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Autore: GReina    23/02/2017    4 recensioni
Percy decise che quello era un buon giorno per morire: il sole era alto; niente nuvole all'orizzonte e Annabeth accanto a lui era la ciliegina sulla torta. Quella mattina la prima cosa che fece fu scrivere il testamento, Annabeth era entrata nella cabina tre domandandosi come mai il suo ragazzo non fosse a colazione, goloso com'era, e lo trovò seduto alla scrivania che forse veniva usata per la prima volta
Genere: Angst, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Paul Blofis, Percy Jackson, Sally Jackson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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Waaah lo so! In ritardo di una settimana. Perdonate, ma sono stata malissimo in questi giorni T.T
(senza contare che devo preparare ancora 600 pagine in 13 giorni c:)

Mi farò perdonare!!!

CAPITOLO 4

Ok, neanche Annabeth era male. Quando tornarono a casa, il figlio di Poseidone si sentiva più leggero. Quasi dimenticò che Paul li aveva quasi beccati a letto, disordinati, sudati e con il fiatone (senza contare che Percy doveva essere rosso come non mai). Dimenticò anche che il patrigno si era giurato di dover parlare con il semidio del suo recente comportamento e quasi si stupì essere svegliato dal rumore dei suoi passi nel bel mezzo della notte.
“Dormivi?” chiese quando Percy si sollevò sui gomiti
“Sì, ma a quanto pare non così profondamente”
“mi dispiace averti svegliato” accese la luce del bagno tenendo la porta aperta per avere un minimo di visibilità
“non preoccuparti” intanto l'uomo si avviava alla cucina. Prese due birre dal frigo, come l'altra volta e – come l'altra volta – si sedette sul letto accanto al figliastro. Percy stava per afferrare la bottiglia che l'altro gli porgeva, prima che questo ritraesse la mano
“capisci la differenza tra bere da solo e bere con me, giusto? Con questa birra non ti sto dicendo che devi bere ogni volta che rimani sveglio la notte” lo sguardo era duro, autoritario, eppure faceva sentire bene il ragazzo. Il figlio di Poseidone indugiò ancora un momento, poi allungò la mano e afferrò la bottiglia
“sì, hai la mia parola. Se dovessi ritrovarmi nello stesso stato di ieri...” stava per promettere che non avrebbe bevuto, ma ci ripensò “bhe, ti chiamerò per una bevuta notturna” rise, con la certezza di essere ribeccato dall'uomo che invece gli diede una pacca sulla spalla
“Bravo.” gli disse “Se ti dovessi sentire giù di morale, prima di prendere la bottiglia chiama me. La prenderò io per te” abbozzò un sorriso. “Hai intenzione di raccontarmi cosa è successo in questi mesi? O devo tirarti le parole fuori di bocca?” chiese dopo un lungo silenzio. Percy si passò la mano che non reggeva la birra tra i capelli, sospirando
“È difficile parlarne” disse poi, prendendo un sorso dalla bottiglia
“è per questo che devi farlo” seguì qualche secondo di silenzio
“è come hai detto tu, l'altro giorno, prima che mamma rientrasse in casa” si decise a parlare il semidio “quando Annabeth stava per cadere in quel baratro, e io l'ho afferrata… Jace e Frank non sono riusciti a fare altrettanto.” prese un altro sorso, non alzando lo sguardo
“dove finiva quel baratro?”
“Tartaro” rispose secco. Sapeva che Paul aveva iniziato a studiare un po' di miti da quando aveva saputo del padre di Percy. Il ragazzo si girò a fissare il patrigno e gli sembrò quasi di vedere gli ingranaggi del cervello lavorare
“Tartaro è… la personificazione del male, non è così?” alzò lo sguardo a sua volta, non capendo come il figliastro potesse essere caduto addosso ad una divinità.
“Sì, infatti”
“ma allora come-”
“Tartaro è un dio primordiale” lo anticipò il ragazzo “è come Gea: lei è la terra, mentre Tartaro, si potrebbe dire l'inferno di tutti i mostri. È dove finiscono una volta che vengono polverizzati. Non possono essere uccisi, quindi tornarono nel tartaro dove aspettano di rigenerarsi” Paul scosse la testa, esasperato. Probabilmente aveva rinunciato a capirci qualcosa
“Come avete fatto a sopravvivere alla caduta?” chiese allora
“Il Cogito” ripose l'altro
“il fiume della pena?” su questo era preparato. Il semidio annuì
“L'acqua aveva l'effetto opposto su di me. Invece di darmi energie sembrava risucchiarmele. Se non fosse stata per Annabeth sarei morto annegato”
“il colmo per un figlio di Poseidone” Percy sorrise ricordando quante volte, quell'estate, era stato vicino al morire affogato
“Siamo arrivati sulla riva per puro miracolo” continuò “l'aria era talmente pesante che non si riusciva a respirare” ricordò e continuò a farlo raccontando tutto al patrigno, non tralasciando nessun particolare, aprendosi su quell'argomento come non aveva ancora fatto con nessuno se non con Annabeth, nemmeno con Jason. Raccontò delle empuse; del regno di Nyx; della nebbia della morte; della dea Akhlys e di come Annabeth l'avesse bloccato dall'ucciderla a sangue freddo, di come fosse stato vicino dallo scendere allo stesso livello di quei mostri; poi delle arai e le loro maledizioni, di come Annabeth avesse vagato cieca verso un burrone e di quanto si fosse sentito debole, inutile e impotente ogni volta che provava ad afferrarla e lei come un ologramma appariva più lontano. Quello, capì, era stato il momento più orribile della sua vita. Aveva sorretto il peso del cielo e perso cari compagni, ma sentirsi inerme e dover assistere alla camminata verso la morte della persona che più amava al mondo le superava tutte. Si era ritrovato a supplicare l’intervento di Bob: l’amico che si era sentito tradito una volta ricordato il suo primo incontro con Percy. Arrivò a parlare di lui, di Damaseno, e poi di Tartaro in persona e dell'ascensore che con il suo maledettissimo pulsante decretò la morte del titano e del gigante.
Non lottò contro le lacrime quando il ricordo di tutti i suoi fallimenti le portò. Permise loro di scorrere sulle guance lasciando che Paul gliele asciugasse con le sue pacche sulle spalle e gli abbracci. Il semidio adorò quando l'uomo lo strinse a se senza dire una parola, conscio che quello che serviva al ragazzo era solo una spalla su cui sfogarsi e non parole di consolazione. Premette la faccia contro la maglietta del padre e rimasero così per quelle che sembrarono delle ore.

Annabeth aveva sentito Percy piangere, quella notte. Lo conosceva da quando avevano entrambi undici anni e – nonostante la tremenda vita che erano costretti ad affrontare ogni giorno – il suo ragazzo non aveva mai versato una lacrima. Si erano immersi nel Cogito, letteralmente il fiume del tormento, e neppure quello l’aveva piegato a tal punto. Sapeva che se c’era una cosa che potesse avere quell’effetto sul ragazzo quello era il tartaro. D’altronde, come biasimarlo? Ricordava come fosse ieri il giorno in cui – scoperta tutta la faccenda di suo cugino Magnus – avesse provato a raccontargli gli eventi dell’Italia con voce ferma. Non era neppure arrivata alla parte in cui lei e Percy erano caduti nel baratro, prima di scoppiare in lacrime.
Provò l’incontrollabile impulso di spalancare la porta e fiondarsi in salotto ad abbracciare il corvino, ma qualcosa la frenava: vedeva piangere Percy per la prima volta e adesso si rendeva conto che probabilmente in diverse situazioni, in passato, il semidio era stato vicino a farlo, eppure si era sempre trattenuto. Ora capiva che lo faceva per lei e per tutti i mezzo-sangue: non voleva apparire debole e per questo si teneva tutto dentro. Si sentì d’un tratto triste e inutile, avrebbe tanto voluto che il ragazzo che amava si sentisse libero di piangere sulla sua spalla, ma era troppo occupato ad essere la sua roccia per far sì che lei lo fosse per lui.
Aprì piano la porta che iniziò a cigolare tremendamente forte comparata al silenzio della notte rotto solo dai singhiozzi del figlio di Poseidone. Cercò Percy con lo sguardo; la luce del bagno era accesa e la sua porta socchiusa così che un tenue bagliore inondasse il piccolo locale. Percy e Paul erano seduti in bilico sul letto, il primo con la testa sulla spalla dell’altro che gli accarezzava la schiena con pacche paterne. La bionda si ritrasse, sperando che nessuno dei due l’avesse sentita. Ogni fibra del suo corpo le urlava di raggiungerli; di baciare Percy; di dirgli che andava tutto bene; di fargli sentire che era con lui, che erano insieme. Ma avrebbe davvero fatto bene al ragazzo? Si portò una mano in faccia e la trovò bagnata. Probabilmente no, avrebbe fatto più bene a lei che a lui. Fece un passo indietro e chiuse la porta. Si infilò sotto le lenzuola e provò a distrarsi: pensò al sedicesimo compleanno di Percy (al bacio, e non alla battaglia), a quando aveva ritrovato il suo ragazzo al Campo Giove e poi quando lui aveva ritrovato lei a Roma, ma ad ogni immagine si sovrapponevano i singhiozzi che seppur smozzati dalla porta chiusa e dalla spalla di Paul riecheggiavano come amplificati cento volte nella sua testa. Si mise le mani alle orecchie sperando di non scoppiare, avrebbe voluto urlare e far smettere quel rumore che sembrava ricordarle arrogantemente che per lui non poteva fare niente, mentre lui per lei faceva tutto.
Quella sembrò essere la notte più lunga della vita della semidea, chiusa in stanza con le mani legate era peggio di una notte intera a combattere contro Crono con il quale sapeva come comportarsi e – quando i primi uccelli si fecero sentire fuori dalla finestra e i primi raggi di sole si infiltrarono tra le persiane – fu ben felice di uscire da quella gabbia di ricordi.
I due uomini della casa erano in cucina cercando di impressionare le altre due con una colazione con i fiocchi. Quando la videro uscire dalla camera la salutarono silenziosamente per non svegliare Sally. Sui loro visi non c’era niente che suggerisse la nottata prima e Annabeth non avrebbe sospettato nulla se non si fosse svegliata e non avesse visto con i propri occhi che Percy si era sfogato con Paul. Si chiese se l’uomo fosse andato a dormire dopo aver parlato con il figliastro o se, piuttosto, fossero stati entrambi svegli tutta la notte.
Era ancora presto e, non avendo altro da fare, cercò di aiutare ai fornelli. Paul dava istruzioni ai semidei che tra sbattere le uova, montare la panna e misurare i giusti millilitri di latte stavano perdendo la testa. L’uomo stentava a credere che i due adolescenti capaci di maneggiare qualsiasi arma mortale entrassero nel panico davanti a un paio di pentole, ma – con la consueta calma che dovrebbe avere ogni professore del liceo – riuscì a far combinare qualcosa ai mezzo-sangue. Il fracasso delle pentole e le imprecazioni di Percy non bastarono a disturbare il sonno di Sally, ma quando il suo ragazzo si ritrovò pieno di farina dalla testa ai piedi, la bionda non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Paul era dietro di lei e scuoteva il capo nascondendo il sorriso dietro il face palm; Percy, di fronte a lei, aveva messo su il broncio per come lo stavano deridendo e, prima che la figlia di Atena se ne accorgesse, le lanciò addosso tutto il contenuto della bustina di colorante blu in polvere. Quando interruppe le risa per lanciare al suo ragazzo uno sguardo di odio, quello raggelò. Solo le risate di Paul che crescevano convinsero Percy di non stare per morire sotto gli occhi grigio-tempesta e in breve tempo tutti vennero contagiati.

Quello stesso pomeriggio, aveva deciso la signora Jackson durante la colazione, la semidea e la donna avrebbero chiamato Piper per avventurarsi alla ricerca dell’abito da sposa.
L’amica arrivò tempestiva e in men che non si dica erano nel centro di New York a bere lo champagne e mangiare gli assaggi di torta nuziale che il negozio offriva.
Annabeth odiava andare per negozi: stare ore ai camerini solo per sgomentarsi guardando forme e prezzo. Era solita usare solo jeans (sempre lo stesso paio) e magliette, e finiva per andare nei centri commerciali solo quando le alternative erano due: o girava come una stracciona con abiti scoloriti e strappati o usciva in pigiama. Era tremendamente felice di accompagnare Sally in quella caccia sfrenata, si era proposta lei, ed era ancora più felice che con loro ci fosse la sua migliore amica, ma fu anche tremendamente lieta che la futura sposa scelse di uscire alle cinque del pomeriggio e non prima.
Erano al terzo vestito, ma nessuno di questi aveva soddisfatto le ragazze, men che meno la donna. La commessa – con quell’aria alla Drew Tanaka che tanto piaceva ad Annabeth – continuava a portare gli abiti più insignificanti e “non degni della vetrina”. Quando anche solo tentarono di chiedere riguardo un certo vestito messo in mostra al centro del negozio, quella rise di gusto dicendo che le tasche di tutte e tre messe insieme non erano abbastanza larghe per permetterselo. Eh sì, Annabeth amava le persone come lei. Sally sembrava aver perso un po’ dell’entusiasmo con cui era uscita e la bionda dovette frenare l’amica dall’usare la lingua ammaliatrice sulla commessa (non che non fosse curiosa di cosa le avrebbe fatto fare). Visti gli occhi furenti delle due semidee, la donna provò a celare l’amarezza e – senza darsi per vinta – prese il prossimo vestito. Questa volta aveva la parte davanti corta, poco più giù delle ginocchia, e quella dietro che arrivava alla caviglie, mentre le maniche erano a palloncino. Sally uscì dal camerino solo per far fare due risate alle ragazze, ma – ovviamente – fu bocciato al primo passo. Passarono quelle che ad Annabeth parvero settimane prima di essere più o meno soddisfatte e uscire finalmente da quell’inferno.
Uscendo di casa, quel pomeriggio, avevano lasciato Percy e Paul alla playstation con la loro parola che quello stesso giorno anche loro sarebbero andati a cercare il vestito dello sposo. Quando rincasarono, però, li trovarono sul letto tornato divano con due joystick in mano. Quanto invidiava gli abiti maschili e la loro semplicità. La figlia di Atena avrebbe scommesso che i due fossero entrati in negozio, avessero acchiappato il primo smoking e fossero schizzati via per tornare alla playstation.
Chiusa la porta, dietro di loro, gli uomini parvero accorgersi a stento della loro presenza e – alla terza volta – si degnarono di ricambiare il saluto con qualche cenno distratto mentre si contorcevano inspiegabilmente davanti alla console, come se le azioni dei loro avatar non dipendessero solo dai tasti quanto più dal movimento del joystick.
Nessuna delle due parti rivelò anche un solo dettaglio del vestito dell’altra e – tra la curiosità e il divertimento – finirono la cena che, si scoprì, avevano già preparato gli uomini.

Erano le nove di sera e gli adulti si rintanarono in camera. A Percy sembrò un po’ presto per coricarsi, ma non volle indugiare oltre sul pensiero di Paul e sua madre a letto a non dormire.
I giorni passati con i genitori erano i più tranquilli e spensierati che i due semidei potessero sperare, ma la madre non si era certo dimenticata della punizione data al figlio, quindi il semidio fu costretto a fare i piatti. Annabeth aspettò che Sally si chiudesse la porta alle spalle per proporre il suo aiuto in cucina, e Percy sospettò che non volesse che la donna iniziasse a fare complimenti insistendo che non era necessario. Senza neanche aspettare una risposta da parte del suo ragazzo, la bionda afferrò una pezza e iniziò ad asciugare le stoviglie che Percy aveva già insaponato e sciacquato.
“Stai bene?” gli chiese d’un tratto. Il figlio di Poseidone si aspettava quella domanda, e annuì
“Ieri sera mi hai sentito?” come lui, limitò la risposta a un cenno di capo “Mi ha fatto bene parlarne con Paul, immagino. Tu come stai?” Percy conosceva la risposta: nessuno si riprende completamente da un’esperienza così, ma lei era forte, era più forte di lui, doveva solo capirlo.
“Non sempre riesco a dormire” rispose quella “ogni volta che mi torna in mente, io-” le si incrinò la voce
“Lo so.” la interruppe. Non c’era bisogno che si sforzasse di spiegargli cosa le accadeva
“Però…” continuò “c’è solo questo. Bob, Damaseno, le arai e quella orrenda sensazione. E poi quando ti hanno lasciato morente e io non potevo fare nulla. Tutto di quel posto è stato orribile. Ma c’è solo questo.”
“Non capisco che intendi.” chiuse l’acqua del rubinetto e si tolse i guanti da cucina. Lei posò la pezza e si sedette al tavolo lì accanto spingendo il ragazzo a fare lo stesso.
“Per te non è lo stesso.” affermò “Abbiamo rispedito Atlante a reggere il peso del mondo, eppure sembra che sei tu a portarlo sulle spalle” fece una pausa mentre gli occhi le diventavano lucidi “e io non ho idea di come aiutarti” non riuscì più a trattenere le lacrime “perché non lasci che ti aiuti, Percy. Ti prego io- non so che cosa fare. La cosa che desidero di più è poterti aiutare, ma non posso farlo se non me lo permetti!” i singhiozzi che crescevano “Per favore io- io sono la tua ragazza” abbozzò un sorriso “io ti amo, Testa d’Alghe, non sapere come aiutarti mi distrugge, è la cosa più brutta che ci sia!” Percy si sentì uno straccio. Come aveva fatto a non vederlo? Come aveva fatto a non rendersi conto che quello che stava facendo passare ad Annabeth era esattamente quello che le arai avevano fatto passare a lui? Vedere la figlia di Atena avanzare verso il baratro e non poterla fermare, vederla in quello stato e sapere di non poter fare nulla, l’aveva segnato talmente tanto da non poterlo descrivere a parole. Quella consapevolezza di essere inerme e inutile davanti a fatti che inevitabilmente sarebbero andati avanti; quella voglia maniacale di voler urlare al tempo di fermarsi e concedergli anche un solo secondo per capire cosa fare; chi supplicare perché potesse prendere il posto della persona senza la quale la propria non sarebbe vita, non l’avrebbe augurata neanche al peggiore di tutti i suoi nemici.
Tanta fu la foga nel lanciarsi su di lei che la sedia cadde alle sue spalle producendo un rumore che si dilatò in tutto l’appartamento interrompendo qualsiasi altro suono. Ora neanche il viso di Percy era totalmente asciutto eppure – tornando a guardarla negli occhi – anche Annabeth poté capire che stava bene, e questa volta, nonostante il suo concetto di serenità non fosse lo stesso dai tempi in cui non aveva mai visto una guerra, la bionda riuscì a crederci. Le asciugò le lacrime e quel discorso sfumò come tutta la tristezza e il peso che assillava i giovani da troppo tempo, con il tacito accordo di dirsi tutto l’un l’altra da adesso e per sempre. Erano forti: non avrebbero mai dimenticato il tartaro, ormai quei ricordi erano parte di loro, ma l’avrebbero superato insieme, ora più che mai. Sdraiati sul letto della camera singola Percy se lo promise: un giorno, cascasse il mondo, avrebbe sposato quella ragazza.

 

Note autrice:
Ok, aiuto. Ho pubblicato tutto quello che avevo scritto. Quindi arrivano le settimane di ansia e terrore spinte dalla consapevolezza di dover scrivere in tempo. Ma niente panico, ho abbastanza idee. 

Rileggendo la fanfic per pubblicarla mi rendo conto anche io di cose di cui non mi ero accorta mentre scrivevo. In questo caso la differenza di comportamento che Percy rivela di persona in persona: non vuole dire nulla del tartaro alla madre per non farla preoccupare; con Annabeth si confida apertamente permettendo l'uno all'altra di consolarsi a vicenda; con Jason stenta a farlo, ma l'amico ha un effetto forte su di lui e alla fine non può che cedere. Fin'ora però non si era mai lasciato andare completamente, è deciso a mostrarsi forte, ma capisce che con Paul non ce n'è bisogno. Per lo stesso discorso delle note del capitolo successivo, qui con Annabeth c'è un passo in più: è l'amore della sua vita e direi che ci sta che si senta una pezza una volta resosi conto di quello che le sta facendo passare.

Per quanto riguarda Annabeth che racconta tutto a Magnus, ok, è un minispoiler di Magnus Chase - il martello di Thor... ma, beh, è proprio una frase: Magnus che si ricorda come sua cugina abbia pianto raccontandogli degli eventi di Roma. Spero non vi abbia fatto arrabbiare ahahah in tal caso pardon!

Ci vediamo, se tutto va bene, tra due settimane!

A presto!!
xxx

GReina

 

   
 
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