei, e vuole solo allontanarlo per il suo stesso bene. «Puoi andartene?»
Luke si porta le mani sul volto. È esasperato. «Ti diverte trattarmi sempre come se fossi uno stronzo, vero?»
«No, non-»
«Ti senti quando mi parli? Senti le parole che mi rivolgi?» È ferito e stufo di quel trattamento. «Io non sono Calum, io non ti ho mai arrecato dolore.»
«Appunto» mormora Eva. Non è lui.
«Ah, quindi è per questo. Lo ami ancora.»
«Ti sbagli.»
«E per me provi ancora qualcosa?»
Cala il silenzio, come previsto. Una domanda simile non può che raggelare l'atmosfera, se posta dalla persona sbagliata.
Eva vorrebbe dirgli che non ha mai provato niente per lui per rendere più rapida la separazione, per non soffrire ulteriormente. Ma non è così. C'è stato un periodo, un bellissimo periodo, in cui Luke era ciò che la spingeva ad alzarsi tutte le mattine dal letto.
Così diniega con la testa. «Mi dispiace» ammette. E lo fa con un tono sommesso, sensibile e cauto.
«Ti dispiace» ripete lui, lo sguardo perso in una crepa della parete. La paragona con rabbia alla stupida crepa che si è allargata nel suo cuore. Non si aspettava una risposta così lapidaria. «Chissà perché non ci credo...»
«Sì, mi dispiace» conferma lei, annuendo caparbiamente. Sta piano piano emergendo da quella bolla che l'ha imprigionata negli ultimi anni. Il groppo che le ha chiuso la gola in un nodo, non permettendole di rispondere, di emettere un qualsiasi suono davanti agli altri, sta sparendo. «Mi dispiace di non essere la persona che vorresti e di non darti la risposta che desideri. Ma non puoi pretendere nulla di diverso da una come me.»
«Tu lo sai, vero, che mi sono innamorato di una come te?»
«La tua ragazza è come me?»
«Di te, Eve. Parlo di te, dannazione! Sono ancora fottutamente innamorato di te, a distanza di anni.»
È una rivelazione che la sconcerta, che la fa sentire sottosopra, che scombussola tutto.
Ha creduto di essere stata completamente dimenticata e rimpiazzata da tutti. Ha sempre pensato che nessuno conservasse il suo ricordo, mentre lei, al contrario, ricordava nitidamente tutte le persone incontrate sul cammino, importanti o meno.
Ha ancora in testa i nomi e le facce di tutti i compagni delle varie scuole che ha cambiato, sebbene alcuni li abbia visti per appena qualche giorno e da loro abbia ricevuto soltanto prese in giro, insulti e risatine denigratorie; dai quattordici anni in poi l'hanno additata come una matta, una a cui mancano delle rotelle, l'hanno schernita per la sua perenne e passiva imperturbabilità, per il suo costante silenzio in risposta a qualunque gesto o domanda. Quel blocco psicologico che non ha mai saputo spiegarsi, quel grandissimo ed estenuante limite che l'ha veramente quasi portata alla pazzia, non le ha vietato di ricordarsi anche delle figure più negative e cattive.
È così, nel suo cervello è impresso ogni singolo personaggio che ha incontrato.
È strano scoprire che non tutti se la sono lasciata alle spalle. Perché è sicura che se andasse a chiedere a uno qualsiasi dei suoi vecchi compagni di scuola o una delle tante pazienti della clinica, non verrebbe riconosciuta o rammentata.
«Tu mi... Io... Cosa?» bofonchia. Non vuole che prosegua, non vuole che le faccia rivalutare il loro legame. Perché i bei tempi, quelli in cui si provava ad essere felici, sono finiti. «No, è tutto sbagliato.» Tra tutti gli aspetti negativi che implica quella dichiarazione, vede persino un tradimento nei confronti di Elizabeth.
«Già, hai messo più volte in chiaro che sono io quello sbagliato» dice Luke, e le volge le spalle. «Ho afferrato.»
Prima che possa toccare la maniglia e andarsene così, a capo chino, Eva lo ferma. «Non sei tu quello sbagliato.»
«Sei tu? È ciò che stai per dirmi? Non è il momento giusto e tutte queste stronzate? Non mi rifilare frasi come il “restiamo amici”, per favore» lui la anticipa, seccato, fissando quella mano sottile che gli stringe il braccio.
Eva vuole solo che si renda conto che lei non è la ragazza giusta. «Ci sono tanti motivi che...»
«Ce n'è uno solo e si chiama Calum. Perciò smettila di nasconderti dietro scuse assurde.»
Calum. Di nuovo. Tutti lo nominano, lo spingono a forza nella sua vita, lo usano per ogni causa possibile contro di lei. Eva lascia il suo braccio, stizzita.
«Mi puoi soltanto dire perché continui a pensare a lui, che nemmeno ti guarda o si preoccupa di te?» la interroga Luke, che è stanco di venire al secondo posto senza mai ricevere una valida motivazione. «Cosa c'è stato di così importante tra di voi, se ancora adesso non riesci a dimenticarlo?»
Eva è ammutolita, si è arrestata sul posto ed ha lo sguardo nel vuoto. Nessuno ha mai capito quanto Calum l'abbia aiutata a lottare, incoraggiata ad andare avanti. Ha continuato inconsapevolmente a farlo anche quando hanno tagliato i ponti, perché per Eva è sempre stato una ragione per non mollare.
Ed è incredibile come, adesso che si trova nella casa di fronte, che le è finalmente vicino, lei abbia deciso di non proseguire più su quella strada e di mettere a tacere tutto ciò che potrebbe farle avere ripensamenti.
Quel destino perverso che sta facendo incastrare i pezzi così crudelmente è talmente incredibile che si lascia scappare un sorriso inopportuno. Ma non di gioia. Affatto. Il suo viso sembra una maschera di dolore, di sconcerto.
Il biondino osserva quel sorrisino sardonico con confusione, interpretandolo in una maniera tutta sua probabilmente dettata dalla gelosia.
«Lo sai che Lizzie è cotta di te?» Eva se ne esce fuori con questa frase per spostare il soggetto della conversazione. Non lo fa apposta, o per mettere a disagio la cugina. Le parole escono da sole per proteggere se stessa. La sua voce è un misto tra una risata ed un pianto. Sta crollando. È inevitabile.
«Chi?»
«Lizzie» ripete. «Elizabeth. Mia cugina.»
Luke non pare sorpreso. E neppure colpito. Non gli interessa, ad essere franchi. «Perché pensi che mi importi?»
«Be', è carina. Praticamente ti venera. È senz'altro migliore di me.» Eva non lo sta neanche guardando e non mette particolare attenzione in ciò che dice. «Stareste bene insieme.»
«E tu credi di potermi allontanare da te incastrandomi con tua cugina?» esclama lui, allibito. Odia il fatto che non lo prenda sul serio, in fondo si è scoperto come non ha mai fatto. «Ho già una ragazza, Eve.»
«Vai da lei, allora. Non perdere tempo qui con me. La stai ingannando. E io non voglio far parte di questa cosa.» È già accaduto in precedenza con Aleisha, una delle poche vere amiche che ha avuto.
«Ho pensato di lasciarla, quando ieri ti ho rivista. E sono sicuro di esserne capace. Io ti-»
«Smettila!» strilla infine lei, esasperata. Sta succedendo tutto in un giorno. Non riesce a metabolizzare. Non vuole che quel “Io ti” possa diventare un “io ti amo”. Non è giusto. Sarebbe troppo da rifiutare. Lo ferirebbe per l'ennesima volta. Ed è convinta che non se lo meriti. «Smettila. Devi... devi andartene. Io non voglio continuare questa conversazione. Non voglio avere niente a che fare con te.»
E Luke è ormai deluso, arrabbiato, offeso. Non si trattiene. L'ha sempre trattata come una principessa. È andato contro i suoi migliori amici per lei. «Ho creduto che la mancanza di una madre o il suicidio di tuo padre ti avessero segnato per sempre, portandoti ad essere diffidente, scostante e fredda, ho avuto compassione, mi sono preoccupato per te e ti ho sempre accudita. Ma ora inizio a pensare che meriti ciò che ti è successo, che hai seriamente bisogno di aiuto, che sei davvero l'algida stronza che tutti reputano.» Sputa queste sentenze senza battere ciglio. Sa che se ne pentirà nel giro di cinque minuti, ma si deve sfogare. La conosce da quasi cinque anni e in quei cinque anni l'ha sempre custodita gelosamente tra i suoi pensieri. «Ti ho difeso da tutto. Sono stato incazzato con Calum a lungo perché mi aveva sottratto la ragazza. Ho pensato che non ti avrei più rivista solo perché lui non voleva rivederti. Ho provato odio per il mio migliore amico. Tutto per te.»
Eva non è a conoscenza di tutti i retroscena. Se ne sono andati da Sydney così rapidamente, che non ha potuto capirci quasi nulla di quel che loro pensavano di lei.
«E sai una cosa? Non mi sono mai pentito tanto. Perché adesso mi domando che cosa ci avessi visto in te. E mi dico che sono stato uno stupido a cadere nella trappola della ragazzina problematica che eri. Sono stato uno stupido perfino a considerarlo amore. Lo capisco adesso, Eve, adesso. Dopo tutti questi dannati anni!»
E lei non può che incassare in silenzio il suo sfogo. Sa di averlo danneggiato. Sa di averlo sempre fatto.
«Ma sai un'altra cosa? Tu non sei felice perché non meriti di esserlo. Sei solo una persona indecisa e depressa che non è capace di accettare la felicità. Tu preferisci star male, è la via più semplice. E vuoi portarti con te tutti gli altri, vuoi farli sprofondare nella tua tristezza.»
«Perché mi stai dicendo queste cose?» mormora lei.
«Perché mi hai rovinato la vita, quando ci siamo conosciuti. Quando ti ho dato tutto me stesso. E hai continuato a farlo, anche se non eri presente» risponde Luke, con astio, digrignando i denti. «Ancora non posso perdonarti di aver tentato il suicidio. Io non so nemmeno perché l'hai fatto! So solo che poche ore prima ci eravamo lasciati e te ne sei andata in lacrime. Mi hai rovinato, Eve, per sempre. Hai distrutto molte persone con quel gesto. Hai messo me e gli altri nella condizione di incontrarti per i giorni a venire e costringerci a pensare a quello. Ho vissuto con il rimorso. Non sai quanto. Pensavo che avessi voluto farti del male a causa mia.»
Eva sta tentando in tutti i modi di controllarsi, di non distorcere il volto per le lacrime. «Saresti stato meglio se mi fossi davvero buttata, quel giorno?»
«Sì, cazzo. Sì! Non avrei più dovuto rincontrarti. E tutto quel senso di colpa non...» Luke ammutolisce e spalanca gli occhi. Si è reso conto di averlo realmente pensato e detto.
Ed è una pugnalata a sangue freddo per Eva. Una pugnalata inflitta al cuore che la fa barcollare all'indietro. I suoi occhi stanno pizzicando. Non vuole piangere al suo cospetto, e serra la mandibola per contrastare le espressioni sofferenti che le scaturiscono automaticamente.
«Vattene» sussurra, dandogli le spalle. «Vai via dalla mia stanza.»
Luke ha preso troppo tardi coscienza di aver esagerato. In altre circostanze non si sarebbe mai azzardato a rivolgersile così brutalmente. «No, Eve... Scusami» dice subito, portandosi una mano tra i capelli. «Non volevo. Non-»
«Vattene!» urla lei. È questione di poco, che afferra con ira il cuscino dal letto e glielo tira addosso colpendolo dritto in faccia.
Le lacrime sono infine scese a rovinarle il trucco pesante.
Luke sospira e posa il cuscino. Estrae dalla felpa una scatolina rossa e la depone sul comodino. «Pensavo di venire qui a riparare tutto, a risanare il nostro rapporto. Credevo davvero di poterlo fare» ammette, e se ne va.
Eva dà un calcio al mobiletto su cui tiene le fotografie, facendo cadere sul pavimento una di esse: il vetro della cornice si frantuma. «Fanculo!»
Sta singhiozzando violentemente. Non si trattiene, piange suo malgrado; piange dopo anni di aridità. Le ultime lacrime che le hanno solcato il volto risalgono alla mattina dopo il suicidio di suo padre. Ha trovato lei il suo corpo privo di vita. Ci si è imbattuta al buio, e all'inizio non ha metabolizzato cosa stesse accadendo.
Suo fratello se n'è andato di casa subito dopo, chiedendole perdono e sparendo chissà dove.
Dopotutto, Eva non ha ancora mai metabolizzato tantissime cose.

La famosa cena del ventiquattro dicembre non è stata serena come le precedenti. I più adulti tra i presenti hanno cercato almeno di non rovinare il divertimento ai bambini, e per fortuna i due cuginetti di Eva non si sono accorti di niente.
Elizabeth, però, ha intuito qualcosa. E i genitori l'hanno messa al corrente. Ha pianto, e per Eva è stato strano.
Affinché i piccoli non si insospettissero, nelle prime ore notturne hanno aperto la miriade di regali che attornia l'imponente e luminoso albero di Natale in salotto. Hanno simulato un'allegria che Eva è certa di aver loro sottratto.
Gli zii e Claire non hanno più riaperto l'argomento, hanno rispettato il suo volere.
E la ragazza vorrebbe dirsi soddisfatta, ma non prova il minimo compiacimento. Eppure ha ottenuto quello che voleva.
Perché è quello che voleva, giusto?


Quando Eva viene svegliata dai salti che Debbie e Sam stanno facendo sul suo letto e intravede la luce che penetra dalla finestra, è arrivato la mattina di Natale.
Il momento si sta avvicinando molto, troppo rapidamente. Inizia ad avere paura.
«È Natale! È Natale!» esclama Debbie, mentre il fratellino continua ad usare il materasso come trampolino.
«Diamine, lo so» borbotta Eva, stropicciandosi gli occhi.
I due piccoletti smettono all'istante di esultare e assumono un'espressione mogia.
La ragazza sospira. Non si meritano la sua infelicità. Dovrebbe finirla di intaccare la loro genuinità. Si tira su, poggiando la schiena alla testiera del letto. «Okay, okay» comincia, facendo loro segno di sedersi prima che scoppino a piangere. Non sente più il desiderio malsano di portarsi gli altri a fondo con sé, nella sua disperazione. Luke le ha fatto aprire gli occhi. «Facciamo una bella cosa, vi va?»
I cuginetti non le rispondono e tengono le braccia conserte.
«Uhm... datemi un'altra possibilità, dai.» Nonostante tutto, non è mai riuscita ad avere confidenza con i bambini o a sapere come comportarsi con loro. «A Natale tutti meritano una seconda possibilità. No?»
Debbie annuisce ripetutamente, ma Sam non molla.
«Fantastico. Qualcuno oppone resistenza. Ma io ho un'idea. Chiudete gli occhi.... Avanti, piccoletti, ho una sorpresa per voi» aggiunge Eva, perché non sono per niente convinti.
Alla parola sorpresa obbediscono subito, coprendosi gli occhi con le manine. Lei, compiaciuta, scende dal letto e va a frugare nel guardaroba. Come nelle altre camere da letto, è uno stanzino che contiene vestiti, scarpe e coperte.
Si accuccia sulla moquette, abbassandosi per afferrare da sotto alcune usurate tute un grosso sacco in tela.
«Ehi, non si sbircia!» esclama, quando sente il letto cigolare. «Chi apre gli occhi, non avrà la sorpresa.» Sa che questo basta per tenerli a bada. I due gemelli sono sempre in competizione.
Individua un cesto di vimini nel cantone del guardaroba, lo scuote per eliminare la polvere e vi svuota dentro tutto il contenuto del sacco. Sono decine di giocattoli. Tutti in buono stato.
Eva accarezza un orsetto di peluche. Ha lo sguardo malinconico di chi ritrova vecchi cimeli. Erano suoi e di Joe. Non ha mai avuto il coraggio di buttarli, li ha conservati gelosamente.
«Uh, vedo che avete fatto i bravi» commenta, raggiungendo i cugini e posando la cesta sul lenzuolo. «Ora potete guardare.»
È meravigliata dalle faccine entusiaste dei due. Sembra che il gesto sia apprezzato.
«Sono tutti tuoi?» domanda Debbie, abbracciando una Barbie.
«Erano miei e di mio fratello. Ma adesso sono vostri.»
«Joe non si arrabbia?» chiede invece Sam, sospettoso.
Chi può saperlo. Non lo vede da tanto. «Non vedeva l'ora di darveli.»
«Sono tutti tutti nostri?» Vogliono entrambi una conferma.
«Esatto. Il mio regalo per voi.»
«Vado a farli vedere alla mamma!» strilla Debbie, catapultandosi giù dal letto.
«Papà! Papà, guarda!» urla Sam.
In un baleno si ritrovano a spintonarsi per decidere chi raccoglie il cesto.
«Okay, un momento. Voglio che ve li dividiate, va bene? Ognuno si prende una metà. Non dovete litigare. Se no, me li tengo io. Abbiamo un patto?» Eva porge loro i mignoli.
Anche se sbuffano sonoramente e si guardano in cagnesco, i due attorcigliano le piccole dita attorno a quelle di lei.
Eva solleva il regalo e va in corridoio. Poi si china alla loro altezza. «Portatelo giù insieme. Debbie, afferra questa parte. Sam, vieni qui. Non fare capricci e aiuta tua sorella. C'è una macchinina qua dentro che non puoi assolutamente lasciarle» bisbiglia, persuadendolo. «Bravi. E magari cercate di non cadere dalle scale.»
Li osserva mentre scendono goffamente al piano inferiore. E, sorprendendosi, sorride.
Ma è solo un secondo, poi si rabbuia. Pensare a Joe le ha rammentato le cose che deve fare in quei pochi giorni. Deve andare al cimitero. Deve impacchettare il suo regalo.
Velocemente si veste, gettando il pigiama sulla sedia. Si lava i denti e la faccia, non stupendosi di trovarla sempre più pallida.
«I gemelli sono molto contenti.»
Eva sputa il dentifricio nel lavandino, e lo risciacqua anche con cura, prima di volgersi a Claire. «Non ho fatto niente di che.»
«Le piccole cose sono le più belle e apprezzate, sai come la pensiamo noi.»
«Già.» Eva rientra in camera e cerca dappertutto della carta per regali.
«Devi impacchettare quello?» Claire indica la collezione di cd musicali sulla scrivania. «Aspetta. Di là ho tutto l'occorrente.» Quando ritorna, sparpaglia vari oggetti sul tappeto.
Eva mormora un “grazie” e si appresta a confezionare il regalo. Ma le mani le tremano e non riesce a tagliare la carta. È da quando si è alzata che si sente debole.
«Ti aiuto.»
«No, io pos-»
«Eva, lascia che ti dia una mano. Insisto.»
Nel frattempo che Claire si occupa del rivestimento, Eva sceglie il nastro per decorarlo. «Non devi fingere che ora ti dispiace per come siano andate le cose tra noi. So di non andarti a genio» sussurra.
«Non fingo. È così. Mi dispiace molto, Eva. Voglio chiarire una cosa, però. Tutto quello che ho fatto e ho detto non era dettato dalla cattiveria o dall'antipatia. Vorrei che lo capissi.»
Eva si stringe nelle spalle, è una delle sue abitudini. È stanca, vorrebbe dormire un altro po', nonostante si sia appena svegliata. «Perché hai invitato i ragazzi? Non è solo per rivedere Ashton. L'hai fatto per mettermi in difficoltà?»
«Lasciamo perdere Ashton. Volevo soltanto che voi tornaste amici come una volta. Pensavo che così avresti ricominciato a sorridere, a parlare, a sfogarti. Puoi anche non credermi, ma ho agito in questo modo per rivederti serena. Volevo, volevamo, che avessi qualcuno accanto.»
«Non sopporto quando mi forzano a reagire» replica Eva.
«Lo so. Ma un po' ha funzionato. Adesso sei-»
«Che cosa? Cosa sono? Sto male, più di prima. Io non voglio rivederli.»
«Io so che Calum ti farà ripensare alla tua decisione. Lui è l'unico capace di convincerti che stai sbagliando.»
Eva si riprende il pacchettino regalo, gli applica un nastro e, afferrando la borsa, si avvia all'ingresso.
«Esci?» le domanda lo zio Gregory, che sta giocando con i figli.
«Torno subito. E, vi prego» soggiunge, guardando sia lui che Agnes ed Elizabeth, «deve rimanere tutto in famiglia. Al pranzo non... non parliamone.»
Eva non aspetta una risposta, perché sotto sotto continua a fidarsi di loro, e si chiude la porta alle spalle.
Il cimitero dista poco più di dieci minuti.
Le tombe dei genitori non sono molto lontane tra loro, ma si reca subito da quella del padre.
Si inginocchia, sporcandosi le gambe di erba e terriccio. Osserva la sua fotografia nella lapide fredda e deglutisce, ingoiando la saliva che continua a depositarsi sulla lingua.
Sono almeno due mesi che non va a trovarlo.
«Mi manchi» sussurra. «Molto più di quanto potrei dire a parole.»
È sempre stata scettica riguardo al pregare e parlare al cimitero. Non si trova a suo agio, in quel posto, e sta tenendo la voce talmente bassa da essere quasi inudibile per non attirare l'attenzione dei pochi anziani che passano da quelle parti.
«Cosa devo fare? Sto male, papà. Non ho energie per combattere questa battaglia. Non le ho, non riesco a trovarle da nessuna parte. È stupido dipendere dagli altri, attingere dalla loro forza, vero?»
Eva posa lo sguardo altrove, davanti a sé. Il cielo è sgombro di nuvole, di un bellissimo e limpido azzurro. Non sa perché si sta rivolgendo a lui con gentilezza. Per tanto tempo ha creduto di detestarlo per essersi distrutto così, per averla abbandonata.
«Sono stupida io» riprende. «Io che credo di aver il coraggio di porre fine a tutto, che programmo il mio destino su uno sciocco diario. Tua figlia è proprio stupida, papà. Sto fingendo da così tanto di non sentire affetto o gratitudine nei confronti degli zii. Tutti credono che io odi loro, odi la vita. Ma forse si sbagliano, no? Forse è tutta una messinscena. Non capiscono che è molto più facile lasciare tutto quando gli altri non si aspettano che questo da te, quando li allontani bruscamente perché, al momento giusto, non soffrano troppo. Non lo capiscono» ripete, la voce rotta. «Tu lo sai, vero? Tu te ne sei reso conto? Mi guardi da lassù e mi comprendi?»
Eva scuote la testa e fa una smorfia scettica. Si sente così patetica.
«No, non lo fai. Come potresti? Non vegli su di me. Non mi osservi dal cielo. Io non credo a nessuna di queste cose» dice tra i denti. «Non ho fede, non ho niente. Sono una persona talmente vuota che certe volte mi faccio paura da sola. Ma a chi non farebbe paura una che si appunta sul diario i modi migliori per suicidarsi? che scrive il giorno esatto in cui farlo? È da pazzi, no?»
Lo è totalmente. Non ha bisogno di un segno divino per prenderne coscienza.
«Buon Natale, papà» conclude in un sospiro. Mette sottosopra la tracolla colorata che si porta dovunque e svela un pacchettino quadrato con tanto di fiocco. Strappa un pezzetto di carta dalle pagine del diario e vi scrive due righe. «Questo è per Joe. Nel caso tornasse» mormora distrattamente, mentre firma il bigliettino. Non ci sono auguri. Soltanto una supplica di ritornare presto e un “ti voglio bene” finale. Depone il regalo sull'erba, accanto a dei fiori.
Si rialza, raccogliendo le sue cose. E manda un bacio alla lapide del padre. «Magari, prima che succeda... tutto, verrò a vedere se il regalo c'è ancora. Ciao, papà.»
Si volta, lo sguardo umido e ancora profondamente ferito, e lancia un'occhiata ad una delle tombe più in là. Non è mai andata a salutare sua madre. Non è mai riuscita a farlo. E non ne è in grado tuttora, poiché decide di uscire dal cimitero.
«Cosa significa tutto questo, Eva?»
Il cuore le sobbalza e lei si blocca all'improvviso. È terrorizzata, ma non quanto Ashton che la fissa atterrito.
È l'unico dei quattro che non ha ancora incontrato. Chissà da quanto si trova lì, alle sue spalle.
«Che cosa?» replica, evitando il suo sguardo.
«Le tue parole di commiato. Lasciare tutti, porre fine a tutto, suicidarsi. Che cosa vorrebbe dire?»
Eva lo sa che è inopportuno, ma non può fare a meno di pensare a quanto sia diverso Ashton dal ragazzetto che ha visto l'ultima volta. Sembra più grande dei suoi ventidue anni. «Non vuol dire niente di sensato.»
«Questo l'avevo notato. È una specie di delirio temporaneo, mi auguro.»
«Sono lucida.»
«Non hai risposto alla mia domanda, Eva.»
«Non era una domanda.»
Ashton si fa avanti, ha un sorriso nervoso sulle labbra. «Posso vedere il tuo diario, per favore?» le domanda, tendendo una delle sue grandi mani.
Eva indietreggia e lo nasconde dietro la schiena.
«Assicurami che quello che hai detto non ha niente di vero e io non insisterò» propone lui, cauto.
Ha sempre saputo farci con Eva. Ma la ragazza, questa volta, lo tiene a distanza. Non gli può assicurare niente. «Devo tornare a casa.»
«Un attimo. Dedicami solo un attimo, Evangeline.» Ashton solleva le braccia verso l'alto, come a dimostrare di non avere cattive intenzioni ma di voler soltanto parlare. Nota quanto lei sia spaventata, capisce che si sente come un animale in gabbia che considera ogni via d'uscita per scappare.
Con Eva bisogna fare con calma, bisogna essere delicati. L'ha imparato tempo prima, quando spesso gli altri si intestardivano per farla reagire con maniere brusche. Perché non è stato poi difficile arrivare alla conclusione che comportamenti simili, incitazioni, potessero soltanto affossarla, spingerla più in fondo nella sua sfiducia. «Non sono qui per giudicarti, ok? Voglio solo provare a capire.»
Lei sta eludendo in tutti i modi il suo sguardo. Ma sta per crollare, è sul punto di farlo da troppi giorni. Non è sicura di potersi tenere tutto dentro e di resistere alla prospettiva di essere confortata.
«Sto iniziando sul serio a preoccuparmi» continua il ragazzo.
«Perché dovresti?»
«Perché sono ancora tuo amico. Penso. Se sei d'accordo.»
Eva scuote la testa. Oh, quanto avrebbe bisogno di lui. È sempre stato una specie di fratellone. Ma non può farglielo capire.
«Ce l'hai anche con me?»
«Io non ce l'ho con nessuno.»
«Hai ignorato le mie chiamate per quattro anni. Non ti sei più fatta sentire.»
«Voglio solo dimenticarvi» sussurra Eva, la voce spezzata.
«Perché?»
«Hai sentito. Sono stanca di questa vita.»
«Quindi è vero? Quello che dicevi poco fa è la verità?»
Lei annuisce appena. Finalmente può smettere di mentire ad almeno una persona. «Voi tutti sbagliate» riflette a voce alta. «Ci vuole più coraggio a farla finita piuttosto che provare a vivere.»
«Lo sai che se non hai il coraggio di restare, non lo avrai neppure per andartene? Come dici tu, è un gesto molto più temerario. E sei certa di esserne capace?»
«No... non sono certa di niente» mormora Eva, e deglutisce ancora.
«In cuor tuo sai che non vorresti davvero farlo.»
Sì, è così. In cuor suo lo sa benissimo. Non ha mai voluto arrivare a quel punto di non ritorno. È stata costretta ad accettare quella fine, ad abbracciarla suo malgrado.
«Eva, ti prego, fermati un secondo e ragiona. Hai pensato a quanto dolore potresti arrecare alle persone che ti vogliono bene?»
«Nessuno si interessa al mio, di dolore» ribatte, ma la sua determinazione è sempre più flebile.
«I tuoi zii? I tuoi cugini? Io?» esclama Ashton, muovendo dei passi molto ponderati verso di lei. «Michael? Da quando siamo tornati non ha fatto altro che parlare di te. Lo conosci, sai com'è fatto. È sempre stato molto affezionato a te. Lo è ancora.»
«Non importa più.»
«Luke è tuttora innamorato di te.»
«Ho appena litigato con lui. Non... non tirarlo fuori.»
«Calum ha-»
«No, non andare avanti. No. Non voglio sentire altro» lo blocca Eva. Una lacrima le riga il volto, poi la seconda, la terza, e inizia a piangere sommessamente. «Non capisci che così mi fai solo del male?»
Ashton annulla le distanze tra loro e la abbraccia di slancio. «Non più di quanto te ne stia già facendo tu stessa, Eva.»
E lei si aggrappa a lui come farebbe una bambina. Gli cinge la schiena, singhiozzando contro il suo petto, mentre Ashton la stringe tra le sue braccia muscolose.
«C'è sempre qualcosa o qualcuno per cui valga la pena lottare. Se non lo vuoi fare per te o per la tua famiglia, fallo per i tuoi amici. Fallo per noi. Nonostante tutto, nonostante i problemi che abbiamo avuto in questi ultimi anni, ti vogliamo ancora bene. E non voglio che tu te ne dimentichi.»
Eva non dice niente. Piange sulla sua maglietta. In fondo desidera solo essere salvata.

Stanno camminando fianco a fianco sui marciapiedi delle vie del vicinato. Hanno fatto tutto il tragitto in silenzio.
«Quello è il tuo famoso posticino, se non vado errato» dice all'improvviso Ashton, indicando un muretto al limitare del parco.
Eva non sa come possa ricordarsene. Tuttavia è piacevole che qualcuno tenga a mente le sue abitudini.
«Avviciniamoci, dai» la persuade. «Un'ultima sosta, poi vado a casa e ci vediamo a pranzo.»
Lei lo segue, posando le mani sul cemento scrostato di quel muro di scarsa altezza. «Non sei obbligato a venire.»
«Mi fa piacere esserci.»
«Non devi per forza controllarmi.»
«Cerco soltanto di farti capire che ti sono vicino.»
«Credi che così io cambi idea?»
«Credo che tu l'abbia già cambiata, Eva» risponde Ashton. «Non hai mai voluto spingerti così in là. L'avresti già fatto, altrimenti. Sbaglio?»
Forse pensa che il suo sarebbe stato solamente un gesto per attirare l'attenzione, e non una cosa legittima, valida. Eva alza le spalle. Non ha intenzione di dargli torto. Se gli fa credere di aver avuto solo un momento di squilibrio, di rassegnazione, allora lui la finirà di starle addosso.
Il suo cervello, ancora una volta, ha partorito un piano conforto. «Come sapevi dove trovarmi?»
«Ti ho seguita.»
Eva fissa il castano con un'occhiata perplessa.
«Volevo salutarti, dato che non ci eravamo ancora visti. Ma tu sei uscita di casa di fretta e non mi hai neanche notato.»
Non si è neppure accorta di avere qualcuno alle sue spalle, mentre passeggiava spedita fino al cimitero.
«Verrà anche Calum» la avvisa Ashton. «Al pranzo dei Collins.»
«Mi ha detto diversamente, l'altro giorno.»
«È molto volubile. Dice una cosa, poi ne fa un'altra.»
«Perché me lo stai dicendo?»
Lui si lascia andare ad un sorriso. «Gli interessi ancora.»
«No, fortunatamente non è così» nega. «E se fosse davvero così, sarebbe un coglione.»
«Lo è, no? Su questo siamo tutti d'accordo. Lo penso da quando vi siete lasciati.»
«Noi non sta-»
«Evita di mentire» la precede Ashton. «Stavate insieme, anche se non ufficialmente. Spesso le parole non servono. Dopotutto me l'hai raccontato tu.»
«Forse ero ubriaca.»
«Mi raccontavi tutto, Eva. Sono l'unico a sapere che hai sempre avuto una cotta per lui, fin dal primo giorno. E che, per non arrenderti all'evidenza, hai iniziato ad uscire con Luke.»
Detta così, sembra quasi che si sia solo approfittata del biondino. Eva fa una smorfia con la bocca. «Mi piaceva davvero. Non era una finzione.»
«Luke? Sì, okay, ma non pensavi ad altro che a Calum.»
«È tutto passato.»
«Tu non riesci a lasciarti alle spalle il passato, Eva.»
Ha fatto centro. «Colpita e affondata.»
«Perché non gli parli? Puoi dirgli come ti senti, come-»
«Non ho niente di cui parlargli. Io e lui non siamo niente» lo liquida, incamminandosi verso casa.
«Immagino che continui a farti molto male, se insisti a negare.»
«Cosa vuoi che ti dica?» sospira Eva. «Non puoi semplicemente lasciare cadere l'argomento?»
«Eva... vorrei sapere cos'è accaduto quando tu e Luke avete rotto. Lui mi ha detto che sei corsa da Calum. E poi? Perché il giorno dopo nessuno di voi tre si rivolgeva la parola?»
«Anche tu con le stesse domande? È esasperante.»
«Non te le porrà più nessuno, se rispondi. Cos'è successo quella sera? Tre settimane più tardi siamo andati in tour e né Calum né Luke hanno più avuto voglia di parlarne. Tu hai ignorato i messaggi miei e di Michael. Cosa devo pensare di tutto questo?»
«Non sono cazzi vostri, Ash. Lascia perdere. Non capiresti.» Soltanto Calum e Luke hanno assistito alla scena. Ed è meglio che gli altri due ne rimangano all'oscuro.
«Non capirei? Ti ho sempre capita. Cosa c'è di tanto complicato?»
«Ci vediamo dopo.» Eva se ne va a passo spedito, impegnata in una delle sue tante fughe.
Ritorna a casa, chiude la porta d'ingresso e resta qualche secondo lì ferma a respirare.
«Eva...» comincia Claire, dalla soglia del salotto.
«Sto bene» la precede lei, raggiungendo subito la sua stanza. Non vuole rovinare il Natale. E vorrebbe mantenere la calma, ma non è possibile. Stanno tutti facendo di tutto per trattenerla e intrappolarla in quella vita così sofferta. Ha bisogno di rimanere da sola.
Si precipita al cassetto del comodino, dove tiene sottochiave i rimedi per l'ansia. Altri potenti farmaci che vanno ad aggiungersi agli antidepressivi.
Ma si arresta durante il movimento, scorgendo con la coda dell'occhio una figura alla finestra.
Calum la sta osservando con espressione sorpresa. Ha in mano una cornice e tenta di nasconderla.
«Che ci fai qui?» Eva è nel panico, e averlo di fronte è un ulteriore aggravio.
«Niente. Ero... ero solo venuto a... controllare se fossi in casa.» Calum, per la prima volta da quando è tornato, sembra a disagio. Posa la cornice sul comò, dissimulando con un colpo di tosse. «Era per terra» si giustifica.
Eva dà un'occhiata veloce alla fotografia. E rimane attonita, perché tutte quelle immagini che preserva da anni sono incentrate sui suoi vecchi amici. È come se non se ne fosse accorta prima di quest'attimo, come se non le avesse mai davvero guardate durante la loro assenza. E la foto che è piombata sul pavimento a seguito del suo calcio la ritrae proprio assieme a Calum.
Non sa cosa dire. Forse non c'è nulla da dire. «Dovrei toglierle da lì» si limita a commentare.
«Io le tengo ancora sul cellulare» replica lui. E se ne pente, a giudicare da come continua: «Ma probabilmente dovrei cancellarle, hai ragione.»
Eva serra la mandibola per trattenersi dal dire ciò che pensa veramente. Sembra essere l'inizio della fine. Sembra che stiano per mettere la parola fine al loro rapporto. Non hanno avuto la possibilità o il coraggio di farlo ufficialmente quattro anni indietro.
«E probabilmente dovrei semplicemente dimenticare tutto» prosegue Calum.
«Pensavo avessi già provveduto» ribatte lei.
«Lo pensavo anche io. Fermamente. Ed ero dannatamente sicuro che tu non mi avresti mai dimenticato, ma ci sei riuscita.»
Eva deglutisce e distoglie lo sguardo. Come può dirlo? «Già» conferma, il tono inespressivo. «Ci sono riuscita.» Quante bugie che gli sta rifilando.
«Io non sono mai riuscito a cacciarti dai miei pensieri. Cazzo, è ridicolo» borbotta Calum, scuotendo il capo. «Sono qui a combattere contro me stesso per impedirmi di provare qualcosa per te, e tu ti limiti a dire che ci sei riuscita.»
«Adesso è colpa mia?» Non ci sta. Non può lasciargli insinuare che lei ha trascorso spensieratamente quel periodo.
«Cristo, non posso accettare che per te sia stato così semplice. Non posso crederci.»
«Semplice?» ripete Eva. Chiaramente non sa di cosa sta parlando. «Non c'è stato niente di semplice da quando siete partiti. Pensi che in questi anni mi sia divertita come hai fatto tu?» Sono infiniti giorni che si tiene tutto dentro, che opprime qualsiasi sfogo, e ora sta fuoriuscendo tutto.
«Ma divertirmi in che modo?» Calum si sta spazientendo.
«Quale altro modo conosci oltre a farti tutte le ragazze che ti capitano attorno?»
«Mi pare che tu abbia fatto di peggio ai miei danni, quando... Vorrei dire quando stavamo insieme, ma non siamo mai stati una coppia.»
Eva non può contraddirlo su questo. Ma ha ammesso di essersi dato alla pazza gioia con altre. Ed è l'unica cosa su cui riesce a concentrarsi. «Però... io non ti ho mai tradito.»
«Non puoi percepire come un tradimento del sesso occasionale fatto mentre io e te non eravamo più niente. Dai, Eva, non essere ridicola» la schernisce. «Se davvero mi hai dimenticato, non vedo il motivo per cui questo debba farti star male. Perché io non sono più niente per te, vero?»
Eva si morde la lingua. Vorrebbe urlare che non l'ha mai dimenticato, che non è affatto vero. Ma non può. Equivarrebbe a vincolarlo. E lei non è nemmeno più capace di urlare, tranne quando la spingono a forza all'esasperazione. Annuisce soltanto, perché la sua voce si rifiuta di collaborare, e si volta per aprire la porta. I suoi occhi sono velati di delusione e tristezza.
Ma una mano le blocca il polso e la costringe a girarsi di nuovo. Calum è serissimo, mentre si avvicina e non lascia che qualche centimetro tra loro. È determinato a farla parlare. «Annuire non è una risposta» osserva. «Devi almeno concedermi una risposta decente, Eva, perché questa è una domanda seria e difficile e... io devo sapere.»
Eva è ammutolita. Lo sta fissando con la bocca semiaperta. Nota quanto lui sia in confusione, in imbarazzo, quanto stia faticando per affrontare la loro storia. Le sue dita lunghe e sottili le lambiscono il polso.
Chiude gli occhi per resistere a questo contatto, per non dover mantenere fermo il mento sotto lo sguardo attento e inquisitore di Calum. E infine, nonostante le pianga il cuore, interrompe quel legame tra i loro corpi e si allontana di qualche passo. «È vero» dice, stringendo i pugni per darsi forza. «Per me è finita quel giorno.»
«Quel giorno? Quando sei scappata e hai minacciato di buttarti giù dal tetto della scuola?» Calum è sconcertato. Per lui, che non è a conoscenza del resto, è incredibile udire che Eva abbia deciso di essere la vittima. «Tu, quel giorno, hai pensato che fosse finita?»
«Mi hai... Vi ho visti insieme.»
«Con Aleisha non sarebbe successo nulla. Volevo solo farla pagare a Luke e fare ingelosire te, Eva. Ma la tua mente ha stilato un piano perfetto per punirmi per una cazzata e farmi provare rimorso a vita.»
Eva gli mostra suo malgrado le lacrime. «Perdonami» sussurra. Perdonami per tutto quello che farò, vorrebbe aggiungere.
Le spalle di Calum si afflosciano. È deluso, è ferito, è sofferente. «Nient'altro?»
Lei fa un segno negativo con la testa. Lui non resiste più e se ne va, sbattendo la porta.
Nient'altro. Quante cose invece vorrebbe dire.
Di nuovo, passando davanti allo specchio, si osserva con sguardo vitreo. Sta dimagrendo, nonostante sia già leggermente sottopeso. Odia il suo corpo esile. Sembra non dimostrare nemmeno diciassette anni.
Si tasta i capelli rossi. L'hanno stufata, ormai. Si stanca sempre molto velocemente di tutto. Ad eccezione della depressione, che è una costante.
Le viene da fare una smorfia con la bocca. Si sta autocommiserando in maniera esagerata. Prima di ricevere la notizia sulla malattia, non ha mai trascorso tanto tempo a piangersi addosso.
Ode delle voci gridare, al piano inferiore, e si distrae dalla sua immagine riflessa. Gregory e Agnes stanno litigando ancora.
Socchiude l'uscio e approda in corridoio per captare qualche pezzo di frase. E capisce di essere nuovamente la causa scatenante di quel diverbio. Il suo nome salta fuori due o tre volte. La parola tumore aleggia nell'aria.
«Non avresti dovuto mantenere il segreto, Agnes. Ha diciotto anni, è una ragazzina!»
«Me l'ha fatto promettere. Non potevo tradire la sua fiducia.»
Eva ha già perdonato la zia per aver vuotato il sacco. Recepisce di aver preteso un favore estremamente complicato.
Ha fatto il possibile perché venissero tutti a saperlo tardi, troppo tardi per essere sconvolti. Davvero, ha nascosto la verità per il loro benessere.
E ora che in famiglia lo sanno, Eva sta male.
Intercetta lo sguardo triste di Elizabeth, la cui testa spunta dall'altra parte del corridoio.
Sta veramente rovinando le loro feste, la loro serenità. Non vuole che per loro l'anno termini così.
Fa una corsa in bagno, racimola una borsa nera e torna davanti allo specchio. Fa scorrere la zip ed estrae una macchinetta per i capelli e una forbice.
Con quest'ultima taglia le ciocche più lunghe; un movimento netto e la sua chioma tinta comincia a cadere sul pavimento, fino a formare un mucchietto.
Eva lo guarda dall'alto. Ma non si pente. Va bene così. Può riuscire a sistemare le cose, almeno per un altro po'. Lo sta facendo per i Collins.
Mette via la forbice e prende l'altro aggeggio. Lo attacca alla corrente, e questo emette dei suoni fastidiosi, come il ronzare di una zanzara. Se lo porta alla testa. Esita. Poi, deglutendo, inizia a rasarsi.
Altri ciuffetti si assiepano ai capelli già a terra. Fa avanti e indietro, passandosi la macchinetta sopra la cute. È più delicata di quel che pensava.
Quando il lavoro finisce, spegne tutto e rimette gli strumenti nella borsa dello zio.
Si accarezza la testa. È una sensazione stranissima, percepisce solo degli aghetti. I capelli non ci sono più, si è rasata a zero.
Raccoglie i residui dal parquet, spiazzandoli con una scopa dentro il cestino.
Necessita di una doccia, per ripulirsi da tutti quei peli che le pizzicano collo e schiena.
Il secondo bagno della casa è quello più vicino alla sua camera. Si porta dietro un cambio pulito di vestiti e si infila nella cabina doccia.
Farà finta di stare bene con se stessa, di aver deciso di non arrendersi, per poter donare altri giorni di tranquillità alla sua famiglia. L'ha sempre negato, ma sotto sotto li definisce così.
È un gesto crudele e sadico, lo sa. Sta solo dando loro falsa speranza. È davvero troppo spietato, persino per i suoi standard. Ma meritano perlomeno una piccola dose di quiete.
Indossa una minigonna di jeans e una maglietta con le maniche lunghe. Forse soffrirà il caldo. Ma non crede: ultimamente ha spesso freddo, anche se fuori è estate. Sarà debolezza, sarà che pilucca e non mangia.
Si trucca. Vedersi così, senza più capelli, la fa sentire a disagio come se fosse nuda.
A preparazione ultimata, fissandosi allo specchio della sua stanza ancora vari minuti, prende un respiro e scende di sotto. In salotto hanno spostato i divani e la poltrona per fare spazio ad un tavolo rotondo che, se non ricorda male, occupava il garage.
Alcuni degli invitati sono già arrivati, il che la manda in agitazione. Ma sfila davanti ai loro occhi con una parvenza di calma che in realtà non ha.
Elizabeth le si avvicina subito. «I tuoi capelli...» mormora soltanto.
«Ma guardatele! Le mie future cognate diventano sempre più belle!» Una voce maschile che Eva reputa fastidiosa la anticipa prima che possa rispondere. Chris, il petulante promesso sposo di Claire, va loro in contro. Le abbraccia, anche se sia una che l'altra non amano tanta espansività. «Nuovo look per entrambe?» esclama, scrutandole. «Dite un po', è per qualche ragazzo?»
Elizabeth sorride imbarazzata, Eva si porta una mano sulla fronte. Non ha più la frangia, se n'è dimenticata per un secondo. «Comunque, non diventerò tua cognata» specifica, ignorando la domanda.
«Per Claire sei come una sorella, perciò lo sarai anche per me. Vero, amore?» replica lui, cingendo le spalle a Claire.
«Vero» conferma lei, fissando Eva con espressione di scuse. Sa quanto non sopporti l'attenzione. Oltretutto, i Clifford e gli Hemmings li stanno osservando dal salotto.
«Eva, tesoro, puoi darmi una mano con la tavola?» le chiede Agnes dalla cucina. Ha addosso un grembiule rosa ed è indaffarata con varie pietanze che cuociono tra forni, fornelli e microonde. Si è sempre impegnata tanto a cucinare.
«Non so come fai» le dice Eva, appoggiandosi al bancone. «A preparare il pranzo per un esercito» aggiunge.
«Tanta, tanta pazienza!»
Avere pazienza non basta, ma non glielo fa notare: non vuole smontare la sua determinazione.
Agnes socchiude l'uscio, appena entra anche suo marito. Tutti e due la guardano per un attimo con un sorriso dolce. «Hai... cambiato idea?»
Ad Eva manca il respiro. Come può mentire loro, che hanno gli occhi illuminati dalla speranza? Si sente così vile. Ma non può fare a meno di pensare a quanto sembrino più felici. E vuole che stiano così fino alla fine, fino a che potrà permetterlo. «Già... uhm... suppongo di sì. Volevo tagliarli prima che cadessero» indica la chioma che non c'è più. «Penso sia meglio così... no? Io... torno di là. Buon Natale.» Non riesce a sopportare la loro aspettativa, la loro contentezza, fa tutto troppo male. Il cuore le duole. Ha le fitte allo stomaco.
Si fa strada tra i genitori dei suoi vecchi amici e si va a sedere sulle scale. I ragazzi non sono ancora lì, ma è come se il loro imminente arrivo già la angosciasse.
Non ha neanche salutato gli ospiti, che maleducata. In realtà non le potrebbe importare meno, anche se li conosce e li ritiene brave persone.
Dopo un po', il campanello suona ed entrano gli Irwin. Sono in quattro, Ashton incluso; c'è sua madre Anne Marie, la sorella Lauren e il fratello Harry. I due ragazzini non sembrano particolarmente entusiasti di essere stati invitati, anche se sorridono.
La casa si sta popolando esageratamente. Eva non è sicura di poter rimanere seduta tra così tante persone. Le prende il panico in situazioni come quella.
Ashton posa gli occhi su di lei, è spiazzato. L'ha vista due ore prima e i capelli rossi le scendevano ribelli davanti al volto. Ora è totalmente diversa.
«Ashton, ciao!» Claire lo saluta con un bacio sulla guancia, facendo segno a lui e alla famiglia di accomodarsi vicino agli altri.
Andrew e Daryl, rispettivamente i padri di Luke e Michael, stanno parlottando con Gregory di calcio. Anne Marie si aggiunge a Liz e Karen, introdotta alla conversazione tra donne da Agnes.
Eva si appoggia alla parete e sospira. Dovrebbe proprio mostrarsi a tutti, piuttosto che nascondersi alla fine della prima rampa di scale. Ma crede che resterà così, inerte, per tutto il pomeriggio.
È la volta della famiglia Hood, ma Calum non c'è. David e Joy, i genitori, le sorridono educatamente a qualche metro di distanza, poi vengono risucchiati dal clima di bisboccia del salotto. Mali-Koa viene presa in ostaggio da Claire, e probabilmente è per evitare di restare troppo a lungo con il marito e Ashton nella stessa stanza.
«Posso farti compagnia?» La voce vellutata di Elizabeth scuote Eva dai suoi pensieri. «Non c'è nessuno della mia età... non so con chi parlare. Tu non mi abbandonerai, vero?»
«Starò con te tutto il pranzo» conferma lei.
«Grazie, ma io... ehm, scherzavo. Non volevo chiederti di rimanermi attaccata per tutto il tempo.»
«Lo facevo anche per me.»
Elizabeth increspa le labbra in un piccolo sorriso. «Ti sta bene il nuovo taglio.»
Eva non ha ancora il coraggio di guardarsi senza spaventarsi. «Oggi è il grande giorno, no?» risponde alla domanda con una domanda. «Tra poco vedrai Luke. »
«Non so se è il caso di pensare a lui...»
«Perché no?»
«Tu non stai... Voglio dire... preferisco passare queste feste con te.»
Quando il campanello trilla di nuovo, Eva butta all'aria i suoi propositi di restare lì nascosta e balza in piedi. Non possono che essere loro.
«Vado io, tranquilla» dice Elizabeth.
Spalanca la porta. Tre ragazzoni di una certa altezza fanno il loro ingresso, salutando un po' tutti. Si solleva un coro di auguri di Natale, e i padroni di casa danno loro il benvenuto.
Gli sguardi di Calum ed Eva si incrociano quasi casualmente. Fa male. Per quanto la ragazza finga di non interessarsi, tutto dentro lei è una supplica di attenzione rivolta a lui.

Il pasto procede lento e teso, almeno alla tavolata dei più giovani. In sala da pranzo, che è confinante, sono invece riuniti gli adulti. Loro sì che si stanno divertendo, a giudicare dalle risa.
Le portate sono tutte buonissime, ma Eva non ha granché fame. Gioca con la forchetta, assaggiando talvolta dei bocconi. Beve tantissima acqua da che si è seduta, anche per potersi celare dietro il bicchiere.
Elizabeth è alla sua destra, per fortuna, e alla sinistra c'è Michael. Lui è molto chiassoso di natura, ha una voce squillante che prevale sulle altre, e sta raccontando barzellette non molto fini per allentare la tensione.
«Oh, andiamo! Mike, potresti tirare fuori un repertorio meno volgare?» lo riprende Ashton, che ha vicini i fratelli minori. «Ci sono dei minorenni.»
Nel frattempo che loro due battibeccano, Elizabeth si sente profondamente a disagio perché si trova accanto a Luke. E quest'ultimo, tutto corrucciato, non dice una parola da quando ha varcato la soglia.
Calum e Mali-Koa sono seduti dall'altro lato del tavolo. Lei è molto carina, e partecipa a tutte le conversazioni con toni gentili. Lui fissa spesso Eva, ma non apre bocca.
«Ehi, Eva.» Michael la distrae, dandole una gomitata tra le costole. È sempre stato molto irruento. «Tra poco è il tuo compleanno, eh?»
«Cosa?» mormora lei, sovrappensiero.
«Tra poco compi diciannove anni» ripete. «È imbarazzante, ma non mi ricordo il giorno esatto» si gratta la nuca, impacciato.
«Il primo di gennaio, idiota» bofonchia Calum, nel silenzio generale. Poi solleva lo sguardo dal suo piatto e si schiarisce la voce. Gli è uscito spontaneamente, senza che davvero lo volesse.
Eva annuisce, abbassando subito gli occhi.
«Grazie dell'idiota, amico» fa Michael, ironico. «Comunque, immagino che festeggerai alla grande.»
È il giorno in cui non sarà più parte di quel mondo, secondo la sua mente tormentata. «Non sai quanto» le scappa.
L'attenzione di Ashton scatta su di lei, e così quella confusa di Elizabeth. «Che significa 'non sai quanto'?» le domanda lui, perplesso. Lo sa. Ha intuito a cosa si riferisce.
La ragazza giura di star sudando, nonostante la doccia appena fatta. «Festeggerò l'inizio di un nuovo anno... e soprattutto di una nuova vita. Come tutti» risponde piano. Ha sottovalutato l'intera situazione. Non regge tutta quella pressione. E improvvisamente si sente male, a corto di energie e fiato. «Scusate.» Posa nel piatto le posate e il tovagliolo, strisciando indietro la sedia.
La cucina è il luogo meno distante nella quale rintanarsi. Trascina la porta scorrevole per separare i due locali. Ma è stata una cattiva idea andare in quella direzione: può ancora udire le loro voci in sottofondo.
Che diavolo sta combinando? Si è ripromessa di non fare altri casini.
Ma non può smettere di tremare. Il sudore le Imperla la fronte, il collo, le mani. Ha la gola talmente secca da raschiarle. Ha le palpebre pesanti, e una sgradevolissima sensazione di nausea che le mette in subbuglio lo stomaco.
Vorrebbe vomitare, ma che cosa? Non ha nemmeno mangiato. La testa le gira ed è pesante.
Non sa niente di quella dannata malattia, non conosce i sintomi, non conosce il decorso. È la prima volta che si sente così a pezzi, in stato confusionale.
Gira la manopola dell'acqua del lavandino, riempiendosi un bicchiere. Ma le dita non hanno presa, sono tremolanti, il vetro scivola a contatto col suo palmo. È normale stare così?
Non è un fottuto attacco di panico, quello. E infatti sta lottando con tutta se stessa per non svenire.
Riprova ad accostarsi l'acqua fredda alle labbra, umettandole. Ma prima che riesca a berne il contenuto, il bicchiere le cade e si infrange su dei piatti lì accatastati. Lo schianto è abbastanza forte, ma sa che gli zii, immersi nel fragore con gli altri invitati, non possono sentirlo.
Stranamente, quello schianto di vetri l'ha fatta riprendere. Piano piano la vista si sta stabilizzando, e anche gli arti incerti riescono a sorreggerla.
Suda ancora e si sente molto calda, ma la nausea sta passando.
Ha tra le mani una scheggia di vetro.
Il corpo è chinato sul lavandino, la rabbia, la tristezza, la disperazione montano in lei, e lei guarda con interesse quel quadrato frastagliato e affilato. Se spingesse a fondo, potrebbe farsi davvero del male.
Il pensiero la stuzzica. Quasi la fa ridere, di un riso nervoso, malinconico e sottomesso.
«Eva, ma che...?» Ashton piomba in cucina, provocandole un sussulto violento.
Eva subito chiude il pugno attorno a quel vetrino, perché non lo veda. Gli dà imperterrita le spalle, il mento che tremola, la mandibola contratta e le ciglia che sbattono senza sosta. «Vattene» sussurra. Non vuole che assista al suo cedimento emotivo.
«No. Non mi muoverò di un centimetro. Che cosa stai facendo?» È sospettoso, e difatti si avvicina e lancia un'occhiata al bicchiere frantumato. Non c'è traccia di sangue da nessuna parte, eppure crede fermamente che abbia provato a lesionarsi con quei frammenti. «Eva, guardami» le impone, sfiorandole le guance. «Sei ferita?»
Lei si scosta. «No.»
«Cosa volevi fare?»
«Non insistere» lo prega.
«Sto cercando in tutti i modi di convincermi che non volevi davvero farlo qui, in presenza di venti persone, di convincermi che non lo faresti mai, in nessun caso. Aiutami a crederlo.» Forse è lui che la sta pregando.
«Non è ancora arrivato il momento, sta' tranquillo» allora gli risponde, gelida. «Mancano alcuni giorni, purtroppo.»
«Ancora con questa stronzata dell'ultimo dell'anno?» sbotta Ashton.
Raramente l'ha sorpreso in istanti di rabbia. La sua voce vibrante di impazienza è una novità. «Non ti permetterò di rovinare i miei piani. Parla più piano.» Eva è a conoscenza della sua infanzia travagliata, del suo passato desiderio di punirsi fisicamente per le mancanze di altri, di suo padre in particolare.
Per lui tutta la questione è diventata quasi un fatto personale. «Rovinare i tuoi piani? Sei impazzita?»
Eva si precipita a chiudere la porta. «Mi tolgo finalmente di mezzo. Sarà una liberazione.» Ha i brividi nel pronunciare quelle frasi.
«Ho creduto che stessi facendo finta con tutta questa storia del trentuno dicembre. Mi hai assicurato che non avresti fatto niente di simile. Me l'hai assicurato guardandomi negli occhi, Eva.»
«Sta' zitto» lo supplica.
«No, diamine! Non starò a guardare mentre ti distruggi. Te lo puoi scordare.»
«Devi andartene. Ora.» Eva gli mostra il vetro che ha tenuto nel pugno e si punge la pelle del braccio. È un gesto disperato, è l'ultima spiaggia. «Lo spingo a fondo, se provi a dirlo a qualcuno. Sai che lo farò.»
Ashton impallidisce. Sta facendo sul serio. Non è una minaccia a vuoto. «Mettilo giù, Eva.»
«Tu vattene!»
«No. No, non posso. Mettilo giù.»
«Che cosa sta succedendo?» Calum si introduce in cucina e sbianca anche lui. «Eva? Cosa... cosa hai intenzione di...»
«Andatevene tutti!» urla lei. Le scoppia la testa, le pulsa, le batte.
«Eva, ascoltami. Ascoltami. Non risolverai niente» riprova Ashton, protendendo una mano verso di lei. «Non è il modo giusto per affrontare i problemi. Qualsiasi cosa sia, tu non-»
«Non sai che cos'è! Non lo sai. Per cui evita di dirmi come devo comportarmi. Io sto solo facendo la cosa migliore per me.»
Anche Calum è estremamente preoccupato, guardingo. «Che cos'hai? Di cosa stai parlando?»
Ed Eva scoppia a piangere, un po' perché non resiste più al trapano che sembra perforarle il cervello, un po' perché si sente una sciocca, si vergogna a minacciarli di tagliarsi con un coccio di vetro.
Ashton e Calum si guardarono, atterriti. Non sanno che pesci prendere.
«Ragazzi, lasciateci soli. Tornate a tavola» si intromette Gregory, muovendosi rapidamente verso la nipote e togliendole di mano quella piccola arma. «Eva, mi puoi dire cosa sta succedendo?» domanda con voce paterna e conciliante.
E quel comportamento misericordioso è una delle cose che più danno fastidio a Eva. Non si merita i guanti d'oro. «Niente. Voglio solo che mi lascino in pace.»
Gregory si gira ad affrontare i due ragazzi. «Per favore, tornate di là.»
«Signor Collins, sono giorni che sta programmando tutto. Mi creda. Se guarda il suo diario...»
«Programmando che cosa, Ashton?»
«Il suicidio.»
E Calum, alla rivelazione dell'amico, fa scattare lo sguardo su Eva. «Dice la verità?»
«Si stanno inventando tutto» sussurra lei, concentrandosi soltanto sullo zio. «Non volevo farmi del male. Volevo solo costringerli ad andarsene.» Nel suo tono c'è una sfumatura di implorazione.
«Va bene, calmati.» Lui le cinge le spalle, attirandola a sé così che possa ripararsi dagli sguardi impressionati degli amici. «Ragazzi, so che non è molto gentile da parte mia, ma devo chiedervi di lasciare questa casa.»
«No, signor Collins, mi creda se le dico che-» Ashton non demorde, ma viene interrotto.
«Ora! Lasciateci soli» ripete l'uomo. Non conosce le dinamiche di quel litigio, ma vede Eva così scossa da non riuscire a far cessare il pianto.
Ashton, di nuovo, non ci sta. È sempre stato molto rispettoso delle persone, soprattutto se più adulte di lui, ma adesso si oppone. Non se ne andrà finché non avrà ricevuto una risposta. È in apprensione, desidera solamente salvare la sua amica.
«Perché non mi sembra sorpreso? Perché non ha fatto una piega quando le ho rivelato che vuole uccidersi? Dio santo, non è una notizia da poco.»
«Eva non sta bene. E questo non è un buon momento.»
«Non sta bene di cervello. Non è una novità» commenta Calum, che finora non si è espresso più di tanto. È pazzo di rabbia, di incredulità, perché sta rivivendo la scena di quella sera.
Ed Eva, a quel punto, instabile com'è, patendo il fortissimo male alla testa che si è scatenato con tanta potenza, si avventa su di lui. Lo prende per il colletto della maglia, prima che possano agguantarla e trattenerla. Scuote Calum con quanta più forza possibile, urlandogli contro epiteti iracondi e insulti. «Chiudi quella dannata bocca!» urla, con la gola intasata dal catarro. «Tu non capisci nulla, tu sei solo uno stronzo, tu non...» Fa una pausa, dando tregua al suo cuore frenetico.
E lui ne approfitta per ribattere: «Io capisco soltanto che sei completamente fuori di testa. Non sarebbe la prima volta che tenti il suicidio. E la cosa peggiore di tutto questo è che lo fai per attirare l'attenzione. Godi nel soffrire e nel far soffrire gli altri. Tu sei pazza, Eva. E io non ho più voglia di sprecare il mio tempo con te. Me ne vado.»
La ragazza, respirando affannosamente, indietreggia. Non si accorge che nella furia si sono spostati in salotto, dinnanzi agli occhi spaesati dei presenti. «Non ci vedremo mai più, non temere» gli assicura, e percepisce il battito nelle orecchie, nel collo e nello sterno da tanto è ammattita la sua frequenza cardiaca. «Nessuno di voi mi rivedrà più. E sono felice, perché finalmente...» È costretta a spezzare la frase a metà, investita da un colpo di tosse che le da l'impressione di sputare fuori l'anima. Cade a terra, sulle ginocchia. La testa le sta esplodendo. Si porta le mani sulle tempie, comprimendole.
Qualcuno la chiama, chiama il suo nome con agitazione. Viene soccorsa da braccia che non riconosce. La sua vista è sfocata, la tradisce.
«Okay, okay, respira. Eva, respira.» È lo zio, è lui che l'ha adagiata sul divano. «Ascoltatemi bene tutti quanti. Dovete lasciarle spazio, dovete aspettare che si calmi. Agnes, chiama l'ambulanza.»
«No...» mormora Eva, tra i capogiri. «No... niente ambulanza.»
«Eva, ho già assistito ad uno di questi episodi. Ma con tua madre era diverso. Tu hai ancora la possibilità di...»
«Non voglio diventare come lei» boccheggia. «Non... non voglio morire in un maledetto lettino... d'ospedale.» Piano piano, molto gradualmente, i dolori si stanno affievolendo, gli occhi tornano a osservare nitidamente ciò che la circonda. Ci sono così tante facce in quella sala. Non sa dove guardare.
È spossata e madida di sudore. Tenta di mettersi a sedere, con la schiena dritta.
«Posso almeno telefonare al medico?» le domanda sottovoce lo zio.
Lei annuisce impercettibilmente. Non si farà mai portare via in barella, ma può accettare che il dottore venga a domicilio. Non riesce a negare loro pure quella richiesta. E poi, vuole stendersi un po' a letto e coprirsi. Ha freddo.
«Ragazze, portatela in camera. E restate con lei. Vi raggiungiamo subito.»
Eva si fa sostenere da Claire a destra e da Elizabeth a sinistra. La aiutano a salire le scale, mentre la zia Agnes compone nervosamente il numero del medico di famiglia.
«Che cos'ha? Che cos'è appena successo? Cosa...» inizia Michael, gli occhi fuori dalle orbite per lo shock.
Luke non ha parole, resta a guardarla con le braccia che gli penzolano sui fianchi. Ashton si sta coprendo il volto con le mani, e si sente tremendamente in colpa. Ma non quanto Calum, che tocca il punto della maglietta dove le dita magre di Eva lo hanno strattonato, spalanca la bocca e, in preda al panico, corre fuori all'aperto.
Gli altri non fanno testo: in quel momento per lei non esistono neppure, loro e le loro facce di circostanza, di quelle che esprimono turbamento e rammarico.
Eva dà un ultimo sguardo alle reazioni dei suoi vecchi migliori amici.
È per questo che ha preferito allontanarli da sé, per evitare che potessero esserci quando le sarebbe accaduto.
Non vuole che ci siano, il giorno in cui smetterà di respirare.

Il dottore le ha fatto una visita a domicilio, le ha detto svariate cose e dato consigli su come stare a riposo nei giorni a venire. Ma, in realtà, non l'ha neanche ascoltato. Non è nemmeno sicura di aver tenuto aperti gli occhi, mentre lui era lì.
Probabilmente ha dormito. Eppure non si sente meno stanca. Ha avuto qualche lampo di immagini, forse ha intravisto la faccia paffuta del medico. Ma nulla di più. Solo la baraonda che le scoppiava in testa.
Claire siede accanto al letto da ormai un'ora e mezza. Ogni tanto le lancia occhiate apprensive da sotto le lunghe ciglia.
«Non c'è bisogno che tu rimanga qui tutto il giorno» dice Eva, che minuto dopo minuto si sta fisicamente riassestando. «Tuo marito vorrà stare un po' con te.»
«Non me ne vado da qui, no no» afferma lei. «Se occorre, dormirò su questa sieda.»
Inconsapevolmente, la sta facendo sentire come se fossero in ospedale. Eva storce il naso.
«E poi» aggiunge la cugina, «Chris non è mio marito.»
«Ashton ti piace ancora?»
«Non posso assolutamente permettermi di pensare a lui» dichiara Claire, inflessibile. «Non sono più un'adolescente. Niente sbandate.»
Eva l'ha sempre inquadrata come una specie di sergente. Non si sorprenderebbe se fosse rigida con se stessa persino più di lei. «Sei troppo dura» commenta a mezza voce.
«Ho sempre l'impressione di non esserlo abbastanza.»
«Comprendo la sensazione.» Sono più simili di quanto credano, allora.
«Sento la necessità di chiederti scusa di nuovo, Eva. Ho pensato che per te potesse essere una buona idea, un aiuto, ma mi sono sbagliata di grosso» ammette, sospirando. «Non dovevamo tentare in tutti i modi di farti riavvicinare ai ragazzi.»
«Tu lo sai perché preferisco non vederli, vero?»
«Non vuoi che soffrano se... se ti succede qualcosa.»
«Già» mormora la ragazza, muovendo lo sguardo e posandolo sulla finestra. C'è un bel sole caldo e luminoso. «Non voglio morire davanti ai loro occhi.»
«Tu non-»
«Va bene così. Davvero. Sto cercando di accettarlo. E lo so... so che non volevate ferirmi appositamente, invitandoli.» Non ha più importanza portare rancore. Ormai niente ha più importanza.
«Davvero? Mi puoi perdonare?»
«Sì. Anche se voi non perdonerete mai me.»
«Per che cosa?»
Intuisce che lei, come gli altri commensali, non abbia creduto alla versione di Ashton sul suicidio. È un bene. Hanno e avranno tanto da perdonarle. «Nulla» mente, sistemandosi le lenzuola sopra il collo. «Posso dormire qualche ora?»
«Certo. Io sono qui, okay?»
Eva non può che sottomettersi suo malgrado a quel controllo forzato. Inizia a percepire sempre di più a sua camera come una stanza d'ospedale e Claire come un'infermiera.

Il giorno seguente, il ventisei, resta a letto fino al primo pomeriggio. Tra un'ora e l'altra sono saliti a sincerarsi che stesse bene tutti i componenti della famiglia Collins.
Anche il piccolo Sammy, che le ha sempre fatto il muso, è confuso e triste nel trovarla lì distesa.
«Ora basta» dice tra sé, gettando via il lenzuolo. Ha bisogno di sgranchirsi le gambe, di riattivare la circolazione. Ma soprattutto di sentirsi viva. Una giornata intera rinchiusa tra quattro pareti, sotto le coperte, l'ha debilitata ulteriormente.
Raggiunge il bagno, si sciacqua la faccia accaldata e si asciuga i residui di trucco nero; le si sono infilati anche nelle pieghe del naso.
«Ehi, dovresti riposare.» Elizabeth spunta dal corridoio e la guarda con inquietudine.
«Ventiquattr'ore a letto» risponde Eva, ed è abbastanza. Si trascina al piano inferiore, i piedi nudi che si appiccicano al legno degli scalini.
«Tesoro, dovresti-» comincia Agnes, intercettandola a metà strada.
«Riposare» la anticipa lei, annuendo. «Già fatto.»
«Vuoi della zuppa? Te la senti di mandare giù qualcosa?» interviene Gregory, accompagnandola al sofà.
Eva accetta. Non crede di poter mangiare cibi solidi, al sol pensiero vorrebbe rigettare. Si mette a gambe incrociate sul tappeto, ne ha abbastanza di cuscini e sedili morbidi.
E, intanto che Agnes scalda la minestra, lo zio le accarezza una spalla. «Non credo alle parole di Ashton, non preoccuparti» assicura.
«Grazie...» gli sorride, riconoscente, ma in un battibaleno si incupisce.
«Purtroppo credo alle tue, Eva» continua Gregory. «Ciò che hai urlato ieri mi ha... sconvolto.»
«Va bene» si arrende lei. Ha deciso di sputare il rospo. «Non meritate le mie menzogne. Non meritate niente di quello che vi ho fatto passare. Mi dispiace, mi dispiace molto più di quanto possiate immaginare, di avervi mentito.»
«Ma... Ti sei tagliata i capelli. Credevamo che avessi scelto di accettare le cure e che fosse il tuo modo di farcelo sapere» replica Claire.
«Fingevo. Così potevate trascorrere felicemente le feste.»
«Eva, stammi a sentire. Noi le trascorreremo felicemente soltanto sapendo che tu sarai con noi il prossimo Natale, quello dopo e quello dopo ancora» dice lo zio, incredibilmente austero e commosso.
«Lo so. Credo. Speravo che bastasse questo» farfuglia Eva. Un piatto di tiepida zuppa le viene portato da Agnes. Se lo posiziona tra le gambe e sorseggia qualche cucchiaiata. «Non voglio saperne di cure, di terapie, di dottori. Vi prego. Lasciate che finisca l'anno, lasciatemi in pace per pochi altri giorni. Magari poi le cose andranno diversamente.»
E credono che con l'inizio del nuovo anno lei possa cambiare idea. In fondo, ha dato loro motivo di aggrapparsi a quella prospettiva.
Ma non fa niente per correggerli, per disilluderli.
Il campanello trilla a sorpresa, troncando quella riunione familiare.
«Vado io» borbotta Eva, alzandosi dal pavimento e dirigendosi alla porta. Apre e si ritrova davanti la squadra completa.
«È curabile?» Luke non attende nemmeno un secondo prima di porle quella fatidica domanda.
Dal salotto giungono Claire e Agnes e affiancano Eva come due guardie. «Ragazzi, è meglio che tornate in un altro momento» dice dolcemente la zia, posandole una mano sull'avambraccio.
«Signora Collins, vogliamo solo parlare con Eva. Poi la lasceremo riposare» assicura Michael.
Lasciarla riposare? Ora è così che anche loro la vedono? Talmente deperita da dover essere lasciata a letto?
Eva li guarda: quattro ragazzoni sulla soglia di casa che la fissano di sottecchi con estrema cautela. Gli stessi che fino a poche ore fa l'hanno così rimproverata e insultata per ogni cosa.
Capisce tutto. È inevitabile: provano pena per lei.
«No. Adesso, cortesemente, tornate a casa vostra. Siamo tutti molto stanchi e vorremmo rimanere in famiglia» interviene Claire.
«Claire...» inizia Ashton, che sa bene di avere ancora un ascendente su di lei.
«Mi dispiace. Dovete andare via.»
L'uscio si chiude con un tonfo, quasi venendo loro sbattuto in faccia.
«Va tutto bene?» La cugina glielo chiede con fin troppa indulgenza.
Ed Eva, d'altro canto, scuote la testa e sale in camera sua. È così che andrebbe? I suoi ex amici che la guardano con compassione, quasi quella malattia avesse cancellato ogni dissapore tra loro. È ridicolo, è da ipocriti. Non accetta quel trattamento di imparzialità solo perché adesso sanno che sta male.
Si appoggia al davanzale della finestra, spalancando i vetri ed inspirando il venticello pomeridiano che vien dal mare.
Ricorda improvvisamente un giorno di quattro anni fa, con tutti i particolari. Non credeva che fossero rimasti così radicati nella sua memoria, ha pensato di averli lentamente persi, eppure rieccoli lì a tormentarla.
Ricorda di come, quel pomeriggio, è andata a trovare la madre in ospedale. Ha trovato la brandina vuota e accuratamente rifatta. E subito ha ripensato a quanto sua mamma le era sembrata più scavata e provata del solito, il giorno prima.
Stranamente, il panico non l'ha travolta come di consuetudine. Eva è rimasta a fissare il letto bianco senza battere ciglio, finché i medici non l'hanno dovuta far sedere e tranquillizzare -per quanto sia possibile rassicurare una figlia che ha perso un genitore.
In quell'istante ha incrociato lo sguardo spento del padre, in fondo al corridoio. Uno sguardo disperato, finito, che avrebbe dovuto anticiparle molto sulla sorte di quella famiglia. Sente ancora il rimorso per non aver captato i segnali da allarme che le mandava suo papà.
Chissà, forse cercare di aiutarlo non sarebbe comunque servito a nulla. O forse l'avrebbe spinto a riprendersi, a non gettare la spugna.
È sempre stata troppo occupata con se stessa per accogliere il dolore degli altri, ne è consapevole. Impegnata coi suoi sciocchi dubbi adolescenziali, coi ragazzi, con i suoi limitanti blocchi psicologici, con tutto tranne che la sofferenza delle persone care. Ha messo se stessa davanti a loro, è stata egoista.
Le fa malissimo ricordare anche che, per tutta la degenza della madre, non è mai riuscita a dirle più di due o tre parole. Parole banali, impersonali, dannatissime parole senza senso, senza affetto. Perché per tanto tempo è stata arrabbiata con quella povera donna, incolparla addirittura per essersi ammalata.
«Perché?» sussurra. Perché ha fatto solo danni? Perché non ha sfruttato il poco che alla madre restava da vivere, perdonandole una colpa che in realtà non aveva? Permettendole di andarsene in pace?
Quando non era stata corrucciata, imbronciata con lei, aveva a stento aperto bocca per chiederle come stesse. La voce non le era uscita.
Poi, qualche mese più tardi, aveva perduto anche l'altro genitore. Ed era scoppiata in una crisi di pianto e urla agghiaccianti. Era corsa da Luke, ma avevano avuto una lite. La causa? Calum, naturalmente. Tutti le sue bravate, i suoi errori, sono sempre stati tutti ricondotti a lui. Poiché nessuno, per varie settimane, ha mai saputo del suicidio del padre.
Eva, dopo la litigata con Luke, disperata, era andata da Calum. Il ragazzo doveva fare un progetto extrascolastico con Aleisha, quel pomeriggio.
Ma li aveva beccati occupati in altro, spalancando la porta del laboratorio di chimica. E tutto si era susseguito con una velocità da far girare la testa.
Eva era salita fino al tetto della scuola. Inizialmente non aveva riflettuto, non aveva pianificato niente. Si era soltanto trascinata fino a lì, con le fitte allo stomaco per il dolore. Aveva tentato di saltare giù, per liberarsi di tutto. Tuttavia aveva chiuso gli occhi, ad un passo dal baratro, ed era rinsavita.
«Eva?»
Sbatte le palpebre, accorgendosi di star mettendo a fuoco il giardino.
«Di' qualcosa.»
Eva si volta. Ashton le sta parlando. «Sto bene» mente. «Stavo solo pensando.» Perché Ashton è in camera sua? Come ha fatto ad entrare? «Ho bisogno di stare da sola» gli dice, tenendolo a distanza. «Anzi» aggiunge sottotono, «esco a prendere un po' d'aria.»
«Devi rimetterti in forze, prima di-»
«Non ho voglia di supplicarti. Se... se tieni ancora a me, lasciami stare.» Eva afferra la sua fedele tracolla multicolore e una felpa. Solleva il vetro della finestra. Non si sente in forma, non sa neanche se le gambe le cederanno non appena atterrerà sull'erba. Ma desidera prendere una boccata d'aria fresca. Si issa a fatica sul davanzale e inizia a calarsi giù grazie ad alcune regole malmesse. Vuole solo sedersi sul suo muretto preferito e ascoltare la musica.
«Eva, che diavolo...?»
Ashton si affaccia dalla finestra, ha un'espressione mortalmente preoccupata: i loro occhi si incontrano, e ciò basta per fargli capire che non è il momento di riprenderla od obbligarla a risalire. Ha scorto i fiumi di lacrime che le bagnano le guance. E l'ha vista in questo stato così raramente che resta attonito.
Nonostante ciò, la chiama e la richiama; lei non si ferma e sguscia fuori dalla sua visuale.
«Che succede?» Claire entra nella stanza, attirata dalla voce del ragazzo. «Eva dov'è? E che ci fai qui? Ti avevo pregato di non disturbarla.» Deve esserselo lasciata sfuggire mentre Luke e Michael, di sotto, insistevano per saperne di più sulle condizioni di Eva.
Ashton non se la sente di mentirle. «Dovevo tentare di scusarmi con lei. Ma... è scappata in lacrime. Non preoccuparti, vado subito a cercarla.»
«Da solo? Vuoi che venga anche io?» si propone lei. Non è capace di essere arrabbiata con Ashton. Ed è spaventata, necessità di qualcuno che la rassicuri.
«No» sorride il ragazzo, accarezzandole il braccio. «Ho tutto sotto controllo. Ti posso chiedere soltanto di non allarmare nessuno di giù? Non vorrei che, insomma, venisse punita o sgridata. Dammi una mezz'ora soltanto, poi potrete chiamare la polizia. Okay?»
E Claire, contro ogni previsione, accetta.
«Se non la trovi, però, avvisami. Ti do il mio numero, così...»
«Tranquilla. Se non l'hai cambiato, ce l'ho già.»
«È sempre lo stesso» conferma annuendo, ed è meravigliata che ancora lo abbia nella rubrica. «Non è cambiato niente» si fa sfuggire, mordendosi il labbro, quando lui si cala dalla finestra. È tuttora capace di ammaliarla.

Le gambe di Eva pendono dal muretto coperto di graffiti. Il suo diario è appoggiato sulle cosce e sta scrivendo con una rapidità invidiabile. Sta semplicemente raccontando come si sente, quali pensieri le frullano per la testa. Ha sempre fatto così.
Gli auricolari infilati nelle orecchie la catturano con una potente canzone rock, cruda e mozzafiato.
Poco dopo qualcuno si siede accanto a lei e le ruba una cuffietta. Restano così, in silenzio, a condividere la musica, per tutta la durata di quella traccia. Sinché una mano si posa sulla sua, femminile e sottile, e la stringe.
Luke non sa bene cosa dire, ma sente di doverle stare vicino. «Io... non ne avevo idea» proferisce soltanto. «Non avevo la minima idea di quello che stai passando.»
Eva stoppa la riproduzione casuale, mettendo via l'mp3, e chiude con un colpo secco il diario.
«Non sapevo di tua madre. Né del resto.»
«Ora che lo sai, cambia qualcosa?»
«Sono stato troppo duro con te. Mi dispiace.»
«Cambia qualcosa?» ripete lei, caparbia.
«No... Non lo so. Forse cambia tutto. Il modo in cui ti guardo è cambiato, sì.»
«Compassione.»
«Dispiacere, Eve. Sincero dispiacere. E un enorme senso di impotenza. Non posso fare niente perché tu ti senta meglio.»
«Un tempo potevi» confessa Eva. Le ha sempre infuso una piacevolissima dosa di tranquillità.
«Stare con me ti faceva sentire meglio, ma non era amore» constata Luke. «È vero?»
La ragazza annuisce. «Penso.»
«Pensi?»
«Sì, è vero. È vero.»
«Avrei dovuto capirlo prima. Questa è una mia colpa. La tua è stata quella di tenermi sulla corda, di darmi false speranze. Ma eravamo molto giovani, dopotutto.»
Eva percepisce della rassegnazione nella sua voce. Si sofferma ad osservare il suo profilo, mentre lui è concentrato sul cielo. Intorno ai quindici, sedici anni, era molto differente da com'è ora. È cresciuto. Fisicamente sembra tutto un altro ragazzo: è ancora più alto, è diventato molto muscoloso, i suoi capelli non li porta più sollevati in alto e virano verso il castano chiaro, non ha neppure più il piercing al labbro. La sua voce, ora, è molto più calda e profonda.
È maturato anche psicologicamente, sebbene quella sfuriata che le ha fatto in camera abbia per un momento fatto credere ad Eva di aver davanti sempre il solito ragazzino.
A questo punto, si domanda perché lei non sia mai cambiata. È sempre più o meno la stessa. Sia all'apparenza sia all'interno.
«Eravamo piccoli e ingenui» prosegue Luke. «E mi pento di non aver compreso prima di quanto tu fossi innamorata di Calum.»
Calum. Il suo nome è ovunque, anche se lui non potrebbe essere più distante. «Perché devi metterlo in mezzo?»
Non si è mai definita innamorata, per inesperienza o per timore di esserne illusa e delusa.
«Perché preferisco parlare di averti persa come ragazza, piuttosto che affrontare il fatto di poterti perdere come persona» risponde il biondino, e sta compiendo uno sforzo immane per non far tremare le sue parole. «Non voglio che tu te ne vada, Eve.»
«Io non-»
«Dobbiamo parlarne. Non respingermi così. Ho bisogno di saperne di più su ciò che ti accadrà.»
«Non mi accadrà niente» dice piano Eva. E non sa come possa uscirle un'affermazione del genere.
«Non guarirai facendo finta di niente» tenta di farla ragionare lui. «Non puoi negare l'evidenza.»
«Io non guarirò e basta.» Eva scende dal muretto. Tutto il suo piano le sta apparendo sempre meno convincente. Non vuole iniziare a considerarlo un gesto dissennato.
«Cosa significa? Quello che hai... Io non riesco nemmeno a pronunciarlo ad alta voce, dannazione!»
E non è il solo, perché Eva continua a faticare ad ammetterlo a se stessa, a chiamare quel male per nome.
«È curabile» riprende Luke. «I tuoi zii hanno detto che-»
«Ti sto supplicando di non insistere» lo interrompe lei, guardandolo negli occhi coi suoi che sono lucidi. «Non me la sento di parlarne.»
Luke balza giù e si piazza dinnanzi a Eva. La supera di una trentina di centimetri. «Tu non vuoi curarti» sussurra, l'espressione scioccata. «Non vuoi guarire.» E quando la ragazza non accenna a rispondere, la scuote per le spalle. «Perché, Eve? Perché? Dammi una risposta.»
«Non ho mai avuto tutta questa voglia di vivere, in fondo. Non essere così sorpreso.»
«Tu non stai bene» commenta lui, che è inorridito dalla freddezza del suo tono. Non può essere davvero così indifferente. È una maschera.
«Lo so, sono malata.»
«Hai qualcosa che non va, Eve!»
Luke si sta scaldando, ed Eva non vuole permettergli di farla ripiombare nell'incertezza, nella possibilità che, dopottutto, ci siano molte più persone di quanto vuole credere a soffrire per lei. Così apre la sua tracolla e ne estrae il pacchettino regalo che tanto l'ha fatta vacillare. l regalo le sembra così pesante, così sbagliato, per tanti fattori. Non l'ha nemmeno mai scartato. Lo porge al ragazzo. «Io non posso accettarlo, scusa.»
«No. Eve, non fare così. Non fare così, Cristo! Non rimanere sempre così distaccata. Mi spaventi, cazzo.»
«Prendilo. Dallo a chi ti ama, dallo ad una ragazza che non ti farebbe soffrire così. Ti prego.»
«Non mi interessa niente di quella stupida collana. Puoi pure gettarla via. Stavamo parlando di altro.»
«Luke, basta» mormora stancamente Eva, e gli preme la scatolina sul petto per restituirglielo. «Odiami quanto vuoi, quanto ne senti il bisogno, ma non provare a farmi cambiare idea.» Si allontana con passo celere, senza voltarsi.
E Luke cerca di fermarla: «Non è così che deve andare. Io non voglio perderti.»
«Pensi che io lo voglia? Pensi sul serio che io voglia morire? Sono terrorizzata!» confessa Eva, tradendosi. È come se stesse tentando di far aprire gli occhi a tutti loro, come se da una parte continuasse ancora a lottare affinché chi la circonda si accorga di quanto in realtà sia spaventata e non voglia mollare tutto.
«Allora perché non ti fai aiutare?»
La domanda di Luke è lecita, ma non riceve alcuna risposta. Perché Eva è conscia di avere più paura della vita che della morte, sa fin troppo bene che è estenuante sopravvivere. E non dice niente di tutto ciò, di questi timori che la stanno facendo ammattire e tremare. Non dice una parola, come al solito.

Le giornate dal martedì al venerdì scorrono lente, lentissime. I sintomi si acutizzano, e talvolta Eva deve rimanere a letto per più ore di seguito.
Non conosce nemmeno questi sintomi, non è informata su niente che riguardi la malattia. Ha semplicemente consegnato agli zii la cartelletta datale dai medici, ha deciso di rimuoverla dalla sua memoria e lasciare che siano loro due ad accudirla.
All'ennesimo cartone animato che i cuginetti le fanno guardare, sbuffa sonoramente e si alza dal divano. Ci sono momenti in cui sta meglio, ma dopotutto, in generale, il suo corpo si mostra sempre più debole.
Ormai fatica a mangiare, poiché rimette quasi tutto. E la testa le martella e le gira, spesso così veemente da svenire.
Non sa che cosa abbia scatenato quel peggioramento; è arrivato tutto d'un botto, mozzandole il fiato. Forse qualcuno ha deciso che le rimane meno tempo del previsto, perché il tumore si sta espandendo.
Dall'ospedale l'hanno richiamata almeno altre cinque volte. Non ha mai risposto. E così ha chiesto di fare agli zii. Loro ancora sono convinti che l'arrivo dell'anno nuovo porti con sé buone notizie, un improvviso cambio di rotta.
Cammina fino all'ingresso, alla ricerca della sua borsa. Fruga all'interno e sussulta. Non trova il diario.
«Dov'è?»
Nella tracolla c'è di tutto, ma non l'oggetto più importante. La sradica dall'attaccapanni e la svuota sulle assi del parquet. Le chiavi di casa tentennano, fanno un gran chiasso, schiantandosi a terra. E così il cellulare. Tutto il resto atterra senza produrre rumore.
«Eva?» Elizabeth le si inginocchia accanto. «Hai perso qualcosa? Posso aiutarti io a-»
«Dov'è il mio diario?» sbotta lei, gli occhi pesante che saettano dalle cianfrusaglie alla cugina. «Chi l'ha preso?»
«Non lo so... Non l'ho visto in giro. Va tutto bene, è solo un diario. Adesso lo cerchiamo insieme.»
Eva è così terrorizzata dalla prospettiva che qualcuno glielo abbia sottratto che si metterebbe a urlare. Ci sono troppi dettagli tra quelle pagine. Leggerlo sarebbe come profanare la sua intimità.
«No, tu non capisci. Non capisci.»
Elizabeth non è preparata ad una crisi somigliante a quella del pranzo di Natale. Non saprebbe come comportarsi, come sedarla. E Claire è di sopra a fare la doccia. Così prende un respiro e si dice che la cosa migliore è non contraddire Eva. «Ora torniamo in camera tua e controlliamo se è lì. Setacceremo la casa, se necessario. Okay?» tenta di persuaderla. Fortunatamente la porta principale si apre, rivelando i suoi genitori.
Ed Eva ritrova il suo diario. È nella mano sinistra dello zio Gregory. Lo punta con il dito, stordita.
Le loro espressioni stravolte e gravi esprimono più di tante parole. L'hanno letto. Magari non tutto, ma sono a conoscenza della parte più oscura.
«Hai detto che non gli credevi...» sussurra.
«Inizialmente non credevo a ciò che ha detto Ashton. Ma... dovevo averne una conferma, Eva» risponde Gregory. È sconcertato. «Non era mia intenzione sottrarti questo diario. Ma è stato più forte di me. E non puoi biasimarmi. Le parole di Ashton erano molto forti.»
«Ci hai assicurato che la sua era una bugia» aggiunge Agnes, sconsolata. «Hai ingannato tutti noi.» Ha la voce di chi sta per scoppiare a piangere.
Per Eva quest'immagine è difficile da digerire. Li sta facendo invecchiare. I loro volti sono segnati da profonde rughe, le palpebre sono pesanti.
«L'ho fatto» conferma, incredibilmente fredda. «Sono brava a ingannare le persone. Posso riavere indietro il mio diario?»
Gregory suore il capo. «Lo terrò io.»
«Bene. Qual è la punizione?»
«Domani festeggerai con i tuoi amici. E non ammettiamo un no come risposta.»
Eva sbatte le ciglia. «Cosa?» Dopo tutto ciò che hanno letto dalla sua penna, l'unica cosa che pretendono è che festeggi il capodanno?
«I ragazzi verranno qui. Hanno invitato anche altri coetanei. Noi andremo al ristorante con i bambini. È già tutto organizzato. Devi solo prepararti per la festa.» Gregory le parla con tono gelido e distaccato.
Lei non capisce. Che cosa significa? È il loro castigo? E perché quasi non la degnano di uno sguardo?
Li ha delusi. Non può che essere così. Li ha pugnalati alle spalle, ripetutamente.
«Perché pensate che non metterò in atto ciò che avete letto?» chiede soltanto.
«Ci saranno i tuoi amici. Veglieranno su di te.»
«Quindi mi controlleranno tutta la notte? Questo lo chiamate festeggiare?»
«Verranno soprattutto per starti vicino» risponde Agnes. «Scusate» mormora, allontanandosi con una mano sugli occhi.
«Zio» lo chiama Eva, ponendosi di fronte a lui. «Non puoi farmi questo.»
«Non pensare che per noi sia facile. È difficilissimo. Fa male. Ma quello che accadrà nelle prossime settimane sarà peggio.»
Lei lo fissa interrogativa.«Non capisco.»
«Ti abbiamo dato fiducia. Abbiamo atteso. Ma non è servito. Tra tre giorni hai alcune visite da fare prima dell'intervento.»
«No, no, io non-»
«Non si discute, Evangeline.»
Eva si appoggia alla parete. Non possono costringerla. Calcia con stizza gli oggetti che ha rovesciato sul pavimento. «Vi odio!» urla, e la voce le stride, le graffia la gola. «Vi odio tutti!»
I gemelli si mettono a strillare. Ed è l'ultimo suono che ode prima di rinchiudersi in camera.
Lo sguardo che le brilla negli occhi è pericoloso, e ancor di più lo è il sorrisino sadico che le increspa le labbra. Sta di nuovo tramando qualcosa.

È l'ultimo giorno dell'anno, si sta avvicinando la sera. Eva non accenna a scendere dal letto. Si gira e si rigira da ore, pensierosa, tanto che la testa ricomincia a dolerle.
Scosta le coperte e si alza, infilando le infradito.
I bambini di casa le trotterellano davanti, quasi investendola, quando esce sul corridoio. Sono contenti per la cena al ristorante.
Claire ha invitato Chris a dormire da loro, e proprio la coppietta le è di fronte. Eva continua a non trovare particolarmente gradevole Chris.
«Ehi, piccola, come stai?» esclama lui.
Quando comprende che con quel 'piccola' si riferisce a lei e non ad Claire, fa una smorfia schifata.
La cugina se ne accorge, siccome chiede al fidanzato di lasciarle un attimo da sole.
«Tu davvero vuoi sposare quel cretino?» commenta Eva, quando il ragazzo si allontana. La vede meglio con Ashton, anche se non lo ammetterebbe nemmeno sotto tortura.
«Non è un cretino. È solo un po'... inopportuno. Ma non sempre.»
«Il novanta percento della volte.»
Claire la ignora, sollevando gli occhi al soffitto. «Non ti sei ancora vestita? Elizabeth ti aspetta di là, se vuoi una mano per scegliere il vestito.»
«Non ho tanta voglia» mormora in risposta, stringendosi nelle spalle. Ha i brividi di freddo. La febbre la sta perseguitando da cinque giorni, tra alti e bassi.
«Falla felice. Ha pianto tutta la notte per te... Insomma, non fraintendermi» soggiunse subito. «Non è colpa tua. Solo che soffre al pensiero di vederti così.»
Eva si rassegna, sospirando. «Va bene... Un ultimo sforzo» si incoraggia da sola, trascinandosi nella stanza di Elizabeth. Bussa alla porta, ma è aperta. «Ti va di prestarmi uno dei tuoi vestiti?»
La ragazza balza giù dalla sedia e la raggiunge con un sorrisone. «Davvero?»
E non ha tempo di annuire, che Elizabeth aggiunge: «Magari potremmo fare uno scambio. Tu indossi qualcosa di mio, io qualcosa di tuo.»
In men che non si dica, Eva si ritrova nell'immenso guardaroba della cugina. È pieno di abiti floreali, con grandi gonne a balze e corpetti.
Se fosse in forma, commenterebbe qualcosa di cattivello per descrivere il suo stile.
«Non mi farai indossare le ballerine» si augura. Perché già non è molto alta, anzi.
«Non ti piacciono? Le ho di tantissimi colori e... Okay, abbandono l'idea. Non guardarmi così male» la rimprovera l'altra. «Ecco! Questo è perfetto.» Le fa svolazzare davanti agli occhi un vestito blu pieno di fiorellini.
Eva non lo indosserebbe, in altre condizioni. Ma vuole accontentarla, perché non si sente bene con se stessa se pensa che Elizabeth sta soffrendo per lei. «Aggiudicato.»
E poiché la più giovane la fissa con aspettativa, le fa cenno di seguirla in camera sua. Fruga un po' nell'armadio, poi annuisce soddisfatta e meditabonda. È un vecchio regalo di Luke. Uno dei tanti che lui si è sempre premurato di farle, tra compleanni, San Valentino e altre festività. Non dovrebbe propinarlo alla cugina senza rivelarle la provenienza. E non dovrebbe nemmeno considerare così poco i doni di Luke. Ma vuole chiudere quel capitolo. «Tieni. Ti starà bene.»
Elizabeth sorride. «È bellissimo. Ora lo provo.»
E quando lei si sposta in bagno, Eva si strofina gli occhi e si lascia cadere sul letto. Sta per ingannarli e tradirli tutti. Li coglierà alla sprovvista, come ha scritto nella lettera.
«Noi stiamo andando.» Agnes le spunta alle spalle. «Prometti che ci chiamerai? Così... possiamo sapere se va tutto bene.»
Ma Eva non le sta prestando attenzione. «Su quel diario ho riportato i diversi modi per uccidersi. Con tanto di particolari. Ho fatto molte ricerche sull'argomento. Immagino abbiate letto tutto. Pensate che io sia pazza? No, non rispondere... Non ha importanza. Io penso di sì.»
«Eva, noi non-»
«Perché non mi portate con voi? Dopo quello che ho scritto, dovreste tenermi sotto controllo. Invece mi lasciate qui, ad una stupidissima festa.»
«C'è una cosa che ancora non hai capito, amore» le dice dolcemente, con quel suo fare materno. «Io e Gregory abbiamo piena fiducia in te. E tu non vuoi fare niente di ciò che hai scritto. Forse prima credevi di essere da sola in tutto questo, credevi che non valesse la pena restare. Ma adesso so per certo che tu abbia capito di non esserlo. Ci siamo noi con te» conclude. «E sappiamo che, dentro di te, hai già deciso di voler continuare a lottare. Stai solo aspettando che qualcuno lo noti, che qualcuno ti rassicuri e ti dica che questa sia la via da imboccare.»
Le parole di Agnes hanno un senso. Eva esita a rispondere.
E si lascia prendere dal panico, perché l'unico modo da lei contemplato per farla finita non è riportato sul diario. Loro non ne sono a conoscenza.
Proprio quel diario viene riposto sul comodino dalla zia. Evidentemente l'hanno già scandagliato a dovere. «Mi dispiace che tu sia stata così tanto male in questi anni, Eva» dice infine.
«Come sto?» trilla Elizabeth, ripresentandosi quando la madre è già scesa. «Troppo scollato? Troppo corto?»
Eva la osserva. L'ha detto che sarebbe stata benissimo. Cerca di sorriderle. «Sei perfetta» le assicura. I capelli azzurri risaltano sulla stoffa nera.
«Grazie!» esclama lei, andandole in contro e abbracciandola di slancio. La stringe con forza, e dietro quel gesto c'è molto più della semplice riconoscenza per un vestito. «Ti voglio bene, Eva.»
Questa rimane un po' rigida. Le accarezza appena la schiena. Non crede di meritarsi quell'affetto. «Non ti stai per mettere a piangere, vero?» Prega di sbagliarsi, perché non ne sopporterebbe la vista.
«No, no, io... No» mormora Elizabeth, tirando su col naso. «È che... ho paura di perderti.»
Eva sente l'impulso di versare lacrime a sua volta. «Sono ancora qui. C'è una festa che ci aspetta. E c'è un ragazzo che aspetta di essere sedotto» scherza, ma non c'è traccia di allegria nel suo volto.
«No, meglio di no. Luke adesso non è una cosa importante.»
«Lo è, invece.» Lo è tantissimo. Eva non può lasciarlo senza chiedergli di dimenticarla una volta per tutte. «E questa sera ti concentrerai su di lui. Promesso?»
Elizabeth si morde il labbro. Non vuole che la serata vada così. Preferirebbe starle accanto.
«In questi giorni ne abbiamo avuto abbastanza di momenti strappalacrime» riprende la più grande. «Hai bisogno di divertirti un po'.»
«A patto che lo faccia anche tu.»
«Posso provarci. Ora vai a prepararti. Ci vediamo dopo.»
Elizabeth si fionda di nuovo in bagno, rincuorata.
Eva chiude la porta e libera un respiro sofferto. È diventato tutto così estenuante. Adocchia l'abito prestatole e lo indossa, facendo scivolare sul tappeto il pigiama.
Sta dimagrendo troppo velocemente. Le costole le spingono contro la pelle, le scapole sono vistosamente in rilievo. Più si guarda, più si sente senza forze.
La stoffa blu scuro contrasta con il suo colorito pallido e il motivo a fiori fa a pugni con gli anfibi che ha infilato ai piedi. La gonna le arriva poco sopra il ginocchio. Deve stringere le spalline per farle aderire, poiché sono ormai larghe su di lei.
Si passa le dita sulla testa. Non ha più niente da pettinare. Ogni volta è una doccia gelata.
Si sporge in avanti, verso lo specchio, per truccarsi. Gli occhi di quel verde chiaro, scolorito, sono contornati da borse ingombranti. Calca la matita nera, pasticciandosi le palpebre sia sopra che sotto.
La mano le trema ancora, non collabora, e rischia di centrare l'iride. Sbatte le ciglia prima che accada, e prosegue.
Il mascara lo applica con incertezza, perché le sta venendo a mancare l'equilibrio, la fermezza degli arti, e si sporca le sopracciglia.
Tenendo duro per non prorompere in un urlo frustrato, riprova e riprova. Sta combattendo contro se stessa, contro il suo corpo che sta cedendo.
Si pulisce dove è finito accidentalmente il trucco e guarda l'effetto finale. Sembra un panda.
Sospira. Le lacrime sono intrappolate sul bordo dell'occhio, lei trattiene il fiato. In poco tempo si troverà ancorata ad un lettino, in ospedale; l'immagine è sempre più reale, più definita, non è più solo un lontano presentimento o un incubo.

Sono quasi le ventitré, e la casa è gremita di gente. Per la maggior parte sono sconosciuti.
I ragazzi hanno installato un sistema audio per diffondere la musica ad alto volume, i bassi pompano e vibrano in ogni stanza. Le luci sono state sostituite da altre, colorate eppure soffuse, che creano strani disegni sui muri. In cucina ci sono numerosi cartoni di pizze, alcuni già vuoti, e altrettanti alcolici.
Eva si deve ricordare che con i farmaci che già prende non può mischiare quel genere di bevande. Anche se vorrebbe buttare giù un'intera bottiglia e dimenticarsi, per un attimo, di tutto.
Se ne sta lì, attaccata con la spalla ad una parete, sentendosi completamente estranea a quel contesto. È la prima festa a cui partecipa da almeno tre anni, ancora non ha capito come comportarsi in quelle situazioni.
«Bevi qualcosa? Puoi?» Michael le si piazza di fronte, mostrando un bicchiere di plastica che ha un odore pungente.
«No» risponde lei, scuotendo il capo. E non osa immaginare come potrebbe stare per una sbornia, dovendo già resistere a quegli sprazzi acuti di mal di testa che la investono frequentemente.
«La festa ti sta piacendo?»
«Uhm... l'avete organizzata bene.» Hanno pensato a tutto loro.
«Ma non ti piace» indovina lui, grattandosi sopracciglio in corrispondenza del piercing. Quell'accenno di barba che gli cresce sul profilo lo fa apparire più uomo e meno ragazzo. I capelli disordinati non sono più rossi, ma di un biondo canarino.
«Già... Non trovo una ragione per festeggiare. Penso che sia una cosa veramente stupida. Ma voi divertitevi, okay?» Eva fa per andarsene, ma Michael le circonda le spalle.
«Mi dispiace tanto per come sta andando, Eva» le sussurra sincero all'orecchio, stringendola a sé. È da sempre un po' goffo con le ragazze, e lei lo nota anche questa volta.
«Anche a me.»
«L'unica cosa che posso fare adesso è riparare la nostra amicizia. Perché posso, vero? Tu mi vuoi ancora nella tua vita?»
Non sa quanto. Non ha idea di cosa significherebbe vedere il suo sorriso luminoso, la sua capigliatura strana, i suoi occhi costantemente sgranati, sentire la sua risata e la sua voce particolare. Avrebbe così bisogno di una persona rumorosa come lui. «Non so se potremmo essere di nuovo tutti amici» mormora. «Non so se è così che deve andare.»
«Sei tu a decidere come deve andare» replica lui. «Non è nessun altro.»
«Lo so» annuisce lei, scostandosi. «Allora forse ho deciso io così.»
«A me dai l'impressione di sentirti costretta» commenta un'altra voce. Ashton si fa avanti, il suo alito sa di Vodka. «Non stai decidendo niente, Eva. Ti stai lasciando comandare dalle tue paure. Questa è rassegnazione.»
Eva sta per ribattere, ma ci ripensa. Sarebbe il preludio di una discussione e non ha le energie per affrontarla. Si affaccia in salotto, scavalcando un gruppetto che sta schiamazzando.
Scorge Elizabeth, tutta accoccolata sulla poltrona, che finge che la presenza di Luke non la scombussoli.
Va da lui. Sta bevendo, come tutti gli altri, chiacchiera con un ragazzo che Eva crede di conoscere. Le ricorda il liceo, ma non ha in mente il suo nome.
Luke lo liquida subito, rivolgendosi completamente a lei. «Ehi...» la saluta, la voce roca ed incerta. Non si aspettava che potesse essere lei a raggiungerlo. «Ti va di... ballare?»
«La tua ragazza non c'è?»
«È rimasta a Los Angeles.»
«Sarebbe una cattiva idea, lo sai.»
«Lo so» conferma lui, guardando altrove. «Vuoi che io mi dimentichi di te. Sei venuta a chiedermi questo, no?»
«Come l'hai capito?»
«Be', non verresti mai da me di tua spontanea volontà. Se non per darmi brutte notizie, lasciarmi o altro.» Prova del rancore verso Eva, glielo si legge negli occhi. Non riesce ad accettare la sua malattia e neanche il fatto che l'abbia tenuta nascosta. «Scusami» dice infine, abbassando lo sguardo. «Pessimo tempismo.»
«Non scusarti. Non anche tu. È snervante che facciate di tutto per non farmi soffrire.»
«Io non posso dimenticarmi di te, Eve» insiste Luke, bevendo altri lunghi sorsi dal suo bicchiere.
Eva non pensa di essere indimenticabile. Ha sempre creduto il contrario. «È l'unica cosa che ti chiedo. È... il mio ultimo desiderio.»
Lui chiude gli occhi, frastornato. Ultimo desiderio. «No, no. Non dirlo più. Non voglio più sentirtelo dire. Preferisco vederti con Calum, piuttosto che...» Si interrompe e alza le spalle, fissando un punto della parete. «Pensi che lui potrebbe farti cambiare idea? Potrebbe... non lo so, diamine... potrebbe farti ritrovare l'attaccamento alla vita? Potrebbe essere ciò che ti manca per sentirti felice? Eve, se è così io mi farò da parte. Se ciò significasse che-»
Eva lo ferma con un movimento del mento. Quanto sarebbe disposto a fare per lei. Scenderebbe a patti, si metterebbe da parte, tralascerebbe il suo stesso volere. Non può chiederglielo. «Non cercare di capirmi, Luke» sussurra. «Non voglio che tu sia triste per me.»
«Triste non è la parola giusta. Non rende niente, niente di quel che proverei se ti accadesse qualcosa. Voglio solo sapere se esiste un modo per convincerti a sottoporti alle cure. Voglio sapere se Calum sarebbe capace di farti capire che ci sono tante cose e tante persone che non ti vogliono lasciare.»
«Ti ha mandato lui?» gli domanda soltanto, diffidente.
«Cosa? No.»
«Stai mentendo.» È facile riconoscere quando dice bugie. Eva si accorge della sua riluttanza.
«Sì, okay, mi ha chiesto di parlarti. Ma non ti sto dicendo quello che vorrebbe. Perché mi sono reso conto di non poterlo fare.»
«E cosa vorrebbe?»
«Mi ha chiesto di... di farmi avanti. Di chiederti di uscire, di... Hai capito, no? Pensa che potremmo tornare insieme, e così tu forse staresti meglio.»
Eva non crede alle sue orecchie. «Che cosa?» esclama a mezza voce. Guarda Calum. È di spalle, non la può vedere. Non si sono più detti nulla da Natale. Ora crede che debbano chiarirsi. E non è disposta a farlo pacificamente.
Si avvia nella sua direzione, mentre Luke tenta di dissuaderla.
Gli batte una mano sulla spalla, lui si volta.
«Eva» pronuncia il suo nome con rigidità, serrando la mandibola. «Ti aspettavo.»
Lei apre bocca, cerca di emettere un suono; ma non ci riesce e la richiude. Di nuovo, si rende conto che Calum è l'unica persona che possa portarla via dal mare di apatia e silenzi in cui non di rado ha rischiato di affogare, ma che al contempo è lo stesso ragazzo col quale fatica a parlare e mantenere un contatto visivo per più di tre secondi.
È infatti senza guardarlo in faccia che dice: «Perché gli hai chiesto di venire da me?»
«Mi sto giocando tutti gli assi nella manica» risponde lui, e si alza dal divano. «Non ti lascerò andare, Eva. Né oggi né mai. E se per trattenerti dovessi spingerti tra le braccia del mio migliore amico, lo farei.»
«Pensi che basti questo per trattenermi? Pensi che sarà il Principe Azzurro a vietarmi di fare qualcosa che possa nuocermi?» Per Luke e Calum è solo una questione di amore? Per loro è sufficiente che Eva sia sistemata con un ragazzo, così non potrà prendere in considerazione l'idea di abbandonare quel mondo? «Non datevi tutta questa importanza.»
«Io so di avere una certa importanza per te. Ne sono sicuro» ribatte Calum. «Tu provi ancora qualcosa per me. Negalo pure, non mi interessa. Non ti crederò una seconda volta.»
Eva lo osserva, è vestito elegante, e vederlo così è una novità: di solito preferisce canottiere sformate e pantaloni neri. La camicia bianca, che tiene aperta verso gli ultimi tre bottoni, mette in risalto i denti candidi. La giacca nera gli calza a pennello.
Vorrebbe rispondergli che ha ragione e che può più negare e nascondere i sentimenti per lui. Vorrebbe, ma sa di non poterlo fare. «Perché ne sei sicuro?» domanda allora.
Lui aggrotta la fronte, sfregandosi con le dita l'attaccatura del naso. Sembra stia discutendo mentalmente con se stesso, incerto se dire o meno il motivo di tanta convinzione. Ma, alla fine, infila una mano nel taschino interno della giacca e preleva dei fogli ripiegati più volte. «L'ho letta tutta» le spiega, stringendo la carta con vigore, come a volerla polverizzare.
Eva si immobilizza, gli occhi spalancati e vigili. «Come l'hai avuta?»
«Non è necessario che tu lo sappia.»
«Come?» ripete lei, allungando il braccio per riprendersela.
Calum la ritrae. «Tuo zio ieri mattina è andato da Ashton» risponde. «Voleva ringraziarlo per averlo messo al corrente delle tue intenzioni. C'eravamo tutti e quattro. Ho intravisto questa lettera tra le pagine del tuo diario e gli ho chiesto se potevo prenderla.»
«Non avete il diritto di-»
«Non abbiamo il diritto di sapere che tu, esattamente tra un’ora, vorresti suicidarti mentre qui c'è talmente tanto casino da passare inosservata? È questo che vuoi dire?»
Eva si gonfia i polmoni di aria e stringe i pugni, le unghie corte le pungono i palmi. «Il contenuto di quella lettera non ti deve interessare.»
«Hai scritto dieci righe su di me, Eva. So bene cosa provi. So che non vuoi che ricompaia nella tua vita perché te la stravolgerei. So che però non desidereresti altro, perché hai bisogno di me. L'hai scritto tu» insiste Calum, scuotendo i fogli.
«Basta. Sono stanca» mormora lei, ritornando sui suoi passi. Si allontana in cucina, sostenendosi al bancone. Le sue chiacchiere l'hanno stordita.
Ma non c'è pace neanche lì. Pare che Luke, Michael e Ashton si siano accordati per aspettarla al varco. È una trappola, vogliono sfinirla e confonderla.
La porta si chiude dietro Calum, quando anche lui li raggiunge.
«Perché non puoi lasciare perdere?» gli chiede stancamente Eva. «Perché dovrebbe interessarti se io voglio mettere fine a tutto?»
E quando lui tituba, perché forse non ha il coraggio di dirlo ad alta voce, è Luke che si frappone tra loro e si fa capo della situazione. «Perché sei l'unica ragazza di cui si sia mai innamorato» dice. È uno sforzo notevole per lui ammetterlo, altroché.
«Luke...» prova a opporsi Calum, a disagio.
«No, fammi parlare. Dobbiamo dire le cose come stanno. E non credere che per me sia facile farle capire che tieni a lei nello stesso mondo in cui lo faccio io...»
Eva è scioccata. È rimasta alla parola 'innamorato'. Calum è innamorato di lei.
Non lo ha mai confessato, neanche quando alle superiori si sono avvicinati tanto da non poter fare a meno l'uno dell'altra.
«Voi non potete venire qui e dire così» mormora, attonita. «Non è giusto.»
«Noi vogliamo starti accanto. La tua malattia...» comincia Michael.
«Sono affari miei. Andatevene.»
«Eva, avanti, smettila di comportarti così. Non sei una bambina» la riprende Ashton. Da sempre riveste il ruolo di adulto. Eva ne è infastidita. «Sappiamo tutti cosa vuoi fare. Abbiamo letto tutti quella lettera.»
«Non dovevate!» strilla lei, sorprendendoli. La testa sembra vittima di tanti piccoli aghi che penetrano in profondità e le provocano delle fitte anche agli occhi. Sta ricominciando il dolore. Le pause tra un attacco improvviso e l'altro stanno si stanno accorciando sempre di più. «Voi non potete giudicarmi. Non potete!»
«Eva...» Calum le sfiora il braccio. Il modo in cui pronuncia il suo nome la fa ancora sussultare. E quel contatto la fa rabbrividire.
«Non toccarmi. Non osare dire niente su quella lettera.» Ormai Eva sta piangendo. Sta pregando che tutto si spenga all'istante, che la tribolazione la lasci libera. Ma non succederà, e nella sua mente serpeggia un solo pensiero per cacciare il dolore. «Non ti avvicinare a me.»
Non è pronta a trascorrere un solo minuto in sua compagnia per poi dover essere costretta a vederlo andare via, di nuovo fuori dalla sua vita.
«Perché mi allontani? Perché devi estraniarmi così dalla tua mente? Perché devi respingermi?» Calum si sta scaldando. La vena che gli pulsa nel collo ne è una chiara dimostrazione. «Ti devo tirare fuori le parole di bocca, Eva, lo capisci? È sempre così!»
«Cal, aspetta un attimo. Calmati» interviene Michael. «Calmiamoci tutti.»
«No, non posso restare calmo. Conosciamo le sue intenzioni. È impossibile rimanere calmi, Mike» replica lui. «Voglio mettere ordine a questa situazione.»
Eva si lascia scappare una risata incredula. «Tu? Tu che ti vergogni di dirmi cosa provi?» dice, la voce stridula. «Sei ridicolo. Non sei meglio di me. Te ne rendi conto? Non mi dai neanche una buona ragione per ripensarci. Agisci dietro le quinte, mandi avanti i tuoi amici, ma non dici mai nulla! E hai anche il coraggio di-»
Calum la zittisce, posando una mano sulla sua bocca. È un gesto brusco, secco, ma deve farlo. «Dovresti almeno provare a negare tutte le parole che hai scritto. Almeno questo, cazzo! Provare a far sentire meglio gli altri, a rassicurarli. Invece cosa fai? Niente. Ti diverti a farci soffrire, a farci rimanere sul filo, a fare la parte della vittima. Se vuoi morire, fallo! Vai, fallo! Non ti fermerò, se è questo che desideri.»
«Non mi fermerai?» domanda piano Eva, il naso tappato dal pianto in agguato.
«Non meriti di continuare a vivere nel dolore. E io vorrei solamente che tu non stessi male.»
«Perché?» sussurra soltanto. Non capisce.
«Perché ti amo, Eva!» urla Calum, confessando un sentimento che si tiene dentro da troppo tempo e che l'ha logorato. «E non so se sono pronto a lasciarti andare, ma non posso costringerti ad affrontare una malattia tanto maligna.»
Le lacrime solcano il viso smunto di Eva. Il momento è quasi arrivato, e loro quattro le stanno rendendo tutto più difficile. «No... no. Non... Io devo farlo» balbetta, voltandosi per andarsene.
Calum, ancora una volta, la frena: afferra la punta del suo guanto, che arriva fino al gomito, la tira con le dita, agguantandone la stoffa un attimo prima che lei possa sfuggirgli.
E in quell'istante accade qualcosa che nessuno ha previsto. Il guanto si sfila, viene strappato via, e rivela la sua pelle.
Eva quasi non si ricorda di respirare. E, infatti, non respira. Indietreggia, barcollando sconvolta, e ruzzola a terra. Non sa se è stato quel “ti amo” a darle il colpo di grazia o il fatto di aver mostrato loro il braccio torturato.
E per alcuni secondi c'è solo il silenzio tra loro. È un silenzio teso come una corda di violino, pregno di domande non poste.
«Che cos'hai lì?» scatta Luke, deglutendo. Calum non apre bocca, ha già detto abbastanza.
Eva si risistema il guanto sinistro. Si vergogna tremendamente. Nessuno, al di fuori della famiglia, doveva sapere di quei tagli.
«Te li sei fatti tu?»
«Sempre questo tono sorpreso...» commenta lei. Come se non conoscessero la sua instabilità, la sua emotività precaria.
Michael sembra spaventato. Ashton la fissa con espressione sgomenta. «Da quanto va avanti?» le chiede quest'ultimo, osservando le lesioni ricucite con orrore e circospezione.
«Non ha importanza. È finita. Non dovrò più combattere. Tutto ciò che mi fa soffrire svanirà.»
«Non lo farai davvero» prova a convincersene Luke. Non gliene frega niente di ciò che ha detto Calum. Non sarebbe a posto con se stesso se la lasciasse libera. «E qui non c'è niente che tu possa ritorcerti contro. Abbiamo controllato ogni angolo della casa.»
«Mi dispiace.» Eva lentamente si trova con le spalle alla porta. Li ha distratti con quelle cicatrici di un passato travagliato. Si rimette in piedi. Ha quasi avuto un mancamento. Ora le sue gambe sono di nuovo stabili, ma lei non crede di stare bene. «Non avete controllato in camera mia... Addio, ragazzi.»
Mentre loro cercano di metabolizzare quella frase, quell'addio, lei sguscia fuori dalla cucina e prende a correre. Corre con tutte le ultime energie che ha, anche se la vista si annebbia e il capo pare spaccarsi in due.
Sbatte contro dei personaggi sulle scale, da una spallata a Claire, che non capisce cosa stia accadendo, cozza inavvertitamente il gomito sul corrimano.
Si nasconde in camera sua, tenta di chiudere a chiave ma si accorge che la chiave è sparita. Gliel'hanno tirata via apposta. Sposta la sedia e la incastra sotto la maniglia. Non servirà a lungo. Ci posiziona davanti degli scatoloni, ma si sente talmente fiacca da terminare lì la catasta di oggetti per bloccare l'entrata.
Recupera la piccola cassaforte da sotto il letto, inserisce la combinazione che nessuno conosce e si strofina il volto, un sorriso devastato sulle labbra secche: è riuscita nel suo progetto. Tuttavia non percepisce il minimo appagamento.
«Eva! Eva, apri!»
«Eve? Ti prego, apri questa maledetta porta!»
I ragazzi si sgolano dal corridoio, battendo i pugni sul legno della porta.
Eva tasta la bustina trasparente che contiene il mix di pillole rubate dalla clinica.
Con le mani che non vogliono stare ferme, la apre. Alcune pasticche finiscono sul pavimento. Il sudore le imperla la fronte e i palmi.
Guarda quei piccoli cilindri arrotondati di vari colori. Li guarda come se da una parte non desiderasse altro ma dall'altra ne avesse solo un enorme, inspiegabile terrore.
La porta spinge contro la sedia e gli scatoloni, la maniglia si alza e si abbassa.
Le voci dei suoi vecchi amici le giungono ormai lontane. Non è più molto in sé, l'agitazione la sta schiacciando, la testa chiede pietà. Deve solo ingoiare quelle pastiglie, poi finirà tutto. Tutto si spegnerà nel buio. La voragine che se la divora da anni verrà rimarginata, la solitudine finalmente domata.
Si avvicina il sacchettino alla bocca, inclina il collo all'indietro e si prepara a lasciare scivolare tutto in gola. RapidoIndoloreFinirà tutto. Continua a ripeterselo. Ma non ci riesce, non riesce ad inghiottirle.
La porta si spalanca, quasi si stacca dai cardini. Calum accorre da Eva, ma poi si immobilizza. Le ha detto che non avrebbe interferito. Gliel'ha promesso. Ma cosa deve fare?
«Ti prego, perdonami. Perdonami, Eva» mormora, chinandosi alla sua altezza. «Non è così che deve andare. Non posso davvero lasciatelo fare.» Le toglie la bustina di mano, lanciandola contro la scrivania. «Non posso, perdonami.» E le chiede scusa perché la sta trattenendo contro la sua volontà.
Eva sputa le poche pillole che si è adagiata sulla lingua, piangendo a dirotto, singhiozzando tanto forte da scuotere tutto il corpo magro.
È vulnerabile come non si è mai mostrata. Ha lasciato cadere le barriere che ergeva forzatamente per non permettere a nessuno di sorprenderla debole.
Calum la stringe tra le sue braccia muscolose e protettive, le sussurra che gli dispiace.
La consola, mentre lei singulta e trema per il pianto. Non le impone di calmarsi, le dice anzi di liberare le lacrime e tutto il resto che è bloccato nel suo cuore. E lei scalcia, urla, si sfoga, finché non si ritrova senza voce e abbandona il viso contro la camicia del ragazzo, inspirandone il profumo.
«Vado giù a prenderti dell'acqua, va bene? Torno subito. Non muoverti... Mike, vieni. Dammi una mano a dire a tutti di tornarsene a casa.»
Michael e Calum scendono di sotto. Ashton si allontana con Claire, rassicurandola sebbene sia lui ad avere bisogno di qualcuno che gli cancelli dalla mente la scena appena vista.
«Mi hai fatto spaventare» dice Luke, bianco come un cencio. «Te lo giuro, mi stavo sentendo male.»
Eva si appoggia al fianco del letto e tenta di rialzarsi. È spossata, sia nel fisico che nella mente. Ma non può rimanere in quella stanza, a farsi cogliere dai più svariati e malefici ripensamenti. Non può subirsi gli sguardi apprensivi e scioccati dei ragazzi o delle cugine.
Prende un plaid scozzese e se lo distende sulle spalle. Quindi, raccoglie il suo diario e lo mette in borsa. È colmo di fogli, alcuni traboccano e rendono ostica la chiusura del lucchetto.
«Che cosa pensi di fare, Eve?» domanda subito Luke. «Non sei abbastanza in forze per-»
«Ho bisogno di prendere aria. Non ne posso più di stare chiusa qua dentro. Per favore» aggiunge, «farò solo una passeggiata.» E non sa come, poiché non ha la certezza di esserne in grado.
«Non potresti, lo sai. I tuoi zii mi ucciderebbero se... Ah, miseria» sospira, scuotendo il capo. «Potevo utilizzare tante parole, ma quella proprio no.»
«Luke» finalmente pronuncia il suo nome, e lo guarda negli occhi. «Ti sto implorando.» E detesta supplicare sempre, perché da molti giorni a questa parte è tutto ciò che fa.
«Non so se posso fidarmi delle tue intenzioni.»
«Vieni con me, allora.»
«Eva... non puoi uscire in queste condizioni» si accoda una voce gentile e timorosa. Elizabeth è entrata silenziosamente e ha assistito all'ultimo scambio di battute. «Claire e Ashton mi hanno chiesto di assicurarsi che tu vada a letto.»
Eva fa un cenno di diniego. Non le interessa. Non vuole mettersi a letto. Non subito, non ancora. «Dopo lo farò» risponde. «Concedetemi solo di uscire a respirare un'aria diversa, a vedere i fuochi d'artificio. Poi torneremo. Promesso.»
«Si arrabbieranno con me, se ti lascerò andare» obietta la cugina.
«Andremo insieme. Lizzie, ti prometto che non succederà niente.»
E, a sorpresa, entrambi accettano di accompagnarla. Non riescono a negarle quel favore.

La strada è quasi del tutto sgombra da macchine e pedoni. Stanno tutti attendendo con ansia l’arrivo dell’anno nuovo, sparpagliati tra case, discoteche e ristoranti.
Luke sta guidando la sua auto nuova di zecca, Elizabeth è seduta nel sedile del passeggero.
Eva li osserva da dietro. In un modo o nell’altro è stata capace di farli avvicinare.
Il cellulare del biondino continua a vibrare a contatto col cruscotto. Sta rifiutando tutte le chiamate degli amici, perché Eva gli ha chiesto di dire loro che va tutto bene ma di non specificare dove si trovano.
«Sono tutti in pensiero» commenta Elizabeth, voltandosi a guardarla. «Non vuoi rientrare?»
«Solo un attimo.»
Ha promesso che sarebbero rincasati presto, ma non che non sarebbe scappata. Poggia la mano sulla portiera da sotto la coperta, approfittando della distrazione del guidatore, che sta sostando ad un semaforo rosso. Un’altra automobile frena dietro la loro, e ce n’è una davanti.
Luke non potrà fare retromarcia per andarle dietro, è l’occasione perfetta.
«Grazie, ragazzi.» È davvero riconoscente. L’hanno accontentata, l’hanno aiutata a scendere dalla finestra ed evadere dall’atmosfera grigia di casa.
Spalanca la portiera, afferra la tracolla e si getta fuori in una corsa stremata. Forse le è salita di nuovo la febbre, ma deve tenere duro. Ode appena un’imprecazione di Luke, mentre si addentra in uno dei tanti parchi del quartiere e mette a perdifiato una gamba davanti all’altra.
Desidera soltanto un ultimo momento con se stessa, un ultimo momento con la solitudine a cui tanto ha fatto l’abitudine e, per strano che sia, fatica ormai a rinunciare.

Il regalo che ha lasciato per suo fratello Joe è ancora lì, perfettamente intatto. Nessuno l’ha rubato. Lui non è andato a prenderlo. Ha sperato invano.
Manca un quarto d’ora allo scoccare della mezzanotte. I propositi di Eva si sono dissolti. Dopotutto ha sempre saputo di non avere il coraggio necessario per portarli a termine.
Ma non è fuori pericolo, perché la malattia si avventerà su di lei giorno dopo giorno con crescente potenza. Non sa se potrà vincerla.
E ora è sdraiata sulla ghiaia del cimitero, con lo sguardo rivolto alle stelle. Il diario è aperto sul suo ventre, la penna appena posata. Era rimasta ancora una sola facciata da riempire di parole.
La lapide di sua madre le è davanti, svetta tra le altre. Infine l’ha salutata. L’ha perdonata e, probabilmente, le ha chiesto lei stessa il perdono.
«Sono felice di constatare che Ashton aveva ragione.»
Calum si siede accanto alla ragazza, giungendo a passo felpato.
«Su cosa?» Nonostante ostenti irritazione per l'incursione nel suo mondo solitario, gli è grata per averla cercata e raggiunta.
«Sul tuo nascondiglio. Gli ho chiesto dove potevi essere. Vuoi sapere cosa mi ha risposto?»
«No.»
«Ha risposto che ti avrei senz'altro trovata intenta a scrivere furiosamente. Al tuo solito muretto o al cimitero.»
«Non ti ho detto di dirmelo» Eva si asciuga il viso, tutto macchiato di trucco nero.
«Non voglio più vederti così, Eva...» commenta lui, osservandola di profilo. Vorrebbe solo la sua felicità, perché non lo comprende?
«Posso rendertela più facile? Non voglio che questa sofferenza si allunghi. Non dovete sentirvi in debito con me o provare rimorso. Io... io non sono in grado di essere niente di buono per te» confessa lei, tirandosi su con la schiena.
«No, ti prego, non continuare con queste frasi» sospira Calum. «Credevo che la crisi fosse scongiurata, che avessi scacciato i brutti pensieri.»
«Forse la mia mente non contempla più il suicidio… Ma il cancro non se n’è andato e non se ne andrà così in fretta.» L’ha detto, ha pronunciato quella parola. «Lo sai che potrei comunque morire, vero?» E scaturisce di nuovo quel tono sostenuto, distaccato.
«Adesso, però, ti sei resa conto di avere qualcuno accanto che-
«Calum, lo sai?» ripete Eva, fissando il cielo. «Non illuderti, ti prego. Non ti porterà a niente di buono.»
Calum respinge quella possibilità, ma sa benissimo che esiste. Solo che non vuole ammetterlo. «So soltanto che… rimarrò con te in qualsiasi momento, dall’inizio alla fine. Puoi cercare di togliermi la speranza, l’illusione, puoi togliermi tutto. Ma non questo. Perché non ti abbandonerò.»
«Non fare promesse che non sei sicuro di poter mantenere.»
«E tu evita di smontarmi così, di demoralizzarmi. Io mantengo sempre le mie promesse.»
Eva sospira. «Sei ancora in tempo per trovarti una ragazza migliore di me.»
«Ma io voglio te, Eva! Non lo capisci? Ho scelto te, non mi interessa nessun'altra. Smettila di credere che sei così facilmente sostituibile.»
«Ho provato in tutti i modi di allontanarti. Perché sei ancora qui? Perché insisti?»
«Perché… Te l’ho detto. Sai cosa provo per te.»
Alla fine sono molto simili. Ambedue si vergognano a confessare i propri sentimenti. Eva fa un sorriso malinconico. «Ho la sensazione che non lo ripeterai tanto semplicemente.»
«E tu? Me lo dirai prima che termini l’anno?»
«Hai letto la mia lettera. Lì c’era scritto.»
«Perfetto. Siamo pari» esclama Calum, simulando un’allegria che non riesce a percepire. «Sempre gli stessi complessati di sempre.»
Eva annuisce piano, ma subito si rabbuia. «Io non so se volevo davvero farlo, se volevo davvero mandare giù quelle pillole, ma non so nemmeno se voglio vivere.»
«È normale essere spaventati, Eva. Ciò che dovrai affrontare è di gran lunga superiore alle forze di qualsiasi persona» riflette lui, accarezzandole la mano. «Ma permetti a me e alla tua famiglia, ai tuoi amici, di infonderti un po’ della nostra. E forse sarà tutto meno difficile.»
Eva vuole provare a crederci. Non le ha mai mentito, dopotutto.
Calum le solleva il diario dalla pancia, chiudendolo e bloccando il lucchetto. «Lascialo qui. Ricominciamo insieme, scriviamo un nuovo capitolo.»
«C’è tutta la mia vita in quel diario.»
«Una vita passata. Ora ne puoi iniziare un’altra.»
Eva si morde il labbro. Non è facile staccarsi da quel libretto. Contiene tanti piccoli pezzetti di lei. Ma lo deve fare. Deve lasciarsi alle spalle il passato, o perlomeno tentare. «Okay…» acconsente. Glielo sottrae, ghermendolo tra le sue mani, e lo posa sulla tomba della madre.
Calum le sorride per confortarla, eliminando la distanza che separa i loro corpi. E la ragazza intreccia le dita sottili alle sue. «Quella era tua madre?»
Eva fa un cenno col mento. «Già… Ed è la prima volta che vengo a trovarla, che vergogna.»
«Mi dispiace. Non sapevo che fosse mancata in quegli anni.»
«Ho ricevuto più ‘mi dispiace’ in due settimane che da quando sono nata, Calum» osserva. «E… nessuno lo sapeva. Non fartene una colpa.»
Lui annuisce, cingendole le spalle per attirarla a sé. «Mancano due minuti. Vuoi esprimere un desiderio, prima che finisca il giorno?»
«No. È strano, ma per adesso mi sembra di star bene così» afferma la ragazza. È la presenza del moro ad allietarla. Per la prima volta dopo tanto tempo è felice; l’ha ritrovato, è lì al suo fianco. E spera solo che non soffra troppo, in caso le cose si mettessero male. Spera che, se dovesse accaderle qualcosa, i Collins non ne escano distrutti. Pensando a loro, si ricorda di una promessa che non può infrangere. Con il cellulare manda un messaggio alla zia Agnes, augurandole un buon anno, facendole implicitamente sapere che ha deciso di lottare.
I fuochi d’artificio irrompono nel cielo, spezzando la quiete, e illuminano le loro figure dall’alto. È mezzanotte.
«Sai, pensavo ad una vostra canzone...» dice Eva, il mento posato sulle ginocchia.
«Quale?» la incita Calum, curioso e vagamente divertito.
«Castaway.»
«Una delle mie preferite.»
«Ultimamente mi sono sempre sentita così, come un naufrago su un'isola deserta» spiega lei.
Calum le stringe la mano con più energia. Aderiscono alla perfezione. È una sensazione che lascia esterrefatti. «Dimentichi che nella maggior parte delle storie il naufrago viene salvato» mormora al suo orecchio, per poi posarle un bacio sulla guancia. Le labbra schioccano a contatto con la sua pelle liscia e pallida.
Eva abbozza un sorriso. Forse è lui la barca che in lontananza, quella che la porterà via dalla sua isola.



Angolo Autrice
Questa OS dalla lunghezza spropositata è nata circa un anno fa, ma aveva una trama piuttosto diversa. Ero decisa a pubblicarla per lo scorso Capodanno, tuttavia il tempo è mancato e la storia non mi ha mai convinta del tutto.
Ora sono finalmente qui, all'ultimo giorno del 2016, per postarla. Non è una One-Shot molto felice, anzi. Forse è un insieme un po' pesante di avvenimenti, un po' aggrovigliato. Non voglio giustificare la confusione generale dicendolo, ma con la scrittura ho cercato di trasmettere un po' della confusione che aleggiava nella testa della protagonista. Quindi se spesso molto avvenimenti del passato che rammenta Eva non si sono capiti, è dovuto a questo motivo. Volevo scrivere in terza persona, ma dando comunque l'impressione a chi legge di essere in prima.

I temi principali di questa storia sono la solitudine, che spero di aver reso bene, la malattia e il suicidio. Dentro le frasi di Eva, i suoi stati d'animo e le sue riflessioni sono racchiusi i miei. Ho iniziato a scrivere 'Castaway' solo per dar sfogo ai miei pensieri, poi si è trasformata in qualcosa di più; non sono molto sicura del mio lavoro dal punto di vista della trama, dei legami con Calum, Luke e gli altri. Ho il timore di aver un po' esagerato con tutte queste cose, che all'inizio dovevano essere solo marginali. Mi sono lasciata prendere la mano.
Ma sul resto sono soddisfatta. E mi auguro davvero di avervi trasmesso qualcosa. Perlomeno per ciò che concerne le emozioni della protagonista e le sue paure, le sue limitazioni e il distacco che ostenta solo per allontanare da sé persone che altrimenti farebbe soffrire.
In ogni caso, date le tematiche trattate, vorrei chiedere scusa se ho offeso qualcuno o se pensate che le abbia descritte con leggerezza o in maniera non realistica. Ho fatto del mio meglio, e per molti versi non ho neanche dovuto inventare. Semplicemente ho scritto quello che sento, che sto vivendo (non tutto, chiaramente, ma una buona parte).
Spero di poter ricevere qualche vostra recensione, qualche parere. Ci ho lavorato tanto, e tanto a lungo, e questa OS è molto importante per me.
Grazie per aver letto questo papiro ❤
_FallingToPieces_
  
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