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Autore: Fannie Fiffi    19/02/2017    4 recensioni
[Bellarke; 4x03]
Non è cambiato niente: non contano le decisioni sbagliate che hanno preso, il passato disgraziato che condividono, gli amori e il tempo perduti, le parole, gli sguardi, i momenti, le incomprensioni, le menzogne, le nuove albe, le notti silenziose e insonni. Sono ancora loro.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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I felt empty space, never could explain
Like you were erased, never could replace

Now it's so clear with you right here

Like you were never gone

Picked up where we left off
Like you were never gone


You were always coming home
Yeah, you were always close

Hannah Ellis, You Were Never Gone
 
 






“Non decidiamo noi chi vive e chi muore. Non qui giù.”

Le parole che ha pronunciato tanto tempo fa – in un’altra vita, a pensarci ora – risuonano nella mente di Clarke come una litania fatale, mischiate insieme a quelle di sua madre che le dicono che i buoni non esistono e a quelle di Bellamy che le confessano di essere un mostro.

Non c’è pace né quiete nella mente della giovane leader, assediata e tormentata da un ingente numero di voci che le parlano, la rimproverano e le gridano sopra. Le voci di Finn, Lexa, Octavia, Raven, Jasper.

La voce di suo padre. Di Wells.

I fantasmi personali che infestano e depredano la sua mente, nutrendosi dei sensi di colpa laceranti che muoiono ogni notte solo per rinascere più vigorosi il mattino successivo, e le impediscono anche solo di considerare l’idea di scrivere il proprio nome colpevole su quel pezzo di carta.

Il buio che crepita dalle finestre dell’Arca è un rifugio accogliente e familiare, mentre le ombre che dietro di esso si celano sono le compagnie silenziose in cui sovente si è rintanata durante tutte le notti selvagge e solitarie che ha trascorso lontano da casa.

Clarke non si è mai sentita più Wanheda di adesso, nemmeno quando tutti non hanno fatto altro che chiamarla in quel modo.

Nemmeno quando i suoi capelli biondi l’hanno abbandonata e lo sporco, la terra e il fango sono divenuti  presenze ostinate sulla sua pelle e dentro il suo animo.

Come può prendere una tale decisione? Per merito? O per utilità, forse? Dovrebbe salvare gli anziani o i bambini?

Lei non è Dio. Non vuole esserlo. Non vuole essere la scure divina che cade sulle teste altrui come un giudice severo e intransigente, soprattutto non quando sa che la punizione più infausta e spietata spetta proprio a lei.  

Clarke Griffin è la persona più colpevole che cammini sul pianeta che sta tanto disperatamente cercando di salvare e, se è rimasto qualcuno lassù e la sta guardando, allora tutta questa inesorabile ironia deve avere un senso.

Lei è il Comandante della morte, una calamità naturale che fa terra bruciata dovunque metta piede, la portatrice di distruzione che ha raso al suolo qualsiasi cosa abbia mai tentato di costruire, e le lacrime che ora le corrono lungo il viso e lo corrodono fin dentro lo scheletro non porteranno mai indietro tutto quello che ha perso. Tutto quello che ha distrutto.

Conta ancora qualcosa dire che non ha mai voluto niente di tutto questo? Che il suo unico desiderio era soltanto quello di salvare la propria gente, e salvare Bellamy, e salvare se stessa?

Che non ha mai voluto questa sofferenza e che la morte, una sola parola, non avrebbe mai dovuto prendersi quello che si è presa?

Non solo suo padre, Charlotte, Wells, trecento degli abitanti dell’Arca, i Grounders, Finn, il Mount Weather, Lexa, Lincoln, ma anche l’energia, la speranza, l’attaccamento alla vita, la voglia di lottare, il sonno, la fame, il perdono… l’amore.

Non è così che sarebbero dovute andare le loro vite. Non è così che sarebbero dovuti crescere, né quei cento ragazzini né gli innocenti abitanti di semplici e umili villaggi.

Ma è successo. E nessuna delle stille salate che abbandonano i suoi occhi blu possono porvi rimedio, nonostante il suo petto le paia impercettibilmente più leggero dopo ognuna di queste.

All’improvviso, la giovane Griffin si volta verso Bellamy, addormentato a pochi metri da sé.

Le sembra passato un tempo immensamente lungo dall’ultima volta che lo ha visto riposare, anche se è sicura del fatto che il più piccolo rumore potrebbe destarlo da un momento all’altro, e il suo viso finalmente rilassato e soltanto per pochi istanti privo di preoccupazioni è una goccia di balsamo che le cade in mezzo alle costole e l’aiuta a respirare meglio.

Clarke nemmeno si accorge di star sorridendo – un piccolo arricciamento delle labbra che è più sincero e affettuoso di quanto lei potrebbe mai notare – quando si rende conto che è sempre stato così.

Non è cambiato niente: non contano le decisioni sbagliate che hanno preso, il passato disgraziato che condividono, gli amori e il tempo perduti, le parole, gli sguardi, i momenti, le incomprensioni, le menzogne, le nuove albe, le notti silenziose e insonni.

Sono ancora loro. Bellamy è ancora la direzione giusta agli occhi di Clarke; la sua bussola, la sua vera meta, il motivo per cui ogni centimetro di quella Terra l’ha allontanata solo per riportarla dove sarebbe sempre dovuta essere: a casa. Al suo fianco.

Bellamy è sempre stato il suo balsamo, il rimedio, la fonte di qualsiasi sollievo le fosse concesso, la causa di ogni sorriso imperterrito e temerario si sia affacciato sul suo volto stanco, e forse era necessaria l’imminente apocalisse per essere finalmente consapevole di quanto abbia bisogno di questo.

È estremamente semplice e mai come ora più chiaro: ha bisogno di lui.

Ha vissuto lontana da lui per mesi e, ora che sono di nuovo insieme, ha bisogno della sua costante, irremovibile e instancabile presenza accanto a sé, di sentire la sua voce, di percepire la sua concreta tangibilità al proprio fianco, dove è sempre stato e dove dovrà restare per qualsiasi sia il tempo che gli resta.

E forse ora lo può ammettere, adesso che il buio e la notte le offrono il modo di togliersi la maschera e nascondere la vera Clarke dietro di loro, ora che il suo sguardo attento non la sta scrutando: Clarke non vuole più separarsi da Bellamy. Mai più.

Una spinta dentro di sé l’ha fatta correre per gettarsi fra le sue braccia, perché sapeva che in esse avrebbe trovato la risposta; perché più volte di quanto avrebbe mai pensato le spalle di Bellamy hanno avuto la forma dei propri desideri anche se lei non l’ha mai accettato, anche se non ha mai saputo cosa fare al riguardo.

Ora, quella stessa spinta le sta gridando di non lasciarlo. Di non permettere un’altra volta alla paura di mettersi tra loro due.

Non può sopportare di stargli lontana nemmeno per un istante, perché lui possiede la chiave della sua umanità e Clarke non vuole più sfuggirgli.

Da qualche parte dentro di sé, sa anche che per lui è lo stesso.

 Lo sa per il modo in cui le parlano i suoi occhi e quello in cui le parla il suo corpo, orbitandole attorno come un satellite, sempre pronto a seguirla, sempre pronto a correre e proteggerla – come ha fatto su quel vecchio ponte durante l’incontro con Anya, durante il tentato avvelenamento di Lexa, quando Roan l’ha catturata e anche quando Echo le ha puntato un coltello alla gola.

La giovane leader sa che Bellamy Blake è tante cose, ma non un mostro.

Bellamy è cuore. Il cuore. Il cuore che pulsa furioso e costante appena sotto la superficie, sempre lì, una presenza che tiene in vita, che martella nei petti di chiunque abbia mai conosciuto, chiunque si sia mai minimamente affidato a lui, ma che sa anche impazzire di follia.

Bellamy è fuoco, una fiamma feroce capace di fagocitare la più piccola scintilla e strisciare fino a bruciare ogni singolo pezzo di terra secca davanti a sé, simile alle fiamme che lo hanno avvolto e circondato la prima volta che è stato veramente strappato via dalla sua gente. La prima delle tante, purtroppo.

Bellamy è miele, con il suo sguardo da ragazzo perso e il cuore infranto prima ancora di sentirlo battere davvero, di sentirsi vivo davvero; con la costellazione di lentiggini che gli corrono sul viso e su di esso creano un disegno di antichi labirinti di mistero, una maschera che si è cucito addosso con la stessa perizia con cui sua madre cuciva stracci per salvargli la vita.

Bellamy è dolore, simile alle lacrime pesanti come macigni e atroci come lame sulle guance che gli rigano gli spigoli del volto e si ficcano dentro le ferite e i tagli per fare più male.

Quel tipo di dolore che scava dentro i solchi delle ossa, nelle loro particelle più piccole, e che si radica come un’erbaccia impossibile da estirpare, che cresce e si espande e prospera come un grottesco bouquet di fiori marci.

 È per questi motivi che il suo nome deve essere su quella lista, perché Clarke vuole credere che siano ancora in grado di perdonarsi, e di perdonare se stessi, e di vivere, e non c’è nient’altro che Bellamy meriti di più.

 È per questi motivi che non crede di meritare la stessa cosa. Perché non ha ancora scritto il proprio nome e probabilmente non lo farà mai.

E allora piange. Clarke piange sul suo passato e sulla sua storia, versando lacrime inutili e rancide sulle proprie guance, e la scia insanguinata di errori che ha lasciato sul proprio cammino è troppo pesante per poterla ignorare così facilmente, per poter pensare anche solo per un attimo di meritare così tanto.

Passano pochi istanti prima che il maggiore dei Blake si svegli, quasi come se un particolare sensore l’abbia avvertito di qualcosa che non va, e le si avvicini senza esitazione.

Ci vuole ancora meno perché capisca cosa stia succedendo e cosa significhino quei nomi, ma ci vuole un attimo in più per realizzare quale manchi.

« Se io sono su quella lista, tu sei su quella lista. » Parla per la prima volta, e quelle parole acquistano immediatamente un altro significato, quello che stanno comunicando tanto intensamente e chiaramente i suoi occhi: Non posso vivere senza di te, dicono. Non farmi vivere senza di te.

« Scrivi il tuo nome. Scrivilo o lo farò io. »

Ma lei non può, non può scriverlo e non può farlo, e per l’ennesima volta il suo compagno ha coraggio e fede per tutti e due, perciò le toglie gentilmente la penna di mano e lo fa al posto suo.

Clarke Griffin.

Due parole scritte su un pezzo di carta che significano più di quanto entrambi siano disposti ad ammettere, e sono lì solo per merito suo.

« Hai ancora speranza? » E solo con lui potrebbe mostrarsi così dolorante e fragile, l’estremo apice della sua vulnerabilità, con il volto bagnato dalle lacrime e la voce che dopo tanto tempo sembra di nuovo quella di una bambina.

« Stiamo ancora respirando. »

Quando, senza che lei se lo aspetti, Bellamy le posa la mano fra i capelli, sulla spalla, Clarke chiude impercettibilmente gli occhi, subito consapevole dell’immensa stanchezza che gli pesa sulla testa, sul collo, lungo tutta la spina dorsale fino alla punta dei piedi.

Bellamy è anche mani.

Mani ancora pulite, lisce e arrabbiate che la salvano senza rendersene conto, cercando di sfuggire a una facciata di falsa spietatezza, che si allungano verso di lei e impediscono di farla cadere nella trappola di lame affilate che nessuno di loro si aspettava.

Mani sporche, stavolta, di un sangue innocente, di uno sporco che inizia col prendersi quanto di appena visibile per arrivare a portarsi via tutto, che cercano di offrire un conforto dalle ignobili torture cui la Terra li sottopone dal primo momento.

Bellamy è, per lei, la mano inaspettata che cade dall’alto e si posa sulla sua spalla quando Clarke crolla in ginocchio davanti a Lincoln, le sue dita che per la prima volta le sfiorano i capelli, si mischiano in essi e pungono per l’imprevedibilità del contatto.

Bellamy è la mano che si posa sopra la sua la prima volta che lei diviene morte, la temibile Wanheda, e tutto ciò che serve è il coraggio e la crudeltà delle stelle vetuste, quei luminosi soli che sopra di loro gli tolgono ogni cosa che amano, per tirare giù una leva e privare del respiro uomini, donne e bambini innocenti.

Bellamy è la prima mano gentile che sente sul suo viso dopo tre mesi di esilio e un rapimento che, ne è ben consapevole, finirà col darle esattamente ciò che si merita: la fine di ogni cosa.

Bellamy è, dunque,  anche speranza e velluto mentre le sposta i capelli sporchi dal viso e le sorride come se lei possa ancora essere una cosa bella, e cerca di salvarla come la Principessa che ha visto in lei dal primo giorno – ancora non lo sa, ma lui è davvero il suo Principe, e forse un giorno riusciranno a dirselo –.

Bellamy è mani furiose e bugiarde che la accarezzano con inganno e si strusciano insieme alle sue in una danza oscena, raccolte in una deliziosa menzogna appena prima di legare due manette arrugginite attorno ai suoi polsi stanchi.

Bellamy è mani doloranti e tormentate che cercano nella sua pelle un unguento che possa curarle, che si stringono fra i suoi capelli e si aggrappano alla sua schiena in un abbraccio che completa e racconta tutto ciò che i loro occhi hanno già detto, ogni cosa che le loro bocche timorose e tremolanti hanno trattenuto dentro di sé.

Bellamy è la mano che lei vuole stringere quando dentro di sé sa che quella potrebbe essere l’ultima volta che sente un contatto umano, una mano che ha perdonato e che l’ha perdonata, gentile e insieme implacabile mentre si serra intorno alla sua e le giura che la terrà al sicuro.

E, ora che l’imminenza della morte si è fatta asfissiante e insopportabile attorno a loro, Bellamy è la mano che mette a tacere le voci nella sua testa, che le dona l’agognato silenzio, una parvenza di pace che è sufficiente a zittire qualsiasi parola non sia la sua.

La mano che le dà speranza, desiderio e ardore, una scarica elettrica e una spinta vitale che le ricordano improvvisamente quante cose li stanno aspettando, quanti misteri e avventure hanno ancora da provare e da rincorrere, da toccare e desiderare.

Lui la proteggerà come l’ha sempre protetta, senza domande o dubbi o incertezze necessari, ma soltanto con ogni spinta del suo cuore, fino all’ultima delle sue energie, sinché ci sarà una goccia di sangue nel suo corpo, contro tutto e tutti.

Nonostante gli errori e i dolori, lui la proteggerà, e la sua mano grande e forte sarà il suo motore, la sicurezza che ha tanto cercato, la certezza che mai l’abbandonerà.

Lui ci sarà, e le loro mani continueranno a stringersi mentre l’apocalisse si dissolverà in una nuvola di fumo e un meraviglioso mondo mozzafiato si dipingerà di mille colori davanti i loro occhi appannati ed esausti.

Sapranno riscrivere la loro storia al di là del loro destino, delle fatue sfide che tenteranno di dividerli, della fine infame che cerca di sopprimerli, e ci sarà speranza nei loro cuori, una nuova occasione per accettare chi sono stati – chi sono stati costretti ad essere – ciò che hanno tolto e che gli è stato tolto.

Potranno avere tutto questo, se riusciranno a lottare per un altro giorno ancora, e poi un altro, trovando l’uno nell’altra la forza di non arrestarsi mai, di continuare a combattere.

 


 
  
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