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Autore: eliseCS    07/01/2017    0 recensioni
Uno scontro, un caffè rovesciato e una figuraccia.
Può questo dare inizio a qualcosa?
Apparentemente no se Carlotta è in ritardo per prendere l'aereo che la riporterà a casa e se del ragazzo a cui dovrebbe pagare la lavanderia non conosce nemmeno il nome.
.
Un'occasione mancata, come tante, ma non si sa mai: potrebbe ripresentarsi quando uno meno se lo aspetta.
.
Storia - leggasi pazzia - assolutamente senza pretese, ispirata da un post su twitter.
Spero che il tentativo di scrivere in prima persona non sia disastroso come sembra (a me).
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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(dopo c'è la traduzione, tranquilli!)



It was 4:30 p.m., you were rushing through the crowded streets, coffee cup in a hand, trying to spot a taxi to carry you off to the airport.
You crashed into someone and spilled your coffee all over their shirt.
You let out a slew of curse words and hoped that this person wasn’t as angry as they could’ve been.
 
Surprisingly, they weren’t.
 
You caught their eye as they smiled at you for a split second.
Say: «You seem awfully busy today, don’t you?»
You let out a small chuckle, nodded your head, apologized, and told them you were running late.
 
And as anyone else would do, they let you go.
 
So you scurried off to meet a taxi cab in the swell of the traffic.
 
You never heard from that stranger again.
 
Maybe you were supposed to forget about your responsibility for a second.
Maybe you were supposed to hold a conversation with that stranger just a little longer.
 
But if something was supposed to happen between the two of you, you will never know.
 
 
Hundreds of missed connections a day.
 
It’s almost insignificant.
 
And, I know that heartbreak is sad.
 
When a overwhelming love has to come to an end, it’s tragic.
 
But there’s something just as tragic about a love that never has the chance to begin.

 

 
Sono le 4:30 del pomeriggio, stai correndo per le strade affollate, una tazza di caffè in mano, cercando di individuare un taxi che ti porti all’aeroporto.
Vai a sbattere contro qualcuno rovesciando il caffè su tutta la sua maglietta.
Ti lasci scappare una sfilza di imprecazioni e speri che quella persona non sia così arrabbiata come potrebbe essere stata.
 
Sorprendentemente, non lo era.
 
Cogli il suo sguardo nel momento in cui ti sorride per una frazione di secondo.
Dice: «Sembri terribilmente di fretta oggi, non è così?»
Ti lasci scappare una piccola risata, annuisci, ti scusi, e gli dici che sei in ritardo.
 
E come chiunque altro avrebbe fatto, ti lascia andare.
 
Così corri via per prendere un taxi nel bel mezzo del traffico.
 
Non hai più avuto notizie di quello sconosciuto.
 
Forse avresti dovuto dimenticare le tue responsabilità per un secondo.
Forse avresti dovuto continuare la conversazione solo un po’ più a lungo.
 
Ma se qualcosa doveva accadere tra voi due, non lo saprai mai.
 
 
Centinaia di occasioni mancate ogni giorno.
 
È quasi insignificante.
 
E, lo so che un cuore spezzato è una cosa triste.
 
Quando un amore travolgente deve finire, è tragico.
 
Ma c’è qualcosa di altrettanto tragico in quell’amore che non ha mai avuto la possibilità di cominciare.

 



 
- I -
(pov Carlotta)
 
Sono le 4:30 del pomeriggio e sto quasi correndo per il marciapiede affollato cercando di individuare il taxi che mi avrebbe portato all’aeroporto.
 
Come Belfast sia diventata la destinazione della gita di classe al posto di Londra è un mistero che solo la professoressa di inglese avrebbe potuto spiegare, ma alla fine nessuno si è lamentato: da sedicenni scapestrati quali siamo – almeno, i miei compagni di classe lo sono, io mi adeguo – ci siamo divertiti ugualmente.
Come avessero fatto a trovare abbastanza famiglie disposte ad ospitare ragazzi di terza superiore tutte più o meno nella stessa zona era il secondo mistero, visto che siamo stati distribuiti singolarmente per scongiurare al massimo il pericolo di parlare in italiano tra di noi.
Io sono stata ospitata dalla famiglia O’Reilly, marito e moglie e una figlia grande della quale ho occupato la camera visto che la legittima proprietaria era a studiare in Inghilterra.
Entrambi molto gentili e disponibili, almeno per l’idea che mi sono fatta per quel poco che stavo in casa: avevamo un programma talmente fitto tra visite guidate e lezioni che praticamente li vedevo solo per la colazione e la cena.
Davvero, l’organizzazione non sarebbe potuta essere migliore di così anche se quest’ultimo cambio di programma mi ha innervosita non poco.
Per il rientro era inizialmente stato deciso di ritrovarsi per andare insieme a prendere l’aereo, e invece la sera prima la docente aveva mandato un messaggio a tutti dicendo che il giorno seguente ci si sarebbe trovati direttamente all’aeroporto.
L'idea geniale mi ha turbata non poco visto che sono consapevole di essere in grado di perdermi anche con un tom-tom davanti al naso.
Gli O’Reilly però mi hanno sorpreso – probabilmente hanno notato il mio umore disperato quando mi è arrivato il messaggio a cena – dandomi una busta con dentro abbastanza sterline da pagare il viaggio in taxi fino all’aeroporto.
Solo che neanche trovare un taxi è uno scherzo, e giuro di non aver mai visto tanto traffico in giro i giorni scorsi.
Ma finiamo di inquadrare la situazione come si deve.
 
Capelli biondi raccolti in quella che dovrebbe essere una coda, occhi che la carta di identità dice sono cerulei, espressione a metà tra l’imbronciato ed esasperato mezza nascosta da una sciarpa di Grifondoro, giubbotto pesante di quelli lunghi fino a mezza coscia, trolley in una mano, borsone a tracolla e tazza di caffè stile Starbucks nell’altra mano – gentile pensiero della signora O’Reilly: dopo una settimana non sapevo più in che lingua dirle che non mi piace il caffè e così ho rinunciato.
Dicevo… la vedete quella ragazza?
Ecco, sono io, Carlotta Abati, piacere.
 
Cerco come posso di alzare un braccio per togliermi il sudore dalla fronte ringraziando di aver lasciato il berretto in borsa – perché sì, siamo in Irlanda del Nord, a febbraio, fa un freddo cane anche se stranamente c’è il sole ma a quanto pare in questo momento sto morendo di caldo – quando finalmente i miei occhi incontrano la tanto agognata scritta sul tettuccio di un’auto.
 
Taxi.
 
Scatto come posso, la goffaggine dovuta non ad una predisposizione naturale ma dal fatto che tra la giacca pesante, valigia, bagaglio a mano e bicchiere del caffè muoversi velocemente non è esattamente facile.
E proprio quando sto per esultare vittoriosa per essere riuscita a trovare il mio mezzo di trasporto ecco che vado a sbattere addosso a qualcuno.
E con questo non voglio dire che ho urtato la povera vittima con il gomito o che per sbaglio gli sono passata con il trolley su un piede.
No, intendo un bel frontale con i fiocchi.
Non so per quale miracolo non sono caduta per il contraccolpo, e la mia attenzione viene subito richiamata da qualcos’altro: il bicchiere di carta nella mia mano è improvvisamente diventato più leggero.
Troppo leggero.
È vuoto.
Alzo lentamente lo sguardo.
Lo sconosciuto davanti a me – ancora non ho il coraggio di guardarlo in faccia – deve essere di sicuro del posto.
Solo così si può spiegare il fatto che se ne va in giro con una misera giacchetta aperta sul davanti a mostrare la maglia sottostante - mentre io al confronto sembro un eschimese.
Nel momento in cui mi rendo conto che marrone non era sicuramente il colore originale dell’indumento mi lascio andare ad una serie di imprecazioni, rigorosamente in italiano, che se mia madre mi sentisse mi farebbe lavare la bocca con il sapone senza pensarci due volte – ma solo perché Bea, la mia adorata sorellina più piccola di dieci anni, non deve prendere il cattivo esempio…
 
Intanto cerco di non farmi prendere dal panico, pregando che il tizio non sia arrabbiato come lo sarei io se qualcuno mi fosse venuto addosso imbrattandomi i vestiti di caffè.
Mentalmente faccio un profondo respiro e alzo la testa per guardare il malcapitato in viso.
 
Con mio grande stupore mi trovo davanti un ragazzo che ad occhio e croce potrebbe avere al massimo uno o due anni in più di me – e io sono pessima a dare l’età alle persone.
Ha i capelli di quello che potrebbe essere considerato color biondo fragola e gli occhi azzurri.
 
Sorprendentemente, non sembra arrabbiato.
 
Invece di soffermarsi sul danno arrecato alla maglia vedo i suoi occhi che mi scrutano, un lampo quasi divertito passa nelle iridi chiare prima che le labbra si pieghino in un sorriso accennato.
Probabilmente starà ridendo di come sono conciata.
 
«You seem awfully busy today, don’t you?» dice con quell’accento a cui ancora non mi sono abituata.
 
Per poco non mi do un pizzicotto da sola per riscuotermi.
 
Che figura di merda, non posso fare a meno di pensare.
 
All’improvviso mi viene in mente che forse dovrei rispondere.
Annuisco, sperando che la risatina nervosa che mi è appena uscita non sia così patetica come è sembrata alle mie orecchie e «I’m so sorry…» inizio il mio discorso di scuse in inglese, zittendo la vocina nella mia testa che dice sembri un’idiota che puntualmente si fa sentire quando cerco di fare conversazione in una lingua che non sia l’italiano (quindi solo l’inglese visto che non parlo altre lingue).
Il ragazzo annuisce a sua volta accondiscendente appena finisco di spiegargli che devo arrivare all’aeroporto e che di sicuro sono in ritardo.
Ignora i miei tentativi di pagargli il danno alla maglia – e per fortuna, perché le uniche sterline che mi sono rimaste sono quelle per il taxi – e come avrebbe fatto qualsiasi altra persona mi saluta, mi augura buona fortuna, e mi lascia libera di andare.
Mi faccio strada tra la folla raggiungendo il taxi che avevo addocchiato poco prima e che per qualche miracolo si è fermato ad aspettare.
Il tempo di caricare la valigia nel bagagliaio e noto con una punta di delusione che il ragazzo è già sparito.
Butto l’occhio sul display della macchina dove è segnata l’ora e animata da una nuova foga dico all’autista la mia destinazione.
 
 
Ripenso a quel ragazzo sconosciuto quando l’aereo è ormai decollato, ho già gli auricolari alle orecchie con la riproduzione casuale del telefono per scongiurare il pericolo di poter fare conversazione con qualcuno.
 
Forse avrei potuto dimenticarmi di tutto per un secondo.
Forse avrei potuto prolungare quella conversazione almeno un po’.
Non sapevo perché ma ho come l’impressione che avrei dovuto farlo sul serio.
 
Senza neanche accorgermene chiudo gli occhi pensando che avrei davvero voluto sapere almeno il suo nome.
 
Se qualcosa doveva accadere, non lo saprò mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
O forse sì?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Stendiamo un velo pietoso sulla traduzione del pezzo da cui ho preso l’ispirazione per questa cosa che c’è all’inizio del capitolo.
Non ho problemi a seguire film in inglese, occasionalmente anche senza sottotitoli, ma quando c’è da mettere per iscritto una traduzione sono dolori.
Ci sarà di sicuro almeno un’altra parte, che non ho ancora scritto ma so già più o meno di cosa parlerà.
Ho deciso di pubblicare subito senza pensarci troppo perché l’alternativa era che il tutto venisse cestinato, e un po’ mi dispiaceva.
Ah, ovviamente i nomi dei personaggi sono puramente casuali!
Ringrazio in anticipo se qualcuno ha voluto provare a leggere questa pazzia, se qualcuno volesse farmi sapere cosa ne pensa è il benvenuto :)
E.



 

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