Le
cose sono all'uomo limite, indizio, strumento. Come indizio, esercitano
l'intelligenza; come limite, la sensività, vale a dire la facoltà passiva; come
strumento, l'attività, cioè il volere e l'amore.
Niccolò
Tommaseo, Aforismi della
scienza prima, 1837
Ultime volontà e testamento di un'amicizia.
“Avrei dovuto accorgermene.”
Molly trasalisce e nel sussulto una delle borse eco-compatibili della Tesco
le sfugge di mano, cadendo. Parte della spesa rotola fuori. Scatolame,
surgelati, latte e una confezione di Jammie Dodgers.
Lei sospira per il sollievo – nessun danno, nulla di rotto – prima
di rivolgere un’occhiata torva all’uomo che occupa abusivamente una delle
poltrone, il Belstaff stretto attorno al suo corpo longilineo come la coperta
di Linus e un gatto grigio acciambellato in grembo.
“Sherlock,” lei aggrotta le sopracciglia e inizia a raccogliere gli
acquisti.
Non gli domanda come abbia fatto ad entrare – non perché lui non sarebbe in
grado di scassinare la sua serratura (in passato, come una sfida, lui gliene ha
fornito una dimostrazione nel modo esibizionistico e plateale che gli è
proprio, solo per avvalorare una delle sue tesi), ma per il semplice,
inoppugnabile fatto che sono anni che Sherlock possiede un suo mazzo di chiavi,
così come lei ha una copia delle chiavi del 221B di Baker Street.
“Cosa intendevi dire?” Inginocchiata sul pavimento, Molly continua a
sistemare le compere nella borsa con movimenti placidi e un’espressione
serafica.
Un barattolo di piselli, uno di fagioli e così via, in un rapido e
meccanico susseguirsi di gesti del tutto uguali. Una parte di lei, quella
esausta che agogna da ore un bagno caldo e una cena frugale (togliersi di dosso
l’odore della morte, riempire un poco quel senso di vuoto che la sta lacerando
sempre più spesso ultimamente), avrebbe preferito esporre la domanda in modo
diverso, con parole meno gentili. Nonostante la stanchezza attanagliante, Molly
ingoia come un boccone amaro il rimbrotto che sfrigola sulla punta della
lingua, l’imprecazione che le è affiorata alle labbra. L’intempestività di
Sherlock è la proverbiale goccia che potrebbe far traboccare il vaso.
“Eri tu.” La voce di lui è pericolosamente bassa, un mormorio soffice nella
semioscurità dell’appartamento. Sherlock è soltanto un’ombra dai contorni
aguzzi, un fantasma in bianco e nero contro un fondale marino da incubo e Molly
si dà della stupida per non aver acceso le luci. Come se le avesse letto nel
pensiero, lo vede allungare la mano libera verso la lampada sul tavolino mentre
con l’altra continua a grattare distrattamente Toby dietro le orecchie con
quelle sue pallide dita da musicista.
“E’ proprio necessario che tu faccia così?” Contrariamente a ogni suo
precedente proposito, Molly lascia trapelare parte del fastidio che prova.
“Basta con gli enigmi. Sputa il rospo.” Lei raddrizza le spalle e gli lancia
uno sguardo severo. Non che sia davvero convinta che basti a convincerlo ad
arrivare al punto. Sherlock ama la teatralità, l’ostentazione, le digressioni,
anche se gli piacere credere di essere ermetico e oscuro come un segreto
perpetrato nel cuore di una notte di metà inverno. In un giorno diverso Molly
asseconderebbe come le è già capitato di fare in passato i bisogni di lui, ma
stasera è davvero troppo stanca per sostenere il peso di una conversazione
seria, figurarsi quello di una conversazione seria con Sherlock Holmes.
Lui non dice niente. Si tasta invece l’interno del cappotto e quando lo
vede estrarre da una delle tasche una busta da lettere già aperta, tenendola
tra l’indice e il medio in modo che lei possa osservarne il retro, Molly deve
ricorrere a ogni briciolo di volontà ed energia residua per mantenere il volto
accuratamente inespressivo, evitare di fare una smorfia o abbassare gli occhi
in una inequivocabile ammissione di colpevolezza.
“Una lettera.” Cerca di usare un tono di voce leggero, ma lo sguardo
penetrante – insolitamente duro - di lui le fa capire quanto ogni tentativo o
resistenza sia futile. Molly accarezza con i polpastrelli l’ennesimo barattolo,
senza affannarsi ad afferrarlo. Sospira e questa volta, a differenza del primo,
il suono non è esasperato, ma ha un ché di stremato, sconfitto. “Che cosa vuoi
che ti dica?” domanda, respingendo il desiderio di sfregarsi gli occhi per
disperdere l’angoscia e l’amarezza, l’impotenza e l’immancabile tristezza.
“La verità,” lui dice senza la minima esitazione.
“La verità,” lei ripete con una risata querula e si strofina con una nocca
il labbro inferiore per cancellarsi dalla bocca il suono indelicato e fuori
luogo di quella risata nervosa.
La massa dura e incandescente in fondo agli occhi di Sherlock si fa meno
cupa e torbida, come se cogliendo il suo turbamento lui avesse deciso di
alleggerire i toni.
“Credevate davvero che non me ne sarei accorto?” L’accusa è evidente, ma è
mascherata da una nota pizzicata di curiosità.
“Non te ne sei accorto fino ad oggi,” Molly gli fa notare. “Non te ne
faccio una colpa,” continua con un sorriso a cui lui reagisce accigliandosi.
“Hai avuto altro per la testa.” Non specifica cosa questo ‘altro’ sia, non
occorre: un lutto, l’ennesima riabilitazione e disintossicazione dalle droghe,
l’allontanamento e il riavvicinamento a John e infine tutto il clamoroso pasticcio
causato da Euros.
“Non voglio un come,” lui chiarisce, irascibile come ogni volta che sente
approssimarsi la soluzione di un caso, come ogni volta che affronta l’ora più
buia, quella che precede l’alba. “Voglio un perché.”
“Deducilo, Sherlock. Perché credi che l’abbiamo fatto? Conosci già la
risposta.”
“Posso aver compreso le ragioni di Mary,” lui concede, accompagnando ogni
frase con un gesto sussiegoso della mano. “L’amore per suo marito e per sua
figlia, ovviamente. Il desiderio di saperli al sicuro –”
“E per te,” Molly lo interrompe.
Di fronte al suo silenzio corrucciato, lei si umetta le labbra. I ricordi
si affollano dolorosamente dietro le sue palpebre socchiuse: flash di capelli
biondi e ondulati; occhi profondi e immensi come i tesori nascosti negli abissi
del mare in ogni racconto piratesco che si rispetti; risate, tante da
giustificare ogni lacrima. “E per te, Sherlock,” ripete con dolcezza. “L’amore
per te. Il desiderio di proteggere te.”
Per un istante, la rifrazione di un’emozione, tenue e fragile e latente, si
rivela nel profilo marmoreo di Sherlock, ma poi l’istante passa e ogni traccia
di vulnerabilità si dissolve, un sogno che svanisce nel risveglio della logica
e che congeda l’eco di un battito di cuore colto in fragrante.
“Le mie ragioni appartengono a me,” lei dichiara, incapace di distogliere
lo sguardo, anche se sa di avere appena assistito a qualcosa di intimo,
privato, raro. Non è la prima volta. “Sono mie soltanto.”
La bocca di Sherlock si arcua in un sorriso asimmetrico. “Sono un segreto?”
Molly non si lascia urtare dalla provocazione. Scrolla le spalle, serrando
le mani sopra un ginocchio. “Niente che valga davvero tutto questo affanno.”
“Questo lascia che sia io a giudicarlo.” Con la coda dell’occhio lo vede
prendere tra le braccia Toby e alzarsi con uno scatto felino, avvicinarsi e
sedersi di fronte a lei. Toby miagola, chiaramente contrariato dal cambio di
posizione e istintivamente lei si piega in avanti e lo accarezza, tracciando
col palmo della mano la sua colonna vertebrale. Da qualche parte sopra la sua
testa china, Sherlock Holmes la fissa e il peso di quello sguardo le si incunea
nella nuca come un’esca agganciata all’amo.
“Cosa stai nascondendo, Molly?”
E’ la stanchezza a prendere il sopravvento, a farla parlare. Lei scuote
piano la testa e le punte dei capelli le sfiorano la gola e i lati del collo.
(Deve ancora abituarsi al nuovo taglio. Un’azione impulsiva, nata da un
pensiero irragionevole. Voleva un cambiamento visibile, qualcosa che
testimoniasse quello intangibile avvenuto dentro di lei in seguito alla perdita
di Mary.) “Nulla che tu non sappia già o che abbia voglia sentire.”
Lo sente espirare profondamente, ma non pronuncia una parola. Cerca la sua
mano, invece, e quando la trova, non la intreccia alla sua, ma ve la poggia
sopra. Molly le fissa, affascinata: due mani così diverse, per grandezza e
misura e struttura ossea eppure, accostate così l’una all’altra, sembrano
acquisire una loro ragione d’essere.
“Perché non me ne hai parlato? Perché hai lasciato che lo scoprissi così?”
Molly assapora la nota d’incertezza e confusione nella sua voce. “Che cosa
avresti preferito?” Solleva la testa e incrocia il suo sguardo fermamente. “Tu
avevi fatto un voto. Io ho fatto una promessa.”
Sherlock la guarda a lungo prima di annuire, un unico, fluido cenno.
“Capisco. Immagino che ci fosse un terminus ante quem. Hai dovuto aspettarlo
prima di recapitare la consegna.”
Molly sorride senza calore, la nostalgia acuta e perforante come una fitta,
il senso di colpa comprimente.
“Mi dispiace.” Lui traccia col pollice gli spigoli del suo viso, sembra
sinceramente dispiaciuto. “Avrei dovuto accorgermene prima.” Parla con voce
arrochita dal dolore e Molly si lascia avvolgere da quel dolore non suo e allo
stesso tempo così simile al proprio. “Lei era il tuo John Watson.”
“No.” [Un ricordo. “So che ti sto chiedendo molto, Molly, ma non c’è
nessun altro a cui potrei chiederlo.” Il rimorso scolpito nell’espressione di
Mary quando, dopo aver registrato il video, le aveva porto la busta sigillata;
in gola l’eco di un pianto che non si era concessa. “So che ti sto chiedendo
l’impossibile e mi dispiace, mi dispiace così tanto –”]
“No,” un sussurro vero, sincero, “lei era la mia Mary.”
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N/A:
Okay, non
so cosa mia sia preso. So soltanto che dovevo scrivere e che quando ho finito
avrei voluto mettermi a piangere. Il rapporto tra Molly e Mary è qualcosa che
non avviene sullo schermo, che nel corso della serie viene semplicemente
lasciato intuire. Mary, sin dal principio, riconosce l’importanza di Molly
nella vita di Sherlock (è lei, dopotutto, ad andare da Molly dopo che Sherlock
è scappato dall’ospedale – o forse mi confondo? – e poi da Anderson per chiedere
loro dei rifugi segreti di Sherlock). C’è un motivo se ha scelto Molly come
madrina di Rosamund, non è qualcosa che chiederesti ad una conoscente, è di sua
figlia che si parla, della cosa più preziosa che ha dopo l’amore di John,
qualcosa che pur di proteggere è disposta ad abbandonare per fare in modo che il
pericolo segua le sue tracce e si allontani dalle due persone più importanti
della sua vita, dal mondo che ha lottato così tanto per costruire, la famiglia
che si è creata.
L’idea
che Mary sia stata ‘aiutata’ nella realizzazione del video, nel recapito, era
qualcosa che avevo già considerato e su cui avevo ponderato e costruito
congetture. Poi, rivedendo il finale del primo episodio, gli indizi si sono
incastrati alla perfezione. Le persiane, o meglio il primo piano delle
persiane, sono state la chiave di volta. Le persiane alle spalle di Mary nel
video, il primo piano delle persiane dell’appartamento di Molly quando Sherlock
va a trovarla e c’è quella scena straziante in cui lei gli consegna la lettera
di John (ho controllato e le persiane non sono presenti in casa Watson, inoltre
John dice chiaramente che Rosamund è a casa di amici, indi per cui: Molly, casa
di Molly, persiane di Molly. Bingo!). Anche se brillante e arguta e perspicace,
non credo che Mary avesse davvero elaborato un piano a lungo termine che
prevedeva l’invio di quel video a Sherlock nel caso di una sua prematura
dipartita. Insomma non ha molto più senso che lei abbia messo al corrente Molly,
abbia registrato il video in casa sua (senza la possibilità che qualcuno come
John o Sherlock la disturbasse?) e le abbia chiesto di spedirlo nell’eventualità
che le fosse successo qualcosa? L’idea è così tragicamente bella e disturbante
che mi si spezza il cuore, soprattutto perché avrei voluto davvero che ci
venisse mostrato qualcosa di più delle loro interazioni. Voi cosa ne pensate?
Li reputate le scempiaggini di una pazza sclerotica o siete con me sulla via di
mattoni gialli che porta ad Oz?
Un
bacione!