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Autore: Matih Bobek    21/02/2017    0 recensioni
Flower è una ragazza di ventidue anni, appena laureata e in cerca di un lavoro. Conduce un'esistenza semplice nella sua città, circondata dalle amiche di sempre e ha passato la vita china sui libri di scuola per costruirsi un futuro.
La madre di una sua amica, la signora Ondrak, le offrirà di accudire il figlio maggiore, una creatura a metà tra un lupo ed un essere umano. Flower accetterà la mansione perché lautamente pagata.
Bryan, il ragazzo lupo vive in una magione abbandonata in un bosco e conduce una vita selvaggia. Flower dovrà vivere con lui sei giorni su sette, preparagli i pasti, istruirlo sulla vita degli esseri umani, educarlo e risvegliare la parte umana che è in lui. Ma la famiglia Ondrak nasconde segreti ben più grandi e ben più terrificanti.
La storia è una rivisitazione in chiave moderna e grottesca della nota fiaba "La bella e la bestia".
Genere: Avventura, Commedia, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Nonsense | Avvertimenti: Incompiuta
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C'era una volta, in un remoto regno una principessa. Così avrebbe inizio questa storia, se fosse una fiaba. Ma  questa non è una fiaba e io non sono una principessa. Molti non crederanno a quello che sto per raccontare, forse perché spesso è meglio pensare che le atrocità non possano accadere piuttosto che arrendersi alla crudele evidenza di un'esistenza terrifcante. La mia storia comincia poco più di un anno fa, nella periferia di una città in passato gloriosa, ma che a ora decadeva macinata dalle fauci della storia. Conducevo un'esistenza semplice, tranquilla, a tratti noiosa. Dopo una vita passata china sui libri, ero riuscita a laurearmi con il massimo dei voti in economia, in una prestigiosa università. Per la prima vera volta mi confrontavo col mondo del lavoro desiderosa di costurirmi la mia piccola indipendenza fuori dalle mura di casa. Erano tempi di crisi, lo sono ancora, per il nostro paese, per la mia città, per la mia famiglia. Mio padre era un semplice farmacista che nel segreto del suo studio trascorreva intere giornate intento a produrre un farmaco che prevenisse qualsiasi sorta di malattie virali, una specie di miracolosa panacea. Inutile dire che ogni suo sforzo risultava vano. Mia madre invece gestiva un ortofrutticolo a pochi kilometri da casa.  Da giovane però era nota in tutta la città, contesa come il pomo della discordia dai piani alti, forse per  quel suo fascino terreno o per l'audacia che trapelava dal suo sguardo, ma una volta presa in sposa da mio padre, si trasferì, e di lei non rimase che un vago ricordo. Nel profondo del mio cuore, le ho sempre rimproverato di essersi lasciata sfuggire l'occasione di poter dettare legge  da dietro le tende della farsa  che va in scena in segreto nella nostra città. Avrebbe potuto distendere le mani su una porzione di questa gigante torta, anche piccola, ma sarebbe stata sua. Sarebbe stata nostra. E io mi sarei potuta permettere una vita più facile, forse. O forse sono solo le lamentele di una giovane ragazza che ha dovuto guadagnarsi fino all'ultimo centesimo con il sudore della fronte, da sempre, da sola. Dopotutto però, i miei genitori non ci hanno mai fatto mancare nulla, nè a me nè a mia sorella. Quello che potevano darci, ce lo hanno dato: l'affetto, l'amore, la premura, un'infanzia felice, una clima famigliare che molti invidierebbero, tutte le piccole cose che, a ben pensare, sono le più grandi. Io e mia sorella siamo sempre state felici, in fondo. Certo, non mancavano discussioni in casa, delle volte papà lavorava da mattina presto fino a notte fonda sul suo farmaco miracoloso, si dimenticava persino della cena. Mamma lo chiamava, dalla cima delle scale che portavano fino alla piccola cantina di cui papà faceva il suo studio, e lui a malapena rispondeva. Litigavano poi, dopo cena. Mamma scendeva giù, restava lì per una buona mezz'ora. Ma in fondo non erano che piccole discussioni, piccole richieste di attenzione che venivano poi assecondate in altri momenti. Spesso capitava anche a me e a Lea, mia sorella, di discutere. Per sciocchezze magari. Lea era più piccola di me di tre anni, andava ancora a liceo, prendeva voti buoni pur non impegandosi molto. A casa giocava a fare la principessina, trascorrendo ore e ore sul divano ad ascoltare la musica dei suoi idoli o a piagnucolare su qualche romanzetto d'amore per adolescenti. Io invece a casa non c'ero mai. Uscivo la mattina presto per seguire i corsi in università, il pomeriggio rimanevo in biblioteca a studiare e rincasavo poi la sera, poco prima di cena. Nel fine settimana  mi rilassavo, cercavo una via di fuga dal caos dei miei impegni, a volte se mi capitava davo ripetizioni di matematica per raccimolare  un po' di soldi, uscivo con gli amici, quelli di sempre,  e tutte le sere, prendevo sonno tra le pagine dei miei romanzi preferiti, sognando quell'amore che non riuscivo a trovare. Sin dalle elementari, mi sono sentita  ripetere da amici, conoscenti, insegnanti e parenti questa frase: "Flower farà grandi cose nella vita". Di fronte a questa dichiarazione, mia madre si voltava a guardarmi, mi sorrideva e mi accarezzava la spalla, come a voler dimostarmi, con un gesto e non con le parole, che lei riponeva in me la stessa identica fiducia. Io mi abbandonavo ad una risata di circostanza e ad un sguardo ironico, tesi a mistificare la fiamma dell'ambizione che da sempre è bruciata silente in me come una colata di lava sotterranea. Lo so che farò grandi cose, l'ho sempre intimamente e intensamente pensato, fino all'anno scorso.  Era la fine dell'estate, cercavo lavoro ma invano. Avevo inviato il mio curriculum ad aziende, negozi di abbigliamento, avevo fatto richiesta per stage di ogni tipo, avevo sparso la voce per offrire ripetizioni o per accudire bambini. Non ero mai stata chiamata. Sentivo di aver sprecato la mia intera gioventù per nulla. Non avevo soldi, non avevo un lavoro, e tra le mani un titolo che valeva come una sorpresa nelle merendine.  Il mio talento era uno solo, il mio talento era lo studio, e ora per la prima volta nasceva in me l'eco della certezza che lo studio non fosse poi tutto. Non basta dedicare la giovinezza intera ad un obiettivo? Non basta aver ben chiaro in mente cosa si sa fare e cosa no? Io sapevo studiare, amavo studiare, conoscevo le lingue, mi ero laureata nei tempi col massimo dei voti. Non bastava? Evidentemente no.
 La mia estate, cominciata con i festeggiamenti per la laurea, giorno dopo giorno perdeva colore, si faceva via via più tetra, più scura, e la mia vita sembrava intrappolata in un vicolo cieco, senza alcuna possibilità d'uscita. Una sera, disperata, chiamai le mie amiche, Meg e Pam. Loro erano state le mie compagne, di follie, di avventure, di risate e di pianti, da una vita, per una vita. La nostra amicizia sbocciò timida nella primavera dei nostri anni, tra una versione di greco e un quattro in matematica, e fiorì poi lentamente, mantendono il vigore sui suoi petali per dieci lunghi anni. Volevo loro molto bene e loro ne volevano a me.
Ci demmo appuntamento sotto casa di Meg dove arrivai con i miei soliti dieci minuti di ritardo. Mi diedi una veloce sistemata al trucco nello specchietto della macchina, uscii veloce e citofonai a Meg.  Dal dispositivo metallico proruppe la voce squillante della mia amica " Eccomi, scendo".  Non passò nemmeno un minuto e vidi il cancello aprirsi e Meg fare la sua comparsa in scena. Meg era bellissima, emanava un fascino radioso, una sicurezza brillante. Camminò verso di  ad ampie falcate, come se scorresse su un tappeto di nuvole, e intanto la sua chioma d'oro oscillava nell'aria. Mi lanciò uno dei suoi fulgidi sorrisi, con il quale rischiarò il buio più nero dentro di me, e mi abbracciò. Da una macchina blu in lontananza uscì una ragazza dal viso candido che sembrava essersi accorta solo allora della nostra presenza: era Pam, con i suoi boccoli color miele e l'alone pallido di un sorriso poco sicuro. Era la timidezza a conferirle quella patina di mistero, a renderla interessante ma anche poco accessibile ad occhi esterni. Io ho sempre avvertito che nascondesse qualcosa, che lo nascondesse a noi, ma forse anche a se stessa. Pam, a passi lenti e con fare incerto, si avvicinò a noi, quasi inciampò sul marciapiede e ci salutò con mezza voce:
" Ciao ragazze, non mi ero accorta che foste già qui!"
" Tranquilla, sono appena arrivata, anzi spero di non averti fatto attendere molto!"
le dissi io, cordiale.  Ma Pam si guardava intorno, non prestava attenzione a cose le dicevo. 
" Prima c'era un gran bel ragazzo, portava a spasso il cane", disse qualche secondo dopo
" E' il mio vicino" replicò con il solito entusiasmo Meg " se vuoi, te lo faccio conoscere"
" No, no, sto cercando un ragazzo... diverso." Non capii cosa intendessi dire con quell'aggettivo, ma non avevo voglia di indagare. Pam era sempre stata particolare in fatto di ragazzi. Era il suo pallino, pensava solo a quello, notte e giorno. Vedeva un bel ragazzo per strada, lo seguiva. Conosceva un giovane interessante ad una festa, era l'amore della sua vita. Ogni volta però non concludeva nulla, vuoi perchè lei non piaceva davvero o perché loro "non erano al suo livello" e finiva col lamentarsi che sarebbe rimasta single a vita. Io tutte le volte le ripetevo che prima o poi sarebbe arrivato quello giusto, un po' per convincere lei e un po' per convincere me stessa. Poi continuavo che per ora bisognava dare priorità allo studio, alla carriera, piuttosto che focalizzarsi sull'amore, perchè cercarlo è uno sforzo vano. Lei però concludeva dicendo che rimanere da soli è brutto, e che l'orologio biologico ticchetta senza sosta. Meg invece non si preoccupava di nulla. La sua radiosa sicurezza faceva sì che la vita le si costruisse davanti quasi senza sforzo. Aveva avuto delle storie, delle storie importanti. Erano state belle, belle davvero, ed era stata felice, più di quanto avesse mai pensato di poter essere,  ma poi anche la felicità era giunta al termine. Soffrì, come soffronto tutti, ma senza mai veramente perdersi d'animo. Una volta, due, tre, quattro volte. Sempre in piedi. Di nuovo, più forte di prima. Io e Pam la ammiravamo. In me forse si celava qualcosa di più ardente della semplice ammirazione, qualcosa a cui non sapevo dare un nome preciso. Diversamente in Pam serpeggiava un sentimento meno pulito, meno cristallino, che mai riuscii a interpretare con chiarezza e che Meg non sembrava prendere in considerazione.
Decidemmo di andare a bere qualcosa. Entrammo in un pub, poco distante da casa di Meg, ordinammo una birra, un cocktail e  una tisana sgonfiante allo zenzero, e iniziammo a parlare:
" Sono depressa" dissi io col morale a terra, tirando un lungo sospiro, come se ad ammetterlo avessi sollevato dal mio petto un grande macigno che mi teneva il fiato mozzato. 
" Ma è per il lavoro?" Pam sembrava non capire la gravità della situazione.
" Non riesco a trovarlo, ho mandato curriculum ovunque, ovunque. Sono ferma da mesi ormai." 
" Puoi dedicarti a te stessa" disse Pam con tono piatto, come se il problema non la toccasse poi così tanto. 
" Mi servono soldi Pam, lo sai." 
" Hai pensato ad un viaggio-lavoro, o una vacanza-studio?" Propose Meg, con il solito ottimismo che la contraddistingueva sempre.
Ci avevo pensato, eccome. Lo avevo già fatto anni prima. Esperienza utilissima, indimenticabile, ma che ora non era la soluzione. Poi per partire avevo bisogno di soldi che non avevo. Il problema era sempre lo stesso. Mi sfogai, parlai, parlai molto, parlai fino a piangere, mentre le mie amiche mi consolavano e facevano scorrere la mano sulla mia schiena in segno di comprensione. Anche Pam, che inizialmente non sembrava capire quanto fosse impellente il bisogno di trovare un'occupazione, mi ascoltò con dedizione, mi diede consigli, anche saggi, sentiti. Addirittura, smise di guardarsi intorno alla ricerca dell'anima gemella. Sentivo che mi volevano stare vicino, come sempre, come tutte le volte che ero in difficoltà. Meg con la sua prorompente positività e Pam con la pacatezza che faceva parte di lei. Rimasi piacevolmente colpita dall'interesse di Pam, me lo ricordo bene, e solo ora, col senno di poi ne so comprendere le reali intenzioni. Qualche ora dopo tornammo sotto casa di Meg, la salutammo, aspettamo di vederla rientrare in casa. 
Notai che Pam continuava a guardarmi con insistenza, non mi staccava gli occhi da dosso, avvertii come se avesse bisogno di parlarmi, allora mi voltai verso di lei e le chiesi:
" Che c'è Pam? Mi devi dire qualcosa?"
Sulle prime Pam distolse lo sguardo, seguì in basso le ombre che la luna piena alta in cielo proiettava delle siepi di alloro. Non la incalzai, sapevo che aveva bisogno del suo tempo
" In effetti sì..."
" Dimmi pure" sorrisi, cercando di essere il più accomodante possibile.
" Non volevo dirlo di fronte a Meg perché..."
La pausa durò secondi interi. Perché cosa?
" Non volevo sapesse..."
Sapesse cosa? Rimasi in silenzio col fiato sospeso per tutto quel tempo. Sembrò un'eternità, ma furono solo pochi minuti. La curiosità mista alla certezza di una rivelazione scottante mi stava martellando le meningi e diventò impazienza nei battiti serrata del mio cuore.
" Sai, non ne ho mai parlato con nessuno ma..."
Altra pausa, lunga, infinita.
" Io ho un fratello."
Un fratello? Ma come? Ma cosa c'entra? Perchè me lo dice solo adesso? Nel cervello iniziarono a ronzarmi milioni di domande che solo il silenzio poteva esprimere. La lasciai parlare senza mai interromperla.
" Sì, ho un fratello. Mia madre non vuol si sappia in giro." Fece un'altra pausa, stavolta breve, come per prendere fiato. 
" E' più grande di me di qualche anno. Si chiama Brayan ed è molto particolare. Io non ho mai avuto un buon rapporto con lui, del resto, chi mai potrebbe avercelo..."
Non capii cosa intendesse. Parlava con l'incertezza nella gola, non mi guardava ngli occhi, spostava di continuo lo sguardo dal mio viso al lampione poco oltre la mia testa, fino alle ombre sul marciapiedi e di tanto in tanto si girava  ad osservare la strada col sospetto dipinto sul volto. 
" Bryan non abita con noi, non sarebbe possibile... vive da solo nella famosa mansione Regina che tutti credono abbandonata, quella su cui circolano tutte quelle strane voci..."
Ne avevo sentito parlare ma senza prestare mai attenzione alle storie che si tramandavano. Cosa me ne importava delle leggende dopotutto? Sapevo che erano solo storielle inventate per spaventare i bimbi.
" Ma perchè mi stai dicendo questo?" Trovai il coraggio di chiederle.
Fece un pausa. Sollevò il capo e per la prima volta guardò dritto nei miei occhi.
" Perchè forse ho trovato il lavoro adatto a te".
   
 
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