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Autore: pandafiore    01/01/2017    4 recensioni
“Una porta sbatte, al piano di sotto, interrompendo il mio ripercorrere mentale degli eventi.
Il mio corpo è ripreso da spasmi violenti, mentre dei passi pesanti zoppicano sulle scale del nostro vecchio mentore, che evidentemente non è ancora tornato a casa.
Ho paura.
I miei occhi tornano a riempirsi di lacrime, la vista si offusca e gli oggetti si annebbiano.
Ho paura di quel mostro.
I suoi passi in questa camera.
Le mie mani ancora sanguinano, e la gola ancora brucia per la sua violenza.
Emetto un gemito di dolore, nel mio pianto, e mi ritrovo a pregare che non mi abbia sentita, da qui dentro.
Potrebbe uccidermi.
Qualcuno apre l'anta dell'armadio.
Sicuramente mi ucciderà.”
Genere: Angst, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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OneShot

 

Ti amo.





Ora,
Katniss.


Mi rannicchio ancora un po' nell'armadio di Haymitch, con la folle paura che quel mostro possa trovarmi.

Le mie mani sanguinano per le schegge di vetro conficcate in esse, e tremano di terrore e di freddo, come il resto del corpo; i capelli ed i vestiti fradici. Anche il mio viso è macchiato di rosso, e le ferite che mi tagliano le guance, bruciano.
No, l'uomo che ha fatto tutto questo non può essere Peeta. Non deve essere Peeta. Quello era un mostro, un animale.

Mi dondolo su me stessa, mi avvolgo contro un vecchio capo di Haymitch che ho trovato in questo posto minuscolo. Ho cercato qualche pillola di morfina nelle tasche, ma le ho trovate orribilmente vuote, e sono sola a combattere contro il mio dolore.

Ripeto nella mia testa la solita litania, ormai quasi senza senso, dopo tutti questi anni.

Mi chiamo Katniss Everdeen, e ho trent'anni. Ho fatto due volte gli Hunger Games, e poi ho condotto una rivolta. Ora grazie a me c'è la pace, ma mia sorella è morta per questa schifosa pace imbrattata di sangue. Finnick è morto. Boggs è morto. Le gemelle Leeg. E moltissime altre persone. Innocenti, forse. Molte le ho uccise io stessa. Con queste mani. Sono un'assassina.

No, non sta andando bene così.
Devo ricominciare.

Mi chiamo Katniss Everdeen, e ho trent'anni. Ora vivo con Peeta Mellark, il ragazzo del pane.
È molto dolce, tranne quando ha degli episodi. Come oggi.
Peeta vorrebbe tanto dei bambini.
E stiamo provando ad averne.
Ma c'è stato un fraintendimento.
Peeta pensa che lo abbia ingannato, anche su questo argomento.
Non è così.


Una porta sbatte, al piano di sotto, interrompendo il mio ripercorrere mentale degli eventi.
Il mio corpo è ripreso da spasmi violenti, mentre dei passi pesanti zoppicano sulle scale del nostro vecchio mentore, che evidentemente non è ancora tornato a casa.
Ho paura.
I miei occhi tornano a riempirsi di lacrime, la vista si offusca e gli oggetti si annebbiano.
Ho paura di quel mostro.

I suoi passi in questa camera.
Le mie mani ancora sanguinano, e la gola ancora brucia per la sua violenza.
Emetto un gemito di dolore, nel mio pianto, e mi ritrovo a pregare che non mi abbia sentita, da qui dentro.
Potrebbe uccidermi.

Qualcuno apre l'anta dell'armadio.
Sicuramente mi ucciderà.



Due ore prima,
Peeta.


Katniss sta finendo di preparare la cena, di sotto: ha voluto cucinare lei, per cambiare un po', ha detto, facendomi sorridere. È sempre così taciturna, così enigmatica.
Ed è così anche quando le parlo della possibilità di avere un figlio, ormai argomento quasi quotidiano.

Inizialmente il suo No era categorico, non mi aveva parlato per giorni, la prima volta che le avevo proposto una cosa simile.
Ma ora è cambiata.
È più rilassata, raggiante, ed una mattina, uscendo dal bagno mentre io ero ancora a letto, mi ha detto che ha smesso di prendere la pillola. Il mio cuore fa tutt'ora un balzo non da poco nel petto, nel ripensare a quella sua frase.
Ho sentito come il mondo crollarmi addosso, per poi elevarmi con ali argentee sopra di esso. È stata pura magia.

Ancora però non è successo nulla. Nonostante ci abbiamo provato e riprovato, nel suo ventre non sta nascendo niente, deserto incoltivabile. Ed inizio a preoccuparmi, forse è sterile. Mi sento andare in frantumi come un vaso lanciato a terra, ogni volta che ci penso. E se fosse così? Beh, potremmo adottarlo, so di alcuni orfanotrofi a Capitol City che... Ma no, Katniss non è sterile.
Dobbiamo solo aspettare. Avere pazienza. Prima o poi accadrà.
Ne sono certo.

Mi lavo le mani perché fra poco sarà pronta la cena, e,  prima di scendere le scale, noto dei fogli sulla credenza del corridoio. Li leggo rapidamente, passandoli da una mano all'altra, e rendendomi conto che sono i vecchi progetti per la nuova panetteria; chissà come sono finiti qui! E mi sfugge un sorriso.

Nel rimetterli a posto dentro il cassettone del mobile, un foglio scorre sul mio dito e ne apre un taglio, che mi brucia da morire.
Vado in bagno, cerco nel mobiletto del disinfettante e del cotone, e allevio rapidamente il sangue. Devo muovere diversi oggetti e profumi vari, prima di trovare la scatolina dei cerotti. E, accanto ad essa, una scatola che non dovrebbe esserci.

Fingo non esista, mi lego il cerotto al dito e faccio per uscire dal bagno, spegnendo la luce.
Ma alla fine, il desiderio di scoprire la verità è troppo grande, e raccolgo quella scatoletta bianca, di farmacia. È di Katniss.
La stritolo in una mano, furioso.


Katniss

Adagio con cura l'ultimo bicchiere del servizio pregiato di Effie, sulla tovaglia arancione orlata di pizzo bianco, la preferita di Peeta.
Lo stufato in cucina è quasi pronto, e sta arrivando un buon profumo dalle pentole sul fuoco; sono molto soddisfatta, per una volta, della cenetta preparata da me.

«Peeta!» Lo richiamo a gran voce, dopo aver messo il cibo nei piatti bianchi.
Ecco che i suoi passi pesanti ed irregolari scendono finalmente le scale; gli sistemo un'ultima volta il tovagliolo sulla sinistra del piatto, ed eccolo apparire in sala da pranzo. Gli occhi inaspettatamente rossi, furiosi, qualcosa di bianco nella sua mano destra.
«Cos'è succes-»
«Puttana!» Mi si avvicina inferocito, e l'attimo di disorientamento ed esitazione mi è quasi fatale; indietreggio incespicando nei miei stessi piedi, andando a finire con un tonfo a sbattere la schiena sul muro. Che cosa sta facendo? Perché un episodio proprio ora, dopo mesi che non ne aveva?

Prende un bicchiere di vetro e tenta di lanciarmelo addosso, ma lo schivo scappando in cucina con un improvviso fiatone e la gola sigillata; dov'è Peeta, quello vero?!

«Peeta, non sei tu. Non sei tu! Falso, Peeta, falso! Falso!» Strillo, aggrappandomi alle pareti e scappando da lui, che mi insegue con passo malfermo.
«Puttana, puttana, mi hai ingannato! Come sempre, d'altronde, no?! Traditrice, brutta serpe!» Un corpo mi si getta addosso da dietro e cado di faccia sui frammenti del bicchiere di prima.
Tento con ogni forza di dimenarmi, finendo con i palmi tra i vetri, ma è troppo pesante e mi sta opprimendo. «Stronza!» Mi afferra per il collo, mi tira su mentre scalcio in cerca di aiuto, e mi sbatte contro la colonna del salotto.
Tira fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni una scatolina bianca, come quelle della farmacia, e me la mette davanti agli occhi mentre le sue dita stringono ancora la mia gola. Mi gira la testa e lo sguardo mi si è annebbiato, così leggo a malapena il nome del medicinale.
Sono i miei contraccettivi.
E capisco tutto. Peeta ha frainteso. Io non li prendo più, quella scatola è rimasta lì per caso, non lo sto imbrogliando.
Ma ho bisogno di ossigeno per spiegare o per fuggire, così gli faccio segno di mollare la presa altrimenti non riesco a parlare.
Finalmente, i miei piedi toccano terra, e per poco non cado di ginocchia sul pavimento.

Con una mano mi massaggio il collo; i polmoni in una tale disperata ricerca d'aria, che fischiano ad ogni boccata.
«Che cazzo significa?! Parla!» Grida, bloccandomi le braccia al muro.
«Io...» Gracchio.
Fingo di svenire, e percepisco la sua presa liberarsi dai miei arti, quando sono crollata a terra, da sola, tra i frammenti del bicchiere.
Non appena sento i suoi passi e le sue imprecazioni poco più lontane, mi alzo con uno scatto e scappo di corsa fuori di casa.
Non so se mi sta seguendo.
I calzini mi si inzuppano nel fango, corro sotto la pioggia invernale, gelida, come un guanto freddo che accarezza la mia schiena.

Entro nella villa di Haymitch, sempre aperta, anche se lui non c'è. Corro verso l'armadio ed ho a malapena la lucidità di togliermi qualche pezzo di vetro dal viso con una vestaglia da notte, che subito mi nascondo dentro al mobile.
Attendendo la mia morte.



Ora,
Katniss.


Ho il coraggio di guardare Peeta negli occhi, prima che mi tiri fuori dall'armadio e mi finisca.
Il fatto è che non è Peeta, la persona che ha aperto l'anta.

«Haymitch!» Strillo con la poca voce che mi è rimasta. È lui, è tornato a casa, non sono più sola contro il mostro, Haymitch può difendermi!
«Dolcezza...» Ansima, tirandomi fuori da questo buco e costringendomi a sedere sul letto. Nel frattempo le mie lacrime hanno deciso di scendere, bruciando ancora di più sulle ferite che mi deturpano le guance ed il mento.

«Ma che diavolo è successo..?» Chiede quasi con timore, mentre con una pinzetta di chissà quale provenienza estrae dalla mia carne i frammenti più visibili di vetro. Fa male, ma lo sopporto.
Brevemente, cercando di non essere troppo confusa, ma di farmi capire, accosto una parola all'altra, e gli spiego il fraintendimento di Peeta.
Che io avevo deciso di smettere di prendere la pillola, ma non ero rimasta incinta lo stesso, e che io e Peeta stiamo comunque continuando a provarci.
Avevo semplicemente abbandonato lì la scatola dei contraccettivi, ma non ne facevo più uso.
Peeta li ha trovati, ed ha pensato che io lo stessi ingannando, come quando avevamo sedic'anni e fingevo il mio amore per salvarci dagli Hunger Games. Ha pensato che io assumessi la pillola senza dirglielo. E questo ha scatenato in lui una tempesta di pensieri distorti, e di conseguenza l'episodio.
Ma io non ho fatto assolutamente niente.

Quando termino la mia spiegazione, Haymitch ha finito di curarmi e mi ha fasciato anche le mani; ora mi sta fissando con i suoi imperscrutabili occhi di metallo.
Mi è costato parlargli di tutto questo, ma con gli anni sono cambiata anch'io, sono maturata, sono cresciuta. E ho capito che le persone a volte - soprattutto quelle che a te ci tengono - possono aiutarti per davvero.

«Katniss, dov'è il ragazzo ora?» Ho un sussulto.
Ha ragione. Dov'è Peeta ora? Immaginerà che mi sono rifugiata qui...
«Io...» Sussurro «io non lo so.»
Haymitch impreca a bassa voce, raccoglie la sciarpa che aveva adagiato al mio fianco sul letto, e scappa, avvertendomi di non muovermi di qui. E figurarsi se esco! Peeta potrebbe essere ancora sotto l'effetto dei ricordi depistati, non sono al sicuro da nessuna parte.

Haymitch torna dopo due ore, ed io sto fissando la pioggia che scende sul vetro, con quelle goccioline che fanno a gara per chi arriva prima. Mi sono anche portata la poltrona alla finestra, per stare più comoda, nonostante i ricordi siano come spilli per l'animo. Il suo irrompere bruscamente nella camera, con il fiatone ed il passo malfermo, mi distrae dal vetro, e sposto lentamente lo sguardo su di lui.
«È a casa vostra.» Sussurra, e non aggiunge altro.
Devo attendere cinque, sei, sette minuti, prima che mormori, affranto:«Si era legato al letto. Continuava... continuava a sussurrare cose strane. E piangeva. E sbatteva la testa contro la pediera del letto, si feriva da solo. Non l'ho mai visto così, in tutti questi anni.» Si passa stancamente una mano sugli occhi, strofinandoli appena, e si siede, stufo, distrutto, sul materasso.
Non parlo. Non saprei cosa dire. Torno a fissare la pioggia.

E passano così venti, fottuti, giorni.
Osservo ancora le lacrime del cielo adagiarsi alla finestra; non ha mai smesso di piovere, nemmeno un secondo. Forse, solo quelle poche ore che ho dormito.

Non ho più il coraggio di guardarmi allo specchio.
Sicuramente avrò delle occhiaie da far paura e le ossa, che con tante focaccine al formaggio Peeta aveva celato sotto un leggero strato di carne, ora sporgono più pungenti di prima. Haymitch, oltre che cambiarmi le medicazioni, mi costringe ad ingerire qualcosa, ogni tanto, ed ora mi sta coprendo con una coperta di lana. Non faccio nemmeno lo sforzo di stringermela addosso, forse per questo il vecchio mentore tira un sospiro profondo, di rassegnazione.

Quando porta una sedia di fronte a me per imboccarmi, alla vista della zuppa mi sale un'improvvisa nausea, e sbianco.
«Stai male?» Mi chiede lui, con una cura che non ha mai dimostrato nei miei confronti; sarà la vecchiaia, che lo rende più buono. «Mangia, dai, che ti fa bene. So che non è il massimo, ma sempre meglio di niente...» Mi mette davanti agli occhi un cucchiaio ricolmo di sbobba, e mi alzo di scatto, con le ginocchia che tremano, ma mi sento veramente male.
Non faccio in tempo ad arrivare al bagno, che rigetto sul pavimento del corridoio, piegandomi a metà, senza nessuna forza.

Haymitch si lamenta, mi spinge malamente di nuovo sulla poltrona, e ci sprofondo con la testa che ruota; perché ho vomitato? Non mangio da un giorno e mezzo, non avevo nemmeno niente nello stomaco.

E la stessa identica scena si ripete il giorno dopo. E quello dopo ancora, solo che Haymitch mi ha messo al fianco della poltrona una bacinella, così la smette di pulire il mio vomito, o di scivolarci sopra.

Oggi ha passato tutta la mattinata a fissarmi, sorseggiando una bottiglia marrone; mi chiedo seriamente se abbia voglia di vomitare anche lui, a questo punto.
Di colpo, si alza e se ne va, sbattendosi la porta alle spalle, lasciandomi sola, ancora una volta, con il mio dolore.

Mi sono appisolata, quando lui torna, facendo rumore e sbattendo ovunque nella stanza. Apro gli occhi e le mie pupille vagano per un po' nella stanza, prima di trovare la sua figura.
Mi si avvicina con una sportina candida in mano, fino ad arrivare a sedersi di fronte a me.
«Questo è...» Sospira, tirando fuori una scatolina bianca. «Beh, penso tu sappia cosa sia.»
Raccolgo tra le dita l'affare, e leggo: Test di gravidanza.
Per poco non svengo.
Lancio un grido e lo butto per terra.

«Sapevo che l'avresti fatto, ne ho comprati due.» Mi sorride sornione, tirando fuori una seconda scatola bianca e rosa.
«Non lo farò.»
«Oh, sì che lo farai dolcezza! Tutte queste nausee... Mi sto facendo in quattro per te e per quell'altro pazzo, non penserai di rimanere qui ancora a lungo!» Esclama, e non ci dicevamo così tante parole di fila da una vita.
Lo guardo esitante, non accennando a muovermi.
«Senti tesoro, non posso anche pisciare per te su questo coso, chiaro?» È schietto, è diretto, è giusto.
Prendo l'arnese tra le mani, e decido di affrontare la verità.


Ora,
Peeta.


Haymitch mi ha slegato dal letto, stupido, folle Haymitch.
La mia testa è avvolta in uno sciame di nebbia, non capisco più niente; di notte, le immagini distorte ritornano, di giorno, capisco che ho sbagliato tutto.
Non è detto che quelle pillole lei le prendesse ancora, magari le aveva lasciate, abbandonate lì.
Quando chiudo occhio però, mi sento morire.
E se lei, come nelle Arene, mi avesse ingannato? Assassina, traditrice, ha bruciato tutto ciò che avevo di più caro, tranne se stessa, egoista.
No, no.
Non va bene così.

Impasto tutto il giorno, cerco conforto nel prepararle le focaccine al formaggio anche se lei non le vedrà mai; ci sono cumuli e cumuli di pane, in soggiorno, come quello che le ho tirato sotto la pioggia ormai vent'anni fa.

Sto tentando una ricetta nuova ora, per riuscire a non pensare a nient'altro, quando la porta suona, ed immagino sia Haymitch, che vuole costringermi a mangiare. Non ho fame, non può obbligarmi, se lei soffre, voglio soffrire anch'io.

Vado ad aprire al vecchio mentore sbuffando, e pulendomi un po' le mani sporche di farina sul grembiule.
«Che vuoi, Haym-» E mi ritrovo davanti una treccia nera nera, due occhi d'argento e quel suo sguardo tagliente.

Faccio un balzo indietro spaventato, mettendo le mani davanti. «Potrei... potrei farti del male. Stai... stai lontana. Devi starmi lontana!» Gli occhi mi si riempiono di lacrime, mentre lei avanza con passo abbastanza deciso, per poi fermarsi giusto davanti a me. Ha le guance piene di micro ferite, le mani fasciate in bende sgualcite ed il collo con delle lividure ormai sfumate.
Manco dieci battiti del cuore.
«Stammi lontana, Kat... Katniss.» Tremo visibilmente, mentre cerco di distanziarla senza doverla toccare. Ho paura. Ho paura per lei.
«Sono focaccine al formaggio?» Mi domanda, annusando l'aria come un segugio. Annuisco appena, e seguo il suo corpo esile che cammina silenzioso verso la cucina, prendendo poi tra le dita una focaccina.
Probabilmente è la prima cosa che morde da giorni, vedendo quanto è ritornata magra.

Mi siedo affaticato su di una sedia del tavolo, togliendomi il grembiule sporco, ed adagiandolo accanto alla pagnotta d'impasto cruda.
«Perchè sei qui?» Sussurro, perché non è da lei cercarmi.
Passano dieci, quindici minuti, prima che la sua gola bianca e curvata come i petali d'un giglio, emetta qualche suono; appoggia la seconda focaccina appena addentata sul mobile, e si siede a gambe penzoloni su quest'ultimo, non guardandomi mai. Solo quando apre le labbra, incatena le sue iridi alle mie, in quell'intreccio bello quanto pericoloso:«Sono incinta.»
E credo di svenire.


«Sono... sono incinta.» Ripete, con voce più arrochita, passandosi una mano sull'occhio destro e tirando su con il naso; sta piangendo.
E nella mia testa lo sciame prende ordine, tutto si dispone nel modo più giusto, iniziano a tornarmi i conti, Katniss non mi ha mentito.
«Kat...» Ansimo senza voce, tirandomi in piedi con le gambe che tremano come foglie.
«Katniss...» Ora sta singhiozzando e si copre alla mia vista, non vuole mostrarsi debole. Ma per me la sua debolezza è solo pura bellezza.

Vado contro il mio istinto, e me la stringo tra le braccia, piccola, dolce ragazza di fuoco, spezzata da troppe cose. Perché mi accetta? Perché torna da me nonostante il mostro che sono? Ho cercato di ucciderla, più volte, come fa ad amarmi ancora?
Me la premo al petto con ogni forza, cercando di inglobarla in me per impedire che pianga o che soffra ancora. Non se lo merita.
«Mi dispiace.» Biascico al suo orecchio, imprimendo le dita in questa schiena troppo magra. «Mi dispiace tanto per quello che sono.» Aggiungo, e lei si stacca da me all'improvviso, fulminandomi:«Non è colpa tua! È colpa di Capitol, di Snow, di... di...» Piange ancora, e le dico che è vero, tornando a stringerla e ad accarezzarle i capelli, come un giorno farò con la nostra bambina.

«Secondo me è una femminuccia.» Mi viene da ridere, tra le lacrime, e lei subito mi contraddice, giura che è un maschio, con un rinnovato sorriso sulle labbra.
«...Posso?» Le chiedo esitante, sfiorandole appena il ventre magro e piatto, ma ricco di tepore.
Annuisce, e le alzo di poco la maglietta, accarezzando questa meravigliosa conca che ospita la mia bambina, la mia dolce bambina!

«Ti amo.» Dico a Katniss, baciandole a stampo le labbra chiare come rose, che ancora vibrano di paura.
«Ti amo.» Dico al suo ombelico, lasciando un tenero bacio a fianco di esso.
Le amo.

   
 
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