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Autore: Evaney Alelyade Eve    29/01/2017    0 recensioni
Nell’Era del Drago il Quinto Flagello ha distrutto il Thedas, il morbo DS ha trasformato la maggior parte degli abitanti negli orribili Darkspawn, trasformandoli così schiavi dell’orribile scienziato che ha diffuso il morbo e che viene chiamato Arcidemone.
Solo un piccolo gruppo di guerrieri, i Custodi Grigi, continua a lottare per l’umanità nella speranza di trovare una cura al morbo e salvare l’umanità da un triste destino.
Il Quartiere generale dei Custodi è diventato il vecchio castello di Ostagar, l’ultimo baluardo contro l’avanzata dell’oscurità.
Genere: Angst, Dark, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alistair Therin, Custode, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Zevran Arainai
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Fandom: Dragon Age: Origins
Personaggi: (Xelyade) Cousland, Alistair Theirin, Wynne, Morrigan, Zevran, Oghren, Altri.
Pairing: Cousland/Theirin
Rating: Arancione
Chapter: 1/2
Genere:  Sentimentale, Azione, Dark
Warning: Angst, Het, AU.
Summary: Nell’Era del Drago il Quinto Flagello ha distrutto il Thedas, il morbo DS ha trasformato la maggior parte degli abitanti negli orribili Darkspawn, trasformandoli così schiavi dell’orribile scienziato che ha diffuso il morbo e che viene chiamato Arcidemone.
Solo un piccolo gruppo di guerrieri, i Custodi Grigi, continua a lottare per l’umanità nella speranza di trovare una cura al morbo e salvare l’umanità da un triste destino.
Il Quartiere generale dei Custodi è diventato il vecchio castello di Ostagar, l’ultimo baluardo       contro l’avanzata dell’oscurità.  
Note: "Questa storia partecipa alla prima edizione del Prompt Challenge, indetto dalla pagina Facebook di Dragon Age - Italia” 
I prompt che ho scelto sono:
#2 - Sussurro;
#42 - AU post-apocalittica;
#68 - “È una specie di rischio professionale per le anime gemelle?  Una non vale molto senza l’altra” - Al di là dei sogni, Vincent Ward;
#91 - "We are far from home / but we’re so happy."  - Of Monsters and Men - From Finner.
n.d.A: . Il titolo è una canzone degli Stratovarius

 

 

 

Black Night

 

 

“New day will dawn

For me and for you carry on

Black night is gone

Look what we have done”

 

 

 

Era del Drago. Una spaventosa epidemia generata dal morbo DS, originariamente concepito dal geniale scienziato con il delirio di onnipotenza Archer Demian, ha infettato quasi tutti gli esseri umani e gli animali con risultati differenti:  una parte della popolazione mondiale non è riuscita a sopravvivere, un’altra parte ha subito una degenerazione che li ha resi dei mostri crudeli e senza coscienza mentre un’altra piccola percentuale si è miracolosamente scoperta immune al morbo.
Questo piccolo gruppo di umani sopravvissuti si è poi barricata nella vecchia base militare di Ostagar, a sud della prima cittadina caduta, Lothering, e da allora combatte per scacciare i Prole Oscura e trovare una cura che possa salvare l’umanità dall’estinzione. 

La resistenza si è data poi il nome di Custodi Grigi e il loro obiettivo primario è quello di raggiungere le città che ancora resistono e trarre in salvo gli immuni per poi condurli ad Ostagar e rendere loro dei Custodi, nella speranza di formare un esercito di uomini e donne che possa contrastare i Prole Oscura ed arrivare all’origine dell’epidemia.

 

*


Era del Drago, un anno dopo la caduta dell’ultima città degli umani, Altura Perenne.

 

Xelyade stava facendo il turno di guardia quella notte.
Imbracciava il suo fidato Barrett M107A1, quello che Duncan le aveva permesso di avere dopo che era riuscita a diventare un Custode Grigio attivo e operante sul campo.
Era un fucile pesante, quasi quindici chili, ma le aveva salvato la vita in più di un’occasione e la faceva sentire sicura. Il suo peso tra le mani era l’ancora che ancora la teneva coi piedi ben piantati in terra.
Si svegliava ancora nel pieno della notte, sudata e tremante, ma almeno aveva smesso di urlare. Nelle prime settimane dopo la caduta di Altura, aveva sognato e risognato il momento in cui i Prole Oscura avevano fatto irruzione nella sua casa ed avevano aggredito la sua famiglia.
Suo nipote Oren era stato divorato da un gruppo di piccoli orribili genlocks, mentre sua madre Oriana era stata trascinata via, le sue urla strazianti le facevano ancora venire i brividi. I suoi genitori erano stati infettati ma avevano scelto di uccidersi piuttosto che diventare dei mostri senz’anima. Suo fratello Fergus era disperso ma Xelyade aveva poche speranze che fosse ancora vivo.
Era sola, non c’era nessun altro al mondo.

Almeno così aveva pensato finché Duncan non l’aveva portata ad Ostagar: lì aveva incontrato tantissime persone che condividevano con lei una storia simile, persone sole che non avevano nessun altro al mondo se non quella numerosa famiglia allargata. Se all’inizio, troppo presa dal dolore, poco le era importato della causa per la quale combattevano i Custodi ed aveva cercato a più riprese di perdersi nell’Oblio e non dover rivivere mai più quelle orribili scene, con il passare del tempo la sete di vendetta aveva preso il sopravvento e per i mesi successivi si era dedicata anima e corpo all’allenamento estenuante al quale coloro che desideravano combattere contro i Prole Oscura e diventare dei veri e propri Custodi si sottoponevano.
La vendetta le bruciava ancora nel petto quando aveva finalmente fatto la conoscenza di Alistair, di ritorno da una missione di recupero a Denerim - il più giovane dei Custodi dopo di lei.
I sentimenti che erano fioriti fra loro avevano mitigato il dolore e trasformato la vendetta in sete di giustizia e speranza.
Alistair le aveva insegnato che persino in un mondo oscuro come quello in cui si ritrovavano si poteva essere felici.

“Xel?” la voce di Daveth nell’auricolare la scosse dai suoi pensieri. La notte era quieta ed il cielo un’infinita distesa nera sul quale risplendevano ad intervalli troppo lunghi minuscole stelle. L’inverno quell’anno era stato clemente abbastanza da risparmiare loro un’eccesso di pioggia ma in compenso Ostagar era ammantata di neve. Nei giorni precedenti era stata alta tanto da arrivarle alle ginocchia e lei non era esattamente un gigante.
“Ehi Dav, notato niente?” gli chiese, guardandosi intorno. Non c’erano nulla lì fuori se non il silenzio cupo della notte.
“Per adesso è tutto tranquillo, tu?”
“No, niente.”
“Bene, speriamo che resti così almeno fino all’alba!” sospirò l’uomo, sbadigliando.
Daveth Roy era la prima persona che l’aveva avvicinata dopo il suo arrivo; anche se Duncan l’aveva avvertito di lasciarla in pace, Daveth aveva deciso di attaccare bottone con una battuta che gli aveva fatto guadagnare un pugno dritto sul naso.

L’inizio di una grande amicizia, così diceva lui a chiunque.
Xelyade sorrise ripensando all’espressione di Alistair quando gli avevano raccontato come la ragazza nuova avesse messo al tappeto Daveth sin dal primo giorno; le sue risate quando lei gli aveva poi svelato quale fosse la famosa battuta che l’aveva fatta scattare…
“Ho sentito qualcosa!”
Quelle parole spezzarono in pochi secondi l’incantesimo dei suoi ricordi e la sua mente tornò vigile sulla situazione presente. Aveva uno strano formicolio alle mani, come se dovesse succedere qualcosa ma non sapeva esattamente cosa.
Strinse la presa sul suo Barrett al punto tale che le sbiancarono le nocche. Il dito sul grilletto era pronto a fare fuoco in qualsiasi momento.
“Cosa?!”
“Ho sentito un fruscio nei cespugli ad est” bisbigliò l’altro “mi avvicino per vedere di cosa si tratta!”
“Daveth! No!” sibilò agitata “Non andare da solo, aspetta che ti raggiunga!”
“No, devi rimanere a coprire quella zona, Xel.”
“Sei un idiota!” sbottò lei a mezza voce. “Lo sai benissimo che le squadre di ricognizione si muovono in-” ma non finì mai la frase perché le sue parole furono coperte dalle urla di terrore di Daveth.
Senza perdere altro tempo, Xelyade corse nella direzione nella quale sapeva esserci il suo compagno di ronde; poco lontano dall’unica entrata di Ostagar c’era un piccolo ma folto gruppo di cespugli che per i piccoli genlocks era un nascondiglio strategico ottimale.
Dalla sua postazione a nord-est ci volevano cinque minuti per raggiungere il folto gruppo di cespugli; quei cinque minuti potevano fare una grandissima differenza fra la vita e la morte di Daveth.
Il cuore le batteva furiosamente nel petto, stava sudando per l’agitazione e l’ansia, i lunghi capelli argentei racchiusi in una coda alta ben stretta le sbattevano in faccia per il vento, le braccia le dolevano per lo sforzo di mantenere il Barrett in guardia ma le sue gambe non cedevano, percorreva con sicurezza il terreno che ormai conosceva a menadito.
Il silenzio che le si stringeva addosso le inchiodò nel petto un profondo senso di disperazione: non sentiva la voce di Daveth, nessun segno che un uomo solo e disperato stesse lottando contro un folto gruppetto di orridi mostri, l’unico rumore che avvertiva era il suo cuore impazzito.
Cinque minuti dopo era ferma, ansimante, nella postazione di Daveth; di lui non c’erano segni.
Xelyade provò con l’auricolare.
“Daveth?”
Nulla.
“Dav!?” riprovò ma sapeva perfettamente che era tutto inutile. Cambiò la frequenza della sua piccola radio.
“Commando abbiamo un problema!” esclamò, guardandosi attorno costantemente. “Daveth è sparito nei cespugli ad est, credo che sia stato attaccato da un piccolo gruppo di genlocks.”
“Xel? Xel dove ti trovi adesso?” la voce agitata dall’altro capo della trasmissione aveva un pesante accento straniero.
“Zevran sto seguendo le tracce di Daveth ma ho bisogno di rinforzi immediati!”
“Il gruppo di pattuglia ad ovest sta arrivando; saranno lì tra dieci minuti.”
“Non c’è abbastanza tempo!” esclamò la ragazza, facendo un passo verso i cespugli. “Daveth potrebbe essere morto per allora!”
“Questa è una possibilità” ammise l’altro, accondiscendente “ma questo non vuol dire che tu debba mettere a repentaglio la tua vita in questo modo a dir poco stupido.”
Zevran era un giovane uomo proveniente da Antiva, dalla carnagione scura e i capelli chiarissimi. Aveva due tatuaggi sul volto, occhi d’ambra con una perenne luce di malizia e un sorriso sempre pronto, così come battute e racconti sconci.
Era tra i pochi cari amici che Xelyade aveva ma a volte sorprendeva quanto potesse essere cinico.
Certo, logicamente aveva ragione: rischiare anche la sua vita per inseguire un uomo che poteva essere sicuramente già morto era una stupidaggine ma… ma Daveth era suo amico. Lei glielo doveva, non avrebbe permesso a nessun altro di essere fatto a pezzi, non quando lei poteva fare qualcosa.
“Glielo devo.” sussurrò, avanzando ancora nel folto dei cespugli. “È mio amico.”

Sentì Zevran sospirarle nell’orecchio, un piccolo sorriso le affiorò sul viso ma ebbe vita breve: c’erano tracce! Tracce fresche di impronte… grandi e di molte altre più piccole.
Il sollievo si trasformò in orrore quando, alla luce della torcia posizionata sul Barrett, individuò sulla neve bianca macchie di sangue.
È sicuramente di Daveth, pensò, altrimenti sarebbe stato nero.
Senza indugiare ulteriormente si addentrò ancora di più nel folto della secca vegetazione: più avanzava più il terreno scendeva in pendio.
“Ho trovato delle tracce.” bisbigliò all’auricolare, l’orecchio teso nella speranza di avvertire un rumore, qualsiasi rumore che le facesse capire che non era troppo tardi.
“Sto proseguendo verso sud-est, ho quasi superato la barriera di cesp-” ma le parole le morirono in gola quando vide la scena che le si presentava dinanzi: disteso sulla schiena, completamente ricoperto di sangue c’era Daveth.
Xelyade si avvicinò di corsa del tutto dimentica della possibilità che i nemici fossero ancora in giro.
“Daveth…” si inginocchiò vicino al cadavere e, alla luce della torcia vide le condizioni in cui l’avevano ridotto. Le si strinse lo stomaco e la nausea le chiuse per un attimo la gola: gli occhi erano vitrei, spalancati e ciechi su un cielo nero e senza stelle; la bocca era distorta in un orribile grido di sofferenza e tormento, il suo intero viso era distorto, quasi irriconoscibile. Il sangue proveniva dal… dal petto.
C’era un enorme buco frastagliato, al centro: la carne era scavata e lacerata in più punti, le costole erano state spezzate per far abbastanza spazio a tante piccole paia di mani perché si divertissero a rovistare e a strappare e a tirare… il cuore non c’era più.
La ragazza si allontanò di scatto, vomitando: le girava la testa, non riusciva più a pensare coerentemente mentre ricordi del passato si sovrapponevano alla scena davanti a lei. Le venne voglia di gridare, il petto le stava per esplodere: si teneva la testa con entrambe le mani, le sembrava sul punto di aprirsi in due…
“Xelyade!” la voce di Alistair attraverso l’auricolare fece breccia nella sua mente confusa; un’ancora di salvezza alla quale si aggrappò con tutte le sue forze.
“Al- Alistair..” balbettò, strizzando le palpebre per scacciare lacrime che sapeva non sarebbe mai riuscita a versare. “Alistair ho trovato… ho trovato Dav.”
“Dove sei?!”
“Duecento metri sud-est dopo il gruppo di cespugli.”
“Sei sola?”
Xelyade si guardò in giro, strizzando gli occhi nell’oscurità: si era dimenticata che i genlocks avrebbero potuto essere ancora lì intorno.
“Per ora.” rispose. Cercò a tentoni il suo fedele compagno e si rese conto che l’aveva lasciato vicino al cadavere.
“Non sei al sicuro lì, torna immediatamente indietro!” le ordinò l’altro, la voce resa dura dalla preoccupazione. “Una squadra ti sta venendo incontro non è sicuro per te rimanere lì.”
“Ma…” balbettò, guardando ciecamente il cadavere “ma… Daveth?”
“Xel… Daveth è morto, non puoi fare più nulla per lui.”
“No, io-”
“Xelyade.”
“Non riesco a muovermi.” bisbigliò. Le tremavano le gambe, si sentiva intorpidita.
“Devi alzarti, amore.” le diceva Alistair intanto. “Devi farcela, d’accordo?”
“Io- io non lo so.”
“Xel devi provarci, ok? Fallo per me, amore, coraggio. Mettiti in piedi e cammina verso la pattuglia.”
Un rumore alle sue spalle la fece sobbalzare, si voltò di scatto: nell’oscurità alle sue spalle dieci piccole paia di occhi gialli la stavano fissando con malizia.
Poteva sentire il loro fetore anche a quella distanza, il respiro accelerato di dieci piccoli genlocks che avevano gli occhi puntati sulla nuova preda.
“Xel?”
“Non posso muovermi.” bisbigliò ancora all’auricolare. “Sono qui.”
Alistair si lasciò andare a diverse imprecazioni mentre lei si voltava lentamente ad affrontare i suoi nemici. Si sentiva già più padrona di sé anche se l’essere disarmata ed in netto svantaggio numerico la metteva in una situazione a dir poco pericolosa.
Il barrett era solo a pochi passi da lei, se si fosse tuffata avrebbe potuto imbracciarlo e far fuori i genlocks ma quei pochi preziosissimi secondi per prenderlo potevano costarle la vita.
No, pensò cupamente, non la vita. Alle donne spetta una sorte ben peggiore della morte…
L’urlo di Oriana echeggiò nella sua mente, ricordava il momento in cui l’avevano trascinata via attraverso un buco nelle viscere della terra destinata a diventare un’incubatrice per dei piccoli orridi mostri…
Preferisco morire!, ruggì orripilata nella sua testa.
Chiuse un secondo gli occhi; inspirò ed espirò profondamente, i muscoli tesi nell’attesa del momento in cui si sarebbe giocata il tutto per tutto.
Un battito. 

Due battiti. 

Tre battiti.
Si sporse in avanti, era pronta a balzare… poi nuovi rumori alle sue spalle, nella direzione dalla quale doveva giungere la pattuglia la distrassero. La flebile trionfante speranza morì, ghiacciandole le vene: non erano Custodi quelli che erano giunti, nel folto della vegetazione altre paia di occhi erano comparsi.
Si morse a sangue il labbro per non mettersi ad urlare.
Uno… due… tre… e così via fino a dieci. Altri dieci genlocks.
Era finita, non c’era via di scampo per lei.
Si tolse l’auricolare, avvicinò il microfono alle labbra.
“Alistair” sussurrò. “Ti amo.”
Lo gettò via, si alzò in piedi guardando i suoi nemici con sguardo di sfida.
Non sarebbe caduta senza aver dato battaglia; urlando si precipitò sul fucile nello stesso momento in cui i genlocks le si lanciavano addosso.
La battaglia per la morte ebbe così inizio.

*

Alistair andava avanti ed indietro nella sala d’aspetto.
Non riusciva a stare fermo, era troppo agitato, tutto quello che era successo in quelle ultime ore continuava a turbinargli nella mente.
Il terrore che aveva provato quando la comunicazione si era interrotta… non era sicuro che esistessero parole adeguate per descriverlo.
Si erano fatti strada attraverso i cespugli giusto in tempo per vedere i venti, venti!, genlocks assalirla, tutti insieme. L’aveva vista agitarsi e scalciare per pochi istanti prima di essere sopraffatta. Preso dalla rabbia si era lanciato addosso ai mostriciattoli colpendoli con il suo pugnale dentellato, strappandoli via quando si aggrappavano a lei con forza, prendendoli a calci mentre grugnivano e squittivano finché non smettevano del tutto di muoversi, ignaro del loro sangue nero che schizzava ovunque, o delle urla degli altri della pattuglia.
Si era fermato solo un istante prima di tirare via i cadaveri dal corpo di Xelyade ed aveva cominciato a respirare solo quando si era accorto che lei respirava ancora.
La paura allora era diventata urgenza perché da quanto riusciva a vedere era ferita ed il suo respiro irregolare e c’era sangue dappertutto.
Alistair l’aveva presa tra le braccia, ignorando le proteste di tutti, ed era corso senza fermarsi un attimo verso Ostagar, si era spinto verso l’ala medica, sordo a chiunque, finché non aveva avvistato Wynne, il medico migliore che avessero a disposizione.
Non l’aveva lasciata nemmeno quando l’avevano portata dentro nonostante la donna avesse insistito più e più volte perché lui se ne andasse.
Aveva urlato, sopraffatto dalle emozioni, contro Morrigan e le sue veementi proteste finché Duncan e Sten non l’avevano portato via di peso.
Gli avevano consentito di restare in sala d’attesa solo a patto che non ricominciasse a fare il pazzo. Aveva accettato di buon grado ma non era riuscito a rimanere fermo in un posto per un solo secondo.
Continuava a chiedere ai medici se ci fossero novità.
Leliana era andata da lui ed aveva cercato di calmarlo ma questa volta nemmeno lei era riuscita a dargli quel poco di tranquillità che gli serviva; si era rifiutato di farsi medicare, aveva mandato al diavolo coloro che lo avevano invitato ad andare a riposarsi o andare a mangiare qualcosa.
Tutto quello che aveva fatto e stava facendo ed avrebbe fatto sarebbe stato attendere.
Erano già passate due ore da quando era dentro.

 

*

Xelyade stava rincorrendo suo nipote Oren per i corridoi del castello.
Il piccolo aveva appena compiuto nove anni, aveva i capelli scuri ed arruffati di Fergus, suo padre, e gli occhi chiari e tondi della madre.
Si erano piaciuti da subito loro due.
“Corri zia!” le strillava, scansando la servitù che a quell’ora della mattina era indaffarata nei preparativi per il pranzo.
“Aspetta, sei troppo veloce!” Xelyade lo lasciava sempre vincere, si fingeva lenta, gli dava sempre il vantaggio necessario perché lui riuscisse a batterla.
Quella volta però c’era qualcosa di strano: le sembrava di essere veramente molto lenta. Nonostante si stesse sforzando come poteva, sentiva le gambe pesanti e stanche.
Sentiva di non farcela a raggiungere quella piccola sfuggente peste di suo nipote.
Una crescente sensazione di ansia le stringeva lo stomaco.
Le persone intorno a lei erano diventate macchie sfocate ed indistinte, le parole dalle loro bocche sembravano grugniti e ringhi incomprensibili, c’era addirittura chi sghignazzava.
Il corridoio luminoso si era fatto di colpo buio. Xelyade ebbe paura.
“Oren!” prese a chiamare. “Oren!” ma non ricevette nessuna risposta; la sua voce era alterata, risuonava come un eco sinistro, si sperdeva nell’aria come fosse risucchiato da un vortice.
Mentre la disperazione le chiudeva lo stomaco, ecco che lo vide: aveva appena attraversato la porta che conduceva alla sua stanza.
La ragazza prese a correre più velocemente ma nulla cambiava.
Un’agitazione senza pari s’impossessò di lei, un terrore che non conosceva paragone sembrava averle fermato il cuore: cercava di correre più veloce, di liberarsi dalle invisibili catene che la tiravano dietro.

Disperata si dimenava quando all’improvviso aveva sentito delle urla che le straziarono la mente.
“Oren!!!” urlò, raddoppiando i suoi sforzi.
“Zia aiutami!” gridava il bambino “Aiutami! Aiutami!”
“Sto arrivando! Resisti, sto arrivando!” e all’improvviso le invisibili catene la lasciarono libera e sorpresa dalla velocità magicamente riconquistata finì per sbattere con violenza contro la porta; per non cadere si tenne alla maniglia.
Le grida erano già cessate.
Xelyade spalancò la porta e le sembrò di sprofondare in un pozzo nero di follia.
La scena che le si presentava davanti la tramortì come se avesse ricevuto una martellata in pieno petto: cinque piccoli genlocks erano radunati attorno ad un piccolo corpo. La pietra del pavimento era sparita sotto la densa viscosità del sangue.
Non avrebbe mai immaginato che un bambino di soli nove anni ne potesse contenere così tanto.

I genlocks si voltarono a fissarla, uno ad uno, sghignazzando: uno aveva una piccola mano tra i denti sporchi ed aguzzi, un altro stava assaporando gli occhi tondi e chiari, conficcati come piccole prelibatezze su unghie lunghe e affilate; un altro ancora stava rosicando la carne da una gamba che era stata chiaramente spezzata, il quarto stava succhiando via dall’interno, come se stesse mangiando un prelibato piatto di spaghetti, l’intestino e l’ultimo, il più grosso, masticava con gusto il piccolo cuoricino che stringeva nel pugno.
Xelyade arretrò, la sua mente incapace di registrare un tale orrore.
Uscì dalla stanza di corsa ma non vide che oltre quella non c’era altro se non il vuoto.
Precipitò.
Le sue urla si persero in quel silenzio oscuro.

 

*


Alistair rientrò nella camera nella quale era ricoverata una quindicina di minuti dopo l’attacco di isteria che l’aveva colpita.
Dopo aver atteso due ore  e mezza, Wynne gli aveva concesso di entrare e di restarle accanto a patto che non la disturbasse in nessuna maniera. Lui aveva acconsentito e le si era letteralmente precipitato accanto.  Le aveva scostato con delicatezza una ciocca argentea dal viso tumefatto e le aveva posato un bacio gentile sulle labbra.
Si era poi seduto sulla piccola poltroncina e, dopo averle preso la mano ed averle sussurrato qualche parola di conforto, sopraffatto dalla stanchezza si era finalmente lasciato andare ad un sonno esausto.
All’inizio delle piccole scosse avevano disturbato un po’ il suo sonno ma non ci aveva fatto caso, dimentico di tutto, tanta era la stanchezza fisica e mentale che l’aveva preso.
A farlo mugugnare era stata la pressione sempre più decisa sulla sua mano: non si ricordava di averla lasciata stretta in una qualche morsa di sorta. Un’altra dannata trappola di Zevran?  Il bip dei macchinari aveva risvegliato la sua memoria e a poco a poco aveva cominciato a ricordare dove si trovava e perché.
Prima che fosse completamente sveglio però, delle terribili urla avevano lacerato come un pugnale il velo del sonno ed aveva riaperto gli occhi sulla ragazza che amava solo che al suo posto aveva trovato una furia folle, con la bocca spalancata in un grido talmente acuto che per un attimo aveva temuto seriamente che potesse lacerarla la gola e farle letteralmente esplodere i polmoni.

Si era alzato di scatto stringendo i denti contro il dolore alla mano, l’aveva chiamata nel panico più e più volte senza però che questo sortisse alcun effetto, aveva i muscoli talmente tesi che avrebbe potuto spezzarsi da un momento all’altro… e poi, finalmente, Morrigan e Wynne avevano fatto il loro ingresso trionfale.
Ci erano voluti sei infermieri perché riuscissero a tenerla ferma abbastanza perché Wynne potesse sedarla. Per sicurezza l’aveva fatta legare al letto e anche se ad Alistair questa cosa non era minimamente piaciuta aveva dovuto convenire che per il suo bene era necessario e così non aveva detto nulla.
In quel momento era di nuovo al capezzale della donna che amava, pesantemente sedata in quello che poteva augurarle fosse un sonno senza sogni.
Le teneva nuovamente la mano, non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo viso; se pensava che era stato così vicino a perderla… represse a stento un brivido.
“Ti amo.” le sussurrò, baciandole le dita graffiate, una ad una.

L’aveva sentita dall’auricolare, quando a mo’ di addio gli aveva detto che lo amava.
Era stato appena un sussurro eppure lui l’aveva sentita forte e chiaro.
Quelle parole avevano ancora un sapore amaro sulla sua lingua, avevano ancora il retrogusto di un addio che lui era stato a tanto così da non impedire.
Se fosse arrivato più tardi non avrebbe avuto nemmeno un corpo da piangere.
I genlocks non uccidevano le donne ma le rapivano affinché diventassero le compagne dei Prole Oscura più forti, così che potessero violentarle e ingravidarle. Come formiche brulicavano sotto  i loro piedi, si riproducevano, si moltiplicavano a vista d’occhio, lavoravano incessantemente per allargare il loro sudicio immondo regno, così che la loro formica regina - beh, in quel caso Re - fosse soddisfatto.

Alistair viveva solo per il giorno in cui quel bastardo di Archer Demian fosse venuto allo scoperto solo per ritrovarsi il corpo crivellato dai colpi della sua arma.
Respirò a fondo per calmare la propria rabbia, adesso la sua priorità era Xelyade.

 

*


Ci vollero due giorni perché Wynne decidesse che per la bella addormentata fosse tempo di tornare tra i vivi.
All’inizio Xelyade era un po’ confusa ma pian piano riuscì a rimettere insieme il puzzle degli ultimi avvenimenti, solo che non ricordava perché mai fosse legata al letto d’ospedale.
“È per il tuo bene.” le aveva risposto con gentilezza il medico. “E per quello di Alistair.” aveva aggiunto poi, pensierosa, osservando la mano fasciata dell’uomo che russava sonoramente sul letto accanto.
Xelyade non capì cosa intendeva ma si sentiva troppo stanca per pensarci così, quando Wynne andò via, si addormentò di nuovo.
Al suo secondo risveglio Alistair era accanto a lei che leggeva un libro di cui non c’era più la copertina.
Sembrava più pallido del solito, aveva delle ombre scure sotto gli occhi e la barba non era fatta da più o meno tre giorni, come se non avesse mai abbandonato il suo posto accanto a lei.
“Al?” gracchiò lei, la gola secca per il non parlare le bruciava, come se avesse passato la maggior parte del tempo ad urlare…
L’uomo distolse subito lo sguardo dal libro e posò i suoi occhi d’ambra su di lei; le sorrise, un enorme sorriso felice che strideva terribilmente con la stanchezza sul suo viso.
“Ehi, Xel.” salutò piano, alzandosi dalla sedia solo per passarle un bicchiere d’acqua tiepida. La aiutò pazientemente a bere visto che lei aveva ancora i polsi legati.
“Da quanto tempo sono qui?” chiese lei, debolmente. Aveva ricordi frammentari e non del tutto chiari.
“Mmh… quattro giorni, con oggi.”
“Quattro..?” bisbigliò incredula. Era ridotta così male? “Perché sono legata?”
Alistair si umettò le labbra con la lingua e distolse lo sguardo; lo faceva sempre quando c’era qualcosa che non voleva dirle o stava preparando una bugia da raccontarle.
“Alistair.” sibilò lei, indurendo lo sguardo appena perché capisse che non voleva nulla che non fosse la verità. L’altro sospirò.
“Wynne ha dovuto legarti.” iniziò così a piegare. “Hai… degli incubi - molto brutti a vedere come ti agiti - e lei  non voleva che ti facessi male.”
“O che ne facessi a te?” le era appena venuto in mente che la prima volta in cui aveva parlato con Wynne la donna le aveva detto che quello era necessario per il suo bene e quello di Alistair. Osservandolo bene si rese conto che aveva una mano fasciata e segni di graffi sulle braccia.
Alistair le sorrise, rassicurante.
“Va tutto bene amore, sono solo graffi.”
“Mi dispiace.”
“Non dispiacerti.” sentenziò lui deciso. “Adesso vado a chiamare Wynne, ok?”
Xelyade annuì piano guardandolo uscire dalla stanza in silenzio.


 

   
 
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