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Autore: LawrenceTwosomeTime    07/01/2017    2 recensioni
“Ancora con la testa fra le nuvole? Non è che stai pensando ad un’altra ragazza?”
Non sapevo se i personaggi del videogioco fossero capaci di leggere nella mente, o se quel dialogo facesse soltanto parte di uno script predefinito, ma risposi con naturalezza: “No, certo che no”
Una vicenda romantica (molto poco romantica) che racconta di una lenta discesa all'inferno, condita di parentesi comiche (molto poco comiche) stile commedia degli equivoci, innesti fantascientifici, fenomeni di spersonalizzazione e altra roba un filino cyberpunk.
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Il giorno in cui la Mafuda Technologies rilasciò il s.i.M. sul mercato globale, io avevo di meglio da fare.
O, per essere un po’ più precisi, mi ero convinto che leggere un saggio sulla cultura NEET potesse costituire una forma di passatempo più istruttiva – e senza dubbio meno umiliante – che non spendere seicentonovantanove euro per acquistare un microchip da polso fabbricato per aiutare la gente ad alienarsi dal mondo reale.

Dopo tutto quello che ho passato, ora mi chiedo: che cos’è il mondo reale?
Una summa delle esperienze che ho accumulato in quanto essere senziente? Un agglomerato di verità oggettive indipendenti dalla mia persona? Interpretazione? Semplificazione? Codificazione?
Ma soprattutto, ha davvero senso operare una divisione tra quelle attività che vengono considerate produttive e ciò che invece costituisce – perlomeno nell’accezione comune – una perdita di tempo?

Le creature viventi perdono tempo in continuazione, che gli piaccia o meno. Siamo sacchi di cotone incapaci di trattenere la farina: quel piccolo strappo da cui scivola fuori il contenuto, quel difetto congenito che si allarga sempre di più man mano che ci svuotiamo, è la nostra destinazione finale. La mortalità.

E allora dove sta il senso? Nell’attribuire importanza a ciò che gli altri si convincono essere giusto e necessario? Nel saziare il desiderio di normalità del prossimo?
Chi, come me, non ha mai desiderato una vita normale (ma ha sempre avuto troppa paura per fabbricarsene una di alternativa), tende ad accontentare coloro che sono altro da lui per evitare di compiacere sé stesso.

A spingermi ad “abbracciare la vita” era stato un evento che aveva modificato radicalmente il mio modo di percepire le cose. Una ragazza.
Vivevamo lontani, ci vedevamo una tantum, ma mi bastava per considerarmi fortunato. Se dovessi compilare una lista di tutte le cose che amavo di lei, credo che tenderebbe ad infinito – forse perché includerebbe anche i suoi difetti: le incongruenze, gli anacronismi, le tante piccole assurdità che la sua mente sottolineava con un evidenziatore color rosa principessa.

Credevo di potercela fare. Perdendomi nell’idea di lei, credevo di poter fare qualunque cosa. Pur non formando una coppia, sentivo che potevamo incoraggiarci a vicenda: a vivere, a sentire, a rialzarci quando necessario.
E credevo di averlo accettato, di aver accettato che lei vedesse altri, che stesse con altri da molto più tempo di quanto non ne avesse trascorso con me.

Quella mattina leggevo un pessimo trattato sociale che forse parlava di sconosciuti, e forse un po’ parlava anche del sottoscritto.
Illustratore freelance in procinto di pubblicare un romanzo con una vera casa editrice, abita con sua madre, non ha la macchina, vede qualche amico, commissioni sporadiche, tanti progetti nel cassetto, nessuna certezza, nessuna voglia di vivere, nessun amore per la vita. Ama una ragazza. O almeno ne è convinto.
Non si tratta di questo, in fondo? Convincersi che si, tu quella ragazza la ami. Punto.
E appellarti a quella convinzione non per testardaggine o disperazione, ma per un’intima consapevolezza che ti appartiene da sempre. La consapevolezza, non la ragazza.

E dopo un’altra giornata trascorsa a contemplare la vita nella gremitissima sala d’attesa della morte, mi colpì dritto in testa la goccia (virtuale) che fece traboccare il vaso (virtuale). Un’inondazione virtuale di brutti pensieri, travasati dallo schermo direttamente nel mio cervello.

Sul suo blog, dove annotava tutto, aveva scritto di aver visto un film – uno dei miei preferiti – con lui. Sotto le coperte. Citava una frase del film che io usavo spessissimo (”a me la gente me fa schifo”) e che probabilmente usava anche lui. E le scriveva delle lettere. Con la differenza che potevano vedersi il giorno dopo.
Lei diceva che si sarebbero lasciati, ma certi legami sono duri a morire. Una separazione può essere distruttiva, e ancor di più una riconciliazione. Con tanto sesso, lacrime e risate. Momenti condivisi. Momenti, momenti momenti momenti.
Non ne avevo avuti abbastanza, di momenti con lei.

Avrei dovuto considerarmi fortunato. Lei era venuta per me.

Il fatto è che io volevo ricambiare, avevo in mente di raggiungerla. L’elenco mentale delle cose da infilare nello zaino, gli orari dei treni, i Bed and Breakfast… c’era tutto quanto. Stavo per chiederle se le andava di incontrarci.
Una citazione del Genji Monogatari continuava a ripetersi nella mia testa: “Verrò a trovarti e quando il giunco crescerà e sarà avvolto dalla rugiada, arriverà il mio momento felice

Ma quel momento non sarebbe arrivato. Non ora, non adesso.

Mi si formò un nodo nello stomaco. Sentivo gli organi interni decadere, invecchiare prematuramente.
Non si trattava di gelosia rabbiosa, ma di un tremendo senso di perdita – una sensazione che avevo provato lungo tutto il corso della mia vita. Essere ai margini, guardare da lontano.

Non c’è posto per me, mi dissi, e forse stavo precipitando le cose, ma tant’è.
Una vita così, un amore così, un amore a metà… No. No, non voglio più saperne.

E allora feci una corsa fino alla fermata dell’autobus, nel freddo che ustionava la pelle e rattrappiva le ossa, entrai nel negozio prima che chiudesse e sborsai la fantomatica cifra di seicentonovantanove euro. Soldi che avevo, soldi da buttare.
Un investimento per la vita, per dire addio alla vita.

Tornato a casa, non mangiai neppure. Mia madre doveva aver percepito che qualcosa non andava, ma evitò di fare domande come suo solito – forse accorgendosi che ero troppo occupato a spacchettare qualcosa di rettangolare, una scatoletta di cartone, un qualche tipo di palliativo in grado di alleviare i tormenti dei disperati come me.

social interaction Mushi, un chip da polso. Facile da usare, recitavano le istruzioni.
Lessi quanto basta per capire dove andava posizionato di preciso, cosa bisognava fare (slacciare i morsetti, spingere l’interruttore a scorrimento e posizionare l’iniettore subito dietro il chip), e ogni quanto il dispositivo necessitava di essere ricaricato (una volta ogni sei mesi, a prescindere da quanto se ne faceva uso).
Riguardai per l’ultima volta le parole che mi avevano spinto ad accettare la realtà, o forse a negarla. Premetti il grilletto dell’iniettore. Una puntura fastidiosa e poi il chip si insinuò sotto la mia pelle. La stanza slittò in avanti.

Stavo galleggiando, galleggiavo senza peso in una maglia di collegamenti azzurri (un po’ come in quella cover incredibilmente kitsch con protagonista Palmer Luckey, o in una qualsiasi pubblicità di detersivi che faccia il verso a Viaggio allucinante).
Infinite applicazioni, frizzanti possibilità stiracchiate fino ai confini della percezione.
Avvertivo un suono primordiale e riverberante che riecheggiava fin dentro la mia cassa toracica, e quello era l’unico modo per avvertire qualcosa, perché a parte la concussione interna non mi sentivo più il resto del corpo.

In quel mare di pubblicità allettanti e calendari delle uscite future, mi venne spontaneo eseguire una ricerca che coprisse un genere che avevo quasi sempre snobbato: i dating simulator. Quale miglior modo per inaugurare la mia discesa nell’inferno della realtà virtuale?

L’ultima esclusiva di grido a disposizione del database balenò di fronte ai miei occhi in forma di logo tridimensionale, galleggiando nell’oceano azzurro come una caravella dorata.

Chibi Lovers: A Japanese Teen Story. Suonava perfetto.
Guardai alcuni screenshot: stranamente, a dispetto del titolo, la grafica tridimensionale sembrava in tutto e per tutto realistica anziché super-deformed. Meglio così, mi dissi. Per ingannare sé stessi occorre che l’illusione sia raffinata.

Nuotai in direzione del logo, e mi ritrovai a Tokyo.

Camminavo nelle striature di un tramonto alla pesca, bardato in una divisa scolastica bianca e nera, una ragazza dai lunghi capelli corvini che mi seguiva atteggiando i fini lineamenti a uno sguardo interrogativo.
“Allora, Kawada, mi prometti che ci penserai?”
“A… a cosa?”, risposi io con una voce che non era la mia.
Lei sbuffò.
“Ancora con la testa fra le nuvole? Non è che stai pensando ad un’altra ragazza?”

Non sapevo se i personaggi del videogioco fossero capaci di leggere nella mente, o se quel dialogo facesse soltanto parte di uno script predefinito, ma risposi con naturalezza: “No, certo che no”
Poi, nei due millisecondi che la ragazza impiegò per ravviarsi i capelli, consultai il registro delle conversazioni e appresi che si chiamava Yuko Nanahara.

“Dunque, il Festival di Primavera. Dico bene, Yuko?”
Lei arrossì un pochino.
“K-Kawada-kun. Mi hai chiamata per nome”
“Oh, mi dispiace”, risposi io, sentendomi avvampare a mia volta. Improvvisamente mi resi conto che il calore sulle mie guance pareva reale, e rimasi come stranito al pensiero che quella era l’unica parte del mio corpo che percepivo come effettivamente mia.
“No, non fa niente. Sono contenta che tu mi abbia chiamata per nome”, disse Yuko.
Poi mi prese la mano.

Il contatto delle sue dita fresche contro il mio palmo mi fece battere il cuore. Un po’ alla volta, il resto del mio corpo si stava sincronizzando con quella realtà. Era… dolce. Quasi come tornare a casa. La mia vera casa.

“…Ma solo se lasci che anch’io ti chiami per nome, Shu-kun!”, concluse lei con una punta di malizia.

Sorrisi, incapace di trattenermi.

“Certo. Si. Non vedo cosa ci sia di sbagliato”

La telecamera abbandonò per un momento la soggettiva e si sollevò sopra di noi, zoomando tra gli edifici che cominciavano ad accendersi di mille luci scintillanti.
Le parole “Chibi Lovers: A Japanese Teen Story” campeggiarono in cielo, e poi ci fu uno stacco e mi ritrovai nella mia camera, libero di scendere a cena o svagarmi con qualche fumetto shonen. Il mio sorriso gentile si trasformò in un ghigno.
“Adesso si che ragioniamo”

Il giorno successivo non era altro che un ordinario martedì di scuola alla Komae High School, ma mentre gli studenti (chiaramente non player characters, sapevo bene che non si trattava di un gioco online) apparivano stanchi, annoiati o magari semplicemente persi in fantasie tutte loro, io ero entusiasta. Stavo vivendo il mio sogno. Un sogno da cui non avrei mai voluto svegliarmi.

“B-Buongiorno, Kawada-kun”
Una ragazza bassa, coi capelli castani tagliati corti e l’aria timida si avvicinò per darmi il benvenuto in classe. Appresi grazie al registro sfogliabile con due battiti delle palpebre che si chiamava Megumi Sato. Il suo livello di socievolezza era molto basso, ma si capiva che aveva una cotta per il protagonista.
Come l’ottanta percento delle studentesse di quel liceo, del resto. Trattandosi di una situazione di tipo harem, la libertà di scelta era piuttosto ampia – anche se sapevo per esperienza che concentrarsi su troppe ragazze in una volta non mi avrebbe permesso di concludere molto.
Quella Megumi, comunque, m’ispirò fin da subito un sentimento strano. Era qualcosa che non avevo mai provato.

Pur non sapendolo, era molto attraente, e dato che la sua media voti faceva impallidire anche quella di Yuko doveva possedere qualità intellettuali non comuni. Probabilmente si trattava di una ragazza dotata di una profonda interiorità, che però si guardava dall'esibire in pubblico. Forse per paura di rimanere ferita.
Chissà quali fantasie romantiche avrebbero potuto attecchire in lei, con le giuste sollecitazioni.
“Buongiorno a te, Sato. Sbaglio o hai portato con te due cestini del pranzo?”, risposi con apparente noncuranza. Lei si torse un pochino le mani.
“Oh, è vero! Accidenti, che sbadata che sono. Colpa del mio fratellino, la mattina è un’impresa farlo alzare dal letto”
Annuii con aria comprensiva.
“Senti, stavo pensando che se per te non è un problema, potremmo mangiare insieme durante la pausa pranzo”
Lei strabuzzò gli occhi come se avesse assistito a un evento particolarmente scioccante.
“Ma se non vuoi…”, mi affrettai ad aggiungere.
“No, no! Certo che voglio. Mi farebbe moltissimo piacere”, replicò lei accennando un sorriso speranzoso.

Con la coda dell’occhio, notai che Yuko mi guardava di traverso, ma considerai di poter correre il rischio.
Il mio amico Tatsumichi mi diede una pacca sulla spalla mentre mi sedevo. A quanto pare, il cameratismo tra compagni di classe incrementava la possibilità di essere invitati a partecipare ad attività opzionali come il karaoke o il cinema. Meglio così.

Seguire le lezioni fu un gioco da ragazzi. Era sufficiente completare dei semplicissimi mini-giochi in cui tutto ciò che contava erano manualità e prontezza di riflessi, e il mio avatar prendeva appunti e trovava le soluzioni corrette in automatico.

Quando suonò la quinta campanella, mi accostai a Megumi. Aveva già cominciato a svolgere il mio cestino, e mi lanciò un’occhiata allegra. Fu allora che sganciai il missile.

“Perdonami, Sato”, dissi battendomi una mano sulla fronte, “ma oggi avevo già promesso a Yuko che avrei pranzato con lei. Chissà quanto le ci sarà voluto a preparare quegli onigiri… un’altra volta, magari. D’accordo?”, e sorrisi con aria amichevole.

Lei mi guardò. Annuì leggermente, con cortesia.
“C-certo. Capisco. Nessun problema”
A prima vista, sembrava che la cosa non la toccasse minimamente, ma il complesso sistema che regolava le espressioni facciali mi fece capire che era rimasta ferita.

Mi sentii malissimo, e benissimo al tempo stesso. Megumi Sato era una ragazza d’oro, una piccolina adorabile e deliziosa, ed era innamorata di me. Questo significava che avevo il controllo completo su di lei.
A differenza di Watanabe, che dalla pausa di metà mattina avevo capito essere una ragazza forte e indipendente, o di Chigusa, che anche se ferita nell’orgoglio avrebbe concentrato tutte le sue energie nello sport, Sato non si sarebbe mai ripresa da un mio rifiuto.
Ancor meglio: se l’avessi tenuta sulla corda avrebbe continuato a pendere dalle mie labbra, incapace di rinunciare a me, e allo stesso tempo incapace di dichiararsi.
Le avrei fatto vivere un inferno in Terra, l’avrei torturata sino a spingerla al suicidio. Per una volta ero io che esercitavo potere su qualcun altro. Qualcuno di splendido e speciale che si sarebbe rovinato la vita per me.

Ovvio che mentre pensavo tutto questo, mi dicevo che si trattava di un esperimento di riabilitazione emotiva, una sorta di rito sacrificale compiuto nel nome del mio animo ferito. Cosa importava se avrei rovinato la vita di una ragazza virtuale? Quell’ammasso di stringhe di codice non esisteva nemmeno, e una volta riavviata la partita non si sarebbe neppure ricordata di cosa le avevo fatto.

E così, nelle giornate che seguirono, feci di tutto per darle costantemente l’illusione che in qualche modo tenessi a lei, senza però accorgermi dei sentimenti che provava per me.
Mi lasciai andare a considerazioni piccanti in compagnia di quel maschiaccio di Watanabe, passai tutto il pomeriggio ad allenarmi con Chigusa, e alla fine di ogni giornata era chiaro a tutti che in realtà il mio cuore apparteneva a Yuko Nanahara, l’amica d’infanzia con cui avevo condiviso mille momenti.
A Megumi Sato dedicavo sempre una sorta di tiepida attenzione, una condiscendenza quasi complice – ma distratta – tanto più aggravata dal fatto che la ragazza non aveva nemmeno un amico.

Giunse infine il Festival di Primavera, e il momento in cui Yuko acconsentì per la prima volta a baciarmi.
Ci eravamo premurati di scegliere un posto appartato nei pressi del boschetto di ciliegi, ma poche ore prima, quel pomeriggio, avevo fatto avere a Megumi una lettera in cui le chiedevo di incontrarci in quello stesso luogo, “lontani da sguardi indiscreti”.
Seppi che ci aveva visti la mattina dopo, quando la salutai come facevo ogni giorno, prima di sedermi al mio posto. Aveva i capelli in disordine e dal colore degli occhi capii che aveva pianto, quasi sicuramente tutta la notte.

“Kawada”, mi chiamò con un fil di voce quando ormai il resto della classe se n’era già andata. Il venerdì toccava a noi due rassettare l’aula, occasione di cui approfittavo sempre per gettare nuovo sale sulla ferita.

“Si?”, risposi, dubbioso. Forse il colpo di ieri era stato troppo. Poteva darsi che non fosse più disposta a farsi trattare in quel modo.

“Io…”, esitò, “so che non dovrei impicciarmi, ma non posso fare a meno di chiederti…”
“Cosa c’è, Sato? Non preoccuparti, parla liberamente”, la esortai.
Lei raccolse il coraggio e disse: “Ieri, al Festival di Primavera, stavo per raggiungerti sotto al ciliegio quando ho visto che eri con Nanahara e… giuro, non volevo spiarvi, è solo che…”
Corrugai la fronte, un’ombra di perplessità mi attraversò il viso: “Raggiungermi? Cosa intendi dire?”
Lei impallidì.
“Ho ricevuto la lettera in cui mi chiedevi di incontrarci nel boschetto, e perciò stavo per raggiungerti quando… quando…”, le sfuggì un singhiozzo, ma si trattenne.

Sospirai.
“Oh, Sato, mi dispiace moltissimo, ma io non ti ho scritto nessuna lettera”, spiegai sinceramente costernato.
“Chi te l’ha consegnata?”, chiesi.
“O-Obata”, boccheggiò Megumi, visibilmente desiderosa di sparire nel pavimento.
“Quell’arpia”, mormorai mordendomi un pugno, “ha davvero passato il segno”.

Mi accostai a Megumi, tanto vicino da poter quasi toccare il suo naso con il mio.
“Sato”, dissi con dolcezza.
“S-si?”
“Dovresti sapere che Obata ha sempre avuto complessi di inferiorità nei tuoi confronti. È gelosa del nostro rapporto perché sa che io e te andiamo d’accordo, e così deve averti voluto giocare uno scherzo di cattivo gusto. Sarà anche una ragazza perfida, ma è molto brava a imitare la scrittura altrui”
Megumi sembrava svuotata.
“Oh…”

Prevenendo qualsiasi altra reazione, le appoggiai una mano sulla spalla. Sussultò.

“Ma voglio che tu sappia che tra me e Nanahara non c’è nulla di serio. Se devo proprio dirtela tutta, all’inizio dell’estate lei e la sua famiglia partiranno per gli Stati Uniti. Suo padre ha ricevuto un’offerta molto generosa da una società di hardware in California, e Nanahara e sua madre hanno deciso di comune accordo che lo seguiranno. Quel bacio… era un addio, Megumi. Nanahara ha insistito per darmelo, e io non l’ho voluta deludere. Capisci, Megumi? Non ci sarà mai un seguito a questa storia, e nessuno dei due ha mai pensato di darglielo. Io non ho mai pensato di farlo, se non altro”

Il fatto che avessi usato per la prima volta il suo nome, e in ben due occasioni nell’arco dello stesso monologo, ebbe un effetto dirompente su di lei. Sentivo il suo corpo tremare a contatto con la mia mano, e deglutiva senza sosta, incapace di spiccicare parola.
Per quel piccolo miracolo di perfidia dovevo dei ringraziamenti anche alla seconda studentessa più brillante della classe, Fumiko Obata, che aveva gentilmente accettato di collaborare in cambio di un piccolo compenso in denaro. Ragazza discreta, aveva capito da un pezzo come girava il mondo.

“Allora… allora…”, esitò Megumi.
“Che ne dici se andiamo a berci un milkshake?”, proposi, ritirando la mano.

Lei stava per dire di sì, ma la prevenni.
“Domani pomeriggio, a Shinjuku. Io e te non ci vediamo mai fuori da scuola, sarebbe una buona occasione per conoscerci meglio”

Gli occhi accesi di una felicità incontenibile, lei annuì e – dopo aver cincischiato con scopa e paletta – fece per imboccare la porta, in estasi.

L’indomani le avrei detto che Yuko mi aveva preso in giro riguardo la California, e che il suo era solo un test per capire quanto tenevo a lei. Per parte mia, ovviamente, era palese che tenevo a Yuko Nanahara. Sapevano tutti che eravamo vicini fin dai tempi dall’infanzia, e la logica conclusione di quel rapporto sarebbe stata una relazione ufficiale. Già pregustavo il momento in cui l’avrei detto a Megumi.

Fu allora che avvenne. L’intoppo che mandò completamente all’aria i miei propositi.

Megumi Sato non riusciva a imboccare la porta.
Sulle prime pensai che si trattasse di semplice indecisione, ma dopo qualche secondo mi accorsi che ripeteva meccanicamente gli stessi movimenti. Era inquietante.

“Sato?”, la chiamai. Lei sembrò non sentirmi.
Dopo qualche attimo di perplessità, mi ricordai finalmente – dopo non so quanto tempo – che mi trovavo all’interno di un gioco, e che quel comportamento insolito da parte di Megumi era senza dubbio dovuto a un glitch.

Mi avvicinai.
Si, era davvero un glitch. Megumi non riusciva a imboccare la porta, era “incastrata” tra l’uscita della classe e l’ingresso del corridoio, imprigionata in una sequenza ciclica di animazioni sconnesse.

Provai a scostarla, a spingerla, ma non ne voleva sapere. Se non fossi venuto a capo di quella situazione, sicuramente avrei dovuto ricominciare la partita da capo: mi accorsi di non avere la minima idea di come si gestivano i salvataggi (mancanza a cui avrei rimediato non appena risolto quel problema), e il gioco non consentiva azioni che contraddicessero la normale vita quotidiana di uno studente, come ad esempio calarsi dalla finestra del terzo piano.

Esasperato, mi lanciai contro Megumi confidando che la forza dell’impatto l’avrebbe fatta rinsavire.

E una sensazione familiare mi colse. Come quando ero entrato nel s.i.M., solo più violenta e repentina, e meno graduale.
Il mondo ondeggiò.

Quando finalmente ripresi i sensi, guardavo le assi del pavimento al di sopra di un paio di gambe bianche e ben formate rivestite da un paio di calze grigie. Le gambe di Megumi.

Un ragazzo di bell’aspetto mi tendeva la mano. Il mio avatar. Shu Kawada.

“Stai bene, Sato?”

Provai un’angoscia indefinibile e cominciò a girarmi la testa.
La pausa. Come si mette in pausa?

Non lo sapevo. Avevo scorso in fretta e furia i comandi base, ma la smania di entrare in quel santuario di alienazione mi aveva prevenuto dall’approfondire il funzionamento del chip in primis, e del gioco in secondo luogo.
La verità era che non potevo mettere in pausa, e nemmeno salvare.
Diavolo, non sapevo nemmeno come uscire.

“Sato?”

Spinto dal timore di apparire strano, accettai la mano che Shu mi porgeva e mi tirai in piedi.

“Devi aver avuto un mancamento. Sarebbe meglio se facessimo un salto in infermeria”

Si trattava forse di una modalità secondaria di cui non ero a conoscenza? Qualcosa del tipo “Impersona un npc per un giorno”, oppure “Rivivi la storia principale nei panni di una ragazza”?

No, non aveva senso. Era assurdo. Si trattava senza dubbio di una reazione imprevista provocata dal glitch di poco prima.
Quando mi ero lanciato contro Megumi, dovevo avere in qualche modo spostato la visuale dalla prima persona centrata sul protagonista, alla prima persona sul non player character più vicino – ovvero Megumi. Ma il fatto era che, mentre camminavo verso l’infermeria insieme al mio ex-avatar che mi cingeva un fianco con il braccio, mi resi conto piano piano che tutti i comandi che avevo a disposizione nei panni di Shu erano stati importati sulla persona di Megumi.
Nel momento in cui l’avevo urtata, il controllo che avevo su Shu era passato a Megumi. Ma allora chi controllava Shu? Una sorta di intelligenza artificiale che ponderava le sue scelte in base ai comportamenti che avevo tenuto durante la partita?

Sembrava la spiegazione più logica, ma la sola idea aveva un che di inquietante.
In pratica ero alla mercé di un zombie che funzionava col pilota automatico, e quella non era nemmeno la parte peggiore.

Mentre l’infermiera della scuola mi poneva le domande di rito, potevo sentirmi scivolare addosso lo sguardo di Shu. Sembrava quasi amorevole, e questo mi fece provare un bizzarro senso di sollievo, quasi di catarsi.
Il mio cuore batteva forte, come quello di… come quello di una liceale innamorata.

Non poteva essere, sapevo benissimo che si trattava di una ricostruzione. Per di più, era chiaro che Shu stava giocando con i miei sentimenti, non c’era traccia d’amore dietro i suoi modi garbati e le sue piccole pantomime complici. Accidenti, ero stato io a caratterizzarlo in quel modo.

Eppure, anche se la logica mi dava ragione, le emozioni sembravano scorrere come un fiume in piena dal centro del mio petto, annidandosi nella pancia, e scendendo giù e ancora più giù fino… fino…

Arrivai a casa che non sapevo più chi ero.

Dopo cena, salii nella mia stanza e alcuni dettagli cruciali mi aiutarono a capire. Fotografie.
Foto di Shu appese alle pareti, immagini che lo raffiguravano in tutte le ore della giornata, impegnato in attività sportive o in conversazioni con i suoi amici… e con Yuko Nanahara.
La mia preferita era appesa sopra il futon: ritraeva Shu intento a mangiare da una ciotola di ramen. Aveva un’espressione felice. Quella foto era stata scattata da una posizione leggermente più vicina rispetto alle altre, che invece avevano richiesto un utilizzo massiccio dello zoom.
Ripensai a quel che era successo nel pomeriggio e lanciai un gridolino soffocato. Poi aprii il mio diario e scrissi:

Caro Diario, oggi sono cambiate così tante cose che non so da dove cominciare. Non solo ho scoperto di avere ancora una possibilità con Shu-kun, ma Shu sembra essersi finalmente accorto di me! Dopo che sono caduta aveva uno sguardo così preoccupato, e il modo in cui mi cingeva il fianco… Impazzisco al solo pensiero. Inoltre, presto Yuka partirà per l’America, e questo significa che Shu sarà libero di concentrarsi solo su di me. Non vedo l’ora. Domani faremo una passeggiata a Shinjuku… cercherò di fargli capire una volta per tutte i miei sentimenti. La fortuna premia gli audaci!”

Infine mi distesi sotto le coperte, ma non mi riusciva di addormentarmi.
Il pensiero di cosa sarebbe avvenuto l’indomani, di Shu (quel bastardo!), di Shu e del milkshake che avremmo bevuto, l’uno dalla cannuccia dell’altra (figlio di puttana, lo ucciderò con un cucchiaio da gelato!)… Oh, Shu. Shu, amor mio.

Feci scivolare la mano nei pantaloni, allungando le dita dalle unghie ben curate dentro le mutandine. Sentivo le mie piccole labbra palpitare, sollecitate dalla pressione di indice e medio, e la vulva già umida che si apriva per lasciar passare le dita. Le spinsi dentro, a fondo, emettendo un piccolo gemito strozzato.

Non avevo bisogno di guardare le foto di Shu, il suo volto era già inciso nei più piccoli particolari nella mia memoria.
Sollecitai le pareti interne della vagina con movimenti rapidi e convulsi mentre il mio respiro si assottigliava, il calore che m’invadeva il viso, l’altra mano che accarezzava il seno sinistro sotto la maglietta. Il capezzolo indurito che svettava sulla piccola coppa, soda e ben formata, m’inviava scosse di piacere ogni volta che lo sfioravo.
Alla fine venni, senza rumore e senza ritegno, nella calma apparente che regnava dentro la mia stanza, tremando di felicità e di aspettativa. Abbandonai la mano bagnata a custodire il calore del mio sesso, addormentandomi con un sorriso soddisfatto, sognando il volto di Shu.

Ma non ci fu nessuna passeggiata a Shinjuku, e nessun milkshake.
Tutto ciò che ottenni furono delle scuse.
“Devi scusarmi, Sato, ma oggi ho avuto una discussione con Nanahara…”, accennò il bel ragazzo accarezzandosi distrattamente la nuca, “A quanto pare, non sta davvero partendo per l’America. Voleva solo capire quali fossero le mie intenzioni con lei”
“E…?”, accennai, aggrappata alla speranza come a una scialuppa di salvataggio.
“Bè”, disse lui, “al momento mi riesce difficile definire che cosa provo… Ma di sicuro non posso ignorare questo suo appello. Dopo tutto ci conosciamo da molti anni, e sento che allontanandola rinuncerei a un legame profondo, non credi anche tu?”
“C-certo”, balbettai, firmando docilmente la mia stessa condanna.
“Sono contento che tu capisca. Vedrai, ci saranno altre occasioni”
“C-certo”, ripetei.

Sentivo di impazzire, e non sapevo con chi confidarmi. Watanabe dimostrava aperta antipatia nei miei confronti, e di certo non potevo aprirmi con Nanahara (quella troia!).
Finii col confessare le mie angosce a Chigusa.
Con mia stessa sorpresa, la velocista col record migliore della classe mi rispose in tono pragmatico: “Lascia perdere, Sato. Non vedi che si sta prendendo gioco di te?”
“G-gioco di me?”, balbettai, “Non può essere, Shu è un ragazzo meraviglioso…”
“Certo”, annuì Chigusa masticando una barretta proteica, “è meraviglioso e affascinante, non dico di no, ma è evidente che non sei tu quella che gli interessa. Ci ho fatto un pensiero, sai, all’inizio dell’anno scolastico, ma poi ho capito che perdevo tempo. Dovresti rassegnarti anche tu”
“M-ma lui è sempre così gentile con me, mi rivolge la parola tutti i giorni…”
Chigusa rispose al saluto di un’amica, stiracchiò le gambe toniche e allenate.
“Se preferisci immaginare cose che non esistono, io non riuscirò di certo a farti cambiare idea. Ci vediamo”
E se ne andò.

Fissavo un punto nello spazio davanti a me, incapace di reagire.
“Io gli piaccio. Lo so che gli piaccio. Devo solo impegnarmi di più. Devo impegnarmi, è solo colpa mia se Shu non dichiara il suo amore per me”

Quella sera, presi di nascosto un coltello bene affilato dalla cucina e mi chiusi in camera.

“Shu mi ama”
Appoggiai il coltello sulla gola e incisi in senso orizzontale, da destra a sinistra.
“Mi ama moltissimo”
Tagliai la cassa toracica, in verticale, proprio in mezzo ai seni piccoli e anonimi.
“Sono io che soffoco i suoi sentimenti per me”
Ogni volta che praticavo un taglio, la carne squarciata si richiudeva su sé stessa. Dalla ferita sgorgavano poche strisce di sangue che si biforcavano come tante radici, poi la pelle si riformava e il flusso si arrestava.
“È (un taglio in faccia) solo (un taglio sulla pancia) colpa (aprire i polsi) mia (aprire le gambe, affondare tra le gambe, tagliare, squartare, macellare)!”

E alla fine uno sprazzo di lucidità l’aggredì (mi aggredì) mentre teneva sollevata la lama sporca di sangue.

“Il gioco. Il gioco non permette a un npc di uccidersi. Sto giocando. Non è reale”

Abbassai il coltello. Il braccio di Megumi abbassò il coltello.

Da quanto tempo stavo giocando?
Giorni? Settimane?

Non potevo saperlo, perché anche se avessero impresso un ferro rovente sul volto del mio corpo di carne, non sarei riuscito a percepirlo. Non dal coma profondo in cui mi aveva sprofondato la simulazione, con quell’orgia di sensazioni fittizie che aggrediva il mio altro corpo, con quel vortice di pensieri non miei che soffocava ogni germoglio di ragione.

Probabilmente mia madre non era riuscita a svegliarmi e aveva chiamato qualcuno. Poteva darsi che mi avessero trasportato da qualche altra parte.

Ma di sicuro non avevano rimosso il chip, perché una rimozione forzata avrebbe potuto causarmi dei seri danni cerebrali. E se esisteva un altro modo per interrompere la simulazione, di sicuro dovevo essere cosciente e collaborativo per favorire la buona riuscita dell’operazione. Cosa non del tutto possibile, ormai.

Ero fuggito dalla realtà per ritrovarmi in una situazione ancora peggiore, un incubo a occhi aperti in cui sarei rimasto intrappolato per sempre.

“A meno che…”

A meno che non morisse qualcun altro. Chissà se il protagonista di “A Japanese Teen Story” poteva morire?

“Tentar non nuoce. Cosa mi è rimasto da perdere?”, sussurrai al mio altro-altro me, il mio avatar-fantasma che probabilmente dormiva a qualche stringa di codice di distanza.

“Shu-kun, all'inizio del secondo trimestre io ti confesserò il mio amore. Rimarrai senza parole, vedrai”

Il lunedì successivo, per la prima volta da che la sceneggiatura del gioco era stata scritta in un buio cubicolo invaso dal fumo di sigaretta, il personaggio di Megumi Sato si recò a scuola con piglio entusiastico e un’espressione risoluta sul volto.

Quando la videro, i suoi compagni pensarono che si trattasse di un effetto collaterale del suo amore per Shu, ma in realtà il nuovo sentimento che animava Megumi era la fermezza incrollabile tipica del kamikaze.

“Buongiorno, Shu-kun!”, esclamò Megumi Sato, il personaggio di Megumi Sato, alla vista di Shu Kawada, player_avatar_001.
“B-buongiorno”, rispose Shu Kawada, lievemente spiazzato da tanta energia.
“Come mai così allegra?”, aggiunse, cercando di capire come doveva comportarsi.

“Oh, niente”, rispose Megumi Sato.
“È solo che…”, continuò la ragazza armeggiando cautamente con lo zaino.

“Mi ha preparato di nuovo il pranzo?”, si domandò Shu.

“Shu-kun, io ti amo!”, trillò Megumi, e gli piantò un grosso coltello da carne nella carotide.

Il gioco prevedeva che i personaggi potessero maneggiare oggetti contundenti.
Prevedeva anche che potessero usarli, erano state create delle animazioni specifiche per movimentare un po’ le scenette comiche.

Quello che non prevedeva era che i personaggi potessero uccidersi a vicenda.
E non prevedeva neanche che gli altri npc reagissero in qualche modo alla morte di un compagno.

Perciò, quando il corpo di Shu Kawada rovinò contro un banco spruzzando sangue come un idrante, i compagni di classe si limitarono a guardarlo con curiosità, come se avesse appena annunciato che non si sentiva molto bene. Megumi Sato sorrideva, estatica.

In simili circostanze, il gioco avrebbe dovuto riavviarsi. Ma con il sovraccarico generato dal glitch della porta, e il relativo bug dell’npc Megumi Sato liberamente controllabile, il sistema fece l’unica cosa che gli era rimasta da fare.
Crashò.

Mi ritrovai nel mare azzurrino del s.i.M., il luogo incantato da cui era cominciata la mia avventura.
Il logo di “Chibi Lovers: A Japanese Teen Story” campeggiava a pochi metri da me. Una linguetta invitante faceva capolino sulla sinistra: “La partita è stata terminata a seguito di un errore grave. Vuoi riavviare l’applicazione?

E così mi limitai ad agire secondo quelli che erano gli input previsti dalla schermata di pre-caricamento: chiusi le palpebre per dieci lunghi secondi (ora potevo sentirmi le palpebre), e il chip che avevo introdotto nel polso si spense.

Aprii gli occhi in un letto d’ospedale. Proprio come temevo.

Se non altro, qualcuno mi aveva impedito di pisciarmi addosso.

Nei giorni che seguirono, appresi quel che dovevo sapere.
Ero rimasto in quello stato catatonico per cinque mesi e dieci giorni, nutrito per via endovenosa e attaccato a un catetere. I miei muscoli si erano in parte atrofizzati. Non risultavo affetto da patologie fisiche di alcun tipo, ma potevano persistere allucinazioni, crisi di panico, episodi di spersonalizzazione e un’altra mezza dozzina di effetti collaterali postumi. La riabilitazione sarebbe stata lunga.

Mia madre non sapeva decidersi se catalogare l’episodio come uno sfortunato incidente o fare direttamente causa alla Mafuda Technologies, ma era chiaro che la responsabilità ricadeva anche su di me. In ogni caso, fu lieta di trovarmi in possesso di buona parte delle mie facoltà mentali.

Passarono alcuni giorni. Mi feci portare un computer.

L’arresto forzato dell’applicazione mi aveva risvegliato dall’incubo, ma non aveva lavato via i sentimenti che provavo per la ragazza che era entrata nella mia vita quello stesso anno. Per prima cosa, entrai nel mio profilo Facebook per controllare se mi aveva lasciato dei messaggi.
Me ne aveva lasciati parecchi.

Dato che (ovviamente) non potevo rispondere, alla fine si era stancata.

Feci un salto sul suo blog.

Recuperare quei cinque mesi perduti fu abbastanza rapido e indolore, tuttavia – più o meno in calce all’elenco dei post visualizzati in ordine cronologico – appresi che la relazione tra lei e l’individuo menzionato all’inizio di questa storia si era evoluta in qualcosa di un po’ più serio.
In sintesi, erano andati a vivere insieme.

Ero convinto che i mesi trascorsi in stato di incoscienza mi avessero in qualche modo anestetizzato i sensi, ma l'impressione di ottundimento fece rapidamente posto ad autentico dolore, puro e inequivocabile.

Da lì in poi, spesi tutto il tempo che avevo a disposizione facendo delle ricerche.

Trovai ciò che cercavo quasi subito, e trascorsi numerose settimane ad accertarmi che quanto avevo letto in rete fosse possibile – o quantomeno negoziabile.

Discussi a lungo, molto a lungo, con mia madre.

Al termine delle nostre litigate, che si protraevano sempre oltre l’orario di visita, approdavamo sempre alla solita conclusione: se avessi voluto l’eutanasia, lei avrebbe acconsentito, per rispettare la mia volontà.
Ma qui non si stava parlando di eutanasia. Qui si parlava di qualcosa di molto più eccitante, di molto meno tragico.
A voler essere realisti, era (è) una soluzione consolatoria.

E anche un gigantesco dito medio in faccia a chiunque sostenga che la vita sia degna di essere vissuta, in un modo o nell’altro. Noi emarginati sappiamo finalmente come vivercela, grazie tante, e non tutti hanno i fondi con cui supportare quest’ideale di esistenza alternativa – o la decenza e il buongusto di farla finita.

Sono rientrato nel s.i.M.. Questa volta, permanentemente.

Non so se il sangue che ho visto schizzare dal collo di Shu Kawada sia stato solo un frutto malato della mia immaginazione, e non m’importa. Qui dentro tutto è immaginazione, e chi ha immaginazione, ha potere.

Inoltre, se diventi abbastanza bravo nei giochi multiplayer competitivi puoi guadagnare un discreto quantitativo di soldi, e si dà il caso che io abbia parecchio tempo a disposizione.

Avanti, dunque: ora è il momento di amare, e di combattere, e di vincere.

Mi parlavi sempre del futuro, amor mio.

Bè, ora ci sono dentro. Buona fortuna col Passato.
  
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