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Autore: Kuri    05/06/2009    4 recensioni
[Strawberry Panic!]
Quanto poteva far male il sorriso di Hikari?
Per lei era una pugnalata ogni giorno.
E le importava ben poco dei “sarai la mia migliore amica per sempre” e dei “Yaya-chan!” esclamati con pigolii gioiosi ed ingenui. Ogni volta che al suo cervello giungevano quei suoni era come se di fronte a sé non avesse più la solita Hikari dai grandi occhi sognanti, ma una belva sadica che le strappava brandelli di petto con gli artigli.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Scritta per la challenge Temporal-mente de I Criticoni, e con l'occasione le appioppo anche il prompt Raincloud per la tabella sullo yuri.
Che dire in questa occasione? Beh, la storia non è che sotto il profilo strettamente "scrittorio" mi convinca tanto, ma dopo tutto ho paura che sia uno dei più grossi problemi riscontrabili nelle storie che vengono ponderate a lungo. E questa, credetemi, ha avuto una gestazione davvero epocale! (nel senso che c'è voluta un'intera era geologica per partorirla @.@)
In ogni caso il mio più caro augurio, trattandosi comunque di una coppia che amo molto è... ENJOY!! *o*







Dietro una fotografia

"I'm sitting here in a boring room, it's just another rainy Sunday afternoon." (Lemon Tree – Fool's Garden)





La camera era immobile e muta. Si sarebbe potuto dire che non ci fosse nessuno, se non per il corpo abbandonato di Yaya a terra, sul pavimento. Teneva gli occhi chiusi, come se stesse dormendo, ma il suo petto si sollevava con una certa ansia, come se fosse in preda ad un incubo terribile.
C'era un vuoto così desolante, aperto al centro del suo petto, che chiunque fosse passato di lì avrebbe potuto infilarci una mano dentro e attraversarla da parte a parte, saggiando l'aria fredda che vorticava in quel nulla in cui si erano radunate tutte le sue lacrime.
Yaya avrebbe voluto piangere. Avrebbe davvero desiderato sentire le lacrime cadere una ad una e portare con sé tutti i cocci di speranza disseminati nella sua testa. Quei pezzetti taglienti le avrebbero sicuramente ferito gli occhi ma sarebbe stata felice di affrontare il dolore se questo avesse potuto liberarla dai ricordi.
Ma i ricordi di Hikari erano ovunque. La sua sola presenza era il ricordo più doloroso di tutti.
Persino sulla sua bocca conservava ancora una traccia tiepida di Hikari. Avrebbe dovuto strapparsi via le labbra con le unghie, grattare a fondo per poter cancellare quel bacio ormai lontano che aveva avuto un sapore amaro e di sale.
Yaya alzò lo sguardo. Oltre il vetro della finestra il cielo era velato da una cortina di nuvole grigie, un impalpabile velo umido e lontano. Il rapido bussare alla porta non sembrava che un ricordo lontano.
Non aveva voglia di alzarsi per andare ad aprire. La sua schiena aderiva al pavimento e quello le sembrava davvero l'unico contatto che avesse un senso, l'unico punto logico di uno schema di cui aveva perso il controllo la prima volta che aveva sentito la voce di Hikari.
Se stava così, distesa, forse non avrebbe avuto bisogno di nient'altro, neppure del pensiero di Hikari.
Il cielo non c'era, inghiottito da quelle pennellate di grigio.
Tra le dita stringeva una foto di Hikari dal bordo strappato, un'immagine in cui sorrideva felice socchiudendo gli occhi e lasciando intravvedere i denti candidi tra le labbra dischiuse. Nell'altra mano aveva un secondo brandello di fotografia, in cui Amane-senpai sorrideva con quieta felicità.
La campana batté i suoi rintocchi, e questi si sovrapposero ai colpi dati sulla porta.
Stava per iniziare la cerimonia di consegna dei diplomi e Yaya poteva immaginare tutte le studentesse delle tre scuole poste sulla collina di Astrea parlottare tra di loro eccitate, muoversi come uno stormo di di uccellini dal piumaggio splendido e adocchiare adoranti alle senpai dell'ultimo anno che si avviavano con ordine verso i posti loro assegnati. Hikari probabilmente avrebbe trascorso tutto il tempo soffocando le lacrime nel fazzoletto bianco, addolorata e orgogliosa ad un tempo di vedere Amane prendere il suo posto di rappresentante delle diplomate. L'attenzione di tutte, poi, si sarebbe dolorosamente scissa tra i saluti alle senpai che se ne andavano e i sospiri in direzione delle nuove Etolies, che proprio nel giorno della consegna dei diplomi iniziavano il loro anno di carica.
Yaya detestava questo genere di cose. Anche se la Spica aveva una tradizione meno rigida del Miator e le ragazze venivano educate con una certa spigliatezza, non si poteva certo dire che fossero più libere delle altre. Finché avrebbero frequentato una di quelle scuole, sarebbero sempre rimaste soggette a tradizioni e usi che legavano loro mani e piedi.
Per questo motivo l'anno appena trascorso le aveva strappato la vita pezzo per pezzo, lasciandole scoperte le vene pulsanti e le ossa bianche. L'adorazione in cui erano state avvolte le Etoiles aveva risucchiato tutto il suo mondo, lasciandola avvolta nell'ombra, e aveva allontanato ancora di più Hikari che, felice come una sposa, sembrava vivere solo delle attenzioni che le rivolgeva Amane.
Yaya sbattè le palpebre un paio di volte.
Forse avrebbe potuto addormentarsi lì, la schiena appoggiata al pavimento e nessun pensiero.
Hikari si sarebbe accorta che lei non c'era alla cerimonia? O la presenza di Amane avrebbe assorbito come sempre ogni sua percezione?
Yaya non sarebbe potuta andarci comunque, anche se il fango che le incollava le pareti del cuore non avesse raggiunto il colmo di quella mattina, risalendole lungo la gola e ristagnandole in bocca, senza farle respirare.
Aveva sporcato la sua bella divisa bianca del coro della Spica. Era sporca, e non sarebbe mai riuscita a pulirla in tempo per prendere il proprio posto durante la cerimonia.
L'eco dell'ultimo rintocco della campana si era affievolita, e questo poteva significare che la cerimonia aveva avuto inizio, con estrema puntualità.
Non sarebbe comunque riuscita ad arrivare in tempo. La divisa era sporca e non aveva voglia di sentirsi ancora più umiliata dagli sguardi innamorati di Hikari e Amane.
Eppure Yaya aveva provato ad allungare le mani per trattenere Hikari. Ricordava benissimo la sensazione che aveva sentito quando finalmente il macello a cui aveva sottoposto il proprio cuore aveva annullato le distanze tra loro due. Stringeva tra le mani quell'abito giallo estivo mentre la baciava, ma dentro non c'era nulla. Hikari, lì dentro, non c'era.
Si era allora sforzata di dissimulare quello che sentiva, soprattutto per tentare di ingannare sé stessa.
Perché non voleva crederci, perché voleva dimenticare, perché pregare ogni mattina che accadesse qualcosa che cambiasse tutto le appariva troppo colpevole.
Era quello che aveva sentito quando Amane era stata disarcionata dal proprio cavallo. Aveva assistito all'ansia e alla paura quasi stesse osservando un affaccendato mondo sottomarino con il viso immerso appena sotto il pelo dell'acqua. Si era sentita stranamente calma, anche se avvertiva il sospetto che prima o poi Hikari si sarebbe voltata nella sua direzione e si sarebbe accorta di quel suo desiderio troppo umano.
Che Amane non si risvegliasse mai più dal coma.
La meschinità, l'immergere le dita nel tumulto degli affanni che sporcavano e si appiccicavano come polvere umida, sarebbe stato troppo per Hikari, che non avrebbe potuto sopportare quella verità.
Per questo Yaya non trovava spazio nel cuore di Hikari. Tutto quello che poteva offrirle era più simile ad una realtà tangibile piuttosto che ad una favola.
Le dita di Yaya si contrassero sulla superficie lucida della foto, quasi una carezza sul sorriso di Hikari.
Sarebbe rimasta tutto il giorno distesa sul pavimento ad osservare quelle nuvole grevi di pioggia finché i suoi occhi non si sarebbero chiusi da soli.
Non ci sarebbe voluto poi molto, perché sentiva già la stanchezza pervadere i suoi pensieri, rendendoli pigri e svogliati. Voleva solo che chiunque stesse bussando così insistentemente alla porta la smettesse.
Quanto poteva far male il sorriso di Hikari?
Per lei era una pugnalata ogni giorno.
E le importava ben poco dei “sarai la mia migliore amica per sempre” e dei “Yaya-chan!” esclamati con pigolii gioiosi ed ingenui. Ogni volta che al suo cervello giungevano quei suoni era come se di fronte a sé non avesse più la solita Hikari dai grandi occhi sognanti, ma una belva sadica che le strappava brandelli di petto con gli artigli.
La foto continuava a sorriderle.
L'aveva trovata poco prima in una scatola nascosta sopra l'armadio di Hikari. Quella mattina, quando Yaya era stata svegliata dalla luce che entrava fastidiosa dalla finestra, Hikari non c'era. La tentazione allora era stata troppo forte, aveva dovuto frugare in quella scatola rosa che sembrava custodire tanto gelosamente, al punto che non ne aveva parlato neppure con lei, a cui di solito raccontava tutto.
Quella scatola era così piena di dolci momenti tra Hikari e Amane, un regalo che forse aveva fatto per il diploma della senpai, che Yaya non ce l'aveva più fatta.
Si era sentita assalire da una rabbia che le aveva fatto bruciare gli occhi di lacrime che sembravano lava fusa, e le sue dita avevano strappato impietosamente la prima fotografia che si era trovata tra le mani.
Il cielo, fuori dalla finestra, sembrava gravare ancora di più sui suoi occhi. Yaya provò ad alzare la mano, ma questa ricadde con un leggero tonfo sul pavimento.


Aveva continuato a sbuffare dal primo momento in cui si era entrata all'interno della chiesa, continuando a rivolgere rapide occhiate al dormitorio Ichigo attraverso gli strati di pioggia battente, per poi tornare a frugare con lo sguardo tra i gruppetti di ragazze che iniziavano a prendere posto. Le ragazze del coro della Spica erano chine sui loro spartiti, e si indicavano vicendevolmente le parti più difficili, sorridendo piano con le teste vicine. Nelle loro divise bianche e azzurre erano bellissime.
«Ma dove diavolo si è cacciata quella stupida? Anche se il prossimo anno si dovrà diplomare, dimostra in ogni occasione di essere una perfetta irresponsabile!» sbottò all'improvviso Tsubomi, dopo l'ennesima torsione su sé stessa per controllare l'entrata della chiesa. La sua divisa del coro svolazzò come le ali nervose di un uccello candido.
Kagome, seduta sul banco accanto al quale stava lei, sollevò il viso dal pelo soffice dell'orsacchiotto che stringeva tra le braccia e l'osservò con attenzione.
Tsubomi replicò a quello sguardo attento e gentile con una smorfia di consapevolezza.
«No, non mi sto affatto preoccupando per quella scema di una senpai!» si giustificò, sebbene la ragazzina bionda non le avesse chiesto assolutamente nulla. Rimasero a fissarsi per alcuni secondi, in silenzio e immobili, tranne per le mani di Tsubomi che continuavano ad aprirsi e contrarsi in piccoli pugni nervosi.
«Va bene, andrò a controllare, ma non sono affatto preoccupata! Anzi, dovrò come sempre sgridarla perché non si comporta con maturità, anche se da marzo sarà una studentessa dell'ultimo anno! Che esempio può rappresentare per delle studentesse giovani ed inesperte come te?» concluse puntando l'indice contro Kagome. Lei continuò a fissarla con il visetto serio, la piccola bocca morbida appena socchiusa in un'espressione di placida tranquillità.
«Ah! Si vede che sei proprio una ragazzina ingenua, Kagome-chan!» esclamò infine Tsubomi allontanandosi in fretta dal banco e puntando dritta fuori dalla chiesa.
Tuttavia le mani le tremavano leggermente mentre scansava i gruppi di studentesse che si rifugiavano al coperto dopo aver percorso il piazzale battuto dalla pioggia sotto i loro ombrelli colorati.
Tsubomi odiava non capire le cose. La sua indole testarda la costringeva ad insistere fino all'esasperazione quando un concetto le riusciva ostico. E Yaya, con tutto il suo mondo, i suoi silenzi sconfinati e gli scoppi di risa improvvisi, non riusciva proprio a capirla, e di conseguenza non la sopportava.
All'inizio, non poteva negarlo, era stata semplice gelosia. Yaya faceva parte del mondo splendido in cui si muoveva Hikari, e Tsubomi ne era semplicemente invidiosa. Il banale scorrere del tempo, però, aveva cambiato tutto.
Quando si era trovata di fronte per la prima volta il dolore di Yaya, questo era riuscito a strapparle tutto dal petto, ad estirparle dalla lingua tutte le parole che credeva di avere.
Quante ferite potevano esserci ancora negli occhi di Yaya? E tutte le cicatrici erano lacrime che si era impedita di versare, ostentando una forza che non poteva avere.
E nella consapevolezza di Tsubomi, anche la bellezza di Hikari si era spenta pian piano di fronte a tutto quel sentire, a quel disperato volere.
Quando arrivò nell'ingresso del dormitorio Ichigo, Tsubomi si scrollò di dosso la pioggia che le aveva incollato i capelli al viso e che le aveva inzuppato i vestiti. I suoi passi riecheggiarono tra le pareti e il silenzio spesso.
Non riusciva ad ammetterlo, il costo di quella confessione con sé stessa era troppo pesante, eppure il dolore di Yaya le aveva suscitato un moto di pietà compassionevole. Se la senpai lo avesse anche solo intuito, probabilmente, non l'avrebbe più guardata in faccia, gettandole addosso tutto il proprio disprezzo. Yaya-san non voleva essere compatita per quel suo inseguimento doloroso dell'ombra di Hikari, eppure agli occhi di Tsubomi tutta quell'agonia non poteva avere altro nome.
I passi che trascinava lungo i corridoi le sembrarono pesanti come macigni, zavorre che le impedivano di arrivare in un luogo lontano e nascosto dalle nebbie.
Avrebbe voluto vedere Yaya-san sorridere, come l'aveva vista fare all'inizio dell'anno, quando Tsubomi, appena iscritta alla Spica, aveva partecipato alla giornata di presentazione delle attività del coro. Yaya aveva parlato per tutto il tempo, agitando le braccia con entusiasmo, rischiando di colpire Hikari che se ne stava seduta tranquilla accanto a lei, e malgrado fosse solo una studentessa del secondo anno, sembrava che quel coro fosse l'unica cosa realmente importante, l'unico motivo per cui bastasse respirare.
Da quel giorno, tuttavia, quasi senza accorgersene, i sorrisi di Yaya si erano spenti. Le labbra erano ancora piegate, certo, ma più la presenza di Amane si faceva forte, più ogni sorriso di Hikari si rivolgeva come un'offerta alla studentessa più grande, più la gioia di Yaya moriva.
Tsubomi non aveva potuto fare nulla. Aveva cercato di allungare le mani per tenere in piedi una realtà che si sfaldava come brandelli di tessuto marcio, ma non ce l'aveva fatta.
Yaya non voleva essere salvata dalla putrefazione che le dilagava dentro.
Le andava bene così.
Tsubomi si avvicinò alla porta della camera che Yaya e Hikari condividevano nel dormitorio Ichigo. La divisa del coro le cadeva addosso appiccicata e umida, zuppa di pioggia.
Quando bussò non rispose nessuno. Strinse la mano più forte, e il suo piccolo pugno calò con insistenza maggiore sulla superficie liscia del legno.
«Yaya-senpai... Yaya-senpai!»
Odiava quella porta, odiava tutta la tristezza vischiosa che strisciava fino a lei, quel senso di impotenza che la faceva sentire nient'altro che una stupida bambina.
«Yaya, apri! So che sei lì dentro! Apri! Apri!»
Solo un colpo soffuso, seguito da un singulto soffocato, come di sorpresa, e un raspare leggero che si confondeva con lo scrosciare violento della pioggia.
«Yaya-senpai!»
Tsubomi strinse tra le dita la maniglia della porta, spalancandola.
Cercò di togliere i capelli che le scendevano sugli occhi, mentre piccole gocce d'acqua cadevano sulla moquette verde chiaro, macchiandola. Forse, se avesse insistito di più, sarebbe riuscita a scorgere meglio la scena che le si era presentata davanti. Forse l'unico modo era insistere, strappare i capelli e togliere la pelle con le unghie, affondare le dita finché i suoi occhi, finalmente liberi, non avrebbero più visto il sangue che macchiava il pavimento e che iniziava ad impastarsi con i lunghi capelli di Yaya.
Il corpo della ragazza era gettato a terra come quello di una bambola le cui giunture erano state spezzate. La divisa del coro le si era alzata lungo le gambe, e il sangue si diramava nella trama del tessuto bianco formando grandi fiori scarlatti ed arabeschi sottili.
Accanto a lei c'era una sedia rovesciata e una moltitudine di foto la circondava come i resti di una festa. Anche una piccola scatola rosa, decorata con cuori di carta e stelle bianche, sporca del sangue di Yaya, se ne stava aperta sul pavimento, la bocca zuccherosa da cui erano usciti tutti quei ritratti di felicità.
Il corpo di Tsubomi tremò. Lo spasmo le congelò i muscoli, strozzandole il respiro in gola.
«Yaya-senpai?» la voce le sfuggì come un pigolio confuso «Yaya-senpai!»
Tsubomi arrancò nella stanza, mentre la ragazza distesa a terra rantolava piano, cercando di ingoiare l'aria che continuava a sfuggirle. I suoi piedi calpestarono i frammenti di immagini sparsi sul pavimento, mentre le suole calcavano sui sorrisi di Hikari e Amane, strette in abbracci assoluti, in cui il resto del mondo non esisteva.

***

Non erano riusciti a separarla da Yaya. Non ci erano riuscite le senpai attirate dalle sue grida e neppure la dottoressa della scuola, malgrado l'avessero pregata di lasciarle fare. La stretta convulsa della mano di Tsubomi su quella di Yaya sembrava una morsa indissolubile, quasi volesse farle sapere che non avrebbe permesso che se ne andasse così, senza farsi rimproverare per tutta la confusione che aveva creato.
Nell'ambulatorio della scuola, la dottoressa l'aveva costretta quasi con la forza a rimanere in un angolo, mentre medicava Yaya. Tsubomi non aveva voluto sapere di andarsene neppure quando le cure erano terminate, ed era rimasto solo da aspettare.
La cerimonia, intanto, doveva già essere iniziata. Il coro avrebbe cantato divinamente, le due Étoils sarebbero state una visione di sfolgorante bellezza e ogni cosa si sarebbe mossa perfetta all'interno delle sbarre sottili e dorate dell'immensa gabbia in cui erano rinchiuse. Nulla avrebbe potuto interrompere, o anche minimamente turbare, la cerimonia di congedo delle studentesse del terzo anno, neppure una bella tunica bianca orlata di cremisi.
Quando la dottoressa e l'infermiera si erano allontanate dal lettino su cui era stata distesa Yaya, avevano rivolto a Tsubomi un debole sorriso.
«È stata solo una brutta botta, che l'ha lasciato molto confusa, ma si riprenderà presto, Okuwaka-san.»
Tsubomi si era allontanata dal proprio angolo e aveva trascinato una sedia fino al letto, crollandoci sopra. La sua mano si era insinuata sotto quella pallida di Yaya, abbandonata sopra le lenzuola, e l'aveva stretta con delicatezza.
«Sei stata proprio una stupida, Yaya-senpai.» le aveva detto mentre la voce le si incrinava. Aveva abbassato la testa e si era portata la mano di Yaya alla fronte, aumentando la presa sulla sua pelle fredda.
«Stupida, stupida, stupida...»
Lo aveva ripetuto tante volte, un mantra disperato che si era andato affievolendo sempre di più mentre il viso le affondava nel lenzuolo profumato, trascinandosi dietro la mano di Yaya.


Quando aprì gli occhi, la luce intorno a lei aveva un vago bagliore rosato, un riflesso appena accennato in un'aria greve e umida, ancora pesante.
Istintivamente portò lo sguardo verso l'alto, attraverso le vetrate che percorrevano la parete di fianco a lei. Un pezzetto di cielo indaco era comparso tra le nubi scure orlate d'oro, accarezzate dagli ultimi raggi del sole che stava tramontando, nascosto da quella coperta grigia a soffice.
«Yaya-chan!» l'esclamazione di Hikari la raggiunse come lo squittio leggero di una bestiolina. Quel gridolino si fece strada tra gli strati di nausea causati dal dolore e rimbombò nel cranio di Yaya fino a costringerla a chiudere le palpebre, ma quando voltò il capo con lentezza verso il punto da cui era arrivata quella voce che amava tanto, sulla sua bocca c'era un sorriso.
«Hi... ka... ri.»
«Yaya-chan, per fortuna stai bene, ero tanto preoccupata per te!»
Hikari era una macchia sfocata e confusa, rapida come il frullio d'ali di un colibrì. Accanto a lei un'altra chiazza bianca, longilinea, le avvolgeva le spalle con affetto, protettiva e sicura. Amane-senpai.
Il pensiero le perforò le tempie e sentì lo stomaco contrarsi sotto la spinta della bile.
«Stai bene, Yaya-chan? Riesci a sentirmi, Yaya-chan?»
«Credo che debba riposare, Hikari-chan.» la interruppe la voce bassa e calma di Amane. Yaya vide un movimento confuso, uno sfarfallio leggero, come di dita che si intrecciavano teneramente.
La nausea la colpì di nuovo.
«Tutto... bene.»
«Andiamo, Hikari. Potrai venire a trovare Nando-san più tardi, quando si sarà tranquillizzata.»
Yaya annuì, anche se i suoi occhi non riuscivano a scorgere più nulla, dietro un velo di lacrime che per orgoglio non voleva scendere.
Avvertì appena la stretta leggera e fresca di Hikari attorno alla sua mano. Una carezza fragile e distratta prima di scivolare via, lontano.
I loro passi si allontanarono, accompagnati dal fruscio degli abiti delle uniformi che si sfioravano dolcemente.
Quando la porta si richiuse, Yaya non riuscì ad impedire al singulto di dolore di uscirle dalla bocca, mentre il suo corpo si piegava in una contrazione sofferente. Le sue braccia si chiusero intorno al petto, come se tutto dentro di lei si stesse spaccando, lungo le fenditure di crepe formate da tempo.
Non serviva a niente.
Anche morire non sarebbe servito a nulla. Aveva perso Hikari nello stesso modo in cui non l'aveva mai posseduta, con il devastante dolore causato dal suo comportamento innocente ed ingenuo.
«Yaya-senpai...» cercò di aprire gli occhi appena sentì la voce di Tsubomi, ma le palpebre le sembravano appesantite dalle troppe lacrime trattenute.
Poi qualcosa le sfiorò incerto i capelli, dove questi sbucavano dalle garze e le solleticavano la guancia. Quella carezza le percorse la pelle con tenerezza e lentamente, ad ogni millimetro che percorreva, si faceva più sicura e calda.
«Tsubomi-chan...» Yaya sollevò debolmente le braccia. La sentiva accanto a sé, sporgere oltre il bordo del letto, e non le serviva vedere la sua immaginare per sapere che era lei.
Sentì che le afferrava le mani tese, percorrendo con le dita le braccia fino a stringerle le spalle.
Infine il contatto con il suo corpo, l'abbraccio dolce in cui la circondò dolcemente.
«Non fare mai più qualcosa di tanto stupido, Yaya-senpai, o non te lo perdonerò mai...»
Yaya sentì il respiro di Tsubomi colpirle il viso. Avvertì i suoi capelli che le sfioravano la fronte e la tensione del suo profilo era così vicino al proprio che avrebbe potuto sfiorarle la bocca con il minimo movimento.
E sebbene si sentisse come in uno di quei sogni dove si precipita in eterno, la vicinanza di Tsubomi le diffondeva nel corpo un calore che alleggeriva un po' il senso di quella caduta nel vuoto in una vita dove Hikari non sarebbe mai stata sua.
Era precipitata tentando di afferrare un sogno che non poteva neppure sperare di raggiungere.
Yaya affondò il viso nella spalla di Tsubomi, mentre digrignava i denti per il dolore.
Sentì che se avesse lasciato andare Tsubomi sarebbe naufragata, senza più speranza di poter risalire con il viso al di sopra del pantano che era diventata la sua anima e da cui non riusciva più ad avere scampo.
La strinse forte a sé, facendola accoccolare contro il proprio corpo.
La luce del tramonto inondava la stanza, rivestendo tutto di rosa e oro.
Ora che aveva trovato un abbraccio vero, avrebbe cercato di non cadere mai più.














   
 
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