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Autore: vincey_strychnine    25/01/2017    0 recensioni
Lui le assomigliava sotto molti aspetti. Anche lui era vuoto, ma ad un certo punto nella sua vita doveva aver riempito gli spazi con rabbia e odio verso tutto, tutti e magari anche verso sé stesso.
(...)
Cercò di nascondere il dolore mentre gli domandava, con tono di scherno, “Perché? Hai paura?”
“No,” disse lui. “Ma tu sì.”
La risposta innescò dentro di lei un fuoco e il dolore della sua stretta d’acciaio si attenuò per un momento. Avrebbe anche potuto strapparle le mani, non le importava. Lei non aveva paura di Cato, non aveva paura di nulla.
A denti stretti quasi sputò le parole, “Invece no.”
Cato e Clove partecipano agli Hunger Games perché per loro è un onore, perché l'hanno scelto. Ma se nella vita sono stati cresciuti ed addestrati per essere macchine letali, come fanno a sapere che non c'é nient'altro, nulla di meglio al di là dell'uccidere?
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Brutus, Cato, Clove, Lyme, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Respira, Peeta, respira.

 

Se lo ripeteva da solo mentre guardava Katniss tentare di mettere quanta più distanza fra loro possibile. Non lo aveva sorpreso dopotutto che lei non fosse stata contenta di quello che era appena successo. Sapeva che non le sarebbe piaciuto.

 

Ma per ora, andava bene. Haymitch l’aveva avvertito. Quella era l’unica possibilità che avrebbe avuto per cercare di salvarle la vita.

 

Individuò subito i Favoriti. Tutti e sei si spintonavano per salire sull’ascensore in fondo al corridoio, il più lontano da lui. Doveva muoversi in fretta.

 

Respira, respira.

 

**

 

L’odio stava contorcendo lo stomaco di Clove con effetti dolorosi mentre saliva sull’ascensore. Per la seconda volta quell’anno, il Dodici era riuscito a far passare in secondo piano il Distretto Due. Non era giusto. Ogni anno, sui tabelloni, l’Uno, il Due e il Quattro ottenevano risultati simili in tutti gli aspetti- l’attenzione, i punteggi, gli sponsor. E perché mai l’anno dei suoi Hunger Games doveva proprio essere il primo ed unico in cui un distretto così misero riusciva a ottenere il favore di Capitol City prima ancora di entrare nell’arena? Nonostante tecnicamente non fosse colpa sua, stava arrecando vergogna al suo distretto- lei stava arrecando vergogna al suo distretto permettendo che accadesse.

 

Ad ogni modo, non era l’unica a dover portare quel peso. Cato sembrava letteralmente ribollire mentre entrava in ascensore accanto a lei.

 

“Non riesco nemmeno a crederci- i poveracci del Dodici sono state le star dello show. Il Dodici! Sono impazziti tutti a Capitol City, per caso?”

 

Lux accompagnò oggi parola pestando i piedi in un gesto di stizza.

 

“Taci e premi il pulsante, Lux. E’ passato solo un quarto d’ora e già non ne posso più di sentirti parlare di questa storia,” sbottò Marvel dal suo angolo dell’ascensore. Era praticamente schiacciato contro il muro, nel tentativo di non sfiorare Marina o Cato.

 

Clove non avrebbe potuto essere più d’accordo. Che importanza aveva, in fondo? Per quanto fosse arrabbiata, non riusciva a sforzarsi di andare su tutte le furie. In fin dei conti, i giochi sarebbero iniziati l’indomani. In meno di ventiquattro ore. Bastava resistere ancora solo una notte e poi…

 

Quando le porte iniziarono a scorrere per chiudersi, un paio di mani le spalancò. Appartenevano, fra tutti, proprio al ragazzo del Distretto Dodici.

 

“Scusatemi,” sbuffò, guardandoli con indifferenza. “Non potevo resistere un minuto di più con lei.”

 

Le sue parole ricevettero in risposta solo silenzio. Nessuno di loro sembrava sapere come reagire inizialmente per una serie di ragioni: la prima era quello strano istinto a tacere scatenato dal vedere una persona subito dopo aver parlato di lei, la seconda era la palese apatia del ragazzo nei confronti delle persone con cui si trovava all’interno dell’ascensore, ed infine ciò che aveva appena detto.

 

Dopo che lo shock dovuto alla sua semplice presenza fu passato, Clove stava ancora tentando di capire il motivo di tanta spavalderia. Non aveva ancora preso in considerazione le parole del ragazzo quando Marina gli chiese, “Katniss?

 

“Sì,” sospirò il ragazzo. “Non la sopporto. E sembra che lei mi stia sempre attaccata. Quella ragazza ha la personalità di un sasso. Il fatto che Haymitch mi abbia costretto a mettere su questa farsa con lei mi sta semplicemente uccidendo.”

 

Cos’aveva appena detto? Farsa? Clove storse il naso mentre il resto dei Favoriti si guardavano l’un l’altro meravigliati.

 

Come?” scattò Lux.

 

Lui inarcò un sopracciglio.

 

“Ma come, ci avete creduto davvero? Immagino di essere stato bravo, allora,” disse, quasi ridacchiando fra sé e sé.

 

“Che cosa vuoi dire con ‘ci avete creduto davvero’?” sibilò Marvel all’improvviso. “Lo hai appena annunciato in diretta a tutto il Paese!”

 

Allora, il ragazzo strinse gli occhi e storse la bocca, come se Marvel fosse stato un povero idiota. Era terribilmente intrepido per essere un tributo del Distretto Dodici, questo era certo.

 

“Sì, e allora?” chiese. “Voglio dire, dannazione, questa sì che è una sorpresa. Tra tutti non dovreste essere voi a sapere un paio di cosette su come si guadagnano sponsor?”

 

Clove dovette ripetersi più e più volte quelle parole in testa. Tutta quella storia… era per gli sponsor? Avrebbe dovuto saperlo! Nessuno, nemmeno un tributo del Dodici, poteva essere così patetico da proclamare il proprio amore in diretta televisiva davanti a tutti, specialmente se in preparazione a qualcosa della natura degli Hunger Games. Era un piano perfetto. Nessuna coppia di Tributi aveva scelto quell’approccio prima. Era disperato, sleale, ma nemmeno lei poteva negare che fosse geniale. Era quasi fin troppo geniale.

 

L’ascensore trillò, segnalando il loro arrivo al primo piano, ma Lux mantenne il dito sul pulsante.

 

“Vuoi dire che era tutta una cazzata?” disse Cato.

 

Il ragazzo del Dodici fece spallucce. “Sì. Spero solo che qualcuno la uccida presto nei giochi così posso levarmela di torno. Non potrò farlo io stesso per quanto mi piacerebbe. A meno che io non voglia perdere il supporto degli sponsor.”

 

Poi, quasi soprappensiero chiese a Lux, “Perché stai tenendo aperte le porte?”

 

Uccidere Katniss? Un sorriso si fece strada sul viso di Clove mentre razionalizzava l’idea. Beh, non era forse uno splendido piano? Bastava attirarla usando l’amore della sua vita come esca e poi sarebbe stata nelle loro mani. Non avrebbe nemmeno avuto modo di scappare. Avrebbero potuto tenderle un’imboscata. E poi fare di lei ciò che avessero voluto; farla a pezzi, mutilarla. E una volta fatto, avrebbero ucciso il ragazzo.

 

Dopo essersi guardata attorno, seppe che la pensavano tutti allo stesso modo. Specialmente Cato, il cui sorriso si estendeva da orecchio a orecchio. Lux stava annuendo, Marina e Testa di Pesce non sembravano intenzionati ad opporsi.

 

Finalmente Cato disse, brusco, “Allora, ho una proposta per te, ragazzo innamorato.”

 

Dodici corrugò la fronte.

 

“Di che si tratta?” chiese sospettoso.

 

“Tu ce la porti e noi non ti uccideremo,” disse Cato. “Beh, non subito, almeno.”

 

“Mi state chiedendo di unirmi a voi?”

 

“Sfortunatamente,” sospirò Marvel.

 

Dodici ebbe il coraggio di starsene lì un attimo a prendere in considerazione la cosa. Stava seriamente pensando alla loro offerta. Magari non era esile, ma decisamente non aveva dimensioni mostruose come Thresh. Clove strinse gli occhi; il fegato che stava dimostrando di avere nei loro confronti era decisamente fuori luogo per un tributo proveniente da un distretto così debole.

 

“D’accordo,” annuì.

 

“Splendido,” ribatté Marvel con sarcasmo. “Adesso fatemi uscire da qui.

 

La porta si chiuse alle loro spalle e Clove riuscì a sentire Lux che chiedeva a Marvel cosa fosse appena successo. Lei stessa non ne era certa. Meno di due minuti prima, quel ragazzo era prossimo ad essere il loro nemico numero uno. Ma per qualche motivo, in qualche modo, era dalla loro parte ora, era parte dell’alleanza. E benché fosse la prima volta che un tributo del Distretto Dodici entrava a far parte dei Favoriti, era innegabile che il loro desiderio di uccidere Katniss avesse sormontato l’importanza delle tradizioni.

 

Tuttavia, non poteva fare a meno di chiedersi cosa ci fosse nella ragazza del Dodici che aveva spinto quel tizio ad odiarla abbastanza da voler vedere la sua compagna di distretto morta. Spazzò via la sua insensata curiosità con fastidio prima di poter considerare quel pensiero. Clove non credeva nel motto “conosci il tuo nemico”, questa semplice frase la faceva pensare ad un lupo che tenta di comprendere la natura di una gallina. Era semplicemente ridicolo.

 

Cato poté voltarsi a guardare Dodici ora che avevano più spazio nell’ascensore. “Non pensare di poterci giocare qualche brutto scherzo per questo,” lo minacciò, sovrastandolo. “Sei con noi perché così possiamo uccidere la ragazza. Se mi accorgo che hai cambiato idea sei morto prima ancora di poter dire Katniss,”

 

“E’ uno scambio di favori allora,” disse Dodici, incatenando lo sguardo a quello di Cato. Non sembrava nemmeno spaventato, intimidito. Questo infastidì Clove. C’era qualcosa di definitivamente sbagliato in quel ragazzo e di conseguenza nell’alleanza che avevano appena formato con lui.

 

Ma l’ascensore trillò, segnalando l’arrivo al loro piano.

 

“Ci vediamo domani, Ragazzo Innamorato,” disse Cato uscendo. Clove si assicurò di restare dentro abbastanza a lungo da trasmettere a Dodici il suo avvertimento silenzioso: che l’avrebbe tenuto d’occhio, che non si era bevuta affatto la sua storiella come invece avevano fatto gli altri. Ma i suoi occhi, di un blu a metà fra il tono profondo di Marvel e quello glaciale di Cato, non tradivano emozioni. La fissò con la stessa indifferenza che aveva dimostrato per Cato.

 

Senza dire una parola, gli diede le spalle e marciò fuori dall’ascensore, appena in tempo per incontrare Lyme dietro l’angolo.

 

Era molto carina quella sera. Il suo mentore non era tipo da truccarsi, e non ne aveva bisogno considerata la bellezza naturale dei suoi lineamenti particolari. Ma indossava pantaloni lisci e lucidi, e persino delle scarpe con il tacco. clove notò che trasportava delle valigie.

 

“Clove,” la salutò Lyme con un piccolo sorriso.

 

“E’ stato accettabile?” chiese Clove, avvicinandosi alla donna già alta, ma resa ancora più imponente dai tacchi.

 

“E’ stato grandioso. Mi hai resa orgogliosa. E sei anche bellissima.”

 

Clove si sforzò di controllare la bocca mentre un sorriso minacciava di aprirsi sul suo viso. Lyme appoggiò una delle due borse a terra e appoggiò la grande mano tiepida sulla sua spalla.

 

I suoi occhi saettarono verso Cato per un solo istante, ma fu sufficiente a fargli capire che non era desiderato.

 

Mentre Cato se ne andava via, Clove rimase in silenzio, incerta su cosa dire. L’ultimo incontro con il suo mentore quel giorno si era concluso con Lyme che lasciava la stanza improvvisamente, nello stato più alterato in cui Clove l’avesse mai vista. Probabilmente Lyme si sentiva allo stesso modo, perché quando sollevò la mano, essa ricadde lungo il suo fianco e l’espressione del suo volto parve insicura. Ma la sua incertezza scomparve tanto in fretta quanto era apparsa.

 

“Questa è l’ultima volta che ci vediamo prima degli Hunger Games,” disse, andando dritta al punto come suo solito.

 

Quelle parole corsero attraverso il corpo di Clove, sedandolo. Si sentiva inerte e forse persino un po’ triste. Era chiaro che ci tenesse al suo mentore: ora poteva ammetterlo a sé stessa. Ma perché? Perché? Non aveva un reale motivo per farlo. Non aveva motivo di avere a cuore nessuno. Ed inoltre conosceva Lyme da poco più di una settimana. Certo, era stata tollerabile come mentore, ma a parte questo la conosceva a malapena. L’emozione che stava provando era così insensata, così stupida…

 

E nonostante ciò quando aprì bocca per chiederle il perché, la domanda risultò pesante abbastanza da cadere e frantumarsi a terra.

 

“Beh, dovrò andare al centro di controllo degli Hunger Games stanotte e raccogliere tutti i tuoi sponsor,” disse. “Sia io che Brutus. Faun vi saluterà domani.” 

 

Clove doveva aver fatto una smorfia, perché Lyme fece una live risatina. Non ricordava di aver mai sentito il suo mentore ridere. Il suono era piacevole, riempiva la stanza.

 

“Ascoltami, Clove,” disse, improvvisamente seria. “Questi sono i miei ultimi consigli per te. Per prima cosa: mai, in nessuna circostanza, fidarsi di nessuno. Nemmeno della tua squadra. Stai sempre all’erta. E poi, domani, corri verso quella Cornucopia e prenditi un kit di coltelli. Assicurati di essere veloce così nessuno ti coglierà disarmata. Poi, uccidi chiunque tu debba uccidere.”

 

“Sai che lo farò,” disse Clove, mettendo a fuoco gli occhi scuri di Lyme, occhi scuri come i suoi. Per quella che sembrò un’eternità, restarono così, in piedi una di fronte all’altra senza interrompere il contatto visivo. Non stavano cercando di intimidirsi a vicenda, e neppure di prevalere in una discussione. Perlomeno per quanto riguardava  Clove, la sensazione che provava era quella di conforto. Anche se non sapeva bene da che cosa avesse bisogno di essere confortata.

 

“Ricorda una cosa,” disse Lyme con voce dolce. “Ci sono persone che vogliono che tu esca da quell’arena viva.”

 

“Le persone che si sono fatte il culo per farmi arrivare fino a qui?” sbottò Clove, ricordando le parole di Lyme quello stesso giorno.

 

Qualcosa di impercettibile aveva reso all’improvviso tutta la stanza più pesante, Clove riusciva a sentirlo. Era come se l’aria sopra le loro teste pesasse all’improvviso dieci chili in più.

 

“Sì,” disse Lyme. “Vinci per quelle persone. Vinci per il distretto o per la gloria o per qualsiasi cosa tu voglia. Ma assicurati di vincere.”

 

Clove si rigirò la frase nella mente. Poteva prometterlo? Non poteva mentirle, aveva troppo rispetto per il suo mentore per fare una cosa simile. Non poteva dire di aver mai pensato alla vittoria, però doveva qualcosa a Lyme: il suo mentore aveva fatto tanto per lei nei giorni precedenti, dopotutto. E venire classificati come il mentore di un vincitore avrebbe di sicuro estinto il debito, o no?

 

“Okay,” disse Clove.

 

Poi non ci fu più nulla da dire. Ma ciò nonostante Lyme afferrò la spalla di Clove e la scosse appena, e le fece un ultimo piccolo sorriso prima di portare le valigie fino all’ascensore e scivolare via, dietro alle sue porte argentate, sparita.

 

Eppure, Clove non poteva dirsi completamente triste per questo. Perché nell’ultimo, muto scambio di sguardi, aveva visto qualcosa in fondo agli occhi di Lyme che era riuscito a risucchiarla e a disputarla fuori un milione di volte, in un milione di modi diversi.

 

**

 

Ore dopo, sotto le luci fioche del bagno, Clove stava fissando un’altra creatura intrappolata nello specchio.

 

Questa non era bella come l’ultima. Questa cosa era un animale. Aveva minacciose striature nere lungo le guance grigie. Il suo volto pareva scarno. Il suo corpo era nudo. Guardava storto Clove con occhi che bruciavano come fuoco. Il suo labbro superiore era sollevato. Le stava ringhiando contro. Una delle sue mani afferrò un’altro groviglio dei suoi capelli, scuri ed annodati, e l’altra lo tagliò con un paio di forbici argentate. Come un gigantesco ragno ancora attaccato alla sua tela, la matassa fluttuò dolcemente per aria fino ad atterrare nel lavandino.

 

Quella creatura non aveva bisogno di una chioma fluente. Non aveva bisogno della bellezza.

 

Continuò ad afferrare ciocche finché i capelli scuri non raggiunsero l’altezza delle spalle; le punte arrabbiate e contorte spuntavano qua e là. Sorrise al suo operato.

 

Clove spense la luce: non poteva sopportare di continuare a guardare la cosa nello specchio. L’oscurità la inghiottì. Calmò il suo cuore che batteva forte. Le entrò nella bocca mentre apriva le labbra per inalare. Invase la sua gola, i suoi polmoni. Corse lungo le sue gambe. Ma non riuscì a colmarla. Urlò. Batti i pugni contro al muro. Il dolore giunse immediato ma comunque, non provò nulla.

 

Il senso di mancanza che provava tanto spesso era peggiorato notevolmente nelle ultime ore. Riusciva a sentire il vuoto crescere fisicamente mentre la consumava. Rabbia, furia, era tutto assente. Nemmeno un po’ di nervoso, nemmeno un po’ di stanchezza.

 

Le luci si riaccesero. Le venne voglia di ingoiare i cespugli di capelli ora ammassati nel lavandino, soffocarcisi. Lasciare che la strangolassero dall’interno così magari il respiro della morte l’avrebbe scossa e l’avrebbe riportata in vita. Ne prese uno in mano, lo studiò attentamente. Da vicino, le punte parevano piccole lame minacciose. Lo gettò a terra e si precipitò fuori dal bagno. 

 

Per un’ora sedette sul letto a fissare il vuoto.

 

Poi, un rumore. Proveniva da fuori dalla porta. Attraversò la stanza e si infilò negli unici due capi d’abbigliamento che identificò a terra, una maglietta sottile e della biancheria. Poi seguì il suono.

 

Erano passi.

 

La condussero alla grande vetrata che dava su Capitol City. La fonte del rumore si stagliava di schiena davanti a lei, le sue spalle larghe si alzavano e si abbassavano seguendo i suoi respiri, o meglio, i suoi ansiti. Ovviamente Cato era sveglio.

 

Non voleva fare alcun rumore per farsi notare. Voleva solo guardare le ombre danzare sulla sua pelle nuda fino al sorgere del sole. Ma lui si accorse della sua presenza.

 

La sua testa scattò di lato per voltarsi a guardarla. I suoi occhi chiari, più spalancati del solito, le fecero capire che era di umore irrequieto quanto lei. Piegò il capo. Le sue labbra si aprirono in un sorriso. Con i movimenti studiati di un felino della giungla, si avvicinò a lei.

 

“Che c’è che non va, tesoro?” mormorò. “Non riesci a dormire?”

 

Se non si fosse trovata in quello stato, si sarebbe allontanata. Invece si dondolò da un lato. Una bolla di tensione iniziò a formarsi tra di loro. Riusciva a sentirla. Stava di nuovo sentendo qualcosa. Il vuoto dentro di lei cominciò a riempirsi. Si sentì all’improvviso esaltata, desiderosa.

 

“Non stanotte,” disse lei.

 

Lo sguardo di lui saettò via dal suo e le sue labbra si arricciarono in un ghigno. “Ti sei fatta un bel taglio di capelli allora?” disse.

 

“Devo essere carina per domani, o no?” rispose. Involontariamente, la voce le uscì in un ringhio.

 

Continuarono a girarsi attorno in un largo cerchio. l’energia pulsava nelle sue vene adesso. Era una sensazione meravigliosa, specialmente dato che fino a pochi momenti prima quasi soffocava nel disperato tentativo di chiudere l’enorme cavità che le si era formata dentro. Con animosità sospirò e guardò sognante fuori dalla finestra.

 

“Non riesco a smettere di pensare,” disse, smettendo di camminare e voltandosi verso Capitol City. All’istante Cato fu dietro di lei. Prima ancora che avesse fatto il minimo rumore lei percepì la sua vicinanza. I capelli le si drizzarono sulla nuca. Le venne la pelle d’oca. “Penso a domani. Al loro sangue…” sorrise. “Al tuo sangue.”

 

La sua risata le giunse più vicina di quanto si aspettasse. I suoi palmi, induriti da anni di addestramento con le armi, si mossero lentamente verso la sua schiena. Non aspettandoselo, si spostò di scatto. Ma quando si avvicinarono per la seconda volta, permise loro di toccare la sua pelle. Iniziarono all’altezza delle reni e poi viaggiarono attorno ai fianchi fino ad incrociarsi sullo stomaco. Il suo sangue prese fuoco.

 

Un paio di braccia muscolose seguirono, avvolgendo il suo corpo nel tepore. Poi sentì il suo mento appoggiarsi alla curva del collo, le labbra sull’orecchio, le ciglia battere due volte accanto al suo viso. Tutto il suo corpo era premuto contro quello di lui adesso. Sorrise.

 

“Sai, Brutus aveva ragione,” mormorò lui. “Uccidi gli altri, e tieni il meglio per ultimo.”

 

Chiuse gli occhi, si lasciò sprofondare in lui del tutto. I sui sensi erano all’erta, attenti a tutto: al calore che il suo petto nudo trasmetteva alla sua schiena, alle sue mani le cui dita avevano iniziato a tracciare piccoli cerchi nella carne morbida della sua pancia piatta, all’odore di cannella del suo respiro.

 

“Non vedo l’ora,” disse.

 

“Di morire?” sussurrò lui. “Perché quando saremo rimasti solo noi, è questo che succederà.”

 

Le sue dita scorrevano terribilmente lente sulle sue anche adesso. Tracciavano un minuscolo motivo sulla pelle sottile. Il suo petto si alzava e sia abbassava. Il suo corpo pareva pulsare. Dovette sforzarsi di rispondere.

 

“No, non sarà così. Io ti ucciderò,” disse, tentando di controllare il suo respiro. In un’occasione normale avrebbe detto di più, avrebbe forse anche sbraitato, ma fu tutto quello a cui riuscì a pensare. Le sue dita passarono sulla stoffa della biancheria che si era scordata di avere addosso fino a quel momento.

 

Una risatina le rimbombò nell’orecchio. “Non penso proprio,” disse lui.

 

Le sue mani si strinsero sui suoi fianchi, avvicinandola a lui. Le si mozzò il respiro. Si era resa completamente vulnerabile, avrebbe potuto attaccarla in qualsiasi momento, ma non riusciva a sforzarsi di formulare un singolo pensiero. La sua mente riusciva a concentrarsi solo sulla sensazione del suo pollice che lentamente si infilava sotto il bordo della stoffa, accarezzando la pelle nuda. Non sentiva altro.

 

“Perché?” chiese fievolmente.

 

La stoffa venne spostata da uno dei suoi fianchi con deliberata lentezza. Non riusciva più a respirare.

 

Contro il suo orecchio, Cato disse a voce bassa, “Io ti ho in pugno.”

 

Quando percepì il sorriso strafottente e la cupa risata che lo seguì Clove si risvegliò dalla sua trance. La sua bocca si contorse in un ghigno. A quel gioco si giocava in due. Portò la mano al viso di Cato e gli fece passare le dita sulla mascella, lasciando che si soffermassero sulle labbra. 

 

“Ne sei sicuro?” chiese, cercando di imitare il tono languido che la sua voce aveva poco prima. Ma Cato non ci cascò. Rimosse rapido le mani dal suo corpo, ma era troppo tardi.

 

Fulminea, conficcò due dita nel punto sensibile sotto al suo mento e si voltò di scatto a fronteggiarlo. Allungò una mano per premere sulla sua clavicola- arteria succlavia, poi conficcò l’altra mano nella zona subito sotto l’orecchio con tanta forza da rendere il suo corpo momentaneamente paralizzato per il fortissimo dolore al seno carotideo. Prima che egli avesse avuto tempo di contrattaccare, lo spinse contro al muro. 

 

Ora toccava a lei.

 

Con innocenza quasi infantile pose i suoi piedi minuti su quelli grandi di lui e si alzò in punta di piedi così che furono quasi alla stessa altezza. Con una mano fece scorrere le dita sul suo viso, mentre con l’altra si aggrappava alla sua spalla per mantenere l’equilibrio. Sfiorò con le labbra i muscoli del suo petto, fino alla gola, sul mento, fermandosi su una guancia come fosse stata sul punto di baciarla. 

 

Ma anziché farlo disse, “Mi sa che sono io ad averti in pugno.”

 

C’era una profonda intensità nei suoi occhi freddi, ma anziché spaventarla, risvegliò in lei una passione tale che poteva solo essere stata dormiente per quindici anni. Cato socchiuse le labbra. La luminescenza di Capitol City si rifletteva sulla sua pelle nuda. Il petto perfettamente scolpito sotto le sue dita, la sporgenza del suo collo, la linea della sua mascella, tutto di lui scatenava in Clove un istinto primordiale che lottava per prendere il controllo del suo corpo. Ribolliva dentro di lei. Lo voleva. Lo voleva in un modo in cui lei non ricordava di aver mai voluto qualcosa.

 

La spinse ad avvicinare dolcemente la sua bocca a quella di Cato, ma anziché baciarlo, morse il suo morbido labbro inferiore.

 

Come una bomba, Cato esplose.

 

La testa di Clove fu sbattuta contro al muro prima ancora che lei potesse comprendere cosa stesse succedendo. Le mani di lui la trattennero contro alla superficie, sospesa a mezz’aria. Tutto il suo corpo era premuto contro quello di lei, che ora agiva senza pensare. Allacciò le gambe alla sua vita. Le loro bocche si scontrarono.

 

Si stavano baciando.

 

Era la prima volta che Clove baciava qualcuno. Solo che non c’era nulla di sensuale o romantico in quel gesto. Era prepotenza, aggressività. I loro denti cozzavano, si morsero reciprocamente con violenza le labbra. Le loro mani artigliavano, afferravano, si facevano male a vicenda in ogni modo possibile ed in una potente combinazione di desiderio ed odio. Ma era meraviglioso. Non le bastava mai. Voleva solo di più, di più, di più. Intrecciò le dita nei suoi capelli, si spinse più vicina a lui. Cato ruggì sommessamente. Lei si staccò, baciandogli il collo. Poi accadde qualcosa.

 

Forse fu la vicinanza, forse l’intensità di tutta quella situazione. Forse fu l’adrenalina che le scorreva nelle vene, forse i suoi sensi amplificati. Forse la consapevolezza che l’indomani sarebbero stati scaraventati nell’arena a combattere fino alla morte.

 

Qualunque fosse la ragione, all’improvviso Clove provò il desiderio di ucciderlo.

 

Morse forte la pelle del suo collo con quanta più violenza possibile. il sapore metallico del sangue le invase la bocca. Il corpo di Cato si contorse. Affondò i denti più forte.

 

Poi le mani di lui si annodarono nei suoi capelli, tirandole indietro la testa. La ferita sul collo era già viola e nera e il sangue emergeva dal taglio profondo. Il suo sapore era ancora nella bocca di Clove, lo sentiva seccarsi sulle labbra. Cominciò a fare tutto il possibile per procurargli dolore. Le sue mani volarono al suo viso, prendendolo a pugni, schiaffeggiandolo. Conficcò le unghie nella sua schiena. Lo stava attaccando come un animale.

 

Finalmente Cato riuscì a fare presa sulla mandibola di Clove e la schiacciò con tanta forza da provocare uno scricchiolio, facendo sì che lei annaspasse. I suoi muscoli erano tesi, il suo respiro divenne spezzato, Clove notò persino che gli si erano dilatate le pupille. Sorrise. E poi la scaraventò a terra.

 

Oh, quanto erano simili, loro due.

 

Il fiato le fu strappato dai polmoni e un istante dopo Cato la stava strattonando per le gambe, le sue grandi mani avvolte sulla sua vita e il suo peso insormontabile le premeva sul corpo tanto più piccolo. La stava schiacciando. Riuscì ad inalare una boccata d’aria, ma faticava a respirare. Lanciò le mani verso il suo viso senza ottenere alcun risultato. Tentò persino di infilargli un dito nell’occhio. Ma ogni sforzo era vano. Come un cavallo, Cato evitava ogni suo attacco con uno scatto della testa. Alla fine non le fu possibile usare le braccia per nulla se non tentare di respingere le sue mani e il suo corpo. Era un dolore come non ne aveva provato mai. Trattenne il respiro tentando di non gridare.

 

“No, urla, voglio sentirti,” le ordinò a denti serrati. Aveva gli occhi infuocati, il viso rosso. Era pazzo. E Clove non poteva negare di essere pazza a sua volta.

 

Strinse i denti. Non aveva intenzione di dargli alcuna soddisfazione. Ma non aveva modo di difendersi, era intrappolata.

 

“Sai, i fiorellini come te non crescono nel posto da cui vengo,” disse con leggerezza come se si fosse trattato di una conversazione seduti a tavola.  E poi premette più forte. Il sangue le andò alla testa. Era certa che i suoi organi interni fossero destinati a schizzare sul pavimento da un momento all’altro. Il grido che stava trattenendo esplose. Scosse la testa avanti e indietro, si contorse, tentando di scappare. Ogni cellula del suo corpo gridò con lei dalla disperazione.

 

Cato stava ridendo ma non le importava. Non le importava di nulla.

 

“Implora,” ruggì lui, cambiando improvvisamente espressione. “Implorami di lasciarti andare.”

 

Non l’avrebbe fatto. Lo ignorò e continuò a gettarsi da tutte le parti in ogni modo possibile per sfuggire alla sua morsa d’acciaio.

 

Implora.

 

Avrebbe anche potuto spezzare ogni osso del suo corpo e lei non gli avrebbe dato la soddisfazione. Con un gesto di sfida lo guardò negli occhi, che erano tornati ad essere assenti. Ma quando le mani sui suoi fianchi premettero più forte poté solo chiudere gli occhi e gridare di nuovo. Né Brutus né Lyme sarebbero venuti a salvarla quella notte. Non ne aveva nemmeno bisogno. In quel momento non voleva nulla di più che lasciare che Cato la uccidesse.

 

Ma non riuscì a farlo.

 

Staccò le mani che aveva tenuto sui suoi fianchi ed immediatamente il dolore che Clove aveva soppresso per lo shock e la pressione rifluì nel suo corpo. Annaspò, tossì, quasi soffocò, realizzando solo in quel momento quanto poco avesse respirato. La debolezza la pervase, lasciandola incapace di muoversi.

 

Cato abbassò la testa. Prese il suo volto tra le mani e fece scorrere un dito attraverso la pelle sotto il suo occhio. “Sei proprio una dolce piccola colomba,” bisbigliò. “E sarai gettata nel massacro, che tragedia.”

 

Nella penombra sembrava di un altro pianeta. Un demone, un angelo, un dio. Qualcosa di bellissimo ed intangibile. Clove si chiese se non fosse davvero stato scolpito da un artista. Si chiese se fosse reale.

 

“Ho già ucciso prima,” le sussurrò all’orecchio. “Lo sai che suono fa una schiena quando si spezza?”

 

Una mano tremante si sollevò a stringersi attorno a quella di lui. Era troppo esausta per ragionare sulle sue azioni, per chiedersi perché non stesse contrattaccando, chiedersi come potesse permettersi di trovarsi in uno stato simile. Accarezzò con il pollice il suo palmo più e più volte. Portò la sua mano alle labbra e parlò contro di essa. “No,” gli rispose.

 

Cato chiuse le dita attorno ai suoi occhi, ma non fece altri gesti per farle male ancora. Sembrava piuttosto che stesse sostenendo il suo capo. “E’ un suono simile allo scricchiolio del metallo,” disse. “Basta fare un po’ di pressione e una schiena si accartoccia come una lattina. E’ affascinante, a dire il vero, il modo in cui le ossa umane possono essere spezzate.”

 

Gli occhi della mente di Clove le mostrarono una scena: Cato che teneva ferme le spalle di un uomo e calciava forte contro la sua schiena, modellando il corpo in un angolo netto. Perché non faceva lo stesso con lei? Quello che le stava facendo era di gran lunga peggiore: nulla. Era stesa davanti a lui vulnerabile, patetica, e per tutta risposta lui le baciava il viso. Era davvero un mostro.

 

“Quanti ne hai uccisi?” gli chiese senza pensare.

 

La mano che teneva vicino alla bocca le prese la guancia e le girò il viso perché lei lo guardasse. Una luce proveniente dalla finestra strisciò lenta lungo la sua figura, lasciando il buio dopo il suo passaggio cosicché lei poteva vedere solo il debole scintillio dei suoi denti bianchi quando rispose, “Tre.”

 

Senza dire altro, le sue mani scivolarono via dal volto di Clove e il suo corpo sfumò nell’oscurità che ora stava inghiottendo la stanza, come fosse stato parte di essa fin dall’inizio.

 

E poi sparì e lei si trovò a non provare nulla di nuovo.

 

A lungo giacque lì inerte ma alla fine recuperò abbastanza forza da strisciare verso la vetrata. Restò lì fino a che il sole non sorse sugli edifici di Capitol City, a riempire la cavità nuovamente aperta nel suo petto con l’odio. Odio per sé stessa, odio per Cato, odio per Lyme, per Brutus, per Pallas, per i tributi, per Capitol City, per Panem, per il mondo intero.

 

**

 

Che cosa è successo ai tuoi capelli?”

 

Quelle furono le prime parole che la stilista di Clove le rivolse quando giunse a prelevarla al mattino.

Non aveva preso sonno quella notte. Ma la semplice presenza di Faun le infuse nuova vitalità: quella stupida donnetta era il promemoria fisico di cosa la aspettava, un ultimo tocco di trucco, un ultimo cambio di guardaroba, tutti gli ultimi preparativi che bisognava fare.

 

Quello era il giorno degli Hunger Games.

 

Immagini senza significato le passarono davanti agli occhi mentre compiva le azioni necessarie ad arrivare, passo dopo passo, più vicina al podio dell’arena. Una colazione appena toccata sul piatto, la scala di un hovercraft, il chip argentato che veniva iniettato nel suo braccio, le ciglia rosse di Faun. Non si concentrò su nulla per più di un momento fino a che non si trovò a guardare i muri blu della sala di lancio.

 

Faun le aveva fatto fare una doccia. Le aveva fatto indossare dei semplici pantaloni fulvi ed una blusa verde che non poteva fare a meno di immaginare, strappate ed insanguinate, addosso ad uno degli altri tributi. Ma non avrebbe dovuto immaginare queste cose ancora a lungo, o no? In meno di un’ora avrebbe potuto viverle di persona. Il cuore le batteva forte nel petto, l’aria sembrava ostruirle la gola. Tentò di trattenere un sorriso ma l’esagitazione non glielo permise.

 

Quel giorno avrebbe ucciso. Quel giorno significava tutto.

 

Chissà cosa stavano facendo gli altri tributi in quel momento? Piangevano? Tremavano? Si muovevano nervosamente dappertutto? Si mangiavano le unghie? Distretto per distretto, li immaginò tutti: Lux che si raccoglieva i capelli, Marvel che si sistemava la cintura, Cato che si scrocchiava le ossa, la ragazza del Tre che si punzecchiava con ansia le guance paffute, il ragazzo che percorreva a grandi passi la stanza, Testa di Pesce che saltellava su e giù, Marina che si mordeva il labbro, la rossa del Cinque che fissava il vuoto, la ragazzina dell’Otto che piangeva disperatamente, il ragazzo dell’Undici stoico ed imperturbabile, la ragazza che si muoveva incessantemente attraverso la stanza, gli occhi blu del Ragazzo Innamorato spalancati e senza speranze, la Ragazza in fiamme… ridacchiava… piroettava…

 

Non si scosse dai suoi pensieri finché Faun non le chiese quale oggetto personale volesse portarsi. Clove non ne aveva. Non c’era nulla di casa sua che si era voluta portare lì. Non aveva ricordi a cui era affezionata, nessun oggetto di valore sentimentale. Nessuna parte della sua vita nel Distretto Due doveva stare in quell’arena. Il suo passato ed ogni senso di umanità che poteva esserle rimasto si sarebbe disintegrato non appena il gong avesse risuonato.

 

Si chiese se sarebbe stato così se la sua vita fosse andata diversamente.

 

Sarebbe stato così se sua madre avesse abbracciato le sue membra protese quando piangeva da bambina? Sarebbe stato così se le loro cene fossero trascorse in piacevoli conversazioni anziché in silenzio? Sarebbe stato così se suo padre l’avesse guardata negli occhi almeno una volta? Sarebbe stato così se l’avessero picchiata, abbracciata, se le avessero urlato contro, se solo avessero fatto qualcosa, qualsiasi cosa, solo per una volta?

 

Sarebbe stato così se la sua infanzia non fosse stata trascorsa a giocare con i fantasmi nel suo cortile? Sarebbe stato così se avesse avuto degli amici al di fuori dei muri sbiaditi come gli altri bambini, invece delle infermiere che le chiedevano di fare disegni per loro? Sarebbe stato così se in quegli anni in cui era stata piccola, i suoi giorni fossero stati punteggiati da meraviglia e fantasia anziché da allucinazioni e sedativi?

 

Sarebbe stato così se avesse passato il tempo a socializzare con i suoi coetanei anziché a lavare via il sangue degli animali dai suoi vestiti? Sarebbe stato così se avesse trascorso le notti a sognare ragazzi anziché giacendo sveglia pensando alla morte? Sarebbe stato così se i suoi pensieri fossero stati belli, intellettuali, illuminanti?

 

Sì, forse le cose sarebbero state diverse. Ma sarebbe anche stata debole. Debole come i suoi genitori, debole come i suoi coetanei, debole come gli altri tributi. La vita, o la mancanza di questa, avevano formato la ragazza che ora stava in piedi nella sala di lancio, in attesa di poter versare al suolo il sangue di altri bambini.

 

Così, quando Clove guardò Faun negli occhi e le disse, “Non avevo nulla da portarmi,” diceva sul serio.

 

Poi una donna disse con voce monotona che era il momento di prepararsi al lancio. Fan sembrava fin troppo contenta.

 

“Buona fortuna, bestiolina,” fu tutto ciò che gracchiò. Quando Lyme aveva menzionato delle persone che avrebbero voluta vederla uscire viva dall’arena, Clove era stata subito sicura che queste non includevano Faun.

 

Improvvisamente un tubo di vetro circondò il suo corpo la trascinò su. Faun, la sala di lancio, Capitol City e il Distretto Due sparirono per sempre dietro un muro di cemento.

 

Tre battiti di ciglia. Inspirò a fondo. Contrasse le dita.

 

Luce, accecante per un momento. Erba mossa dal vento. Pacchi sparsi ovunque. Ventitré individui in piedi sul loro podio. Cielo blu. Una cornucopia dorata.

 

Una voce.

 

“Signore e signori… diamo inizio ai Settantaquattresimi Hunger Games!”

 

Numeri in rosso.

 

Sessanta secondi.

 

Note dell’autrice: Salve! Non mi sono mai palesata durante questa storia, però eccomi qui, perché ci tenevo particolarmente a ringraziare pandafiore e into_you che hanno recensito e di nuovo into_you e Starfire Moonlight che hanno aggiunto la storia alle seguite, vi ringrazio davvero di cuore perché ho trovato la motivazione per finire questo capitolo che ho faticato davvero a scrivere. Spero di aver fatto un lavoro accettabile, e per favore qualche buon’anima mi dica se pensa che io debba cambiare il rating da arancione a rosso data la violenza della scena descritta in questo capitolo e quella dei capitoli a venire.

Al prossimo capitolo e may the odds be ever in your favor,

 

Vincey

  
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